Chi siamo
Il cristianesimo come avvenimento. Il pensiero teologico di Luigi Giussani
Alberto Cozzi, Professore di Teologia Sistematica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e membro della Commissione internazionale teologica; Tom Gourlay, Docente di Teologia e Direttore Nazionale della Chaplaincy and Faith Formation presso la University of Notre Dame, Australia; Giulio Maspero, Professore ordinario di Teologia Dogmatica, Pontificia Università della S. Croce. Introduce Carmine Di Martino, Professore ordinario di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano.
Luigi Giussani è una delle voci più originali del nostro tempo. Molte sue intuizioni e riflessioni in ambito teologico, filosofico e pedagogico hanno profondamente, seppur a volte sotterraneamente, segnato la cultura contemporanea. Talune di esse sono state ampiamente riprese, fino al punto di entrare a far parte del patrimonio comune. Il suo inesausto impegno educativo e il rapporto con generazioni di giovani e adulti hanno inoltre conferito al suo pensiero una particolare densità espressiva e forza comunicativa, permettendogli di raggiungere persone di ogni età e provenienza. Il Centenario della nascita fornisce un’occasione propizia per evidenziarne il contributo e riconoscerne la presenza viva e operante nell’oggi della nostra storia.
Con il sostegno di Tracce.
IL CRISTIANESIMO COME AVVENIMENTO. IL PENSIERO TEOLOGICO DI LUIGI GIUSSANI
Carmine Di Martino: Buonasera e benvenuti a tutti. Sono molto lieto di introdurre l’incontro di questo pomeriggio, il primo fa quelli espressamente pensati per il centenario della nascita di Luigi Giussani, nell’ambito di questa XLIII edizione del Meeting per l’amicizia tra i popoli. A tema è il volume fresco di stampa dal titolo “Il Cristianesimo come avvenimento. Saggi sul pensiero teologico di Luigi Giussani”, che contiene contributi di teologi, studiosi e personalità di tutto il mondo, disponibile da oggi nella libreria del Meeting e sui principali rivenditori online. È il primo di tre volumi progettati per il centenario rispettivamente dedicati al pensiero teologico, filosofico e pedagogico-sociale di Giussani. Si tratterà qui di un dialogo con tre degli autori che hanno fornito il loro contributo e che subito presento, ringraziandoli di cuore per aver aderito all’invito.
In ordine alfabetico: Alberto Cozzi, professore ordinario della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale a Milano e membro della Commissione teologica internazionale; Tom Gourlay, responsabile nazionale della cappellania e della formazione dei fedeli presso l’università di Notre Dame in Australia, dove è assistente nell’istituto di filosofia e teologia; Giulio Maspero, Professore ordinario presso la facoltà di Teologia della Pontificia Università della S. Croce di Roma e membro ordinario della Pontificia Accademia di Teologia.
Prima di porre le domande ai nostri ospiti voglio però accennare all’origine dell’iniziativa di cui discutiamo insieme oggi: il risultato, il primo risultato. Giussani è noto ovviamente a tutti noi, ma ai più per aver fondato negli anni Cinquanta uno dei movimenti ecclesiali più importanti, vivaci e intensi del nostro tempo, diffuso oggi in più di novanta paesi del mondo: Comunione e Liberazione, di cui qs meeting è espressione. La sua opera educativa, il suo contributo alla vita della Chiesa e della società, la sua partecipazione al dibattito, politico, pubblico, sociale, culturale, lo hanno reso una delle figure più autorevoli del XX secolo, dentro e fuori i confini italiani. La sua proposta ha mosso e continua a muovere, in tutti i continenti, decine di migliaia di persone, rappresentando ad un tempo, per tanti altri, un prezioso e stimato punto di paragone. Ad oggi, tuttavia, non è ancora altrettanto conosciuto il suo pensiero – dicevo prima teologico, filosofico e pedagogico – come se gli imponenti esiti dell’impegno educativo e del rapporto con generazioni di giovani e adulti avessero sin qui, e in modo comprensibile, catturato le principali attenzioni. Giussani aveva una personalità dirompente. La sua testimonianza di fede è stata ed è tuttora straordinariamente contagiosa e ricca di frutti, ma non si renderebbe adeguatamente conto proprio di essa e della sua peculiare fecondità di risultati, se ci si dimenticasse che nella sua proposta generativa di affinità e di popolo si esprime, intimamente intrecciata a una fede autenticamente e intensamente vissuta, una genialità di pensiero. Quella genialità che aveva indotto i superiori del seminario di Venegono a destinarlo alla fine del percorso formativa a una carriera di studio e insegnamento. Giussani era considerato, infatti, una promessa della teologia. Ma c’era un fermento in lui, una incontenibile bruciante passione di testimonianza, di condivisione della grazia ricevuta, una “struggente passione per il destino dei fratelli uomini” (non trovo la citazione) – per usare una delle sue abituali espressioni – che premeva dalle profondità del suo essere e che, sollecitata da una serie di vicissitudini, lo condusse a disattendere i programmi, a rompere gli argini e a gettarsi a capofitto nell’agone educativo. Attraverso tanti incontri, molti dei quali occasionali, egli constatò che nella maggior parte dei giovani delle sc superiori degli anni Cinquanta, in quella Italia che le cronache di allora dipingevano come tutta cattolica, vi era una radicale lontananza da una fede reale, un sostanziale scetticismo, che erano per lui conseguenze di una ignoranza, della mancanza di una proposta adeguata. Fu questa la goccia che fece traboccare il vaso. La conclusione che Giussani ne trasse segnò un passo capitale: bisogna, scriveva nel 1960, a cose fatte, a decisione presa, bisogna che al paradiso della teologia venga premesso il purgatorio del L in questa vita, e commenta, continuando la frase, sentii ciò veramente come un dovere, come si poteva rimanere fermi a contemplare l’Essere e l’Essenza, cose stupendamente bella quando la gente fosse tranquilla, se i miei fratelli cristiani continuavano a restare nell’ignoranza e nell’indifferenza? Così chiese e ottenne dai suoi superiori di insegnare a un liceo milanese e fu assegnato al liceo Berchet, come molti di noi, molti dei presenti qui sanno. È una decisone che cambia la sua vita, e, con essa, quella di decine di migliaia di altre persone, che non finiranno mai di essere grate per quel suo coraggioso passo, e tra queste persone mi ci metto anch’io.
