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IL CANTICO DELLE CREATURE DI SAN FRANCESCO
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Davide Rondoni, poeta, presidente del Comitato nazionale per l’ottavo centenario della morte di San Francesco d’Assisi in dialogo con Guidalberto Bormolini, monaco, scrittore, tanatologo, membro fondatore del Gruppo Nazionale Sala del Silenzio. Introduce Letizia Bardazzi, presidente Associazione Italiana Centri Culturali
Nel 1224 Francesco d’Assisi ha perduto le forze, la vista, sta perdendo la voce, sta perdendo la vita. E che cosa vuole rendere memorabile? Un pensiero? Una norma? No, una poesia. Un testo che unisce la lode al Creatore a quella per le creature. Lo detta ai suoi perché lo cantino, lo portino con sé i frati, la offrano a sé stessi e al mondo. Oggi, 800 anni dopo, quelle parole continuano a essere un testo-fiaccola da passarsi in giro per le strade, un testo-respiro da condividere nei momenti belli e in quelli difficili, un inno alla sorellanza e alla fraternità cosmica, un invito a riconoscere la sinfonia del creato e il canto che vibra nel cuore di ognuno di noi.
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IL CANTICO DELLE CREATURE DI SAN FRANCESCO
IL CANTICO DELLE CREATURE DI SAN FRANCESCO
Martedì 20 Agosto 2024 ore 19:00
Sala Auditorium isybank D3
Partecipano:
Davide Rondoni, poeta, presidente del Comitato nazionale per l’ottavo centenario della morte di San Francesco d’Assisi in dialogo con Guidalberto Bormolini, monaco, scrittore, tanatologo, membro fondatore del Gruppo Nazionale Sala del Silenzio.
Introduce:
Letizia Bardazzi, presidente Associazione Italiana Centri Culturali
Bardazzi. Buonasera a tutti, benvenuti a questo incontro “Vivere il cantico delle creature”. Un ringraziamento subito ai nostri ospiti che vi presento fra poco. In questo primo giorno di Meeting, nel condividere la ricerca dell’essenziale e nel farci mendicanti dell’essenziale, come ci ha invitato a fare Papa Francesco nel messaggio inaugurale che ha voluto inviarci, abbiamo voluto mettere a tema il Cantico delle Creature di San Francesco nel corso delle tante celebrazioni per l’ottavo centenario della morte del Santo di Assisi, un evento di portata mondiale che si intreccia con i festeggiamenti del Giubileo del 2025. Questo gigante della santità, che continua ad affascinare moltissime persone di ogni età e di ogni religione, è stato più volte protagonista del Meeting di Rimini. Ricordo la mostra “Francesco e il Sultano” nel 2019, la mostra “Cum tucte” sull’alleanza fra uomo e natura seguendo le tracce di San Francesco dell’anno scorso, tanti spettacoli teatrali, tanti eventi organizzati insieme alla Custodia di Terra Santa. Quest’anno potete visitare anche una mostra al Villaggio dei Ragazzi dedicata al Cantico delle Creature. Oggi ci troviamo davanti alla grande opera d’arte che San Francesco lascia ai suoi amici e che compone alla fine della sua vita, il cantico più sublime della spiritualità cristiana, un testo-fiaccola da passarsi in giro per le strade, un testo-respiro, come scrive Rondoni, da condividere nei momenti belli e in quelli difficili, una poesia in prosa che si canta, tutti noi l’abbiamo cantata, e che è preghiera. Desideriamo oggi immedesimarci e vivere l’esperienza narrata da San Francesco, avvicinarci e riscoprire l’essenziale dell’esperienza di lode a Dio e del senso di fraternità universale e di amore per il creato che nel Cantico ci viene consegnato. Vi presento subito i nostri ospiti: padre Guidalberto Bormolini, sacerdote, monaco, antropologo e teologo, Docente di vari master a Padova a Firenze, assistente spirituale nella malattia e nel morire, con l’associazione “Tutto è Vita”, autore di moltissimi testi, adesso vive con la comunità dei Ricostruttori al Monastero di San Leonardo al Palco a Prato, oggi un centro di spiritualità con molte attività; e Davide Rondoni, poeta e scrittore ben noto al pubblico del Meeting perché nel corso degli anni è stato uno dei più fedeli protagonisti ed è presidente del Comitato Nazionale per l’ottavo centenario della morte di San Francesco. Un grazie e un caloroso applauso ai nostri ospiti. I nostri ospiti hanno scritto un testo e le riflessioni che oggi ascolteremo sono in parte raccolte in questo testo, “Vivere il cantico delle creature, la spiritualità cosmica e cristiana di San Francesco”, edizioni Il Messaggero di Padova, che ripropongono non solo la preghiera e le loro riflessioni, ma anche delle illustrazioni molto belle di Luca Salvagno, che accompagnano appunto i versi del Cantico. Allora, iniziamo il nostro dialogo, iniziamo da padre Bormolini. Tu dici, padre, di accostarti al cantico pregando con le parole del poverello di Assisi per sentire in te la sorgente di questo componimento. Volendo dare la parola ai Padri della Chiesa, ti carichi di tutta la ricchezza dei nostri Padri, dei mistici e anche di tante tradizioni monastiche e mistiche, perché ci rivelino come fare a vivere oggi questo componimento. Allora, cosa ci consegni oggi di questa tua ricerca?
