Chi siamo
“IL BUON GOVERNO” DI AMBROGIO LORENZETTI: QUANDO L’ARTE INSEGNA ALLA POLITICA
Partecipano: Roberto Calderoli, Ministro per la Semplificazione Normativa; Mariella Carlotti, Insegnante; Paolo Grossi, Giudice della Corte Costituzionale. Introduce Luca Antonini, Vice Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
LUCA ANTONINI:
Buonasera a tutti. L’incontro di questa sera è un incontro particolare perché rappresenta una sfida. Una Professoressa, un Giudice della Corte Costituzionale, un Ministro, che riflettono su un affresco del 1300. Se dovessimo usare dei canoni ordinari, dovremmo dire che sicuramente ci sta la professoressa, una professoressa del calibro di Mariella Carlotti, grande esperta di arte. Potremmo chiederci, invece, cosa c’entri un giudice e cosa c’entri un ministro. Ma noi non usiamo canoni ordinari, usiamo quelli straordinari che ci piacciono di più. Il titolo del Meeting parla del cuore che spinge a desiderare cose grandi: è in quest’ottica che è stato pensato questo incontro. Il Giudice è Paolo Grossi, maestro indiscusso di tanti di noi, il più grande storico di quest’epoca, colui che ci ha fatto conoscere il tesoro che era racchiuso dentro l’ordine giuridico medievale. Il suo testo è stato per noi un manuale fondamentale per entrare nel mondo del diritto, per darci la chiave d’ingresso dentro il diritto; l’ha rivalutato al punto di farci capire che c’è diritto e diritto, un diritto di cui ci si può entusiasmare e anche innamorare, come dice uno dei suoi ultimi libri. Paolo Grossi ci ha fatto conoscere il segreto del diritto: per questo gli siamo immensamente grati. Il Ministro è Roberto Calderoli, un altro amico del Meeting. Un ministro con il quale abbiamo condiviso tante battaglie e con il quale stiamo tentando di cambiare un sistema giuridico che presenta tante storture. La battaglia per il buon governo con lui non è retorica, ma sono ore e ore passate insieme, spesso senza cenare, a lavorare fino a notte fonda, a incontrare i politici, a trovare giuste mediazioni, a ricercare compromessi utili al bene comune. È storia vissuta.
Quest’incontro è una sfida, come dice il titolo stesso: quando l’arte insegna alla politica. Una sfida fatta a persone non a caso, perché il cuore, quello vero, è ragionevole, è una sfida fatta a persone che sono in grado di raccoglierla.
Sorprende – però bisogna aver guardato, studiato il libro e visto la mostra – la capacità di giudizio. Buon governo e mal governo. Oggi si fa fatica ad avere quella stessa capacità di giudizio che invece lì si vede raffigurata. Spesso su tanti temi ci si trova di fronte ad una incapacità di giudicare: anche nel lavoro di quest’anno, sul federalismo per esempio, abbiamo sentito tutto e il contrario di tutto, come se non ci fosse la possibilità di arrivare ad un giudizio oggettivo su cose che sembravano evidenti. Non credo che in tanti oggi saprebbero indicare con la stessa precisione di Lorenzetti i temi specifici che caratterizzano il buon governo, quali sono i valori che creano il bene comune, le allegorie, le immagini. I titoli con cui Lorenzetti identifica buon governo e mal governo non sono affatto scontati, pensiamoci quando sentiremo la presentazione della professoressa Carlotti. La cosa interessante è la capacità di giudizio che lì si vede in atto. Essa ha una origine, non è un caso, questo è il segreto di Lorenzetti, e la professoressa che ce lo presenta non è una professoressa qualunque.
MARIELLA CARLOTTI:
Ho scritto questo libro su input della Compagnia delle Opere che quest’anno ha messo a tema per i suoi soci il bene comune. Sono andata a cercare nella tradizione culturale italiana un esempio che documentasse il bene comune. Immediatamente ho pensato agli affreschi del Buon Governo, anche perché da tanto tempo desideravo studiarli. Questi affreschi nascono per decorare una sala che ospitava le riunioni di un governo, il Governo dei Nove, che guida Siena tra il 1287 e il 1355. Un governo che era fatto da nove persone elette ogni due mesi senza possibilità di rinnovo del mandato. Quindi era sostanzialmente una forma di governo che garantiva un ricambio e una partecipazione al potere di tutta la città. Questo governo, che è il governo che ancora oggi connota Siena, è il Governo che porta a termine il Duomo, è il Governo che realizza la Piazza del Campo, che ancora oggi ha nove spicchi. Questo Governo nel 1309 traduce in volgare la Costituzione di Siena. È il primo Governo al mondo che si dà una costituzione nella lingua del popolo. È il Governo che costruisce il Palazzo Pubblico di Siena, su le cui pareti vengono raccontati i principali momenti della storia di Siena e soprattutto viene affrescato quello che questa città si dava come valore, come scopo della convivenza civile. All’interno del Palazzo Pubblico ci sono due sale fondamentali, la sala del Consiglio Generale di Siena e la Sala del Governo, quella affrescata appunto da Lorenzetti. Nel parlare degli affreschi del Lorenzetti, preferisco partire dalla Maestà, perché questi affreschi del Lorenzetti spesso sono stati letti da certa cultura di sinistra anche in senso anticattolico, come se in questi affreschi ci fosse per la prima volta una pittura totalmente laica e un’immagine di socialità non riferita alla fede, ma a beni comuni condivisi, a valori comuni condivisi. Chi fa questa lettura deve fare tre operazioni abbastanza sporche. La prima: deve dimenticarsi che la sala attigua alla Sala dei Nove è la Sala del Mappamondo, su cui campeggia la Grande Maestà di Simone Martini. In questo dipinto, di circa settanta metri quadri di dimensione, al centro c’è Maria, Regina di Siena dalla Battaglia di Montaperti del 1260, che tiene in braccio il Bambino Gesù, che tiene un cartiglio, su cui c’è la frase con cui inizia il Libro della Sapienza: “Amate la giustizia voi che governate le terra”. Maria rivolge alla città, in qualità di regina della città, un discorso politico, in cui ringraziando i Santi che le offrono preghiere e gli angeli che le offrono fiori, lei richiama in terzina dantesca, usata per la prima volta fuori della Divina Commedia – e siamo nel 1315, quindi Dante è ancora vivo – i governanti di Siena, gli amministratori di Siena, chi sedeva nel Consiglio Generale della città, a due cose, che lei dice avere supremamente a cuore: il bene comune e la giustizia. Sono questi per lei i fondamenti della convivenza civile. Questi due temi sono ripresi da Ambrogio Lorenzetti nella Sala dei Nove, dove lui, con una complessa affrescatura, svolge questi due temi. Il primo modo con cui si dà una falsa interpretazione di questi affreschi è non tener presente il nesso con la Maestà. La seconda operazione sporca è nel nome, perché Affreschi del Buon Governo li ha chiamati l’Illuminismo: nel Medioevo erano gli Affreschi della Pace e della Guerra o gli Affreschi del Bene Comune, e indicare una cosa con un nome piuttosto che un altro è già un’interpretazione. La terza: su questi affreschi, Ambrogio Lorenzetti, forse intuendo la cattiveria dei tempi che sarebbero venuti, ha scritto una canzone di sessantadue versi in sei strofe che puntualmente descrive quello che lui va dipingendo, anche perché questi affreschi furono una ulteriore traduzione in immagini di quello che era stato scritto nella Costituzione. Su queste pareti ci sono queste sei strofe che commentano le sei parti dell’affresco e se non si leggono queste iscrizioni si può rischiare di dare interpretazioni non giuste di quello che Lorenzetti ha dipinto.