Giussani si gettò dunque a capofitto nell’avventura educativa, ma non smise di contemplare l’Essere e l’Essenza – per riprendere le sue parole. Non cessò, cioè, di riprendere l’elaborazione coerente del suo pensiero, anzi, proprio dall’immersione nel magma incandescente di una vita in perenne rapporto con centinai e centinaia di giovani e poi di adulti, è diorite la sua originale produzione, provvista di quella sua caratteristica sinteticità e potenza espressiva in cui si coniugano felicemente rigore concettuale, essenzialità e persuasività, come sa bene chi lo ha ascoltato e poi letto. La sua prospettiva teologica si è plasmata con l’impatto con le situazioni, le aspirazioni, i problemi dei suoi interlocutori, rispondendo alle sollecitazioni provenienti dal contesto sociale di cui sarà sempre profondamente partecipe. L’originalità della riflessione di Giussani è emersa non “nonostante”, ma proprio “grazie alla” immersione nell’impegno educativo. Non era prevedibile, non se ne può fare una regola, non è detto che capiti così, ma noi possiamo dire “è ciò che è accaduto”. Nell’incontro con i suoi giovani interlocutori, che sono qui a testimoniarlo, il suo pensiero si incendiava e si essenzializzava e quello che si annunciava innanzitutto come un metodo diventava rielaborazione categoriale, l’istanza educativa si tramutava in istanza speculativa e viceversa. Si precisano così e si forgiano le categorie giussaniane mediante cui Cristianesimo e condizione umana, fede e senso religioso, vengo ripensati sul filo dell’insegnamento ricevuto e oltre esso. E sono categorie che scuotono, bucano le pareti dell’indifferenza, hanno successo pedagogico e spalancano il pensiero, mostrando al tempo stesso una portata educativa e teologico-filosofica. Quando nell’ambito della lunga intervista che Robi Ronza realizza con Giussani dal titolo “Il Movimento di Comunione e Liberazione” l’intervistatore gli domanda se, avendo egli abbandonato la facoltà teologica di Venegono per dare vita a quella che sarebbe poi diventato il movimento di Comunione e Liberazione, si considerasse un ex teologo oppure ritenesse, proprio facendo quello che faceva, di fare anche, al tempo, stesso teologia, Giussani significativamente risponde, leggo le sue parole: «Fare teologia ed essere impegnati in un’attività immediata di apostolato non mi paiono affatto cose né separate né incompatibili tra loro, anzi, non riesco a comprendere come si possa fare della teologia se non come autocoscienza sistematica e critica di una esp di fede in atto, e perciò di un impegno col Mistero di Cristo e della Chiesa, quindi di una passione per la salvezza del mondo, come suprema espressione insomma di carità verso ogni uomo». Fine della citazione. Giussani non ha soltanto messo a frutto, in modo persuasivo, pedagogicamente efficace, grazie a uno straordinario talento educativo, il vasto lascito teologico e filo degli anni del seminario. Non ha, cioè, semplicemente tradotto in un metodo gli insegnamenti ricevuti, ma, proprio facendo quello che ha fatto, ha fornito un apporto nuovo, inedito, sul piano del pensiero. Attenzione, non che le due cose possano essere mai separate in lui, come ha appena detto dalla citazione che ho riportato, perché è mentre fa l’educatore che è un pensatore, ed è mentre è un pensatore è un educatore. Istanza educativa e istanza di pensiero sono l’una intrecciata all’altra nella sua personalità. Ma quando dico che ha fornito un apporto inedito sul piano del pensiero, sottolineo che non si tratta di un’affermazione compiuta, come dire, per un pregiudizio positivo, ma a partire dagli effetti, cioè dall’imporsi di frutti che non possono essere ignorati. Non relativizzabili. Gli esiti di molte sue riflessioni in ambito teologico, filosofico, pedagogico, hanno, infatti, un marcato carattere di originalità, e hanno profondamente, seppur a volte, sotterraneamente, influenzato la cultura contemporanea a diversi livelli. Talune intuizioni e categorie cui quelle riflessioni hanno dato luogo sono state ampiamente riprese, fino al punto di entrare a far parte del patrimonio comune. Penso a quella di “avvenimento” come definizione della natura del cristianesimo, che riecheggia nell’incipit della “Deus Caritas Est” di Benedetto XVI, quella frase iniziale ripresa poi più volte da papa Francesco e inizialmente nella “Evangelii Gaudium”. Da qui l’idea dei tre volumi. Il centenario, proprio in quest’ottica, ci è parsa un’occasione propizia per illuminare ulteriormente il carattere sorgivo e lo spessore del pensiero di Luigi Giussani, cercando di coglierne gli apporti, le intuizioni, i concetti chiave. E per fornire un contributo e un incentivo a un processo di studi già in corso ma che auspichiamo si riveli sempre più intenso e gravido di futuro. Con i tre libri, e anche con l’incontro di oggi sul primo di essi, mi auguro, ci auguriamo, di aver concorso almeno un po’ a rendere un omaggio pieno di una profonda gratitudine a don Giussani, un uomo che ha generato e continua a generare una straordinaria sovrabbondanza di vita attorno a sé. Di tanti è stato, moti di noi lo sanno, lo hanno vissuto, di tanti è stato come nessun altro padre, maestro e amico. Non rubo altro tempo e vengo alla prima domanda che rivolgo a tutti e tre i relatori: le riflessioni, le intuizioni, i concetti chiave dal punto di vista del pensiero teologico e della concezione del cristianesimo, che ritenete utile sottolineare e che aiutano a illuminare il pensiero di Luigi Giussani. Cedo la parola ad Alberto Gozzi.
Alberto Gozzi: Grazie, ben trovati. Rispondo in maniera non furbesca ma in maniera un po’ defilata così, traduco la domanda: qual è la provocazione per la teologia che lo stile di pensiero di Giussani ha lasciato? Stile vuol dire corrispondenza tra una certa forma e un contenuto, potremmo dire tra la dottrina e l’esperienza. Qual è l’eredità o la provocazione di Giussani? A me pare di aver rilevato tre elementi unificabili dall’idea di Incarnazione. Giussani a un certo punto scriveva che il carisma di CL è annunciare con commozione, con entusiasmo questo Dio fatto uomo e la Sua presenza nella nostra storia. Le tre idee o i tre contributi sono: Giussani lascia come provocazione alla teologia un’antropologia della fede. Secondo, Giussani lascia una vigilanza su possibili riduzioni, ve ne citerò cinque che sono presenti in un corso di esercizi alle fraternità nel ‘98. Giussani lascia la preoccupazione della centralità dell’incontro con Cristo, appunto, l’avvenimento cristiano. sarò sintetico per essere il più chiaro possibile.
Giussani lascia un’antropologia della fede, cioè ricorda la teologia che la fede ha a che fare con l’umano. Non c’’è esperienza di fede che non metta in gioco l’umano in tutte le sue dimensioni, per esempio il rapporto con la ragione, quest’occhio spalancato su tutta la realtà. È interessante la citazione di Mario Vettorino che utilizzava spesso Giussani in questa traduzione che mi piace molto. Diceva Mario Vettorino: “Quando ho incontrato Cristo mi sono accorto di essere uomo”. Mi sono accorto, cioè è possibile tutta la vita senza accorgersi di essere uomo. La preoccupazione di Giussani per l’ideologia, l’uomo è prodotto di un cosmo, di un contesto sociale e non può mai dire io e non si accorge di essere uomo. Per cui diceva Giussani: l’antropologia della fede ti ricorda che c’è un incontro, un avvenimento della vita in cui ti accorgi di essere uomo. E in quel momento di accorgi di essere uomo perché nel tempo e nello spazio, nelle esperienze contingenti che fai cogli i segni che rimandano un Mistero. E questi segni che rimandano al Mistero convocano il tuo Io, ti affidano a te stesso come soggetto irripetibile, lì ti aspetta Dio.
Diceva Giussani una volta in una Tischrede di cui non ricordo però il titolo, che preferiva la parola destino perché nella parola destino c’è dentro una preoccupazione che bene o male ci coinvolge tutti. Allora la sfida della fede e di aiutarci ad accorgerci di essere uomini, di vivere una vita che nel contingente può afferrare i segni di un destino, non è frutto del caso, e questa è la grandezza di ciò che Giussani chiamava l’esperienza di un avvenimento. In una predicazione degli esercizi alla fine degli anni Ottanta lui a raccomandava di soffrire perché la verità non si cristallizzi in una dottrina, ma riparta dalla carne. “La verità non si cristallizzi in una dottrina ma riparta dalla carne”, dalla carne di Cristo, certo, dalla carne di un popolo che vive nello spazio e nel tempo. Sentite la sfida di Giussani! Ecco, l’antropologia della fede. Nella fede mi accorgo di essere uomo. Qual è l’elemento che spingeva Giussani soprattutto a livello educativo? È l’impressione che noi abbiamo un’idea di Dio, una percezione del Mistero che non ci muove, non ci commuove più, diceva Giussani, non ci percuote. Ma se non ti percuote questo Dio astratto, il tempo di Dio è il presente, cioè Dio è qualcosa di cui vivo adesso. Se non è questo semplicemente non esiste. E allora cosa c’entra Dio con la mia vita?