Bormolini. Anzitutto grazie dell’invito di essere qua con un carissimo amico e incrociando anche tanti amici perché penso che ciò che conta nella vita spirituale sia proprio l’esperienza vissuta concreta, reale, incontrare persone, volti o incontrare albe e tramonti, ciò che ha cantato per Francesco. E mi è piaciuta poi la proposta di Davide: vivere il Cantico. Il rischio di intellettualizzare l’esperienza spirituale c’è sempre. Mentre invece va vissuta, incarnata, deve essere concreta, incontro di persone, e ciò che ci ha donato Francesco è proprio qualcosa di molto concreto come è stata concreta la sua vita, semplice e concreta. Qualcosa da vivere. Infatti lui chiedeva ai suoi di cantare questo cantico chiedendo in cambio conversione, cioè che la vita cambiasse: ascoltando questo, che succedesse qualcosa. Io sono voluto partire da lì per me, su di me. Per capire che cosa poteva dirmi per davvero nella mia esistenza, per quanto l’abbia incontrato molto giovane, si è riaffacciato tante volte nella mia vita, e in quest’occasione l’ho riscoperto. Perché penso che quel “ri” che ci mettiamo davanti alle parole è prezioso, no? Noi siamo seguaci della risurrezione, di qualcosa che rinnova. Il cantico va rinnovato come esperienza concreta per dare delle risposte ai nostri tempi. Ci sono tante cose, secondo me, di un’attualità sconcertante e di una forza anche provocatoria notevole. Se ne parlava prima: purtroppo se ci guardiamo intorno, tantissimi opinionisti pensano di avere qualcosa da dire sui nostri tempi e ci tocca andare agli antichi per avere una risposta ai nostri tempi. E Francesco canta “cum tucte” le creature, non entro in questioni letterali anche perché c’è chi ha ben altra competenza, però già questo mi ha sempre colpito perché ho sempre avuto un profondo amore per la natura, per il mistero della natura, sono stato educato a questo sin dalla mia gioventù; però poi studiando il fenomeno francescano, il rapporto con la natura nella spiritualità cristiana e tutto il resto, mi si è aperto un mondo, perché in realtà – è chiaro che noi siamo figli di un’idea molto romantica del rapporto con la natura – in realtà la natura, all’epoca di Francesco, era una nemica, era quella che faceva tutto il male possibile: le cavallette che ti distruggevano il raccolto, la tempesta, la grandine, i lupi che ti mangiano il bestiame… questa era la natura per loro. Quindi già lì Francesco canta “cum”, insieme. E poi che cosa? Questo è anche importante. Come se entrasse in un rapporto profondo con tutto ciò che lo circonda e lo scoprisse da un altro punto di vista. Era un’epoca in cui era problematico fare questo perché se da un lato c’era la questione della natura che fa male al povero contadino che vive della propria terra, c’era anche chi riteneva che la natura fosse un male, che tutto ciò che ci circonda, il creato, fosse un male, che era il catarismo. Un fenomeno indubbiamente affascinante, perché noi certe volte siamo un po’ superficiali nel dire che qualcosa non ci convince, ma dobbiamo anche essere onesti e dire: è molto convincente, ma c’è qualcosa che non va. Perché il catarismo aveva un fascino notevole, ha avuto una diffusione enorme per quello. Ed era il fatto che la spiritualità fosse qualcosa di staccato da ciò che tu vivi. Alla fine è un problema che abbiamo con il mondo contemporaneo. La spiritualità sta diventando un hobby, un passatempo per gente che ha poco da fare, annoiata della vita. E invece lui riporta il mondo della natura, creazione divina, nella sua dimensione meravigliosa, anche in contrasto con spiritualità molto forti con cui lui, tra l’altro, ha rischiato di essere identificato per il suo radicalismo e invece poi, se lo conosci fino in fondo, era di una posizione diametralmente opposta: cioè innamorato della creazione a cui apparteneva che però dà accesso a un mistero, un mistero che capisci soltanto conoscendo una parte della tradizione cristiana molto poco nota che i Padri hanno sviluppato molto. Il tema della fratellanza e sorellanza cosmica è un tema presentissimo in tutta la tradizione cristiana. L’unità del mondo è un tema molto familiare ai Padri. Sant’Ambrogio dice: tutto ciò che esiste forma una salda unità e tutti gli elementi sono legati da un vincolo di concordia e pace. Cioè, noi siamo dentro una relazione con esseri animati e inanimati che è misteriosa, affascinante. Clemente Alessandrino dice proprio che persino gli esseri inanimati simpatizzano coi viventi nell’unità cosmica. Quindi, intanto, c’è una prima cosa. Lui è entrato in questa fratellanza e sorellanza, cioè non è che lui la vive perché l’ha studiata nei testi, lui entra in questa dimensione, in questa unità fondamentale ed è ispirato da questa. Perché “tutto ciò che è stato creato – dice Massimo il Confessore – concorre insieme all’essere umano in un crogiolo formando una perfezione unica, un’armonia composta di suoni diversi”. Cioè siamo dentro in una sinfonia di cui facciamo parte e di cui siamo parte. Allora, forse, questo perno che viene utilizzato nel testo ha tanti significati, però potrebbe essere anche che siano tutti validi. Cioè, Francesco è entrato in una relazione con la creazione in cui partecipa a una sinfonia dando il suo contributo, ringrazia per ciò che ha ricevuto e chiede a tutte le altre creature di ringraziare insieme a lui. Noi siamo, come esseri umani, un punto nodale della creazione. Giovanni Damasceno dice, “l’essere umano, essendo tra spirito e materia, è il legame di tutta la creazione visibile e invisibile. Abbiamo un ruolo sacerdotale fondamentale rispetto a tutto il creato”. Cioè, di essere noi portavoce di tutte le creature e portavoce alle creature della voce divina, in modo che ci sia una partecipazione totale. Noi siamo sostanzialmente partecipi di quest’opera in cui possiamo riportare la creazione alla sua origine vera. La libertà è ciò che caratterizza la vita dell’essere umano ed è predicata con forza dal cristianesimo, è un punto fondamentale dell’annuncio cristiano. Ma proprio perché c’è libertà, l’essere umano si è allontanato dalla sorgente e la creazione l’ha seguito. È strana questa vicenda. Però noi siamo quelli che possiamo ricucire questo strappo. Dice Gregorio di Nissa, grande Padre e Dottore della Chiesa: “l’essere umano è giuntura tra divino e terrestre. Da lui si diffonde la grazia su tutta la creazione”. Cioè, abbiamo un ruolo nei confronti della creazione che è decaduta. “Noi siamo sostanzialmente” – come dice Olivier Clement – “microcosmo e microdio. Siamo il punto di giuntura tra il divino e tutta la creazione”. Tanto che la creazione prende una caratteristica che è veramente straordinaria, forse quasi sconvolgente. Quando Francesco usa il termine “prezioso” in questa lode, lui lo utilizza fuori da questo contesto soltanto per gli oggetti liturgici che contengono il sangue e il corpo di Cristo. Per cui forse si può intuire… è chiaro, non c’è una teologia diretta in questo testo, c’è ben di più, c’è un’esperienza teologica diretta. Lui sente questa presenza di Cristo nella vita che lo circonda. Origene dice “Cristo è ovunque, la sua presenza si estende su tutte le cose”; cioè lui l’ha vissuta