Vediamo cosa dicono questi affreschi. Innanzitutto, il primo affresco è quello sulla parete nord, dove Lorenzetti ha messo la sua firma, scrivendo: “Ambrogio Lorenzetti qui dipinse da ambo le parti”. Le parti della sala sono tre, e infatti lui si sta riferendo alla tematica. Tematicamente la sala è divisa – diciamolo come l’ha detto l’Illuminismo – in Buon Governo e Mal Governo, o Bene Comune e Bene Proprio, come io preferisco chiamarli. Su questa parete si comincia a leggere l’affresco dalla figura che campeggia sulla parte sinistra: è la Giustizia, rappresentata come una donna vestita di rosso sopra cui c’è la stessa frase con cui inizia la Maestà: “Amate la giustizia voi che governate la terra”. La Giustizia sta guardando oltre sé, sta guardando la Sapienza di Dio che ha in mano una bilancia: lei ha la bilancia, non la Giustizia. Sui due piatti della bilancia si vedono le due dimensioni fondamentali della giustizia: sul piatto a sinistra, la giustizia distributiva, quella che dà le pene ai rei e premia i giusti. Sul piatto a destra, l’altro aspetto della giustizia, quella che stabilisce le giuste regole per il commercio, e infatti c’è l’angelo che dà le unità di misura ai mercanti. Dai due piatti della bilancia scendono due corde che si annodano nella mano sinistra di questa bellissima donna che siede ai piedi della Giustizia. È la Concordia, a cui Lorenzetti dà un’interpretazione etimologica vera: l’unità dei cuori. È colei che mette insieme le corde, in senso proprio musicale, all’origine della sinfonia sociale. L’anno scorso avevamo portato all’attenzione del popolo del Meeting le formelle del campanile di Giotto: anche nelle formelle del campanile la politica è sotto la musica, perché il compito della politica dovrebbe essere quello di realizzare l’armonia sociale, traducendo così nei rapporti l’armonia dell’essere che è la musica. La corda che la Concordia ha nella mano – la Concordia è rappresentata con una pialla sulle ginocchia, perché il suo compito è quello di rimuovere le asperità sociali – passa nelle mani dei ventiquattro cittadini che si legano, che accettano di legarsi liberamente: questo è il popolo di Siena, questo è un popolo. Un popolo è un insieme di persone legate liberamente dalla concordia alla giustizia. E la corda che passa attraverso loro arriva nelle mani della figura che campeggia nella parte destra dell’affresco. Questa figura è chiaramente il Comune di Siena: è vestito di bianco e di nero, i colori della balzana senese, ha intorno alla testa quattro lettere, “CSCV”, Comune di Siena Città della Vergine, perché la Madonna è regina della città e per lei a Siena si fa tutto, dal Palio in giù. Essa ha lo scudo in cui è ancora leggibile lo stemma di Siena, che è la Vergine Maria col Bambino, circondata dalla frase: “Conservi la Vergine l’Antica Siena che lei stessa rende bella”. Ai piedi c’è la lupa con i gemelli Aschio e Senio, figli di Remo, scappati da Roma e ritenuti mitici fondatori di Siena. Quindi, questa figura è certamente il Comune di Siena. L’iscrizione, che commenta l’affresco che poi leggeremo, chiama questa figura Bene Comune. Qui scrivendo il libro mi ero arenata perché non capivo se questa figura fosse il comune di Siena o il bene comune.
È stata questa domanda che mi ha permesso di conoscere il professor Grossi, perché sono andata a trovarlo, anche perché siamo vicini di casa a Firenze, e ho posto a lui questa domanda. Sono rimasta molto colpita dalla risposta che lui mi ha dato, che ho sentito come chiave di lettura di tutta l’affrescatura di questa sala. Lui mi ha detto che questa era una domanda moderna. Perché per un uomo del Medioevo, per un uomo che credeva nel mistero dell’incarnazione, cioè che Dio si fosse fatto carne, non esisteva un valore se non in una forma; per questo il Bene Comune è il Comune. Mentre per noi moderni i valori sono idee astratte e le forme sono istituzioni burocratiche.
Questa figura, che è il Comune, ma che da qui in poi chiamerò Bene Comune, è sormontato da tre figure che sono le Virtù Teologali, Fede, Speranza e, al centro, la Carità, di cui la politica è la suprema attuazione. Accanto al Bene Comune siedono sei allegorie delle Virtù operative del bene comune: Giustizia, Temperanza, Fortezza e Prudenza, che sono le Virtù Cardinali, a cui Ambrogio Lorenzetti aggiunge un’altra figura che è la Magnanimità. Perché ci vuole grande magnanimità per desiderare il bene comune superando gli interessi meschini. La sesta figura che lui aggiunge è bellissima, sdraiata sulle armi che pure calpesta, al centro dell’affresco, perché è il cuore del desiderio del uomo: è la Pace. perfettamente equidistante da Giustizia e Bene Comune di cui è figlia. In un angolo dell’ affresco c’è un gruppo di delinquenti, legato perché questa è una città che funziona, una città in cui il popolo è liberamente legato nella concordia al bene comune e in cui chi invece cerca il male viene legato. Questo è riassunto nell’ iscrizione che c’è sotto: “Questa santa virtù (la giustizia) laddove regge induce ad unità gli animi molti e questi a ciò ricolti un bel comun per lor signor si fanno”. Il Bene Comune per governare il suo stato non deve distogliere lo sguardo dalle virtù che ha intorno. Se lo farà, nascerà uno stato a cui si pagheranno con gioia anche le tasse. Per questo con trionfo a lui si danno censi, tributi e signorie di terre e da questo stato nasce un mondo senza guerre, in pace, e un mondo dominato da ogni effetto buono. È il mondo che Lorenzetti dipinge sulla parete orientale della sala, la parete dove sorge il sole e si vede una città e una campagna. Qui voi vedete una città bellissima, ma non è una città ideale come quelle del Rinascimento, è una città reale. È proprio Siena: si vede in alto a sinistra il duomo di Siena, si vedono i palazzi come li voleva il Costituto del 1309, che prevedeva anche le regole per il decoro urbano e istituiva addirittura gli Ufficiali sopra le bellezze, cioè i vigili urbani della bellezza, che andavano in giro ad osservare che tutto fosse in ordine e fosse bello. In questa città, che ha tutti i tratti di Siena, si lavora in ogni angolo, è una città in crescita, dove i muratori stanno edificando e in ogni angolo della città si lavora; si vedono i mestieri legati alla tessitura, la bottega del commerciante di generi alimentari, la bottega del calzolaio dove non si lavora, un’aula universitaria. L’università esisteva a Siena fin dal secolo precedente, dal XIII secolo. È una città dove ci si sposa: c’è una donna vestita di rosso (il colore delle spose medievali) che va a nozze e dietro di lei si intravedono dei bambini e degli uomini che giocano. La festa di questa città è sintetizzata dalla danza in primo piano delle figure allegoriche, che forse sono anche un omaggio al Governo dei Nove, perché sono nove figure danzanti più un musicante. Questa armonia, questa vita dolce e riposata, come dice l’iscrizione, domina anche la campagna. Non stiamo parlando di cose che sono sopra le nuvole, perché la ricchezza di Siena è ancora legata al fatto che milioni di persone vengono a visitare questa città e passano le loro vacanze sulle colline senesi o nella maremma senese; la bellezza che è nata da questa concordia si è stampata sui campi e sui muri. Certo anche Dio ha fatto qualcosina, ma di più i senesi.