Da qui il secondo ingrediente: l’esperienza cristiana, l’esperienza della fede. È un’esperienza in cui ci si accorge di essere uomini e in questa esperienza non bisogna ridurre nulla. Io vi cito cinque riduzioni che ne agli esercizi alla fraternità del 1998 Giussani ci ricordava come un pericolo costante, ritengo io ancora oggi, per la teologia. Prima riduzione: Dio senza Cristo. È come se noi dicessimo al Meeting di rimini, il Meeting dell’amicizia dei popoli, non mettiamo al centro Cristo sennò tante persone non si riconoscono in noi. Mettiamo al centro Dio, mettiamo al centro il Mistero. Io penso che Giussani si arrabbierebbe, con quella veemenza che era sua, dicendo non è questa la sfida, perché Dio, se lo metti al centro, può essere una cosa astratta. Non è quel concreto che ti provoca, ti percuote, ti interpella adesso. Ma se vuoi dire “Dio” in modo che ti percuota e ti interpelli adesso, mette al centro Cristo. E non ti preoccupare di tuo fratello, perché se il tuo fratello non credente o di un’altra religione, si accorge che, dicendo Cristo tu stai parlando di un Dio che interpella adesso, di un’esigenza di Verità che ti reclama adesso, otterrai molta stima e molta più attenzione di quanto credi. Attenzione a un Dio senza Cristo, attenzione a questa perdita del cuore dell’incarnazione che è Gesù Cristo ci ha aperto uno spazio nel tempo in cui Dio è un presente che mi percuote e mi provoca.
Secondo pericolo, diceva Giussani, un Cristo senza Chiesa. E però qui ve lo introduco subito in una sua intuizione geniale: che cos’è Cristo senza Chiesa? È Gesù senza la sua umanità che ha affascinato, che ha mosso, che ha coinvolto, che ha persuaso. È Gesù senza la sua carne, senza la sua umanità. Un Cristo senza Chiesa, anche qui, può essere un ideale astratto, una forma di moralismo. Non è un essere nuovo che mi affascina e mi entusiasma e ricordava: quando Pietro, in Giovanni 21, risponde di sì a Gesù: “Pietro, tu mi ami più di costoro? Pietro non sta dicendo sì alle sue capacità, ai suoi successi o ai suoi insuccessi, sta dicendo si al fascino dell’umanità di Cristo che l’ha conquistato. E diceva Giussani le regole, i precetti rimangono quelli, ma in tutt’altro orizzonte di esperienza. A partire da un’umanità affascinante, lui usava la parola, da una eccezionalità che conquista ed è assolutamente plausibile. Sarebbe bello ricostruire che cosa nei vangeli Giussani percepiva di questa eccezionalità dell’umanità di Gesù. A un certo punto nel percorso lui cita Guardini il quale dice che non era un’eccezionalità che schiacciava dall’alto, ma era l’eccezionalità di un cammino che superava delicatamente i limiti dell’umano e lo portava oltre, dischiudeva nuove possibilità di vita. Per cui diceva Giussani: prova pensare al mattino te ti svegli con la bocca impastata, e con nessuna voglia di andare al lavoro e ti ricordi di Cristo, e quel ricordo di Cristo ti mette nel cuore uno slancio che non pensavi di avere, ti apre una possibilità di vita nuova: posso fare quel bene sul posto di lavoro. Questa è l’esperienza del Cristo con la sua Chiesa, cioè con quella comunità con quell’umanità affascinata da Cristo che lo invoca.
Il terzo pericolo, che è molto interessante dice Giussani, la Chiesa, notate, udite udite, la Chiesa senza il mondo. Bellissima questa intuizione! Dice Giussani: guai a voi se la vostra fede cerca una Chiesa senza mondo. “Mundus reconciliatus ecclesia” diceva sant’Agostino: la Chiesa è il mondo riconciliato cioè salvato da Cristo. E qui Giussani cita l’ironia tagliente di Péguy: state attenti ai clericalismi. I clericalismi sono quelle forme di fede che dicono che la fede è un mondo a parte, è un mondo a sé, un insieme di regole a cui obbedire per andare in Paradiso, ci direbbe oggi Giussani: cercate di capire dove avete sbagliato strada. Non è così, ci direbbe Péguy. State attenti che ci sono i curati clericali e anticlericali e curati clericali clericali. I curati clericali e anticlericali sono quelli che vogliono togliere l’eterno dal tempo. Tutto passa, non prenderti troppo sul serio, cerca il benessere, non invecchiare, cerca le soddisfazioni nella vita. Tolto l’eterno il tempo rimane prigioniero di sé stesso. Invece i curati clericali clericali vogliono togliere il tempo dall’eterno. Se tu hai fede fuggi verso l’eterno, lascia stare il tempo con le sue fatiche, ma manca al mondo, dice Giussani, manca il luogo dove il tuo io si gioca e, giocandosi, di fronte al Mistero, puoi incontrare Dio, può rendere effettivo l’avvenimento. Il risorto, diceva Giussani, non ha cancellato né il tempo né il mondo. Il risorto ha fecondato il tempo di una potenzialità nuova. Provate a pensare una sfida grandissima: il risorto non ha cancellato nulla dell’umano, neanche la nostra carne, ma ci ha chiesto di seminare nella carne per un destino che rimarrà sempre al cospetto di Dio. E qui dice Giussani: attenzione al moralismo, il cristianesimo non è moralismo, è l’essere nuovo del Risorto, è una nuova antologia. Che cosa c’è in gioco nella realtà? L’energia del Risorto che sta preparando un mondo nuovo. Allora smettila di ragionare al di qua della morte, fai i conti col Risorto e col Mistero della Risurrezione che ti pungola. Qui viene facile citare la famosa citazione di Kierkegaard: il rapporto con un defunto è un rapporto estetico e di nostalgia; il rapporto con un vivente è un rapporto invece di coinvolgimento, perché un vivente mi pungola, mi giudica, mi stimola. Bene, Gesù di Nazaret è un defunto da ricordare o è una presenza che mi pungola mi giudica e mi stimola? Cristo senza il mondo, grande tentazione, o la Chiesa senza il mondo.
La quarta deriva dice, a questo punto, che cosa succede? Che c’è un mondo senza l’io. Perché se non c’è Cristo come avvenimento che ridesta il tuo io nel mondo tu vieni schiacciato dal mondo, ti senti un prodotto del mondo, diciamolo, ti senti vittima delle circostanze della tua vita, pieno di dovere da compiere, ma il mondo ha perso il tuo io. E invece qui Giussani incontra le istanze del teologo Ratzinger: il logos e al principio, non è alla fine di un processo evolutivo. Il significato c’è da subito nel tempo e nella vita, e Gesù Cristo ti aiuta a cercarlo in tutte cose che vivi, cioè ammettere con coraggio davanti il tuo l’io e le sue esigenze. È bello perché il Giussani che va nel mondo giovanile secondo me dice che passo dal Paradiso al Purgatorio perché ho che fare con dei giovani che non si prendono sul serio nelle parole che usano, perché quelle parole non le confrontano con le esigenze del loro cuore, con il loro io. Sono parole vuote che non muovono e non sono mosse da un’esperienza: il mondo senza l’io. Provate a pensare nella realtà virtuale quante parole, quante emozioni, quante prese di posizioni, senza l’io, senza l’io che si sente autorizzato a strappare un significato dalla realtà. Qui c’è una bellissima citazione di Paul Claudel che però non vi cito, in cui Paul Claudel dice: chi l’ha detto che io mi diletterei di essere immerso nella realtà anonima? Io sono troppo consapevole della mia personalità e voglio strappare ogni significato alla vita perché mi dica chi sono, qual è il mio io. Ultimo pericolo, ultima deriva, è l’io senza Dio. E siamo arrivati al punto vertice, ovvero, la sfida del nichilismo. Quando uno ha perso il mistero dell’Incarnazione, quando Cristo non è più lo spazio dove Dio nel mondo convoca il mio io, rimane semplicemente un io senza Dio che non trova identità e non trova destino o sbocco nella vita.