questa cosa e chiede quindi che tutte le creature cantino questa presenza. Il mistero dell’incarnazione è qualcosa di sconvolgente. Infatti io capisco chi non lo capisce: è perché non si può capire, ci si può solo innamorare, come ha fatto Francesco. Non lo puoi spiegare, le cose più belle non le puoi spiegare, ma le puoi vivere, come ha fatto Francesco. In modo da riuscire a mettere in moto il movimento contrario rispetto alla caduta delle origini, una caduta sconcertante – quella famosa di Adamo, Eva, il precipitare da una condizione beata in cui passeggiavano in un Eden – che si trovano, grazie alla libertà – meglio dire “grazie” e piuttosto dire “per colpa” della libertà – in una condizione in cui la creazione li ha seguiti e “geme nelle doglie del parto”, dice la Lettera ai Romani, “in attesa di essere insieme all’essere umano, riportata dalla sua condizione originaria”. Pensate che un testo attribuito a Macario dice: “quando Adamo cadde morì lontano da Dio lo pianse, il Creatore, gli angeli, tutte le potenze, i cieli, la terra e tutte le creature fecero lutto perché colui che era stato dato loro come re lo videro diventato schiavo della potenza perversa e malvagia”. Per cui è insieme. Ci sono delle teorie ecologiste un po’ originali, no: la natura sta bene senza l’essere umano. Invece tutti i mistici e Paolo ci dicono che la natura ha bisogno di ritornare in quella condizione perché affianca l’essere umano in questa crescita. Tanto che lei stessa cambierà di condizione. Pensate a Sant’Atanasio: “è nello spirito che il Verbo dà gloria alla creazione tutta e la divinizza”. Cioè, l’essere umano che è chiamato ad entrare nella vita divina trascina con sé la creazione. E qual è il percorso che dobbiamo fare? Come fare a viverlo? Qui i mistici di nuovo ci vengono incontro. E qui bisogna anche un po’ spaziare. Io amo avere anche uno sguardo antropologico, cioè: cosa dicono gli altri? Perché il cristianesimo è vero proprio perché è universale, perché è antico. Quando Sant’Agostino dice che il cristianesimo è la religione più antica del mondo, non dice un fatto storico, ma un fatto spirituale, cioè, annunciato sin dall’origine. I Padri dicono che semi divini si trovano in tutte le sapienze, in tutte le religioni. In questo, è la più antica. Allora si vede che nella grande tradizione indoeuropea in particolare, ma non solo, si dice che dentro di noi c’è il riflesso di tutto ciò che esiste. Perché noi siamo composti di tutto ciò che esiste e c’è un riflesso, risponde. Tanto che dentro di noi ci sono cieli, stelle, soli, lune e tutti gli elementi. Lo capiscono i mistici, lo capiscono i sapienti. Ci sono delle righe della Etti Illesum molto belle: “in me scorrono i larghi fiumi, si innalzano grandi montagne, ci sono vaste pianure, tutti i paesaggi sono in me”. Ed è così perché lo dicono tutti i mistici. Dentro di noi, nella tradizione estremo-orientale, si dice proprio che in noi ci sono soli, lune, stelle, gli elementi e noi lo dobbiamo attraversare. Basilio Magno dice proprio che intorno al cuore c’è l’eco di tutta la creazione, ne “sacro pericardio”, come lo chiamavano gli antichi greci. E quando tu entri, entri in tutti i mondi, per cui tu da dentro raggiungi i mondi, non da fuori. “Il pellegrino russo”, che forse molti di voi conoscono – so il vostro amore per la Russia cristiana – racconta: “io penetravo all’interno di me stesso, distinguevo le mie viscere, mi meravigliavo della stupefacente struttura del corpo umano e cercavo mentalmente dentro di me delle porte d’accesso all’esperienza”. Pensate, Niceforo Esicasta, che è un grande padre per la preghiera del cuore, dice proprio: “tu entra nel tuo corpo e cerca i luoghi abitati da tutte le potenze divine”. Cioè, dentro di noi c’è qualcosa di misterioso e i nostri organi sono assimilazioni di regioni cosmiche. Lo dice anche un grande studioso di storia delle religioni. È uno di quelli che ha influenzato fortemente il mio pensiero, Mircea Eliade. Dice: “guardate che le analogie tra il cosmo e parti del corpo si impongono con evidenza”. E questo è molto interessante. C’è un gioco di corrispondenze che dice proprio che le sapienze di tutti i popoli ci permettono di penetrare il cosmo perché entriamo nel misterioso aspetto del nostro corpo. E ci sono assimilazioni tra sole, lune, arterie mistiche, per cui bisogna trasformare il caos della nostra vita bio-mentale in un cosmos, al punto tale che allora entriamo nel mistero della creazione. Forse questa è la strada di San Francesco? Origene dice: “comprendi questo, dentro te hai un secondo universo in piccolo, in te c’è un sole, una luna, anche le stelle”. Quindi vedete che troviamo l’eco di un tema molto importante, più mistico del Cantico di Francesco e sapete che ci furono delle classificazioni proprio nella mistica cristiana dei regni in cui si attraversavano gli elementi e poi c’erano le stelle, la luna e il sole. C’è una mistica dell’Ottocento, la Canori Mora, che racconta nel suo diario – è un personaggio veramente incredibile, il suo diario è veramente sconcertante – lei dice, tra l’altro: “la notte del 4 ottobre” – giorno di Francesco, e questo mi ha sempre colpito – “stavo pregando e il mio spirito è stato portato nell’altezza dei cieli e mi fece penetrare, il Signore, la luna, le stelle, il firmamento, mi fece penetrare il sole, i suoi pianeti e tante cose che non so dire”. Quindi capite che sono proprio esperienze mistiche molto precise. Cioè si apre una porta tra terra e cielo. Il nostro corpo è il tempio dello spirito, cioè è lì che si vive un’esperienza. Isacco il Siro, grande autore monastico, dice: “la scala del regno celeste è nascosta dentro di te nella tua anima. Lavati dal peccato e scoprirai i gradini per cui salire”. Cioè, c’è una porta per il cielo, la dobbiamo attraversare. Apuleio, quando racconta nel suo ” Metamorphoseon” la sua esperienza, dice proprio: “ho attraversato gli elementi e nel colmo della notte vide la luna, e il sole scintillante e fu al cospetto divino”. In fin dei conti nella simbologia medievale si dice proprio: il sole è Cristo, la luna è la Vergine, le stelle sono il mondo angelico, e poi aria, acqua, fuoco e terra. Per cui l’ordinamento del cosmo coi suoi gradini rivela anche qualcosa di affascinantissimo, tanto che ha affascinato un premio Nobel per la chimica, Richard Ernst: “i quattro elementi sono simboli metaforici che riflettono strutture realmente fondamentali nella mente umana e rimangono insensibili ai contesti culturali”. Questo – che ci sia arrivato Ernst… – lo trovi dappertutto: nei greci, negli arabi, nell’India antica, nei cristiani. Sempre Ernst dice che “sembrano espressione di un mistico principio, che si rifà ai quattro elementi, in cui questi rappresentano non un’interpretazione metaforica ma mistica del mondo”. C’è un libretto molto strano a cui ha fatto l’introduzione von Balthasar che è su tutti i simboli dei Tarocchi e lui dice: guardate che gli archetipi hanno una forza fondamentale e il valore di questi simboli è ambiguo, ambivalente. Se li riporti a Cristo, ti conducono a Cristo; se li riporti a te, ti conducono da un’altra parte. L’ambivalenza del mondo spirituale è molto