Chi siamo
I simboli, sorgenti di conoscenza e di creatività
Hanno partecipato: Julien Ries, Direttore del Centro di Storia delle Religioni dell’Università di Lovanio; Camillian Demetrescu, Pittore e Scultore. Date incontri: dal 21/08 al 23/08 ore 11:30.
Ries: Nell’antica Grecia, la parola symbolon indicava un oggetto tagliato in due i cui possessori conservavano ciascuno una metà allo scopo di riconoscersi o di riconoscerne i portatori così da avere la prova delle loro relazioni di amicizia o di ospitalità. Nella parola si trova dunque il senso di garanzia di identità. Da qui, viene l’utilizzo della parola symbolon per indicare dei trattati firmati tra due Stati, dei contratti stabiliti per iscritto tra due persone. La parola dimostra un legame tra due persone.
Nella storia della cultura, della letteratura, del pensiero e delle religioni, il simbolo ha conosciuto una grande estensione perché copre l’immenso campo dell’immaginario umano. Ogni anno il Meeting dedica una parte importante alla simbologia: le mostre, gli spettacoli teatrali musicali così come le conferenze e i seminari. Con il Maestro Demetrescu, quest’anno, dedicheremo tre seminari a far comprendere il simbolo e i simboli come sorgenti di conoscenza e di creatività. La mia parte sarà uno studio di antropologia che comprende tre passaggi:
1. Il simbolo, carta d’identità dell’uomo. Si tratta di vedere come, grazie alla sua immaginazione, si è formato l’Homo sapiens.
2. Il simbolo, rivelatore del mistero. Ecco una seconda tappa nella formazione dell’uomo, la scoperta del sacro, cioè della formazione dell’Homo religiosus.
3. Il simbolo, sorgente della creatività. Grazie alla sua immaginazione, l’uomo è creatore della cultura.
1. Il simbolo, carta d’identità dell’uomo
I. Piccola raccolta di nozioni
La conoscenza umana — Dobbiamo cominciare con un breve approccio al nostro modo di conoscenza del cosmo nel quale viviamo. È grazie agli organi dei nostri cinque sensi (gusto, olfatto, udito, tatto, vista) che entriamo in contatto con il mondo e che il nostro cervello riceve un numero infinito di impulsi che esso registra, smista mette in connessione. Siamo così di fronte ai problemi dell’intelligenza, della memoria, dell’immaginazione, della parola, del linguaggio e della creatività così come a tutti i problemi connessi alla crescita alla formazione, all’educazione, problemi psicologici, sociali, familiari, culturali, religiosi. Non è immaginabile affrontare qui questo immenso ambito dell’uomo, dell’umano e dell’umanesimo.
Per la nostra ricerca sul simbolo facciamo una distinzione importante tra il concetto e il simbolo, due elementi di base per la nostra conoscenza.
Il concetto — Il concetto è il frutto, il prodotto di un’operazione dell’intelligenza, è il pensiero astratto, indicato da una parola, ad esempio: il concetto di giustizia, di necessità. Secondo Jacques Maritain, “il concetto è la natura intelligibile ricevuta dai sensi grazie all’astrazione e portata dallo spirito dentro di sé al supremo grado di immaterialità” (Gradi del sapere, p. 233). La via dello spirito consiste in un doppio movimento, che va dal concetto al reale e dal reale al concetto.
La concettualità è un’azione mentale che consiste nel formare, a partire dai dati dell’esperienza, la rappresentazione intellettuale di un oggetto del pensiero. La concettualità è indispensabile in vista della riflessione umana.
L’immaginario e la simbolizzazione — La conoscenza umana non funziona unicamente grazie a dei concetti. Si deve fondare anche su delle rappresentazioni percepite a partire dal mondo esteriore, sulla percezione di immagini. Stiamo assistendo ad una rivalorizzazione delle funzioni dell’immaginario. La scuola di Gaston Bachelard e di Gilbert Durand ha creato un nuovo spirito antropologico che ha lottato contro i diversi positivismi e razionalismi e ha valorizzato il ruolo dell’immaginario nel pensiero umano, mostrando che l’immaginazione è un dinamismo organizzatore e come tale è un fattore di omogeneità nella rappresentazione. Così facendo, essi hanno dato all’immaginario un ruolo importante nella vita, nel pensiero e nel comportamento umano. L’immaginario non è più considerato come “il pazzo del paese”, ma come il fratello della ragione, indispensabile cioè al funzionamento del pensiero. A lato del pensiero concettuale c’è un pensiero simbolico. Tra i due esiste una coerenza, vero fattore di armonia dell’uomo.