Spero di non essere stato troppo confuso o troppo dispersivo. I cinque pericoli: io senza Cristo, Cristo senza Chiesa, Chiesa senza mondo, mondo senza l’io è l’io senza Dio. Provate a pensare, Giussani dice, l’esperienza cristiana tiene insieme tutti questi elementi.
L’ultimo contributo e concludo. Giussani provoca la teologia a tenere in vista l’avvenimento cristiano come incontro con Cristo. Io mi permetto, da insegnante di cristologia, di farvi notare i tre livelli di questo incontro con cristo, ovvero dell’avvenimento cristiano. Il primo livello è Gesù di Nazareth. È qualcosa che è accaduto che noi lo vogliamo o no, che noi l’avessimo progettato o no. Gesù di Nazareth si è presentato sulla scena del mondo dicendo: “Io vi annuncio una nuova presenza di Dio: il Padre”, “io vi annuncio un nuovo contatto con Dio che ti guarisce, ti salva ed è più forte dalla morte. Se stai vicino a me sperimenterai questo nuovo contatto con Dio”. È qui che Giussani raccomanda l’esperienza di Giacomo e Giovanni, l’esperienza di Pietro, l’occhio semplice. Lasciati affascinare da questa eccezionalità di Gesù che guarisce, offrendoti un nuovo contatto, un nuovo essere insieme di Dio con l’uomo: Gesù di Nazareth. Che cosa succede se tu, leggendo il vangelo, frequentando una compagnia, ti lascia affascinare da Gesù di Nazareth, che trovi una comunità di persone che di fronte al sepolcro vuoto grida “Gesù risorto, fatti vedere”. Abbiamo bisogno di fare esperienza di questa nuova antologia. Dicono gli esegeti quelli dell’esegesi narrativa che i vangeli sono dei programmi di ricerca che ripartono continuamente dal Giordano, il battesimo di Gesù, e arrivano di fronte al sepolcro vuoto per gridare Gesù risorto fatti sperimentare, detto in rito ambrosiano, per chi è dei nostri: kyrie eleison. Kyrios è il nome del risorto e dice Paolo (prima corinzi 12,3): “Nessuno può gridare Kyrios «Gesù, è il signore risorto» se non perché ha lo spirito santo, la nostalgia”. Questa nuova antologia. Ho quasi finito, però a questo punto la genialità di Giussani dice: hai camminato con Gesù, ti sei accorto di una nuova presenza di Dio, hai sentito la nostalgia della vita nuova del risorto e adesso cammina con Lui verso di Lui. L’umanità di Gesù che accompagna a incontrare il logos mentre sta facendo tutte le cose fa sbocciare i fiori, fa i laghi, fa le montagne, dà significato a tutto, dal fascino alla nostalgia allo stupore. Il cammino con Cristo ci riporta al Mistero dell’Incarnazione. L’umanità affascinante di Gesù diventa nostalgia del Risorto. L’incontro col Risorto ci porta al Mistero del verbo che dà significato ogni frammento della nostra vita. E allora si capisce la sfida, dice Giussani: fare di Cristo il figlio di Dio incarnato, il crocevia di tutte le nostre esperienze perché trovino significato. Grazie.
Tom Gourlay: Grazie. Per me è un grande onore essere qui con voi, essere stato invitato a dividere questo pane con persone così illustri. Il mio incontro con don Giussani forse è molto diverso da molte persone oggi qui. A Perth, in Australia, da dove provengo il movimento da lui fondato gode di una presenza piuttosto esigua all’interno della Chiesa a livello culturale in generale. La prima volta che ho visto il nome di don Giussani nel 2012, 2013 è avvenuta sfogliando una rivista inglese di nome Communio, cercavo di leggere quello che potevo trovare del cardinale Ratzinger, di quello che poteva aver scritto e sono stato davvero colpito leggendo le parole di Ratzinger. Quello che Ratzinger diceva mi suonava familiare, perché avevo usato la sua prima enciclica, di Benedetto XVI “Deus Caritas est”, che ha avuto un impatto molto forte su di me. Il cardinale Ratzinger stava proprio spiegando il fatto che si trattava di un incontro con un evento, di un incontro con una persona. Dopo aver letto l’omelia dell’allora cardinale Ratzinger ho subito cercato altre informazioni su don Giussani. Ho comprato alcune copie dei suoi libri, ma leggere i libri di don Giussani al di fuori del contesto del movimento è piuttosto complesso. Devo dire che mi ero incuriosito e alla fine mi sono trovato in contatto con il movimento stesso e sono riuscito a vederlo dal vivo e quindi i suoi scritti hanno assunto un significato ancora più profondo per me. Più ho studiato gli scritti di don Giussani e più ho cercato di vivere secondo quelli che erano i suoi insegnamenti arrivando a vedere il cristianesimo come un evento che ha un continuo legame intrinseco con la mia vita e con il cosmo intero, più vedo che gli insegnamenti di Giussani incarnano gli insegnamenti del Concilio Vaticano Secondo, cioè la chiamata universale alla santità, e il desiderio di portare il cristianesimo, la Chiesa, la fede fuori dalla sfera privata e più in generale nella cultura, abbracciando la vita intera. Come ha scritto Ratzinger nella prefazione all’edizione del 1998 de La grande introduzione del cristianesimo: “uno degli obiettivi del Concilio Vaticano secondo era dimostrare che la fede dei Cristiani abbraccia l’intera vita. È un punto centrale della storia e del tempo e va oltre quella che è la sola soggettività.” Il cristianesimo, perlomeno nell’ottica della Chiesa cattolica, cercava di uscire dal ghetto in cui si era ritrovato recluso dal XIX secolo e tornare quindi a coinvolgersi pienamente nel mondo. I gesti come questo Meeting non sono gesti vuoti, ma sono espressioni di vita, vita vissuta in comunione, animata dall’incontro continuo con il Cristo risorto. Ci sono tante cose che si potrebbero dire su don Giussani. Il suo pensiero mi sembra così vasto, così ampio che copre una tale ampiezza dell’esperienza umana e si avvicina all’essenza stessa dell’essere che tende. Difficile focalizzarsi su un pensiero centrale, ma quello che ho trovato forse più interessante nel pensiero di Giussani è il concetto di senso religioso e il rapporto di questa facoltà della persona umana con la fede. Giussani sostiene sempre essere un dono gratuito. È facile dimenticare questa distinzione perché Giussani è molto occupato ad aiutare ed educare il senso religioso dell’uomo, un concetto per il quale è diventato famoso e che quasi si identifica come un sinonimo, ma Giussani ha sempre sottolineato che il senso religioso non è il suo punto di partenza, perché, come ha scritto: “Se mi allontanassi dal senso religioso, dovrei dire che tutte le costruzioni fatte sul senso religioso sono buone e vere”. È certamente così. Giussani descrive il senso religioso come “null’altro che l’esigenza di totalità che costituisce la nostra religione presente in ogni azione, poiché ogni azione dell’uomo è provocata da un bisogno”. Il senso religioso è la ragione come coscienza della realtà nella sua totalità. Il senso religioso è il desiderio di totalità, di assoluto, di infinito che costituisce l’essere umano, è quello che viene riconosciuto nella tradizione come risultato della caduta. Ci sono state delle ferite profonde e quindi l’uomo è confuso e cade preda e vittima di falsi idoli. La