In questa campagna si distinguono facilmente tre fasce: la fascia dei paesaggi – si vedono tutti i paesaggi senesi. C’è il Chianti con le vigne e i castelli; le crete senesi, il massiccio dell’Amiata e la maremma sino al porto di Talamone, che era il porto da cui Siena aspettava quello che non venne mai. C’è la fascia mediana, la fascia delle attività produttive, e qui vediamo tanti particolari: si vedono i contadini che mietono o che trebbiano il grano; si vede l’allevamento degli animali o il lavoro nelle vigne. Nella fascia più bassa c’è la via Francigena che esce da Porta Romana e su questa via si vedono delle scene bellissime, come questa della famigliola che torna dalla città con la madre che sgrida i bambini o il ponte con il fiume e il mulino, oppure le persone che escono dalla città per andare a caccia, mentre alcuni cacciano già con le balestre in mezzo alla vigna. Su tutto questo mondo domina una figura, una bellissima figura alata, uno dei primi nudi della pittura medioevale, che è la Securitas, la Sicurezza, che tiene in mano un impiccato e un cartiglio. Sul cartiglio c’è l’ultimo frutto di questo mondo dominato dal bene comune: una vita senza paura. Nel cartiglio è scritto: “Senza paura ogn’om franco cammini e lavorando semini ciascuno mentre che tal comune manterrà questa donna (la sicurezza) in signoria che ha levato ai rei ogni balia”. È un mondo bellissimo, su questa parete orientale, dove sorge il sole, c’è una porta. Da questa porta si vede sullo sfondo la parete orientale della sala attigua con la Maestà di Simone Martini: la bellezza di questa città è l’anticipo sulla terra del destino di felicità che ci attende, cioè il Paradiso.
Molto diverso è quello che c’è nella parete opposta. La parete dove muore il sole, la parete occidentale. Qui troviamo l’allegoria del Bene Proprio, che è il contrario del Bene Comune, come lo chiama nell’iscrizione Ambrogio Lorenzetti. Vediamo che cosa c’è in questa allegoria del Bene Proprio. Mentre in quella del Bene Comune la Giustizia legava nella concordia i cittadini, qui la Giustizia è un personaggio femminile, legato e piangente tra i due piatti della bilancia spezzati: non c’è più popolo, ci sono dei ragazzini che prendono in giro la Giustizia, come dice l’iscrizione: “laddove sta legata la iustitia nessuno al ben comun giammai s’accorda”. Quando la Giustizia è legata, nessuno è teso al Bene Comune e allora nasce l’istituzione opposta al comune. Come dal bene nasce il comune, dal Bene Proprio, che non è il proprio bene, nasce la tirannide. Qui mi piacerebbe sentire anche il professor Grossi, ma la tirannide non è necessariamente una dittatura violenta. Dante dice nella Divina Commedia che i nostri comuni sono pieni di tiranni. La tirannia è laddove il potere è usato per il Bene Proprio, cioè la politica è usata per la politica e non per il bene comune. Questa è la tirannia di cui erano piene anche le città del Trecento. Sopra la Tirannia sono le sue tre attitudini peccaminose: Avarizia, Superbia e Vana Gloria e intorno a lei siedono sei vizi operativi. I suoi sei vizi operativi sono, da sinistra: Crudeltà, Inganno, Frode, Collera, Divisione e, ultima, la figura nera, la Guerra. La Tirannide ha un pugnale in mano e nell’altra ha una coppa sporca di sangue. Il metodo è la violenza e lo scopo è la ricchezza a qualsiasi costo. Quando la politica non è carità, non è un’applicazione della carità, non può soddisfare l’animo perché l’uomo non è fatto per star bene, è fatto per voler bene e quando non vuol bene, sta male. Allora deve compensare questo potere con un’altra cosa che è sempre l’amica dei tiranni. Questa tirannide poggia i suoi piedi su una brutta bestia: è la Lussuria, che è la grande compensatrice dell’uomo che vive la politica non come carità. Dalla Tirannide nascono degli effetti sulla città e sulla campagna, perché, dice l’iscrizione, dov’è tirannia: “è gran sospetto, guerre, rapine, tradimenti e inganni…”. Infatti si vede una città desolata dove tutto cade a pezzi e dove l’unico che lavora è l’armaiolo, colui che forgia le armi. Dove le donne sono vestite di rosso ma per essere violentate, rapite e violentate, e dove l’uomo giace assassinato. Da questa città escono solo soldati che devastano la campagna e su tutto domina la figura tetra che è l’opposto della sicurezza: la Paura, che tiene un cartiglio su cui si legge: “per volere il bene proprio in questa terra, sommessa è la giustizia a tirannia onde per questa via non passa alcun senza dubbio di morte”. Si ruba ovunque fuori e dentro delle porte e questo è il mondo che nasce dal Bene Proprio.
Carrón, all’assemblea nazionale della CdO, a novembre, ha definito l’individualismo come il bene proprio, e ne ha indicato l’effetto nell’ “homo homini lupus”. Non è andato molto lontano da Lorenzetti. Quando abbiamo pensato alla mostra del Meeting, e anche quando stavo pensando il libro, avevo un magone di finire il libro così. Pensavo che un libro così avesse due grandi limiti. Primo: metteva alla gogna i politici, mentre il problema è più vasto, è il problema del popolo. Perché, come diceva Churchill, in un paese democratico in Parlamento siedono, per un 10% gli uomini migliori del paese, per un 10% i peggiori delinquenti del paese, ma per l’80% siedono gli uomini che sono come il paese, perciò il problema non è solo dei politici, il problema è di tutti noi, è della nostra responsabilità personale. La seconda preoccupazione che avevo era che non volevo fare una mostra e un libro che alimentassero il moralismo, perché di questo non ce n’è veramente bisogno. Basta già Repubblica! Mentre raccontavo questo mio cruccio ad un amico senese, mi ha detto (eravamo dentro la Sala dei Nove): “non capisco bene la tua preoccupazione”. Gli risposi che la mia preoccupazione era capire in quale parte dell’animo umano, in quale parte di me, nascesse questa tensione al bene comune. In che modo io posso collaborare alla bellezza di questa città e non al suo sfascio? Son rimasta colpita che questo mio amico mi ha detto che mi avrebbe portato a vedere una cosa e andando, mi avrebbe raccontato una storia. È la storia che ho messo alla fine del libro e che abbiamo messo alla fine della mostra. La storia è questa. A Siena, fino alla Seconda Guerra Mondiale, nella Basilica dell’Osservanza, c’era un bellissimo crocifisso ligneo dipinto, trecentesco, che pendeva sopra l’altare, di cui si ignorava l’autore e la data. Il 23 gennaio del ’44 gli americani bombardarono Siena e le bombe risparmiarono la città dentro le mura ma bombardarono pesantemente la periferia, dove c’è la Basilica dell’Osservanza. Alcune bombe caddero su questa basilica e la ridussero in macerie. Il crocefisso che era dentro questa chiesa andò perduto. Il giorno dopo, un frate si avventurò fra le macerie e con grande sorpresa trovò tra le macerie della chiesa la testa di questo crocifisso, una testa bellissima che potete vedere al padiglione 5. Raccolse questa testa che gli si aprì tra le mani: dentro era cava e dentro c’era una pergamena con su una preghiera. In questa preghiera c’era il nome dell’artista che aveva fatto il crocifisso, Lando di Pietro, grande architetto e orafo della Siena del Trecento. C’è scritta anche la data: gennaio 1337, lo stesso anno in cui Ambrogio Lorenzetti dipingeva gli affreschi del Buon Governo. Soprattutto in questo cartiglio c’è scritta una preghiera bellissima, in cui Lando affida a Cristo, alla Madonna e ai Santi, dopo aver chiesto per lui misericordia, il suo destino, quello di sua moglie e dei suoi figli e quello di tutta l’umana generazione. Quando ho visto questo crocifisso con questo cartiglio, ho pensato che volevo finire il libro così. Questo manufatto appartiene allo stesso momento degli affreschi di Ambrogio Lorenzetti: la bellezza della città che il Governo dei Nove ha costruito realmente e che Ambrogio Lorenzetti ha dipinto sulle pareti della Sala dei Nove, aveva una radice, e questa radice era un uomo, degli uomini, che nascondevano ciò che amavano, che nascondevano questo loro dialogo con Dio in quel che facevano. Che dentro a quello che facevano nascondevano, per dirla con il Meeting, il desiderio di cose grandi. È da questi uomini che è nata Siena: credo che anche da questi uomini sia nato il Meeting e la Compagnia delle Opere.