Bisogna dunque smettere di scavare un fossato tra ragione e immaginario. I due sono indispensabili per il funzionamento normale dello spirito.
II. Dall’Homo habilis all’Homo sapiens
A partire dal 1959 nei giacimenti di Olduvai in Tanzania e ad est del lago Turkana in Kenya, sono stati scoperti resti di crani che datano due milioni di anni fa. A lato di questi resti si trovano dei ciotoli tagliati su una faccia e su due facce, prova dell’abilità di questi uomini a fabbricare degli utensili. È la prima cultura dell’umanità, la cultura di Olduvai e all’uomo che ha inventato questa cultura si è dato il nome di Homo habilis (L. Leakey, Ph. Tobias, J. Napier, 1964).
L’inventario delle vestigia scoperte è importante: selci tagliate e tra di esse numerose bifacciali, ciottoli che servivano da armi da caccia e da percussori, ossa di animali riutilizzate, strutture di capanne di abitazione e di aree di lavoro. I paleoantropologi constatano che un abisso separa l’Homo habilis dal suo avo Australopiteco poiché presso l’Homo habilis c’è l’abbozzo di caratteristiche fisiche, culturali e sociali inesistenti presso l’Australopiteco, ma che serviranno da base allo sviluppo dell’Homo sapiens.
L’Homo habilis aveva la capacità di elaborare progetti, di organizzare il lavoro, la caccia, di osservare ciò che lo circonda, la natura, le risorse vegetali e animali. In più, la cultura dei ciottoli ci fa vedere la prima utilizzazione di intermediari tra le mani dell’uomo e l’oggetto da trattare, cioè l’utensile. La mano non è più l’utensile come presso l’animale, ma diviene motore dell’utensile. L’Homo habilis è un bipede, un Homo erectus.
Con l’utensile, l’uomo supera una tappa e arriva alla tecnica: deve avere un’idea e un progetto. Deve scegliere un ciottolo e realizzare le operazioni necessarie al taglio: di qui l’intervento dell’intelligenza e dell’immaginazione creatrice. Lavorare un ciottolo esige, da parte dell’Homo habilis di intravedere di già l’oggetto tagliato e di vedere tutte le operazioni necessarie. C’è una riflessione indispensabile, un possesso delle fasi del lavoro e la proiezione di uno schema, ciò implica nell’uomo una immaginazione simbolica.
La scoperta della cultura di Olduvai e del suo autore, l’Homo habilis, è una grande tappa della conoscenza dell’uomo. L’Homo habilis possedeva delle tecniche di acquisizione, di fabbricazione e di consumo. Il raddrizzamento del corpo era una condizione indispensabile per l’evoluzione fisica del suo cervello, per la liberazione delle sue mani, per la visione dell’orizzonte e dei dintorni, un insieme di stimoli indispensabili alla sua crescita e alle sue scoperte.
La documentazione archeologica di Olduvai ci permette di andare ancora più lontano. In effetti, il taglio delle selci implicava una sperimentazione, una scelta dei materiali e delle forme e da ciò una messa in opera dell’immaginazione. Le aree di taglio di Olduvai ci fanno constatare, che i tagliatori di selci sceglievano i loro materiali ritenendo conto della solidità, della qualità e del colore. Essi gettavano tutto quello che non conveniva. Il taglio bifacciale dei ciottoli esigeva una ricerca della simmetria, vera occupazione estetica. L’Homo habilis dà prova nello stesso tempo di una coscienza simbolica e creatrice.