forte per quello che è il segno della croce ci salva, perché dà una direzione, dice dove vogliamo andare, perché le potenze con cui abbiamo a che fare, dentro e fuori di noi, sono misteriosissime. “Ma sono accessibili – dice von Balthasar – se le possiamo ricongiungere al mistero assoluto dell’amore divino manifestato in Cristo”. Cioè, la croce ci indica la strada verso il cielo perché è come cavalcare un razzo: devi decidere dove va, può diventare qualcosa per esplorare i cieli o per distruggere te stesso o qualcun altro. È questo che noi ci salva, la croce, perché dice la direzione da prendere. E tra l’altro Sant’Alberto Magno dice che le piaghe di Cristo rappresentano i quattro elementi, sono porte d’accesso e poi arrivi alla quinta porta, il cuore. Allora per chiudere: come lo viviamo il Cantico alla luce delle grandi tradizioni sapienziali di tutti i popoli e di Francesco, che lo sintetizza in un’esperienza che è ancora più interessante? Cantando dentro di noi questo cantico, ma calzato sulla nostra esistenza, cioè tornando alla sorgente originaria di tutto. Da dove ha origine il cosmo, il Verbo? Il Verbo è una armonia, non è un discorso. Infatti la stragrande maggioranza dei miti cosmogonici dicono che il cosmo è creato da un canto. È molto interessante questo. “Dalla parola del Signore furono fatti cieli e dal soffio della sua bocca ogni schiera”, dice il Salmo. Ma questa parola ci dice qualcosa di affascinantissimo. Io infatti ormai dico: bisogna chiuderla questa teoria del Big Bang, è molto pericolosa. Perché ormai gli scienziati hanno riconosciuto che non è un bang, è una vibrazione armonica, è un canto, è una musica. Il bang non crea, distrugge, il canto crea. Per cui all’origine c’è stato un “Big Song” e a questo “Big Song” originario ha risposto Francesco. Tra l’altro un’altra grande teoria della fisica, la teoria delle stringhe, che tenta di conciliare le due fisiche opposte quantistica e classica che non sono conciliabili, dice che c’è un numero enorme di stringhe che emettono delle note, una sinfonia, però gli scienziati con cui ho lavorato dicono: “ma non sappiamo chi l’ha suonata”. Risponde Atanasio e dice: “la sapienza, tendendo le sue mani nel mondo intero come una cetra, ha unito cose celesti con quelle dell’etere e tutte le cose per mezzo del Verbo costituiscono divina armonia”. Gli orientali dicono l’Om, il canto originario, una musica, è ciò che sottostà tutto. Infatti dicono gli scienziati: “il Big Bang è attestato dal fatto che c’è una radiazione cosmica di fondo”. Ma è una musica cosmica di fondo, è un canto cosmico di fondo, che è quello che ha udito Francesco, e lui ha risposto. E quello che dobbiamo fare è esattamente questo. “Tutto canta e grida di gioia”, dice il Salmo, no? Ma noi rispondiamo? “Non è linguaggio, non sono parole di cui si oda il suono”, e noi lo udiamo? Domandiamoci questo, siamo in un mondo di frastuono, e anche quando qualcosa non va bene, tanti ragazzi ecologisti che mi piacciono da morire, perché a me la gente che vuole essere rivoluzionaria mi piace, però stanno allo stesso gioco, aggiungono note stonate alla stonatura, credendo di fare del bene al pianeta. Invece la risposta ce l’ha data Francesco: cantiamo questo cantico, ma cantiamolo dentro di noi, cantiamolo per noi, sentiamo anche noi che tutto canta e grida di gioia intorno a noi. E rispondiamo col nostro canto, il mantra, la preghiera del cuore, la giaculatoria. Dobbiamo imparare a parlare un po’ a tutti oggi. Io so che qua siamo cristiani e io sono innamoratissimo di Cristo e dell’incarnazione. Però dobbiamo imparare a parlare a tutti e bisogna che i giovani sappiano ascoltare una parola forte per loro. Insegniamoli a cantare questa canzone, la preghiera del cuore, e capiamo insieme a loro, viviamo insieme a loro questo cantico e allora il Signore dei Mondi potrà dominare di nuovo su questo mondo confuso, potrà indicarci una via di uscita e ci farà cantare con lui, che è l’estasi, la più bella esperienza che un essere umano possa fare.
Bardazzi. Davide, allora aiutaci ad entrare in questo capolavoro poetico, nei versi, nella poetica di Francesco. Che cosa mette in scena questo Cantico? E, continuando ciò che il padre ha iniziato, come viverlo oggi?
Rondoni. Intanto buonasera e grazie per l’invito. Volerò un po’ più basso.
Nel senso che essendo un poeta, poi sono un cristiano di rito romagnolo, che è una cosa… Però noi siamo molto contenti, noi cattolici di rito romagnolo, perché fortunatamente ha vinto Francesco e non i catari, come ha detto prima giustamente il padre. Cioè, possiamo mangiare una piadina e andare in paradiso, se no non si poteva. Perché se amare Dio vuol dire disprezzare il mondo, è una fregatura. Un grande poeta che si chiama Arthur Rimbaud nel 1800 dice: “per lo spirito si va a Dio, straziante infortunio”. Capiva che se la religiosità è staccarsi dalla carne e da terra è uno straziante infortunio. Parto da questo elemento perché appunto Francesco ha lasciato questo canto ai suoi amici. Noi oggi quando diciamo “frati”, non so se ce n’è qualcuno qui, pensiamo sempre a qualcosa di un po’ clericale. In realtà la parola “frati” oggi si tradurrebbe con la parola “bro”, fratelli. Sono i suoi “bro”, cioè i suoi compagni. Infatti Dante, su cui tornerò tra poco, quando parla di San Francesco mette in scena questa bellissima compagnia di giovani (scalzasi tizio, scalzasi quell’altro), che lo seguono per un impeto di gioventù. Ai suoi frati lascia questa poesia, questa prosa ritmata. Addirittura ha fatto venire lì uno dei più famosi poeti del momento perché la musicasse. La scrive in tre momenti della sua vita, la conclude che è quasi cieco e sta per morire, proprio questo uomo che sta per tornare a essere niente o terra, in quel momento alza il suo Cantico e lo regala ai suoi amici. A me, anche un po’ per miei motivi artistici, mi ha colpito innanzitutto il fatto che questo santo non abbia lasciato solamente una regola, un testamento, degli scritti, ma ha lasciato un’opera d’arte, ha lasciato un canto, perché appunto le parole più adeguate alla vita ci vengono da un parlar poetico, che non è appena la poesia dei poeti, ma come abbiamo sentito anche fino ad adesso, è un parlare che si mette al livello della vita, non al livello delle chiacchiere o degli slogan, o del linguaggio standard che può ammorbare anche gli ambienti religiosi quando diventa standardizzato, ma appunto un parlar poetico. Lui lascia questo regalo ai suoi e dice cantatelo sempre. Effettivamente io, se penso a molte persone che hanno segnato la mia vita, l’hanno segnata sia perché con il loro esempio mi hanno colpito, ma poi mi hanno regalato delle parole. Le parole sono importanti, per questo Francesco lascia un cantico. Perché se sbagli le parole, sbagli la vita. Se possiedi, perché qualcun altro te le regala, le parole più adeguate per vedere il mondo, allora anche la tua vita sarà più adeguata. Tant’è vero che tutti i grandi educatori, compreso Don Giussani, dicevano: non ti preoccupare di capire subito tutto, comincia a ripetere certe parole, perché quelle ti guideranno dentro la realtà. Se invece uno si fa mettere in bocca le parole del