modalità, a quanto pare, soffoca, schiaccia, o comunque spegne il senso religioso nell’uomo. Oggi dunque l’uomo subisce, non tanto un attacco alla fede, quanto piuttosto un attacco sulla facoltà che maggiormente lo contraddistingue dal resto del creato, cioè la facoltà della ragione, la cui funzione più alta viene definita da Giussani come senso religioso. Credo che il pensiero di Giussani in questo senso sia di grande importanza per la Chiesa oggi, anche per la Chiesa in Australia e anche per me, nella mia vita. Questo pensiero non riguarda solo chi è coinvolto nel lavoro di evangelizzazione delle genti, ma anche chi lavora nella catechesi o nella rievangelizzazione dei Cristiani battezzati. Una delle caratteristiche più importanti del senso religioso, così come è stato descritto da don Giussani, almeno per quello che è la mia lettura, non si tratta di qualcosa che deve essere semplicemente dimostrato razionalmente prima dell’assenso di fede, ma piuttosto ciò che don Antonio Lopez descrive come una dimensione permanente dell’esistenza. È diverso da ciò che l’apologetica tradizionale definisce preambula fidei. È piuttosto qualcosa che descriverei come preparatio fidei dove il termine preparatio assume lo stesso significato di quanto viene descritto da David Schindler in tre sensi distinti: preparazione di istante, preparazione prossima, preparazione continua. Schindler descrive tutto questo dicendo che la preparazione non avviene una volta che la fede è stata accettata, ma questa necessità per lo sviluppo e l’esercizio del senso religioso non è semplicemente una funzione di qualche deficienza o altra mancanza, invece si tratta della natura che si prepara alla Grazia, della ragione che si prepara alla fede. È un compito perpetuo anche in relazione vero e proprio, proprio nel punto in quel momento in cui la grazia non viene mai assorbita nella natura e la fede non viene mai assorbita dalla ragione.
Nei giovani che conosceva, Giussani vedeva che la fede era considerata superflua per la loro esperienza; per loro la fede era poco più che un moralismo che imponeva quali erano i comportamenti da tenere e quali invece erano da evitare o semplicemente una proposta intellettuale e una stranezza storica e culturale che richiedeva un assenso solo apparente e che era comunque estrinseca alla vita quotidiana. Giussani riconobbe che per questi giovani la fede in Gesù era totalmente priva di interesse, mentre la fede in Gesù Cristo dovrebbe essere la risposta a tutte le domande della vita umana, ma questi giovani non riuscivano nemmeno a chiedere, tanto meno ad articolare queste domande così importanti e profonde. È proprio qui che Giussani individua il problema della modernità.
Come il teologo protestante americano Reinhold Niebuhr disse in una frase spesso citata da Giussani: “Nulla è così incredibile come la risposta ad una domanda non posta”. Questo non è diverso dall’esperienza che ho avuto anch’io con alcuni dei miei studenti ai quali. Nel mio istituto spesso insegno un corso di base che si chiama Introduzione alla teologia che è richiesto a tutti gli studenti indipendentemente dal corso di laurea che frequentano. Ogni semestre mi trovo di fronte a un nuovo gruppo di studenti per i quali la fede è una stranezza assoluta: molti di loro, forse più della metà, sono stati battezzati, hanno frequentato scuole cattoliche, ma per la grande maggioranza di loro la fede rimane qualcosa di oscuro, completamente estraneo alla loro esperienza. Nella terza settimana del corso noi trattiamo il tema di Gesù Cristo e ogni volta che io insegno questo corso mi viene in mente la realtà in cui vivono molte persone oggi. Per questi giovani Gesù non è per nulla interessante; di fronte all’affermazione che quest’uomo, questo contadino, questo artigiano e predicatore della Nazareth del primo secolo è l’onnipotente creatore dell’universo in carne ed ossa, i miei studenti rispondono con un’alzata di spalle. La sola cosa che chiedono è se tutto questo dovranno ricordarselo o meno per l’esame.
Non si tratta tanto di una crisi di fede, ma piuttosto una crisi della ragione, una crisi di atrofia del senso religioso che colpisce i battezzati così come i non battezzati. Per questi studenti la modalità tradizionale dell’apologetica – che cerca di stabilire i preambola fidei, quindi quelle nozioni che possono essere dimostrate dai principi primi, come l’esistenza di un Dio personale che è il Signore del mondo e dell’uomo, la natura intellettuale dell’uomo come apertura, la sua capacità di conoscere la verità e la libertà, la validità dei principi fondamentali dell’essere della legge morale – e questi fatti, per quanto importanti possano essere, rimangono assolutamente poco interessanti, almeno a livello esistenziale. Giussani vide che cercassero qualcosa di diverso, qualcosa di più del razionalismo che sosteneva l’approccio della cosiddetta apologetica tradizionale, qualcosa che rappresentasse non solo il dinamismo della vita umana, ma anche il dinamismo della vita interiore di Dio che si rivela attraverso Gesù Cristo.
Da questo punto di vista, la fede può essere credibile solo se viene vista come una risposta a domande poste prontamente, domande che non possono essere poste solo una volta e poi dimenticate una volta che hanno ricevuto risposta. Queste domande, che Giussani considerava profondamente umane, devono essere poste continuamente e riproposte in ogni situazione per essere una dimensione permanente dell’esistenza umana. Come descrive Giussani: “Il senso religioso non si esaurisce una volta che si riceve la fede, ma ha bisogno di essere esercitato con costanza per mantenere vivo questo dono e animarlo nella vita di coloro a cui è stato dato.” Ma soprattutto, l’incontro con la fede risveglia, approfondisce e amplia il senso religioso; così Giussani parla di Cristo come supremo educatore del senso religioso. Il senso religioso, crescendo ed educandosi, prepara la persona umana a ricevere più profondamente la grazia che Dio le dona.
Nel secondo volume della sua trilogia-percorso “All’origine della pretesa cristiana” Giussani scrive e cito: “Gesù Cristo non è venuto al mondo per sostituirsi al lavoro, allo sforzo mano, all’umana libertà o per eliminare la prova umana, condizione esistenziale della libertà; egli è venuto al mondo per richiamare l’uomo alla profondità di tutte le questioni, alla sua struttura fondamentale e alla sua situazione reale”. Se alcuni valori di base non vengono salvaguardati, tutti i problemi che l’uomo è chiamato a risolvere si complicano invece di sciogliersi. Gesù Cristo è venuto a richiamare l’uomo alla vera religiosità senza la quale ogni soluzione di questi problemi è una menzogna. Il senso religioso, adeguatamente esercitato ed educato, è un compagno necessario e costante di una fede vibrante e viva che può essere verificata con le esigenze della vita. Senza questo, la risposta, al posto della fede, diventa una di queste tre cose: antagonismo, tradizionalismo o indifferenza.