L’organizzazione dello spazio è un altro indice di questa coscienza simbolica dell’Homo habilis. Le strutture delle capanne testimoniano della ripartizione in tre aree: zona soggiorno, zona di taglio o divisione degli animali uccisi a caccia, zona di fabbricazione degli utensili. Ciò diventa sempre più evidente con l’Homo erectus che subentra all’Homo habilis a partire da un milione e seicentomila anni e che si chiama così perché la sua prima scoperta data della fine del XIX secolo a Giava, ma che è presente ad est del lago Turkana in Africa da dove ha coperto tutto l’antico Mondo prima di scomparire verso il 150.000 avanti Cristo (F. Facchini).
L’importante espansione della sua industria del taglio delle selci sembra perorare in favore di un linguaggio necessario per la trasmissione delle tecniche. È lui l’inventore del fuoco: Choukoutein in Cina, Terra Amata nel sud della Francia. Questa invenzione geniale è all’origine di una grande mutazione nelle relazioni familiari e sociali e un indice di religiosità attraverso la scoperta di certi riti del fuoco.
Attraverso una evoluzione morfologica molto lenta, l’Homo erectus si è trasformato in Homo sapiens, le cui prime tracce sono visibili verso il 300.000, ma la cui caratteristica principale sarà il culto dei defunti. Le tombe di Qafzeh in Palestina, 90.000 a.C., sono le più antiche e a partire da questo periodo la religiosità funeraria conosce uno sviluppo rapido, segno della crescita della coscienza simbolica e religiosa dell’Homo sapiens.
III. La simbolizzazione, proprietà essenziale dell’uomo
Siamo entrati in un nuovo spirito antropologico, cioè in un nuovo modo di comprendere l’uomo, il suo linguaggio, la sua scrittura, la sua funzione simbolica.
Lo studio dell’uomo arcaico è importante perché ci permette di assistere all’ominizzazione. Le scoperte africane, i lavori sulla posizione eretta, la liberazione delle mani, la liberazione del volto, l’utilizzo degli utensili, il linguaggio legato agli utensili, il sistema gestuale mettono in luce la funzione simbolica che è all’opera nello sviluppo della specie umana e nello sviluppo dell’individuo. La simbolizzazione è una proprietà essenziale della specie umana secondo Jean Molino “altrettanto seria, altrettanto solida, altrettanto reale delle funzioni di nutrizione e di riproduzione” (Molino, 1988).
Facciamo un rapido percorso con l’Homo sapiens. L’uomo di Neanderthal ha preso una cura particolare dei suoi defunti. Le numerose tombe d’Europa contengono delle offerte fatte di alimenti o di oggetti, segno di una credenza dell’aldilà. Nel Paleolitico superiore la presenza di oggetti di ornamento, di conchiglie, di denti, di canini di cervi e di ocra rossa costituiscono un insieme di pratiche funerarie dall’evidente senso simbolico.
Bisogna soprattutto fermarsi all’arte franco-cantabrica delle celebri grotte di Francia, di Spagna e d’Italia: centocinquanta tra le quali Lascaux, Les Combarelles, Rouffignac, Altamira, Monte Castillo. L’arte rupestre di questi santuari ci mette alla presenza di una simbologia copiosa che noi cominciamo solo ora a decifrare: associazioni di animali e di segni nella grotta di Lascaux, simbolismo vegetale, specialmente il pino con i suoi rami, simbolismo del colore (bianco, nero, rosso, giallo), simbolismo dei segni (punto, tratto, freccia, scala, cerchio, triangolo, rettangolo, croce, mano, spirale). L’associazione degli animali bisonte-cavallo, mammouth, stambecco è dappertutto presente e insieme ci invita a comprendere che i simboli dipinti sui muri e sui soffitti non prendevano il loro senso che nel contesto di un discorso. Le pitture delle caverne franco-cantabriche sono la traccia dei primi mitogrammi. Bisognerà attendere alcuni millenni per disporre, grazie alla scrittura, dei grandi miti cosmogonici le cui radici si leggono sui muri e sui soffitti del Paleolitico superiore.