PAOLO GROSSI:
Sono lietissimo d’essere qui stasera, non solo perché si tratta del Meeting – io sono un fedele ammiratore e partecipe dei lavori di questa straordinaria iniziativa riminese – ma perché si parla di un libro straordinario. Quindi sono grato all’amico Luca Antonini di avermi coinvolto, dopo che la stessa autrice, durante la gestazione del libro, insieme all’amico Andrea Simoncini, era venuta a chiedermi qualche piccolo parere di cui non aveva bisogno ma che con umiltà veniva a domandarmi. Permettetemi, prima di esporvi da giurista quale sono, in quale modo io mi inserisca nella valutazione di questo libro, che dica qualcosa del pregio di questa pubblicazione, che è bellissima anche sul piano tipografico.
È un libro di storia dell’arte? Certo, è un libro di storia delle arti plastiche, perché si parla di un pittore, di un grande pittore, di un personaggio che disegna e colora. Ma il grande pregio di Mariella Carlotti è che dai segni di un’arte plastica, è riuscita a scavare ciò che ci sta dietro. Dietro c’è un pittore straordinario come Ambrogio Lorenzetti, che è un uomo di straordinaria cultura, e c’è un’intera società civile, la società civile della Siena della prima metà del Trecento, con tutte le dimensioni – la sociale, la politica, l’economica, la giuridica – chiamate in ballo. La pittura è assunta da Mariella Carlotti quasi come un prisma in cui si possano rifrangere fedelmente tutte queste dimensioni. Questo è un pregio grande: non è un libro di storia dell’arte, ma un libro di storia tout court, un libro di storia d’una civiltà. Questo è un pregio che fa di questo libro un qualcosa di unico. Qualcuno avrà detto: perché un giurista come Grossi deve parlare di questo libro di storia dell’arte? Il motivo è proprio qui: perché il diritto è al cuore di questa civiltà senese della prima metà del Trecento. E non fasciatevi la testa per favore – lo diremo tra breve – su come noi abbiamo alterato il diritto e la scienza giuridica durante la modernità, quella modernità che grazie a Dio sta già alle nostre spalle. Viviamo già in un momento che non esito a chiamare post-moderno e in cui cerchiamo di costruire qualcosa di nuovo. Ma durante quella modernità segnata dall’Illuminismo, dalla Rivoluzione Francese, dal legalismo dei codici, noi abbiamo alterato l’immagine del diritto, un diritto come comando, come volontà di un superiore, di un titolare, di un depositario del potere che si proietta su una massa inerte di destinatari. Ed ecco che il diritto suona sgradevole, suona in qualche modo violenza, anche se violenza legale.
Ebbene, in quella Siena, in questa grande civiltà dell’intera Europa medievale – lo diremo tra breve e io spero con assoluta brevità – noi abbiamo un’altra immagine, molto diversa, del diritto. Siena, prima metà del Trecento, Governo dei Nove: un momento di grande splendore della città-stato. La città-stato che si dà una grande norma, il Costituto del 1309, dove fra l’altro si dice che chi governa deve curare massimamente la bellezza della città; questo culto della bellezza diventa oggetto del legislatore senese. È quella Siena – l’ha già detto Mariella ma mi preme di ribadirlo – che nel 1260 proclama Maria Santissima Regina della città, e da allora Siena è la città della Vergine. In questo palazzo comunale le due sale a cui faceva riferimento Mariella – la Sala del Mappamondo e la Sala dei Nove – vedono congiunte insieme: da una parte la Maestà di Simone Martini – la Vergine accanto ai suoi Santi – e dall’altra l’affresco di Ambrogio Lorenzetti, che concerne le temporalità, lo svolgersi storico della vita della città-stato senese. Non dobbiamo vederle disgiunte. Ecco la mia risposta a cui Mariella si riferiva: questo Medioevo è una civiltà integrale, dove non si ha un cittadino distinto dal fedele, sono due dimensioni che convivono, che debbono convivere in una stessa persona. Se Siena è una città fervida di commerci, di un artigianato straordinario, è città dove si studia, dove c’è già una università egregia, dove si fanno mirabili opere d’arte, è anche una città percorsa dal senso del sacro, da un preciso senso del sacro. Quando io insegnavo nell’università di Firenze storia del diritto e mi capitava di accennare alla civiltà medievale, io dicevo ai miei allievi: “Guardate, le case della civiltà medievale sono tutte case senza tetto”, intendendo dire che queste case erano sì piantate bene sulla terra naturalmente, e costruite con solidità – tant’è vero che reggono ancora – ma erano proiettate verso l’alto. Cioè, cielo e terra nella civiltà medievale si toccano. L’affresco di Ambrogio Lorenzetti testimonia proprio questo: parla di diritto, parla di giustizia, parla di politica, parla di società civile, di economia in una straordinaria sintesi pittorica. Accanto al governo, al comune, sulla destra c’è la Giustizia. Insisto su un carattere specifico che è tipicamente medievale: al di sopra della Giustizia c’è la Sapienza. Perché? Perché il mondo medievale ebbe un culto parossistico della sapienza e del sapiente. Perché? Perché il sapiente, nella visione medievale, è un illuminatore. Perché è un illuminatore? Perché egli stesso è un illuminato. La Sapienza è giustamente al di sopra della Giustizia, a mezzo tra cielo e terra; è quasi una comunicazione di quella Sapienza che è Dio stesso, quella comunicazione di cui gli uomini hanno bisogno. Dio illumina la terra attraverso questo grande strumento della scienza, della sapienza. E il sapiente allora – voi capite – è un mediatore, è un tramite fra cielo e terra. “Scientia qua totus illuminatur mundus”: la scienza da cui è illuminato tutto il mondo. C’è questa dialettica forte di cui gli affreschi di Ambrogio sono testimonianza: divino – umano, eterno – temporale. Anche dal punto di vista giuridico il diritto medievale assorbe questo grande messaggio. Il diritto medievale è soprattutto sapienza; è un diritto fatto da sapienti, da lettori della natura, della storia, interpreti. Quanta differenza con il diritto moderno cui accennavo poco fa! Il diritto moderno, dicevo, è comando: la legge è volontà, è espressione della volontà di colui che è titolare del supremo potere, cioè del potere politico. La legge è una volontà indiscussa e indiscutibile, è un segno di superiorità, di potere; il diritto assume una veste potestativa, che deve suonare sgradevole sulla pelle dell’uomo della strada. Mai come nella modernità – e per modernità, preciso, intendo quei secoli che vanno dal Quattrocento a tutto il secolo XIX, a tutto l’Ottocento – si ha avuto un legame così necessario, così vincolante tra potere politico e diritto, alterando la natura del diritto. Perché? Perché il diritto è una realtà radicale, che è alle radici della società. Il diritto è al cuore di una civiltà storica, è al cuore di una società civile, esprime la società civile, non la violenta, non la condiziona come in una sorta di corazza legale, ma la esprime. Perché il diritto quello vero – e il Medioevo l’ha intuito, l’ha percepito perfettamente – è scritto nella natura delle cose, nella storia, ma è scritto anche nel cuore dell’uomo, perché è nel cuore dell’uomo che sta la parte più eletta del diritto, il diritto naturale, quel diritto che ci impone di non uccidere, di onorare il padre e la madre, e così via. Dicono i medievali: il diritto naturale è quel diritto “quod in corde hominum a Deo inscrivitur”, che Dio stesso ha scritto nel cuore di ciascuno di noi; non nella volontà del titolare del potere, ma nella generosità della divinità che lo scrive nella natura, lo scrive nella società e lo inscrive nel nostro “interior homo”. in modo che ciascuno di noi abbia gli strumenti per garantire la navigazione retta della sua barca.