Il senso religioso è un continuo incontro con Cristo e la fede che, come dice Giussani, non è di per sé un incontro, ma piuttosto il riconoscimento del fatto che Dio fatto uomo è una presenza presente. In altre parole, il Dio fatto carne si afferma come fattore del mondo, fattore della storia, fattore della storia presente. Come scrive Giussani: “Da un lato l’educazione al senso religioso deve favorire la consapevolezza del fatto che esiste nella dipendenza inevitabile totale tra l’uomo e ciò che dà senso alla vita dell’uomo; dall’altro lato dovrebbe aiutare l’uomo nel tempo ad espellere questo senso realistico di estraneità che prova nei confronti della sua situazione originaria”.
Ci sono, come dicevo all’inizio della mia presentazione, molti aspetti affascinanti del pensiero di Giussani: il senso religioso è quello che, secondo me, ha maggiore pertinenza per noi oggi. Il suo insegnamento vuole riprendere la grandezza della persona umana della ragione dell’uomo che si direziona e si perfeziona nell’ambito della relazione, della comunione. Questo pensiero di Giussani può offrire molto alla Chiesa nella sua missione di evangelizzazione all’inizio del terzo millennio. Questo lo vedo in modo, diciamo, globale, ma in particolare nel mio contesto, nel lavoro che faccio e soprattutto nella mia vita.
Grazie
Di Martino: Grazie Tom. Giulio.
Giulio Maspero: Un ragazzo che ho frequentato il movimento quando ero da poco tempo sacerdote mi ha detto: “Dio a ciascuno di noi dà una parola: la tua parola è padre”. E questo non voleva dire semplicemente che mi riconosceva come padre, ma voleva dire che riconosceva in me una capacità di assaporare, potremmo dire, che cos’è il padre, per il semplice fatto che ho avuto la grande Grazia di avere vari padri sul piano umano, soprannaturale, quello accademico. Veramente sono, in questo senso, benedetto e racconto questo perché come competenza, diciamo, di chi sa riconoscere il padre, Giussani è padre e cioè, grazie hai davanti un’aula immensa con la discendenza di Abramo, numerosa come le stelle del cielo, la sabbia del mare, ci mancherebbe che non lo riconosci. Ma affermo questo perché la forma di teologia di Giussani ha una grande novità, una grande bellezza, nello stesso tempo una grande antichità e una grande radicalità nel senso proprio di profondità, perché è il primo padre, il primo teologo è sempre il padre. Il padre parla del mondo già al bimbo nel grembo materno, il padre parla dell’oltre, addirittura molto spesso il padre parla della morte per primo. La madre è l’inizio, la madre è la vita, la madre è la casa; il padre è l’oltre, almeno è simbolo dell’oltre. Allora Giussani, che rinuncia alla teologia accademica per insegnare ai ragazzi del liceo, compie un atto paterno e, in questo senso, un atto profondamente teologico, non solo per quello che scrive – che è meraviglioso profondissimo, a volte difficile. Una delle prove che il CL viene dallo Spirito Santo è che tutto questo va avanti spiegando i testi di Giussani, perché non sono testi banali – lo diciamo da teologi – penso che sono roba intensa, roba densa.
Però a volte io penso che quei ragazzi, che hanno incontrato, Giussani hanno incontrato un padre, un padre nel pensiero. Una volta, la mia cuginetta spiegava alle sue amiche che suo cugino è prete, ma è intelligente. Quella avversativa terribile penso che non l’avrebbe mai detta se avesse incontrato Giussani nei suoi studi.
Perché teologo-padre? Perché io mi occupo soprattutto dei Padri della Chiesa, mi occupo di come loro hanno pensato il mondo, come loro hanno pensato il mistero. Il fare teologia di Giussani non è accademico in senso tecnico, anche se ha un alto contenuto accademico, ma ricorda profondamente i Padri della Chiesa: propone il metodo nel modo di far teologia. Gregorio di Nazianzo, detto dalla tradizione “Il teologo”, quindi uno che ne capiva di teologia, diceva che il teologo non è quello che ha capito tutto, perché l’infinito non entra nel finito quindi la nostra capoccia è limitata. E allora chi è il teologo? Il teologo è quello che più degli altri sa immaginare come è Dio a partire dalle tracce che Dio lascia nel mondo, nella storia, nella nostra vita, nella nostra esistenza. È una parafrasi, ovviamente. Ora, in questo senso, io penso che l’ardire del pensiero di Giussani è proprio paterno nel senso anche del Padre della Chiesa: ha la forza del pensare di un Padre della Chiesa. E voi siete Chiesa: CL è Chiesa, siete una porzione del popolo di Dio, bellissima, variegata.
Penso che dobbiamo essere profondamente grati per questa paternità e anche riconoscere che il concetto di teologia dei Padri della Chiesa è un concetto di teologia pratica, metafisica quotidiana, teologia quotidiana. Per questo Giussani è teologo in quanto anche filosofo in un certo senso, anche se qui c’è chi è molto più esperto di me del settore. Io dico sempre che la metafisica si usa al ristorante facendo arrabbiare qualche mio collega perché, se ti portano pesce e hai ordinato carne è un problema metafisico: il che cosa, il what. E allora noi non possiamo esimerci da essere metafisici e non possiamo esimerci da essere teologi.
E Giussani becca proprio il punto più profondo di questo atto teologico: che è la tensione tra finito infinito. Il nostro cuore è finito, chiede l’infinito. E uno dice: ma come è possibile che io che sono finito, che io che non ho incontrato altro che mortali, cose che finiscono, chiedo l’infinito? Da dove viene questo desiderio? Lo commenta con Pavese, lo commenta ricorrendo alla poesia in modo geniale, in modo efficacissimo, ma noi siamo tesi tra una casa e l’infinito, tra un inizio e un oltre. E questa tensione è una potenza esplicativa sulla mia vita concreta, reale, cioè sul mio mangiare, sul mio dormire, sul mio amare, sul mio desiderare, sulle cose vere dell’esistenza che non ha uguali. E questa tensione Giussani non si limita a enunciarla, non si limita a usarla, ma, da vero teologo, risale fino alla trinità. In principio è la compagnia, in principio è l’amicizia, il mondo è pieno di trinità: espressioni anche ardite perché, appunto, noi siamo creati in Cristo e Cristo è il figlio. Ed ecco che Giussani ricostruisce il percorso di Agostino con quel “non c’è niente di più mio del mio io e non c’è niente di meno mio del mio io”, perché sono figlio. L’io, che la modernità ha esplorato, è l’io di un figlio che è generato, è perché è stato generato, quindi ciò che è più profondamente suo e dono di un altro; questo diventa per Giussani la chiave di lettura del mondo. In questo senso segue proprio il percorso dei Padri che continuano l’opera dei libri sapienziali, di Giobbe, dei Salmi, dei Proverbi, della Sapienza. Il mondo ha origine in questa donna meravigliosa, bellissima, che è il senso di ogni cosa, è la Sapienza. E questo anche la consonanza con i Russi nella consonanza con quel mondo che appunto citando Olivier Clement, pensa che il mondo non è profano, ma è profanato e sta noi ricostruire.
Allora appunto Giussani riesce a penetrare fino all’origine di questo nostro essere in tensione, tesi verso l’oltre e quest’origine è dentro la trinità. Quindi Giussani legge il mondo a partire dalla trinità e questa è un’opera che hanno portato avanti Padri che nascono pagani, studiano la metafisica classica, retta dalla necessità, metafisica fatta di finitezza, dove il desiderare troppo è peccato. Ercole viene considerato peccatore perché supera le colonne d’Ercole, perché desidera troppo; Prometeo viene condannato a una pena terribile, perché ha rotto la simmetria: ha regalato il fuoco degli dei agli uomini e quindi viene incatenato a una roccia e un’aquila gli mangia costantemente il fegato che ricresce. Una bambina, ascoltando questo, diceva: “Povera aquila!” perché appunto il fegato di solito non piace ai bambini, e l’idea che ti ricrescere il fegato è terribile. La bambina si immedesimava non in Prometeo, ma nell’aquila.