mondo, imparerà a vivere come tutti. Francesco lascia queste parole, questo Cantico. Ora, come voi sapete, Francesco non si chiamava Francesco, si chiamava Giovanni. Fu chiamato Francesco in quanto figlio della Francesca, cioè di questa donna che il padre, famoso commerciante, si era portato dalla Francia, della Picardia, come diceva allora, ad Assisi. Le fonti ci dicono che Francesco canticchiasse in francese. Perché quella donna, probabilmente, questa è una mia teoria, una mia supposizione, ma abbastanza ovvia, come tutte le mamme probabilmente avrà canticchiato qualcosa a questo ragazzino, a questo bambino. E probabilmente canticchiava le cose che venivano dalla poesia di quel tempo, dalla canzone di quel tempo, della sua terra, che erano quelle che noi conosciamo come i “trovatori”, grande scuola di poetica che rivoluziona la cultura europea, che parte da una Francia influenzata sicuramente dal monachesimo irlandese, come mi diceva una volta anche padre Bormolini, e anche da influenze arabe, poi dalla Francia si sposta, come forse avete studiato a scuola, in Sicilia, diventa la scuola siciliana, poi Guittone d’Arezzo arriva in Toscana, poi Guinizelli a Bologna, poi Dante. Cosa cantavano questi trovatori, che avevano una forza teologica a tal punto che molti di questi finirono poi monaci? Cosa cantavano? Quello che a scuola ci faceva un po’ ridere, perché cantavano sempre delle poesie d’amore per donne lontanissime, per donne già sposate. Sfiga tremenda. Sembravano sempre dei poeti… può capitare, no? Però era proprio una statistica un po’ troppo ampia. C’era sempre una donna che dall’altra parte era di qualcun altro. L’amore di lontano, come forse vi ricordate. Cosa stanno mettendo in scena, in realtà, questi grandi poeti da cui viene la terra della madre e poi Francesco? Stanno mettendo in scena una cosa fondamentale e anche abbastanza attuale: che la nobiltà di un uomo, la chiamiamo la gentilezza, la nobiltà interiore, non dipende dal sangue blu o dalla spada o dalle ricchezze. Ma l’uomo, l’essere umano, dimostra la propria gentilezza quando ama qualcosa che non possiede, quando si accorge di amare qualcosa che non è suo, una donna lontana, una donna già di altri. Questa questione che distingue l’amore dal possesso – un temino abbastanza attuale – è messa in scena per la prima volta in maniera così chiara dalla cultura europea da quei monaci. Cos’è la povertà di Francesco? La povertà per cui questo uomo inizia prima di morire il Cantico dicendo “Altissimum”, altissimo. Il senso di sproporzione è il primo elemento della verità umana: “Altissimu”. Io sono molto più piccolo dell’altissimo. Francesco si faceva chiamare “il piccolino”. E finisce infatti il canto con la parola “humilitate”. Cosa c’è in scena tra l’altissimo e l’humilitate? C’è il fatto che il mondo non è tuo, che il mondo è di un altro, che le creature sono apprezzabili non perché ami la natura, o perché la natura è amabile, perché la natura non è molto amabile a volte. Come hanno capito tutti i grandi poeti, tra cui Francesco, ma anche Lucrezio, Leopardi, il mio maestro Mario Luzi, se la natura la chiami “madre” un giorno, il giorno dopo la chiami “matrigna”. Perché è molto commovente il cerbiattino che ti guarda e passa in mezzo alla strada, ma anche il tumore al pancreas ti viene naturalmente. E il vulcano non chiede il permesso a quelli sotto, come ha capito Leopardi nella Ginestra. Quindi la natura non è né buona né cattiva in sé, dipende dallo sguardo con cui la guardi, dipende che segno è, dipende di chi è. Perché se la natura è la mia, può essere anche la peggiore nemica. Francesco vede la natura, le creature, come le chiama, come segno di un altro, cioè proprietà di un altro. Per questo sono amabili e dimostra la sua santità, la sua gentilezza, la sua nobiltà, amando qualcosa che non è suo. Questo lo sappiamo drammaticamente tutti. I figli che hai sono tuoi, ma non sono tuoi. Anche la donna che ti porti a letto cinquemila volte non è la tua o l’uomo uguale. Se non si arriva a comprendere questo, non c’è gentilezza nella vita, anche letteralmente. Francesco, venendo da quella tradizione lì, mette in scena questa cosa in maniera straordinaria nel Cantico, legando il creatore alle creature con questo “cum”, che come diceva prima padre Guidalberto, ci ha salvato. In genere viene presentato San Francesco come un estremista, è quello che ci ha salvato dagli estremisti San Francesco, da uno spiritualismo estremista sicuramente seducente, e ancora oggi seducente. Oggi, magari, non è più il Dio ebraico-cristiano quello che seduce, semmai è una sorta di idea di mente superiore, di spirito, rispetto a cui tutto il resto diventa disprezzabile, la carne, il corpo malato, lo scarto, come dice il Papa. La realtà diventa uno scarto, perché siamo tutti protesi all’astrazione di un Dio che non si capisce se sia la nostra mente o cos’altro. Qui c’è questo elemento fondamentale, poetico, poetico perché i poeti lo mettono in scena sempre quando sono poeti autentici, della differenza tra amore e possesso, che è appunto la radice della povertà, perché la povertà in Francesco non è la miseria, tant’è vero che lui dava una mano ai poveri, non è che c’è “beati voi che siete poveri, state poveri”, dava una mano ai poveri. Dal Francescanesimo sono nate infinite opere di carità, come sono nate anche le banche, come sono nate le grandi scoperte scientifiche. Pacioli, il più grande amico di Leonardo da Vinci, grande matematico, era francescano. San Bernardino da Siena, uno dei più grandi economisti del Quattrocento, era francescano. Le banche sono nate dei francescani perché la realtà è da amare, non da disprezzare, ma non è tua. L’esperienza della povertà è questo accidente che ti viene quando guardi i tuoi figli e dici “sono miei ma non sono miei”. Quella è la povertà, non la miseria. Tant’è vero che in Francesco non trovate mai una moralistica, come si può dire, offesa a chi è ricco. Non è che vada dal Papa come qualcuno fa – e se la povertà fosse la miseria avrebbe ragione – dicendo “perché parli di poveri tutti i giorni e stai nel palazzo più bello di Roma?”