Verso il 12.000 a.C. l’uomo esce dalle grotte e si insedia in piena natura. I primi villaggi si costituiscono sul Medio Eufrate. L’Homo sapiens inventerà l’agricoltura. La sua immaginazione di creatore del suo nutrimento l’aiuterà a scoprire nuovi simboli della Trascendenza ed è così che verso l’8.000 abbiamo le prime rappresentazioni della divinità, la dea-madre e il toro preludio dei due grandi culti dell’antico Vicino Oriente. Nello spazio di alcuni millenni ha luogo una vera rivoluzione culturale e religiosa: creazione dei culti solari, costruzione dei primi templi, invenzione della scrittura, civiltà mesopotamica e poi egiziana, ziggurat di Babilonia e piramidi d’Egitto. Fermiamo qui il nostro inventario.
Il simbolo, carta d’identità dell’Homo sapiens — Grazie alle tracce che l’uomo ha lasciato, noi abbiamo seguito la genesi dell’Homo sapiens: due milioni di anni. Abbiamo un’idea del suo immaginario, cioè “dell’insieme delle immagini e delle relazioni di immagini che costituisce il suo capitale pensato” (G.Durand, 1992).
Il segno e il simbolo sono due elementi essenziali di questo immaginario. Un segno è una realtà che ha una sua propria consistenza ma che, sia per convenzione sia per relazione naturale evoca un’altra realtà: il fumo è segno del fuoco. ogni segno è un mezzo di comunicazione tra gli uomini.
Il simbolo è un segno che evoca una realtà invisibile alla quale lega l’uomo facendone passare l’intelligenza dal visibile all’invisibile. Il simbolo realizza una apertura al di là dello spazio immediato e del tempo immediato: è iniziazione all’invisibile. È un significato che conduce al significato. Il significato fa parte del mondo visibile: la volta celeste, il sole, la luna, la terra, l’albero, l’uccello, l’acqua, l’uomo, la donna, il bambino. Ogni simbolo ha uno strato visibile. Il significato è la parte invisibile, sconosciuta, l’oggetto della scoperta, il mistero.
Gilbert Durand ha messo in evidenza il ruolo del tragitto antropologico nella simbolizzazione. Al punto di partenza ci sono le spinte dell’ambiente cosmico e di tutto ciò che lo circonda che agiscono sulle fecondità dell’essere umano; ma queste spinte incontrano la vita psichica umana con tutte le sue pulsioni. Tra questi due poli funziona un incessante scambio che gioca il ruolo di motore dell’immaginazione creatrice. Questo tragitto antropologico permanente è specifico dell’essere umano. Da allora l’universo del simbolo + il campo privilegiato dell’uomo, la sua carta d’identità.
Le funzioni del simbolo — Lungo tutto il percorso che abbiamo fatto con l’Homo habilis, erectus, sapiens, abbiamo visto che il simbolo ha giocato un ruolo primordiale nell’ominizzazione. Di tappa in tappa, l’uomo diveniva creatore e sapeva che era creatore. Quale ruolo ha giocato il simbolo in questa presa di coscienza? Le ricerche di G.Bachelard, di C.G.Jung, di G. Durand, di M. Eliade, di P.Ricoeur, di J.Vidal hanno precisato le funzioni del simbolo.
Al punto di partenza si trovano le immagini: tutti i gesti dell’uomo, le immagini prime e universali come la volta celeste, il sole, l’acqua, l’albero, la terra che risvegliano la coscienza dell’uomo e vi introducono un elemento di unità che conduce ad una dinamica creatrice. Questa creatività dello spirito umano è basata sulla funzione biologica del simbolo.
Una seconda funzione del simbolo si situa al livello della vita psichica umana. Il simbolo stabilisce una relazione tra la coscienza e il subcosciente, questa zona molto ricca di ogni essere umano. Poi il simbolo gestisce le energie, che sono così liberate nel subcosciente, nell’incosciente e fino alle radici degli archetipi, dice Jung: immagini primordiali e universali, urbilder indispensabili alla vitalità dell’Homo sapiens. Questi archetipi sono le radici profonde della coscienza.
Una terza funzione del simbolo è stata messa in evidenza da Jacques Vidal (1990): “Il simbolo dà alla coscienza il mezzo di fare alleanza con le energie dell’esistenza di una Trascendenza, di un Tutt’Altro con il quale si può fare alleanza. Entriamo nell’esperienza del sacro”.