Questa percezione così chiara che ha Giussani del fatto che noi dobbiamo rileggere il mondo con gli occhi di Cristo – e quindi rileggere il mondo alla luce della trinità – è qualche cosa che viene lasciato a tutti noi. Carmine Di Martino sa che sono brianzolo e quindi voi non potete non comprare il libro: sarebbe proprio sciocco non comprare il libro, anche perché costa pochissimo, costa 20 euro. Ma soprattutto permettetemi: non potete non leggere il libro, anche se si capisce solo qualcosa, perché, appunto, se voi leggete solo Giussani, correte un grosso pericolo che è tradire Giussani, iniziare a parlare il “giussanese”. Adesso io tiro una piccola bomba, se mi permettete, perché siamo in amicizia. Ad un certo punto, quando uno riceve una grande eredità, può rimanere attaccato all’eredità al posto di fare quello che ha fatto suo padre. Io appunto sono brianzolo, come vi ho detto, e in Brianza c’è la legge delle tre generazioni: il nonno ha un colpo di genio, brillantemente crea una fabbrichetta, il figlio la fa esplodere, la porta a livelli internazionali e il nipote la distrugge, perché sta nell’eredità, si tiene l’eredità al posto di far fruttare i talenti.
Bisogna andare avanti a fare quello che Giussani avrebbe fatto. Infatti, il modo di fare teologia di Giussani ci protegge da una grandissima tentazione che sarebbe quella di trasformare Giussani in un idolo, iniziare a parlare un linguaggio che capiamo solo noi, abilitandoci ad evangelizzare solo una suora, un catechista, uno che è già in contatto col Mistero che ha già incontrato Cristo, perché il significato delle parole si dà sempre in una trama relazionale. E qui la forza proprio di Giussani, che individua la ragione nella capacità di riconoscere le relazioni, la passione per l’umano. Per Giussani l’umano sta nei rapporti, sta tra di noi. Non solo in noi, ma sta in noi perché sta tra di noi, perché io sono figlio, cioè vengo da un altro. E ciò che mi fa me, ciò che mi fa uomo, è la relazione con un altro. E io sono così perché Dio è così, e sono stato creato a immagine e somiglianza di Dio. E quindi questo mio essere da un altro diventa una chiave interpretativa del mondo, e se le parole sono solo mie, se ci capiamo solo tra di noi, noi tradiamo quella paternità che ci ha generato. E questo sarebbe terribile. E allora, appunto, studiare la teologia è fondamentale… Va beh, sei teologo, vendi il tuo prodotto… Certo, ma uno si gioca la vita per un prodotto perché ritiene quel prodotto essenziale. Come si costruisce un carisma? Come si fa andare avanti a fare quello che ho fatto Giussani? Non solo a leggere Giussani non solo a ripetere Giussani… Come si fa a non fermarsi sul talento sotterrandolo? Bisogna pensare, gustare, quel talento in modo ecclesiale, in modo teologico, appunto. Riconoscere la sorgente di quel pensiero, risalire alla Trinità stessa e tornare giù verso il mondo guardandolo con la luce che promana dalla Trinità. Allora questo cambia la storia, questo cambia tutto, questo è molto concreto. Quando facevo il fisico una volta c’era un ospite cinese che chiedeva in giro che cos’è la Trinità, cosa assolutamente desueta in un una facoltà di Fisica. E allora l’hanno mandato dal Maspero che è dell’Opus Dei, più o meno lui sa qualcosa della Trinità, non chiedere a noi. E lui venne e mi disse: “Che cos’è la Trinità?”, e va beh adesso… E dico: “Ma tu cosa sai, qual è il tuo background?”. “Io comunista, niente”, ha detto. Ho detto: “Bene, questo può essere un vantaggio”, non c’è la pars destruens. E lo Spirito Santo mi suggerì una cosa che poi ho scoperto essere Agostino, che poi in un certo senso è quello che scrive Antonio Lopez nel libro appena citato sull’ontologia del dono di Baltasar, cioè gli domandai: “Senti, ma in Cina, vi fate regali? Vi fate i doni?” e lui disse: “Sì sì”. Ecco vedi, perché ci sia un dono ci vogliono tre realtà, tre cose: chi dona, il donante, chi riceve il dono e lo accetta, e il dono stesso e gli dissi: “Guarda il nostro Dio in un certo senso è dono, quando poi Signore mi ha messo far teologia ho scoperto che questo è Agostino, che questo è Giussani, che questo è un modo di guardare il mondo a partire dalla Trinità”. Ma perché io ce l’avevo? Ce l’avevo per la mia famiglia, ce l’avevo per la fede, ce l’avevo che gli incontri, ce l’avevo per l’evento, e questo è quello che corrisponde a noi. Continuare a pensare in questo modo relazionale come ha fatto Giussani, ripensando, ridicendo sempre quello che lui ha detto a partire dagli incontri che facciamo, perché questo, e concludo, è il modo di pensare di Maria. Gregorio di Nazianzo in quel testo che ho citato sul teologo, dice esattamente, usa un verbo che praticamente è parallelo al verbo chiusa San Luca quando dice che Maria conservava tutte quelle cose che accadevano meditandole nel suo cuore, che symballo, simbolo, mettere insieme, tenere insieme, e non dividere, dyaballo, il demonio. Ora il pensiero del padre, il pensiero di Giussani, il pensiero del padre, un pensiero sempre nuovo, sempre dirompente, sempre provocante, perché è un pensiero che tiene insieme, che è nuovissimo, arditissimo e ancorato nella tradizione, perché sta in questa tensione tra l’origine, la casa e l’infinito. Tra questa dottrina che è mia, ma non è mia, questo io che è mio, ma è di Dio, perché sono figlio.
Di Martino: Grazie, allora, abbiamo otto minuti, otto minuti per il secondo giro di domande. La seconda domanda è molto diretta, molto personale, e rispondiamo in modo ultra sintetico, anche perché la domanda, in un certo senso, lo consente. Che cosa ha significato, per ciascuno di voi, l’incontro con Giussani, un incontro indiretto, perché nessuno di voi lo ha frequentato, come dire, lo ha conosciuto. In che modo ha cambiato, se ha cambiato, ha dato un contributo, se ha dato un contributo, alla vostra esperienza integrale di persone, di uomini di fede e di studiosi. Alberto.