. Se la povertà fosse la miseria, sei un ipocrita. Francesco non dice questo al Papa, perché la povertà non è la miseria, ma è la realtà come segno, come avrebbe tradotto Don Giussani, che è un grande riformatore della Chiesa come Francesco. Cioè era gente che non voleva fare un gruppetto di amici. Il gruppetto di amici serviva per fare la rivoluzione della Chiesa, bisogna distinguere l’ordine se no non si capiscono queste figure, né Don Giussani, né tantomeno San Francesco. Non era gente che voleva fare un gruppo, era gente che voleva salvare la Chiesa, edificare la Chiesa, ed è quello che hanno fatto. Ora, l’altro elemento di questo Cantico, che è straordinario per la capacità poetica, per questo evidentemente Francesco era uno che sapeva scrivere, è un grande poeta perché viene da quella tradizione lì, ce l’aveva addosso, ce l’aveva nel sangue; e la coltivava al punto che, dopo magari alla fine lo leggiamo, sentite che gli aggettivi sono precisissimi: l’acqua che è utile, è umile e casta, il fuoco che è “iocundo, robustoso e forte”, è perfetta nella descrizione delle cose, e perfetta anche nella distinzione perché prima c’è il vento che sparge i semi, e questo dà sostentamento, poi viene la terra, un testo prodigioso come bellezza e come esattezza… Ma, non voglio farla lunga, anzi, un attimo, una cosa ancora sulla povertà, perché il Meeting è intitolato al tema dell’essenziale grazie alla frase di McCarty. Io con alcuni amici da 11 anni faccio un piccolo festival che si chiama “Piccolo festival dell’essenziale”. Perché cos’è l’essenziale? Non è una cosa invece di un’altra. Perché se l’essenziale è una cosa invece di un’altra, vuol dire che la vita non è un cosmos. L’essenziale non è che è più essenziale questo di quest’altro, è che c’è un essenziale in ogni cosa. Devo scoprire l’essenziale in ogni cosa. L’essenziale che Francesco ti fa scoprire è questo, che tu sei umile di fronte all’Altissimo e quella cosa non è la tua. Questo è l’essenziale. Per questo in tutte le cose della nostra vita possiamo scoprire l’essenziale, anche nel vino rosso, anche nella serata in compagnia. Non è che l’essenziale è la cosa più seria di quell’altra. Non è che è più essenziale il discorso di un monaco invece che il sorriso di una bella ragazza, è tutto essenziale. O meglio, in tutto puoi scoprire l’essenziale, sennò diventa un moralismo insopportabile l’idea dell’essenziale. Un pauperismo stupido, se è una cosa invece di un’altra. In Francesco questo si vede chiaramente, perché la radice della povertà è questo. Guardate, io credo che noi dovremmo alzarci tutte le mattine con il mantra di cui parlava prima giustamente padre Guido Alberto, dicendo “altissimu”, con questa “u” finale proprio del dialetto umbro di allora, che è meravigliosa, “altissimu”, che è ancora più profondo di “altissimo”. “Altissimu”, dà proprio lo sprofondamento di te di fronte a questa potenza che crea il mondo. E per finire, come diceva giustamente Guidalberto, questa potenza che crea il mondo, la chiamano Big Bang. Si può discutere. Devo dire che quando al CERN di Ginevra ci hanno invitato alcuni poeti europei a fare una discussione con i fisici e ci hanno fatto vedere il modello dell’universo, c’è questo Big Bang, questa specie di cono che si apre di spazio-tempo. In realtà Dante, su cui torno tra poco prima di chiudere, aveva già visto il Big Bang. Nel Paradiso c’è una cosa conflata in un volume “che per l’universo si squaderna” – usa questa espressione – Big Bang. E va aggiunto, dando una traccia ai fisici che non sanno cosa rispondere, perché voi sapete, questa strana esplosione in cui siamo, a differenza di tutte le altre esplosioni, accelera. Se tu fai scoppiare un petardo, dopo un po’ ricade su sé stesso. Noi siamo in un movimento, invece, che accelera. Da dove viene questa forza? E infatti stanno inventando stringhe, la supersimmetria… “Amor che move il sole e l’altre stelle”. “Amor che move il sole e l’altre stelle” non è un verso per cuori romantici, è la sostanza della realtà. Per quello che devi corrispondere a queste energie dell’universo e al canto dell’universo devi rispondere anche tu cantando. Diceva un grande poeta francese, mio amico: c’è un canto nel mondo, c’è una musica nel mondo, ma se non canti non la senti. È un canto non solo delle labbra, è un canto del cuore, è un canto di tutto te stesso. Dante, che non sbaglia mai, vi lascio questo ultimo spunto, anche questo per me motivo di attualità e anche di impegno nella cosa che sto facendo, forse qualcuno ricorderà che Dante, quando parla nella Divina Commedia di Francesco, gli fa fare un grande omaggio a un domenicano, così per dare l’avviso che nella Chiesa ci sono sempre dei casini, non spaventiamoci… i francescani in confronto, hanno fatto un cinema della madonna… Comunque, Dante fa dire a San Domenico: non basta dire “Assisi”, non basta dire “ascesi” – gioco un po’ con le parole – bisogna dire “oriente”. Oriente ovviamente è “orior”, da dove sorge il sole, l’Alter Christus viene chiamato subito Francesco per la potenza della sua proposta, della sua santità; però Oriente vuol dire anche un’altra cosa e lo dico in questo momento in cui ci vogliono convincere che c’è una guerra tra Oriente e Occidente, mentre c’è una guerra tra supermercati e c’è una guerra per la moneta, non è una guerra spirituale e culturale, dobbiamo saper distinguere questo. E noi, l’Italia, l’Europa una volta, adesso non più, ma l’Italia sicuramente, siamo la terra dove si incontrano Oriente e Occidente. Perché il monachesimo è un fenomeno orientale, il cristianesimo è un fenomeno orientale. Il meglio dell’Occidente c’è dove è visitato dall’Oriente, dove è visitato da un certo tipo di spiritualità che non riduce il possesso alla fortuna, il successo. Il cristianesimo di cui il monachesimo fa parte, se ci pensate nel protestantesimo olandese o americano, non c’è il monachesimo, un motivo ci sarà. Perché l’uomo di Dio, Francesco, che va dal Saladino, viene ascoltato dal Saladino non perché fa un dibattito così interreligioso tipo Cardinal Ravasi e Mieli, no. Va per convertirlo. Ma perché il Saladino lo ascolta? Perché è un uomo di Dio. Viene dal campo dei crociati, ma è un monaco, come i monaci sufi o gli altri monaci che lui possedeva nella sua tradizione, per quello lo ascolta. Noi siamo la terra dell’incontro di questa cosa. Se non siamo questo, non siamo niente. Per questo attenzione, certo, preferisco vivere a San Francisco che a Pechino, però non siamo in un momento di scontro tra Oriente e Occidente, anche perché, se no sarebbe impossibile che Francesco fosse esistito. Noi siamo la terra dell’incontro di queste grandi spiritualità, ce lo ha insegnato anche Don Giussani in tanti modi, però in questo momento in cui c’è la guerra, ed è una guerra a pezzi mondiale, come ha detto il Papa, bisogna che ci ricordiamo di qual è il nostro compito, di qual è il nostro ruolo, non è che abbiamo il ruolo di spettatori, anzi, abbiamo un ruolo importantissimo. In questo momento, insisto, in cui ci vogliono mettere contro Oriente e Occidente, noi siamo un’altra cosa. E dobbiamo ricordarcelo e farlo. E per fortuna Francesco, che sta simpatico a tutti, devo dire che in questi mesi di impegno per il suo ottavo centenario, che cadrà nel 2026, la cosa simpatica è che tu dici San Francesco e tutti sono contenti. In un momento in cui anche se dici “viva la mamma”, c’è qualcuno che si arrabbia e dice “no, ma devi dire mamma 1, mamma 2, genitori…”, in un momento in cui è tutto in discussione, San Francesco ti dà la possibilità di dire “oh, bello”, a tutti sta simpatico. Perché è anche una grande occasione di spiritualità, nel senso di almeno di alzare un po’ i cuori, di non tenere i cuori a terra in mezzo a troppe fatiche che ci ammalano. Ecco, però devo dire che questa è una grande occasione per tutti il fatto di avere una figura come questa, che mette in gioco queste cose così attuali pur essendo antichissimo e rimanendo nel suo mistero assoluto, intatto. L’altro giorno sono passato da Greccio mentre ero in viaggio per altre cose, guardate il corridoio di Greccio dove c’era la sua cella in fondo, basta guardare quello per capire che non esaurirai mai il mistero di quest’uomo.