Allora il diritto non è nella testa del principe o nella testa del tiranno. Il tiranno è quel principe che non governa bene la sua volontà, non la indirizza al bene comune – l’ha detto giustamente Mariella – ma fa ciò che gli preme, fa ciò che gli piace secondo dei criteri di arbitrio. E la legge che proviene da lui non può che essere una farsa di legge, un qualcosa di tragico dal punto di vista giuridico. Il diritto è un qualcosa che il principe medievale è chiamato a leggere, perché è già scritto, è già scritto nella natura, nel cosmo, che è un ordine, un grande ordine voluto da Dio; è scritto nella stessa storia, nella tradizione dei popoli. È scritto anche nel cuore dell’uomo che sa discernere il bene dal male. Io parlavo ai miei studenti con una frase un po’ difficile: “onticità” del diritto. Un frasario filosofico che non voleva essere uno sfoggio, ma che voleva dire: il diritto è qualcosa di ontico, cioè di essenziale, esiste al di sotto di una civiltà, non è inventato dal potere politico, non è un artificio, non è una violenza. Io radunavo certi allievi carissimi della Università Statale di Milano e dicevo loro: “Il diritto, amici, è coerente con la natura delle cose, la esprime; il diritto non è un artificio, non è una violenza fatta alla storia; onticità vuol dir questo. È violenza il diritto del tiranno, che è uno pseudo-diritto”. La legge razziale del 1938 nella sua aberrazione fondata sullo pseudo-valore di una razza intesa come dato biologico che separa gli uomini, negando la fraternità fra personaggi di pretese razze diverse, quella è tirannide, è un non diritto, è un qualcosa che può non essere obbedito; anzi, dico che deve essere disobbedito.
Andrea Simoncini ha la bontà nelle sue pagine di ricordare certe mie lezioni – lui era un mio allievo carissimo e bravissimo nella facoltà giuridica fiorentina – e ricordava quando io insistevo nel leggere e commentare una grande definizione di quello straordinario speculator, di quello straordinario filosofo, che fu Tommaso d’Aquino – e siamo alla fine del Duecento, Tommaso muore nel 1274. Come definisce la legge Tommaso d’Aquino? La definisce in un modo brevissimo, semplicissimo ma che tocca il punto centrale del problema: rationis ordinatio. Ordinatio: è un ordinamento; rationis: operato dalla ragione. Pensate, non è un atto di volontà del principe, cioè dell’investito del potere; è un atto razionale, un atto di conoscenza. Quel principe deve fare una lezione d’umiltà, deve leggere – lo dicevamo poco fa – la natura delle cose, la tradizione di un popolo, la storia di un popolo; è lì dove lui può trovare già confezionato il diritto. Deve essere lettore e rispettoso lettore. Ordinatio: il diritto non è comando, è ordinamento, è il salvataggio della società civile che auto-ordinandosi si salva, si salva dalla rissa perpetua. Visione oggettiva, assolutamente oggettiva del diritto, dove non c’è nulla di potestativo. Tommaso aggiunge: ordinamento della ragione “ad bonum commune”, rivolto al bene comune. È quasi superflua quell’aggiunta, perché se la lettura è veramente oggettiva, se quel diritto che poi si trasfonde nella legge, cioè nell’atto normativo del titolare del potere, è già all’interno della natura delle cose, nella tradizione di un popolo ed è estratto da lì, è ovvio che quello non può essere che un qualcosa di fecondo per l’intera società civile. La posizione moderna è, invece, volontaristica: la legge è volontà, una volontà che pretende obbedienza. Diversissima la legge di Tommaso che nel tardo Duecento fissa in queste parole emblematiche: ordinamento della ragione. Voi vedete che questo diritto medievale è all’interno della società civile; e il Costituto senese, pregevolissimo atto normativo proprio del comune del momento dei Nove, è una lettura, non qualcosa che piove sulla povera testa dei cittadini che sono solo dei destinatari passivi, ma c’è una comunità che è coinvolta interamente nella produzione di quel grande salvataggio che è appunto il diritto.
Tutto questo viene espresso mirabilmente nell’affresco di Ambrogio che sapeva di diritto, sicuramente, che era osservatore attento non solo dei suoi colori, dei suoi segni, ma di ciò che avveniva nella Siena che lo ospitava. Ottimo il quadro che ce ne dà Mariella in questa magnifica pubblicazione, perché sa individuare come da questa opera pittorica il giurista, l’economista, il sociologo, il politologo possano trarre delle conclusioni eccellenti. Quindi un grazie a Mariella per tutto quello che ha fatto e grazie agli organizzatori, primo fra tutti Luca Antonini, per aver dato un giusto rilievo a questa presentazione di oggi. Grazie.
LUCA ANTONINI:
Roberto Calderoli.
ROBERTO CALDEROLI:
Grazie Luca. Devo dire che quando l’amico Luca e gli amici del Meeting mi hanno invitato e mi hanno detto il titolo del tema della serata, francamente credevo di non c’entrare niente. Ho pensato che dovevano chiamare Bondi per fare un commento rispetto agli affreschi o sullo stupendo volume della professoressa Carlotti.
Dopo avere letto il libro, ho dovuto ammettere che gli amici del Meeting avevano visto più lungo di me e il Buon Governo e il Mal Governo e i loro effetti potrebbero essere i titoli di un testo di riforma istituzionale, oppure punti di un programma elettorale di una forza politica. E condividendo io con il ministro Bossi la delega sulle riforme, sono parte in causa di questo piano di riforme dei programmi elettorali. È chiaro che io dovrò trarre un po’ di spunti per portare quello che è questo affresco del Lorenzetti ai giorni d’oggi e trarne spunto rispetto a quello che deve essere cambiato e come essere cambiato.