Cozzi: Sono sintetico, due risposte, però manca come prete, io rispondo come prete. La prima provocazione di Giussani come prete si intuisce e di non usare le parole che bisogna usare perché ci si aspetta che vengano usate. Perfino nella messa, tu devi usare una parola che ti ha mosso, che ti ha percosso, che ti ha commosso, e una parola nella quale c’è dentro il tuo io. Come Giussani raffinava le parole non per parlare difficile, ma per comunicare un’esperienza assolutamente originale è una provocazione grande. Che cosa vuol dire no? Provate a pensare: compagnia, amicizia, sacrificio, obbedienza, verginità, quante parole raffinate per dire la novità di un’esperienza. La seconda provocazione legata al tema dell’incarnazione sicuramente, è che come prete, ma anche come teologo, stai attento a non cercare Dio in un eterno che non ha tempo, ma se vuoi davvero incontrare un Dio che ti muove e ti commuove ascolta la storia delle persone. Io qui devo dire che l’Incarnazione è veramente un mistero grandioso, perché se vuoi incontrare un Dio concreto lascia che i fratelli e le sorelle, anche quando ti gratificano condividendo i loro problemi, ti raccontino della loro storia della loro fatica con Dio, e allora lì ne fai esperienza. Non perdete lo stile di Giussani quando raccoglieva le letterine con tante esperienze e le leggeva dicendo: “Vedete, qui c’è un giudizio che dice un’ontologia nuova”. Io sono convinto che sia una sfida notevolissima: cosa vuol dire che non si trova Dio in un momento contemplativo leggendo Balthasar, che comunque è utilissimo, si incontra Dio ascoltando storie nelle quali è la percezione che Dio sta operando e questo cambia ed edifica.
Di Martino: Grazie
Gourlay: Per me il mio incontro con Giussani è stato qualcosa che mi ha aperto a qualche cosa che è presente nell’ora, nel tempo attuale. Se noi vogliamo educare dobbiamo però tener conto che ci può essere tradizionalismo, antagonismo, indifferenza, e io sono un po’ nel campo, nel settore, del tradizionalismo: c’era qualche cosa nel passato al quale ho deciso di confermare la mia vita. L’incontro con Giussani attraverso questa omelia del cardinale Ratzinger, e poi attraverso tutti i suoi scritti, ma anche e soprattutto attraverso la comunità di persone che si incontra ogni settimana a Perth, mi ha consentito di vedere l’incarnazione come qualche cosa che accade ora, non è cosa di astratto. E questo è un modo di vedere la realtà a cui vengo spesso richiamato nei nostri incontri settimanali. Quindi mio incontro con don Giussani ha ampliato i miei orizzonti immensamente.
Giulio Maspero: Questa è la domanda più difficile probabilmente, perché, fin da bambino io ho conosciuto persone che avevano conosciuto Giussani, quindi da padre Marangoni che era un missionario, che ero suo compagno a Venegono, che poi appunto diventato comboniano, all’esperienza di Russia Cristiana con padre Romano Scalfi, don Adolfo Asnaghi, monsignor Galbiati della dell’Ambrosiana, e poi un certo punto però nella mia vita, quindi c’era Giussani che era un’entità, diciamo un amico degli amici, diciamo così, un amico degli amici di mio papà, per essere precisi. Poi a un certo punto insegnavo da poco all’università, insegniamo un corso che si chiama “Introduzione al mistero cristiano” e ho come studentessa suor Rachele Paiusco delle missionarie di San Carlo, e dopo un po’ che mi sentiva spiegare mi disse: “Ma lei ha mai letto il ‘Senso religioso’?”. Io non l’avevo letto e lei mi disse: “Dovrebbe leggerlo”. Cosa che non ho fatto, perché fare quello che dice una donna sempre un prete aspetta un po’ prima di farlo, lo fa, però ci mette un po’ diciamo. Però Rachele Paiusco mi presentò degli amici cari, come don Paolo Prosperi, e quindi io ho continuato a conoscere Giussani attraverso persone, attraverso suoi figli, fino a don Massimo Camisasca eccetera eccetera. E penso che questo è un modo bellissimo per leggere Giussani. A un certo punto ho letto il “Senso Religioso”, se non avrei scritto anche il contributo del libro, ma l’ho letto a partire da questo incontro. Allora io penso che veramente l’incontro con Giussani, prima con le persone, e poi con i suoi scritti, mi ha dato proprio l’esperienza della coerenza tra il metodo e la realtà, cioè c’è veramente un modo di vivere che è coerente con uno sguardo sulla realtà in tutti i suoi fattori. Questo, questa giunta avverbiale è potentissima, la realtà in tutti i suoi fattori, non farti sconti, non essere riduzionista, perché questo è il messaggio di un padre.
Di Martino: Grazie. Una battuta sul dialogo di prima che mi ha stimolato, oltre all’enorme ricchezza di contenuti, penso questo e lo penso a partire dall’esperienza che vivo, e anche dal mestiere che faccio, dagli autori che studio, dagli incontri più determinanti. E per usare la stessa immagine che tu, Giulio, hai utilizzato, Giussani è un padre, teologo, nel senso rotondo del termine, non così accademico e professionistico soltanto. Nella mia esperienza io posso dire che, non sono nel caso di Giussani, ma nel caso di Giussani questo si evidenzia in modo più chiaro, un padre, teologo, un uomo, un autore, un’origine di fecondità, quando è grande è sempre inesauribile, e la cifra della grandezza sta precisamente, una cifra della grandezza, sta nella sua inesauribilità. E il libro è un tentativo di mettere in dialogo con tante persone il pensiero, cioè l’opera, e la testimonianza, intendendola, e con ciò sottolineare la compattezza di queste dimensioni, che non sono una di qui e l’altra di là, di mettere in dialogo la persona, l’autore, l’opera, che è che è venuta, che è nata da Giussani, con tante persone, con un orizzonte il più largo possibile per riscoprire e scoprire ancora Giussani, la sua proposta nella sua grandezza, perciò nella sua inesauribilità. Perché né io, sicuramente no, ma non ho finito di scoprire la ricchezza di Giussani, e desidero farlo finché mi è data energia, perché di questa ricchezza vivo. Perciò volevo sfruttare quell’accenno per sottolineare questa anche finalità dell’iniziativa proposta, ma, la vera conclusione che mi ero riservato dopo le domande, coincide con una frase di papa Francesco che è forse, dopo quello di Giulio Maspero, il miglior invito alla lettura del volume e al tempo stesso è un augurio, un augurio che questo volume possa servire, come dicevo prima, a scoprire un po’ di più il pensiero, cioè la testimonianza, la ricchezza, il dono che è Giussani, e a suscitare il desiderio di immergersi in esso. Ecco la frase. Papa Francesco la pronuncia il 7 maggio 2015 all’udienza concessa al movimento di Comunione e Liberazione e suona così: “Sono riconoscente a Don Giussani per varie ragioni. La prima, più personale, è il bene che quest’uomo ha fatto a me e alla mia vita sacerdotale, attraverso la lettura dei suoi libri e dei suoi articoli. L’altra ragione è che il suo pensiero è profondamente umano e giunge fino al più intimo dell’anelito dell’uomo”.
Concludo l’incontro, ma non senza ricordare che quello che sta accadendo qui, il Meeting, è l’esito mai scontato, sempre nuovo, di una straordinaria condivisione e collaborazione umana, e così come una civiltà non cresce senza cultura dialogo e bellezza, che ne sono la linfa vitale, e il Meeting è da sempre un luogo di cultura, questo luogo, questa, quindi alla fine, civiltà, è una realtà cui già molti fanno così lo contribuiscono, ma ciascuno di noi può contribuire per far continuare questa opportunità. E il contributo è un contributo che alimenta il finito e l’infinito che lo abita, quindi da dandogli ulteriore luogo, e in fiera, lungo tutta la fiera, troverete le postazioni “Dona ora” caratterizzate dal cuore rosso. Le donazioni dovranno avvenire unicamente li ai desk dedicati dove vi aspetteranno i volontari che indossano la maglietta rossa “Dona ora”. Una importante novità: da quest’anno la Fondazione Meeting è un ente del terzo settore, chi sosterrà il Meeting potrà usufruire dei benefici fiscali al momento della dichiarazione dei redditi.
Vi ringrazio, ringrazio gli ospiti, vi ringrazio per l’attenzione e vi auguro un buon Meeting.