Bardazzi. Prima di concludere il nostro incontro con la lettura del cantico da parte di Davide, vorrei fare un’ultima domanda ai nostri ospiti. Allora, la domanda per Padre Bormolini è questa, anche sulla scia di quello che ha detto Davide adesso, cioè che San Francesco accomuna il mondo, è veramente fratello universale, qual è la perenne attualità della sua ecologia integrale? A volte lo estrapoliamo in un aspetto o in un altro, ma qual è il fattore che unifica la potenza di San Francesco? Qual è il cuore di questa meravigliosa armonia con Dio, con la creatura e con l’uomo stesso?
Bormolini. La vita è abbastanza misteriosa. Infatti anche il fatto che il cantico concluda con perdono, umiltà, morte, ci fa capire tanto. Nella vita si rimane feriti, è inevitabile, e non si risolve il problema ignorandolo. Se vogliamo vivere questa esperienza integrale, dentro c’è anche finitudine e vulnerabilità. Lui l’ha vissuta, l’ha incarnata anche quella, perché è stato vulnerato, è stato ferito così come Cristo. La nostra è una civiltà che usiamo chiamare materialista, ma invece negli ultimi tempi sto riflettendo, è una civiltà iper-spiritualista, perché alla fine anche il consumismo è un modello religioso fondamentalmente, soltanto che tutto è spostato su altri piani. Infatti, il fatto di escludere vulnerabilità e finitudine, cioè che siamo mortali e soffriamo, invecchiamo, è di una civiltà iper-spiritualista che fa finta che non siamo questo. Guardate i modelli che vengono proposti alla Hollywood, no? Cioè, siamo eternamente giovani, eternamente felici, eternamente… Ecco, per cui l’incarnazione ci insegna qualcos’altro. La dobbiamo vivere fino in fondo questa vita, tutta. E se vogliamo cantare interamente il Cantico, bisogna lasciarci ferire dalla vita. In fin dei conti il cuore chiuso non canta. La ferita – si dice “labbra della ferita”, no? La ferita delle labbra – infatti il cuore di Cristo è ferito, ci parla, ci fa bere, si fa baciare. Ecco, questo è quello che dobbiamo fare, lasciarci ferire fino in fondo dalla vita per amore come ha fatto lui. Perché la vita è dono. Gli antropologi dicono – alcuni, purtroppo non seguiti da tutti – che siamo umani quando siamo donatori. Invece noi siamo arraffatori, quindi siamo disumani. E soltanto quando doni sei umano. E ci sono due cose importanti con cui conclude. L’iperdono, il perdono, nel perdono c’è l’iperdono, e la morte che è l’ultimo dono. Per cui per vivere integralmente tutto questo bisogna avere il coraggio di fare proprio questi passaggi. E mi piace molto quello che ha detto Davide sull’Essenziale. Cioè, grazie all’incarnazione, vedere il divino ovunque. Cioè che Lui c’è, non c’è qualcosa in cui Lui non c’è. Tutto canta, tutto canta. Canta anche quello che non ci saremmo immaginati, ma se noi cantiamo la nostra parte, allora capiamo anche che la morte è un canto, è l’ultimo nostro canto. Oppure che la morte è un bacio, come dice un midrash riferito a Mosè. Mosè è morto con le labbra di Dio appoggiate sulle sue, letteralmente si traduce così: bacio. Però dobbiamo aprire la bocca. Pensate quando uno bacia e trova una bocca chiusa. Scusate, spero che nessuno si sconvolga di questa cosa qua. Però è terribile, no? E noi rispondiamo con una bocca chiusa al bacio divino, che vorrebbe insufflare il suo respiro nel nostro per respirare insieme all’infinito. Allora tutto si trasformerebbe. Perché la parte più bella del giorno è il tramonto, quando il sole muore? Perché è il momento più bello del bosco è l’autunno quando il bosco muore? Perché? Le stelle le vediamo sopra la nostra testa e sono bellissime, ma perché è una stella che cade che ci fa fermare? Perché la bellezza ha anche finitudine, c’è qualcosa che cambia, non è staticità. Ratzinger diceva: “l’incontro con la bellezza può diventare il colpo del dardo che ferisce l’anima e in questo modo le apre gli occhi.” E questo è rivoluzionario. Aprire il cuore lasciandosi ferire dagli altri, dallo stare insieme, dall’essere incarnati, accettare questa incarnazione fino in fondo. E allora col cuore aperto cantare insieme a lui. Il cosmo si regge grazie al nostro canto che rispondiamo al suo. Gli ebrei dicono finché si pronuncia la Torah, il mondo sussiste. Noi potremmo dire: finché si canta, si risponde al suo canto, il mondo sussiste, il mondo è vivo. E allora rispondiamo a questo bacio, apriamo le nostre labbra, lasciamoci ferire dalla vita e capiremo che si può morire con le labbra sulle sue, cioè respirando con lui, perché nel bacio si fa questo, si respira insieme, il mio respiro entra nel respiro dell’altro. Pensate se l’ultimo dono che noi facciamo è donare il nostro respiro al suo, unirlo al suo. Allora, morte e vita si incontrerebbero, materia e spirito si abbraccerebbero, gli angeli si stupirebbero, perché si sono stupiti dell’incarnazione, non ci credevano, non capivano. Si stupirebbero e si meraviglierebbero della meraviglia dell’umano che grazie all’incarnazione entra in questo bacio divino. E allora la morte e la vita sono un bacio con l’infinito, un bacio infinito. Vale la pena vivere e morire.
Bardazzi. Davide, hai parlato della realtà come segno in Francesco. Aiutaci a approfondire la cultura del segno a cui il Cantico delle Creature ci introduce e l’importanza per l’oggi, l’importanza per noi oggi.