La prima cosa che ho rilevato è lo strumento che è stato utilizzato: utilizzare la bellezza per parlare di bene, di bene di tutti, di bene comune. Qui abbiamo un’immagine di Siena, di una pòlis, quindi di un’attività politica, un’attività politica bella, che non posso non confrontare con la politica brutta che stiamo vivendo noi in questo periodo. Io credo che se da una parte abbiamo avuto e visto gli spunti di una politica con la “p” maiuscola, noi oggi non abbiamo la “p” minuscola, forse è scomparsa addirittura la “p”, soprattutto in questo mese. In questo periodo estivo non si poteva arrivare ad un livello più basso di politica e di comunicazione della politica. Veramente si ha l’impressione che la politica viva nel palazzo, che abbia staccato completamente il contatto dalla realtà, e dagli scontri all’interno della maggioranza e tra maggioranza e opposizione mi sembra che tutto sia fatto meno che pensare a quel bene di tutti, al bene comune che è il titolo del testo della professoressa. È incomprensibile, stucchevole vedere una forma di auto-cannibalismo all’interno della maggioranza, dove un giorno ci sono i finiani contro i berlusconiani, un giorno i berlusconiani contro i finiani; un giorno le escort – e non sto parlando del vecchio modello della Ford; un giorno ci sono gli appartamenti; un giorno c’è la maggioranza e opposizione l’un contro l’altro, armati al posto di fare delle proposte. Purtroppo anche la comunicazione ha seguito questo filone e alcuni di quelli che dovrebbero essere i quotidiani che ci riportano i fatti sono diventati come una puntata di una telenovela rispetto a delle cose che francamente hanno stancato. Siamo arrivati a veder coinvolto anche un giornale che fa riferimento al mondo cattolico, che al posto di occuparsi di fede si occupa costantemente di politica e di una parte di questa politica. E proprio dal Meeting di Rimini una persona, che solitamente non è mai stata additata come una persona troppo moderata come il sottoscritto, manda proprio un appello a tutti i leader politici: facciamo tutti un passo indietro e facciamo un salto più alto per fare una politica di livello più elevato. Mi farò dare qualche copia di questo libro e le porterò personalmente a ciascuno di loro, perché voglio rivolgere l’appello agli alleati della maggioranza: fate un passo indietro e fermiamoci tutti, cioè chi ha dato, ha dato, chi ha avuto, ha avuto; ve le siete dati, ve le siete tornati, uno a uno. Ora palla al centro, si inizia la partita, non tirando nelle reciproche reti, la rete contro cui tirare è quella della crisi, quella di chi vuole affossare il governo, di chi spinge verso un governo non eletto dal popolo. Ma per l’amor del cielo, facciamo un passo indietro. Noi abbiamo saputo farlo l’altro giorno; per tutto il mese di agosto il ministro Bossi ha parlato di elezioni in maniera molto franca, molto aperta. Forse qualcuno sta scherzando col fuoco, ma quando c’è un venir meno della maggioranza, dietro la porta può esservi una elezione anticipata, e quindi sappiamo con che cosa stiamo giocando e stiamo giocando in un momento di crisi del Paese. Quindi, fare un passo indietro rispetto all’andare alle elezioni anticipate è stato un gesto di responsabilità; probabilmente quelli che avrebbero più avuto da guadagnarne, visti i sondaggi che circolano, saremmo stati noi, ma c’era di mezzo qualcosa che è diverso dal bene di un partito, dal bene di un singolo, dal bene proprio: c’è di mezzo il bene comune, tutti dobbiamo pensare anche a quello e metterlo innanzi a tutto. Questo appello lo faccio alle forze politiche di maggioranza, di opposizione. Mi appello ai quotidiani, che la piantino con le telenovele e la piantino di mettere per quarantacinque giorni in prima pagina lo stesso fatto. Se poi coinvolgi in questa che dovrebbe essere dialettica politica anche la famiglia, i figli, credo che tu veramente non sia più degno della parola informazione, perché la famiglia va sempre lasciata fuori da queste diatribe, brutte, belle, buone, sbagliate; la famiglia esce dalla logica politica e non deve essere uno strumento di contrapposizione politica. All’amico Sciortino invece, devo dire, di tornare a pensare alla Chiesa e alla fede religiosa, perché se continua a fare il direttore così, di sicuro in Paradiso non ci va, perché non è un bel giornalismo quello che lui in questo periodo sta facendo. E credo che il miglior messaggio che deve arrivare è il titolo che è stato trovato per questo Meeting: “Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore”. Se non ci metti il cuore anche nella politica, l’interesse di tutti non lo fa proprio nessuno, ciascuno pensa agli interessi propri e allora si arriva alla tirannide, non al buon governo.
L’altro spunto molto interessante che ho visto è la volontà di chiarezza, di comunicazione da parte dei Nove. È veramente formidabile il passaggio laddove c’è la Rubrica, il Costituto di Siena che gli fa scrivere le spese del comune di Siena, uno statuto del comune in volgare, con lettera grossa, ben leggibile, ben formata e in buone carte pecorine. Proprio come fosse la legislazione che ci accompagna. È musica per le mie orecchie, perché io ho la delega alla semplificazione normativa e quando vedo la possibilità, attraverso un linguaggio semplice e chiaro, di poter comunicare al popolo… devo ammettere che negli ultimi centocinquant’anni si è fatto il contrario di quello che facevano nel Trecento i governatori di Siena. Quando mi son seduto all’inizio del mio mandato mi era stato detto che c’erano ventiquattromila leggi da aggiustare da un punto di vista numerico e da un punto da vista qualitativo. Ho detto che non sarebbe stato un impegno troppo gravoso. Quando mi sono messo a cercarle, ne ho trovate trecentottantacinquemila. Il fatto stesso che nessuno conoscesse il numero delle leggi che erano ancora in vigore, la dice lunga sulla possibilità della conoscenza della materia. Mi è stata attribuita una volontà un po’ forte. Mi avevano detto che io ero come chirurgo, che avrei potuto usare il bisturi e le forbici. Con trecentottantacinquemila leggi inutili ho preso la sega circolare e ne ho abolite trecentosettantacinquemila. Purtroppo una legge non rappresenta solo qualcosa che può essere un vincolo, un laccio, un lacciolo; ciascuna delle leggi che abbiamo abolito costava duemiladuecentocinquanta euro all’anno per essere mantenuta. Provate a moltiplicare duemiladuecentocinquanta euro per trecentottantacinquemila, e vedete cos’era la spesa solo dell’aspetto formale del mantenimento. Poi dopo, tutto è ridotto, perché se in Italia ci sono più di duecentoventimila avvocati, un motivo forse c’è. Mi spiace se c’è qualche avvocato presente. Però, nel Lazio ci sono più avvocati che in tutta la Francia; evidentemente forse o sono troppi gli avvocati, o sono troppe le leggi. Non potendo sopprimere gli avvocati, sono partito dalle leggi e sono arrivato a portarne diecimila. Oggi abbiamo la certezza che le nostre leggi in vigore sono diecimila. Però c’è un altro aspetto che non avevo mai compreso, che nel Codice Penale si dice: “Ignorantia iuris non excusat”. Quindi volgarmente tradotto, la legge non ammette l’ignoranza della legge. Ma come diavolo può fare un poveretto a conoscere le leggi se non esiste un sito dove poterle verificare? Come diavolo fa una persona ad avere in casa tutte le copie delle gazzette ufficiali per sapere quali sono tutte le leggi in vigore? Come fa a conoscere la legge, se la legge ha dei continui rinvii ad altre leggi, per cui è impossibile leggerle? Qui abbiamo lo strumento più comunicativo di tutti i tempi, la pittura; noi abbiamo usato lo strumento più comunicativo di oggi, Internet. Abbiamo creato un sito che si chiama “normativa.it”, dove finalmente quelle diecimila leggi sono consultabili in maniera gratuita; e inoltre in multivigenza, cioè non solo con tutti quelli che sono stati gli aggiornamenti nel corso dei tempi, ma essendovi già riportati i vari rinvii alle altre leggi, uno finalmente può leggersi la legge così come esce dopo tutti gli interventi nel corso del tempo. Fino ad oggi non esisteva un sito informatico, per cui noi abbiamo dovuto utilizzare tutto il materiale cartaceo. Oggi questo sito c’è, in passato era solo ad opera di privati – fra l’altro quello più rappresentativo non è neppure in mano agli italiani, ma è una società straniera che lo gestisce. E credo che l’aver stabilito finalmente quali sono le leggi e aver dato la possibilità di consultarle gratuitamente sia un primo passo per andare verso il buon governo. Ricordo una frase di Einaudi del ’49 che diceva: “Tutto ciò che non serve può essere dannoso”. La condivido completamente; cioè i vincoli e i laccioli, le leggi inutili, obsolete o addirittura che dicono tutto e il contrario di tutto, rappresentano un esempio di mal governo, cioè di uno Stato che sovrasta il cittadino e il cittadino è un suddito e non è più un cittadino. È assolutamente necessario che non ci sia quello che mirabilmente è rappresentato con quel mal governo dove la Giustizia è legata, dove il popolo manca. Oppure la presenza dei vizi capitali che ci fa vedere una tirannide, non solo quella che cala dall’alto, ma anche quella che dipende dalla società; la lupa, i vizi capitali, la bramosia, gli interessi individuali formano quella cattiva società che poi dopo richiede o obbliga la creazione di una tirannide. E quando penso a una brutta società sono talmente tante le similitudini che pensi, che davvero questi rischi possono essere concreti. Io sono rimasto molto colpito da un fatto: un turista è stato assassinato da un camionista che gli è passato sopra perché avevano un contenzioso per uno specchietto della macchina. Se si arriva ad aver un tal disprezzo rispetto al diritto alla vita e al non rispetto per qualunque altro soggetto, ci troviamo di fronte ad una società che deve far temere. Il richiamo, il ritorno a un buon governo e il ritorno al bene di tutti è una cosa assolutamente obbligatoria e deve essere uno spunto per la parte positiva del buon governo. lo diceva ancora mi sembra il professor Simoncini: non c’è un divieto di sosta nel buon governo, c’è l’uomo al centro del buon governo, c’è l’operosità, la libera iniziativa nella città, nella periferia. Questo può essere uno spunto rispetto a una iniziativa a cui ho concorso e lavorato, insieme al professor Antonini, rispetto alla libertà d’impresa, l’impresa privata, per cui stiamo affrontando una modifica dell’articolo 41 della Costituzione, che inverte il principio di oggi dove oggi tutto è vietato tranne quello che è consentito, in tutto è consentito tranne quello che è vietato dalla legge e che può esistere solo quando questo è contro il bene comune. Unito, poi, ad un rafforzamento della sussidiarietà: la sussidiarietà che c’è sempre stata, è sempre cresciuta, però ha avuto sempre un atteggiamento da parte del pubblico, dello Stato non di leale competizione ma quasi di sopportazione; invece deve diventare, soprattutto in un periodo di crisi, lo strumento da privilegiare. Quando è in crisi, lo Stato non riesce a garantire determinati servizi; è evidente che il livello più basso deve farli prima e meglio perché oggi è nelle condizioni di poterlo fare; ma se non lo scrivi nella Costituzione, la sussidiarietà resta al livello di Meeting di Rimini, delle tante opere, delle meritevoli iniziative da parte di tante persone di buone volontà, ma è solo tollerata, mentre deve essere una cosa che viene privilegiata rispetto al pubblico, perché in tanti settori il pubblico ha risposto poco e male.
Il buon governo forse si realizza anche così. Poi si simboleggia in quel grande vecchio bianco, canuto con questo sguardo estremamente severo ma anche saggio, accanto alle Virtù Teologali, a immagini positive. È veramente bello ricordare l’era dei comuni e di quanto terreno abbiamo perso dal Trecento ad oggi, in senso contrario. Io ricordo una frase di Tocqueville, ne La democrazia in America, dove dice che la democrazia inizia dalla pubblicazione del bilancio della casa comunale: “Nel comune risiede la forza dei popoli liberi, le istituzioni comunali sono per la libertà quello che le scuole primarie sono per le scienze. Esse la mettono alla portata del popolo, gliela fanno gustare con l’uso pacifico e l’abituano a servirsene”. Bellissime parole, bellissime le bellezze che hanno fatto grande Siena, ma viene naturale un confronto rispetto al comune di oggi. E il confronto è totalmente perdente. Oggi nel comune non si ricerca la bellezza, non si è nemmeno in grado di pensare al buon governo, si è alle prese solo coi vincoli di bilancio e col patto di stabilità. I nostri amministratori hanno purtroppo questo onere da dover sopportare. In questo senso stiamo andando e cerchiamo di intervenire in maniera estremamente pesante attraverso la riforma introdotta dal federalismo fiscale. Perché noi riteniamo che i problemi oggi degli enti locali siano conseguenti a una politica non dell’ente locale, ma a una politica che l’ente locale ha dovuto subire da parte di un atteggiamento centralista. Con la fine degli anni Settanta, noi abbiamo avuto la totale soppressione di quelle che erano le entrate proprie del comune – vi ricordate la vecchia tassa della famiglia, la cosiddetta Vanoni – e oggi tutto entra e va al centro, per poter poi venir ridistribuito sul territorio, con un male originale ancora alla fonte: quello che quantifica quello che ciascuno riceve è la spesa storica e questo ha fatto sì che tanto più uno spendeva, e tanto più veniva poi premiato anche in termini elettorali, e probabilmente era il peggiore amministratore che avevamo in circolazione. Questo ha determinato il venir meno di ogni tipo di responsabilizzazione, di controllo democratico da parte del cittadino.
Non a caso abbiamo raggiunto il più alto debito pubblico d’Europa e il terzo nel mondo. Qualcuno se vuol farsi i conti rispetto al nostro debito pubblico – una volta con qualche amico la sera li abbiamo fatti – pensi che se noi dovessimo azzerare il debito pubblico che ha in questo momento il nostro Paese, dovremmo fare cinque manovre economiche all’anno delle dimensioni di cui ne facciamo una, e dovremmo farne cinque all’anno per centocinquant’anni. Quindi a questo punto è evidente che non è con le manovre economiche che si può andare a intervenire. Bisogna andare a intervenire sul metodo che noi abbiamo ritenuto di dover correggere, andando ad incidere prima di tutto sulla questione del piè di lista, cioè: non posso darti le risorse in funzione di quello che spendi, io ti devo dare le risorse in funzione di quello che tu dai, per cui se questo bicchiere costa un euro, deve costare un euro a Rimini, un euro a Palermo, un euro a Reggio Calabria, un euro a Milano, un euro in tutto il resto del mondo. Purtroppo così oggi non è. Oggi diciamo che nessuno vuole penalizzare nessuno con il federalismo, non intendiamo togliere servizi, intendiamo garantirli, perché le realtà in cui oggi più si spende sono quelle dove meno servizi vengono erogati, e ci si nasconde sempre dietro lo scaricabarile di: “lo Stato non mi ha mandato le risorse”. È ora che si sappia veramente chi fa che cosa e per che cosa usa le risorse. Sono usciti numeri incredibili – io ho seguito anche con Luca, assieme alla Corte dei Conti e a tanti altri – i costi che occupano la sanità in questo paese, e che rappresentano l’85 – 90% del bilancio di ogni Regione e abbiamo trovato delle cose allucinanti! Il cerotto che costa un euro da una parte e sei euro dall’altra. Una TAC comperata in Emilia Romagna costa un milione di euro, in Lazio, lo stesso modello, con le stesse caratteristiche, costa un milione e quattrocentomila euro, quindi il 40% in più. Ci sono Regioni d’Italia dove il parto naturale non esiste più, perché il parto cesareo rende di più del parto naturale. Al di là della delinquenza di sottoporre una donna ad una anestesia, ad un intervento chirurgico, toglierle la gioia di una parto naturale perché questo rende di più agli IRG…, rende talmente tanto che in Sicilia abbiamo il 50% dei parti cesarei, in Campania sessanta donne su cento partoriscono con il cesareo. È una cosa inverosimile. Abbiamo trovato i cosiddetti ospedalini, che rappresentano non una buona sanità, ma una pessima sanità, perché non sono in grado di salvare la vita delle persone. Vi do alcuni numeri, proprio i più clamorosi: ad Oppido c’è un ospedale con venti posti letto. Peccato che abbia centoundici persone di personale: ogni paziente ha cinque dottori! A Taurianova, su ventinove malati ci sono centosettantaquattro dipendenti sanitari. Palmi è il massimo: su venti posti letto ci sono duecentonove medici. Io mi immagino il malato con intorno dieci medici. Visti i risultati che hanno in termini di guarigione e mortalità, forse è meglio ridurre i medici. Sempre nello stesso ospedale – questa è una nota simpatica, ma che dà il metro di come ci si è ridotti – in un ospedale di venti posti letto hanno fatto il concorso per assumere ventiquattro cuochi. Più di un cuoco per ammalato è difficile da riuscire a digerire. Il dato più qualificante è che quando sono stati assegnati questi posti, l’ospedale aveva esternalizzato il servizio mensa. per cui arrivava il catering! Ventiquattro cuochi privi di un incarico! Non so nemmeno se avessero la cucina … É chiaro che davanti a questi dati, l’introduzione di un costo standard è una cosa assolutamente necessaria, che non porterà al venir meno di un servizio. Perché nel momento in cui garantiamo le risorse perché tutti erogano livelli essenziali di assistenza, probabilmente nelle zone del Paese più deboli verranno erogati dei servizi che fino ad oggi non sono mai stati erogati. Forse avranno meno di ventiquattro cuochi, ma sicuramente qualcuno penserà a curare le persone e a intervenire.