Rondoni. Intanto sono contento che il Meeting abbia trovato Bormolini come amico, grazie a questa piccola collaborazione, all’amicizia di Valentina e di altri, perché credo che abbia molto da raccontarci, quello che ha detto anche adesso. Noi siamo abituati a pensare che i segni sono dei simbolini funzionali, cioè spingi qui, succede quello; mentre invece come hanno capito sempre i grandi artisti, i grandi poeti – per questo l’arte è importante, perché l’arte è l’ambito del segno, il simbolo del segno, adesso non facciamo troppe distinzioni, però insomma… – mi hai detto che sei diventata nonna. Come si chiama? Ah Vittorio, nipotino di Letizia. Se io chiedo a Letizia quanto bene vuoi a tuo nipote? Non è che mi dice che voglio due chilometri di bene o 50 metri o 50 kg; mi dice infinitamente. C’è un piccolo problema, che né io e neanche il buon Vittorio, vedrà mai l’amore di Letizia. Non lo vede camminare per la strada, non lo può mettere in un vaso, non lo vede. Non esiste? O lo può conoscere attraverso i segni, perché lei sarà paziente, più della mamma a volte? Noi, pensate, le cose più importanti della vita non le vediamo, l’amicizia, l’amore, il dolore… non esistono? Non le misuriamo, non le possiamo misurare. E come le conosciamo allora? Attraverso i segni. I segni sono importanti perché da un lato non sono obbligatori, salvano sempre la libertà dell’uomo, dell’essere umano. Non si impongono. Le cose più importanti della vita, compreso Dio, non lo vediamo. Non si impone. Chiede di essere conosciuto attraverso dei segni e i segni hanno sempre una dose di ambiguità aumentata dall’opacità della nostra libertà. Perché un segno non è autoevidente. Però senza i segni non conosciamo le cose più importanti. Per questo io ce l’ho sempre avuta col povero Saint-Exupéry, grandissimo scrittore – “Il piccolo principe” – che dice una frase che viene citata ormai all’infinito: “l’essenziale è invisibile agli occhi”. No, l’essenziale è anche invisibile agli occhi, perché l’amore di Letizia per suo nipote è invisibile, ma se non ci fossero i segni visibili non lo potrebbe conoscere. Allora, la cultura del segno – che è questa idea che al significato delle cose più importanti, noi arriviamo attraverso la lettura dei segni, che ci fanno capire da un lato che queste cose non le possiamo misurare, quindi non sono nostre, ma che il rapporto che possiamo avere con queste cose dipende dalla nostra attenzione ai segni… Non solo “rosso di sera, bel tempo si spera”, ma i segni della vita. Tutti noi rimaniamo un po’ straniti quando vediamo quello che gli hanno ammazzato una famiglia intera di fianco al pianerottolo e dici: “ma è una brava persona”; brava persona? Non hai visto niente, non ti sei accorto di niente. E questo può valere con i tuoi figli, con i tuoi amici… La distrazione ci rende incapaci di leggere i segni e quindi di vedere le cose più importanti. La cultura del segno vuol dire questo. In Francesco era come l’aria, perché la civiltà medievale era completamente una cultura dei segni. Oggi abbiamo una cultura dei marchi, dei simboli. Uno vede il sorriso e pensa ad Amazon. Ma quello è un marchio, non è un segno. C’è una bella distinzione. Il segno invece non è un marchio. Se Letizia arriva a casa stasera e trova una rosa gialla sul tavolo, dice: “Ah, Marco, come mi vuole ancora bene!”. Poi dice: “però è gialla, cavolo, non è rossa. Non è che magari ha da farsi perdonare qualcosa?”. I segni sono da interpretare, non sono automatici. Allora, per farla breve, questo è molto importante che non ce lo dimentichiamo. Infatti, la vita, gli amici a cosa servono? A cercare di leggere i segni. Cosa chiedi a un tuo amico? Dei soldi, se ce li ha bene, ma cosa chiedi? Che ti aiuti a leggere i segni della vita. I veri amici sono quelli che ti aiutano a leggere i segni della vita, quando soprattutto sei un po’ confuso e non vedi i segni. E un amico con l’occhio un po’ più limpido, con un’esperienza un po’ più grande, può aiutarti a vedere i segni. E quello è il vero fondamento dell’amicizia. E torno a una cosa che diceva prima Guidalberto molto bene, non è un caso che questo cantico finisca la parte finale con “sorella morte”, come è stato detto. Sorella morte. Avete presente quel panfilo che è affondato a Palermo l’altro ieri? Due uomini tra i più ricchi del mondo sono morti come qualsiasi sfigato di immigrato che veniva dall’Africa. È un segno. Bisogna guardarli i segni. È un segno. Perché la morte è una livella, come diceva Totò. Ed è vero, se te lo dimentichi, qualcosa succede che te lo ricorda. Ma il Cantico delle Creature finisce con un passaggio vertiginoso, perché dice “laudato si’, mi’ Signore”, non dice per quelli che sono bravi, per quelli che sono perfetti, per quelli che non peccano mai, per quelli che sono intelligenti, ma “per quelli che perdonano per lo tuo amore”. Il perdono, se ci pensate, è l’atto più libero, gratuito e insensato, non lo fai perché c’hai un ritorno e non puoi essere obbligato a farlo. Oggi Pizzaballa diceva appunto che il perdono civile è difficile. Francesco si sta riferendo nel testo del Cantico a un perdono civile, non sta parlando appena di un perdono tra due privati. Lo spunto, poco prima di morire, gli deriva dal fatto che una delle ultime cose che aveva fatto era di aver fatto fare la pace a un conte e a un vescovo della zona. Da lì gli viene l’idea che il perdono, che è l’atto più libero – Montale avrebbe detto lo “sbaglio di natura”. In natura non c’è il perdono perché rompe la catena della necessità, il perdono. È un atto completamente libero. Pensate, questo oggi, in un momento in cui ci vogliono ridurre ad algoritmi o carciofi, cioè vogliono ridurre la natura umana a meccanismo o a biologicismo, Francesco dice: no, è la libertà. La natura umana è la libertà. È mettere in campo qualcosa che in natura non c’è. E questo è straordinario, oltre che, basta guardarsi intorno, abbastanza attuale – perché il perdono… senza perdono, non solo non va avanti neanche un fidanzamento, neanche una famiglia, ma non va avanti la storia. Cioè, la storia si incancrenisce in guerra senza perdono. E questo credo che sia uno dei grandi inviti che viene dal Cantico, cioè la cosa migliore che sai fare è quando perdoni.
Bardazzi. Davide, leggiamo?
Rondoni. «Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimu, se konfàno et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui; et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle: in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli che ‘l sosterrano in pace, ca da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare: guai a quelli che morrano ne le peccata mortali.
Beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male.
Laudate et benedicete mi’ Signore et ringratiate et serviateli cum grande humilitate.»
Bardazzi. “Nacque al mondo un sole”. Con queste parole, nella Divina Commedia, Dante Alighieri, il sommo poeta italiano, allude alla nascita di Francesco. San Francesco è così vivo da camminare accanto agli uomini anche dopo otto secoli. Il Cantico per Francesco è la sua testimonianza al mondo, è la sua anima in parole. Credo davvero che, grazie ai nostri ospiti, stasera siamo riusciti a vivere il Cantico delle Creature e cercare in noi quella sorgente di quel canto che ci guarisce da tutto e che rende la nostra semplice vita, il fatto di vivere, un’arte e un’irripetibile avventura. Quindi ringrazio di cuore i nostri ospiti davvero tantissimo. Grazie a Padre Bormolini, grazie a Davide Rondoni. Vi invitiamo a costruire il Meeting, a sostenerlo. La nostra vita è fatta per cose grandi e noi, come i cristiani del Medioevo, costruiamo le cattedrali e aiutiamoci veramente a sostenere il Meeting donando ai punti del “Dona ora”. Grazie a tutti e buona cena.