Infine, l’acquisizione di una autonomia fiscale. Le risorse devono andare all’ente locale o alla regione, in modo che si sappia che fine fanno i soldi. Il cittadino deve sapere a chi paga, quanto paga, per che cosa vengono utilizzate quelle risorse. Poi premia con il voto chi è stato bravo. Abbiamo previsto anche dei meccanismi in automatico che impediscono alla gente di fare i disastri economici che ha creato qualcuno. Per cui, se uno fa un buco ed è un pessimo amministratore, non solo va a casa, ma diventa ineleggibile a qualunque livello di governo politico (perché purtroppo abbiamo avuti tra i più grandi creatori di buchi, i sindaci di tre grandi città, che al passaggio successivo si sono visti eleggere al Parlamento italiano e europeo); credo che chi ha fatto danni in città, non dovrebbe andare a fare danni a livello nazionale, perché la politica non è un mestiere che prescrive il medico e che è obbligatorio fare per legge. Noi abbiamo approvato una legge delega nel 2009 e stiamo approvando i primi decreti legislativi, anzi adesso iniziano ad essere forse la parte prevalente. Abbiamo approvato quello sul federalismo demaniale, che ha fatto sì che quello che Lorenzetti ci descrive nei suoi affreschi possa tornare di attualità. Tutti i beni dei Comuni, delle Province (allora le Regioni non c’erano), diventarono beni dello Stato, quindi il Comune non poteva avere neanche una propria proprietà e visto come li hanno spesso gestiti a livello centrale, io credo che gli Enti Locali e le Regioni saranno molto più in grado di valorizzare i loro beni e non necessariamente per far cassa, ma perché li trasformino in servizi – sono un bene veramente di tutti. Il fatto che gli immobili, i monumenti, le bellezze anche naturali, i fiumi, i laghi, le coste marittime possano tornare ad essere bene amministrato da parte del territorio è una cosa positiva. E vi do un dato numerico: oggi lo Stato spende ottocento milioni di affitti passivi, per quello che affitta lui riceve entrate per venti milioni di affitti attivi. C’è qualcosa che non torna se spende ottocento milioni e ne prende venti, con un patrimonio immobiliare di miliardi.
È passato l’emendamento sui fabbisogni standard, quello sull’autonomia impositiva dei comuni, che ha introdotto la formula di tassazione facilitata rispetto alle locazioni immobiliari, che purtroppo subiscono una enorme quantità di elusioni. Noi abbiamo pensato che, abbassando al 20% come tassazione rispetto a quella che oggi è la media tassazione, che si avvicina al 43%, si potesse favorire un altro dei punti nodali per un buon governo, il contrasto all’evasione fiscale. Noi siamo un Paese dove l’evasione fiscale è altissima, i tentativi di controllarla dal centro non hanno prodotto i risultati sperati, speriamo che con il coinvolgimento di Comuni, Province e Regioni questo contrasto lo si faccia veramente. Arriverà all’inizio di settembre l’emendamento sull’autonomia impositiva delle Regioni, dove per la prima volta compare il quoziente familiare nel testo del decreto legislativo, una cosa in cui noi abbiamo sempre creduto e stiamo portando avanti – anche se Tremonti è sempre attento, logicamente, ai numeri e alle coperture. Lo bisogna fare in maniera molto progressiva, che non scassi le casse dello Stato, ma credo che sia inverosimile applicare la stessa tassazione ad un nucleo familiare fatto da un singolo rispetto a chi ha figli e moglie. Credo che tutte quelle spese che uno fa in forma obbligatoria, perché ha la famiglia, debbano essere sottratte a quella tassazione – poi vedremo il livello di coefficiente.
Ce la stiamo mettendo tutta però, concludendo – come ha voluto iniziare e concludere la professoressa Carlotti, rispetto ai dipinti e ai richiami artistici – vi ricordo che il primo dipinto è quello della Vergine, che raccomanda Siena al buon Gesù e credo che tutti noi abbiamo bisogno di una buona raccomandazione al buon Dio, che ci dia una mano rispetto a quello che dobbiamo fare. Come in quel messaggio, contenuto nel Cristo di Lando di Pietro, anche io, le volte che dico le mie preghiere, spero che il buon Dio mi illumini nel cammino delle riforme e dei cambiamenti, perché è facile sbagliare; con un po’ di umiltà e modestia io credo che tutti abbiamo la possibilità di imparare e realizzare qualcosa di buono, purché ci mettiamo il cuore e tutti puntiamo al bene comune e non a quello individuale. Grazie.
LUCA ANTONINI:
Solo una brevissima parola per ringraziare innanzitutto i nostri ospiti e per dire che la sfida è estremamente interessante: da diversi punti di vista è emersa l’attualità del messaggio di Lorenzetti e l’attualità del segreto che c’era dietro alla sua raffigurazione. È chiaro che con la fioritura dell’ideologia statalista, ci siamo ritrovati con quella selva di leggi che nessuno riesce a capire e non ci abbiamo guadagnato. È chiaro che con il trionfo dell’individualismo abbiamo perso l’idea dei rapporti e non ci abbiamo guadagnato. È chiaro che con il trionfo di quella ideologia che ha staccato il cielo dalla terra, non abbiamo guadagnato la terra e forse l’abbiamo persa, perché è diventata oscura. Mi ha colpito la citazione di Giussani, recentemente fatta da Carrón, che diceva: “oggi l’uomo moderno non riesce più a guardare la presenza di una foglia, di un amico, di una stella”. Con l’ideologia è come se avesse perso la capacità di conoscere la realtà, ed è interessante vedere come la visione che invece nasce da un’altra origine ti rimette in grado di guardare la realtà, di conoscerla, di giudicarla. La lezione e l’augurio politico verso il bene comune, che è venuto oggi dal Ministro Calderoli, rispetto ad un mondo, anche politico, dove sembra prevalere l’interesse individuale rispetto al bene comune, è estremamente interessante: dimostra la potenzialità che c’è dentro una certa lettura delle cose. Io ringrazio tutti, è stata una sfida interessante, perché ha dimostrato come la forza di una certa lettura della realtà non tramonta mai, perché sfida la storia, rimane attuale perché riesce a guardarla dentro tutta la sua profondità e anche drammaticità.
Le cose che ha detto Roberto e che sono state affrontate durante quest’anno sono estremamente drammatiche: certe volte si vede una incapacità proprio di giudizio, perché non si può difendere, parlando di solidarietà, forme di welfare state mafioso come quelle delle cliniche dell’ingegner Aiello, cui gli inquirenti hanno sequestrato ottocento milioni di euro. Quindi bisogna guardare le cose con estremo realismo e la tensione al bene comune dà una direzione, una bussola nel prendersi la responsabilità di affrontare certi problemi e cercare, nei limiti del possibile, di fare quel che si può fare. Le sfide sono sfide interessanti, abbiamo bisogno di bussole e un incontro come quello di oggi mette in evidenza punti interessanti, come l’idea di diritto che può essere tradotta anche in provvedimenti normativi, perché se si rafforza la sussidiarietà si va nella direzione di ridare alla società civile quella capacità di concorrere al bene comune di cui l’hanno espropriata. Se la gente può sapere dove vanno le risorse che paga con le imposte e vede che lo Stato non le spreca, le paga anche, come dice quel cartiglio, “con trionfo”. Di strada da recuperare ce ne è tanta. È chiaro che lezioni come quelle del Lorenzetti sono lezioni che al mondo moderno sono necessarie. Io ringrazio tutti voi e ancora i nostri ospiti.
(Trascrizione non rivista dai relatori)