2. Il simbolo rivelatore del mistero
Lo storico delle religioni non si interessa alle diverse specie di australopiteco, tutte scomparse senza lasciare la minima traccia di cultura, ma studia l’Homo habilis scoperto nel 1959 a Olduvai in Tanzania, che è caratterizzato dal bipedismo, dalla posizione verticale, dalla liberazione delle mani e da un comportamento culturale (Tobias 1992), segno della nascita dell’Homo symbolicus. La mobilità della testa, grazie alle vertebre cervicali, gli ha permesso di contemplare gli orizzonti lontani così come la volta celeste, un elemento determinante per la crescita psichica, intellettuale e religiosa.
I. La volta celeste e la prima esperienza del sacro
L’Homo habilis e l’Homo erectus hanno potuto contemplare la volta celeste che appariva ai loro occhi come il tetto della terra sulla quale prendeva appoggio. Ciò spiega perché nelle diverse cosmologie, più tardi, il disco della terra è rappresentato circondato da una catena di montagne che sono le colonne della cupola celeste. Poichè il taglio delle selci manifesta la sensibilità dell’uomo arcaico ai colori, dobbiamo pensare che sia stato impressionato dai colori del cielo, dal sorgere e dal calare del sole, dalla successione del giorno e della notte.
La creazione della prima cultura da parte dell’Homo habilis, amplificata dall’Homo erectus con la presa di coscienza di essere creatore della dimensione simbolica e della dimensione estetica, provata dai colori e dalla simmetria, mostra l’uomo arcaico che si ambienta progressivamente nel cosmo. Nel mio libro Le religioni, le origini, ho lungamente spiegato come, attraverso un metodo di comparazione genetica, lo storico delle religioni arrivi a ritrovare la prima esperienza del sacro alle origini dell’umanità. Si tratta della scoperta della Trascendenza attraverso la semplice contemplazione della vita celeste. Nel suo Trattato, Mircea Eliade (1976) ha già insistito sul fatto che siamo in presenza di un simbolismo che è un dato immediato della coscienza totale dell’uomo che prende coscienza della sua posizione nell’Universo. La volta celeste simboleggia la trascendenza, la forza, e l’immutabilità. Il cielo esiste: è elevato, è infinito, è potente. Le religioni celesti sono inaccessibili all’uomo. Esse posseggono le suggestioni del trascendente, della realtà assoluta, della perennità.
La volta celeste è un significante che rivela il mistero e questo mistero è la Trascendenza. L’Homo habilis e l’Homo erectus si sentono legati da un vincolo misterioso a questa Realtà trascendente che rivela la volta celeste con il movimento del sole di giorno, il movimento della luna e gli astri di notte. È la prima esperienza del sacro che si concretizza più tardi con i culti solari e lunari e il culto degli astri a partire dal Neolitico. L’immaginario dell’uomo antico, creatore della cultura, spettatore di ciò che lo circonda e alla ricerca del suo destino si è trovato sotto l’influsso dei cinque grandi simboli di base, volta celeste, simboli solare e lunare, acqua montagne e albero, ma il simbolo determinante è quello del cielo.
Questo simbolo è restato rivelatore per l’esperienza del sacro, poiché lungo i millenni la contemplazione della volta celeste stellata ha esercitato sull’uomo un fascino straordinario e gli ha rivelato l’ordine sacro dell’universo. Pensate a tutti i culti solari e lunari della Mesopotamia, dell’Egitto, della Cina, del mondo mediterraneo, dell’America precolombiana, dell’Arabia. Pensate all’astrologia babilonese, mesopotamica, iraniana, cinese, alle costellazioni studiate dagli astronomi delle grandi civiltà. Più che la forma delle costellazioni, è l’immenso movimento di rotazione che fa del cielo un aldilà della terra. Siamo in presenza di una simbolicità, di una ricchezza inaudita che alimenta la Bibbia e le sacre scritture delle varie religioni, delle visioni mistiche come quelle di San Benedetto, di San Gregorio il Grande, di San Basilio, dei testi grandiosi come quelli di San Tommaso e di Dante.
II. Simbologia del mistero della vita e della sopravvivenza nell’aldilà
La simbologia della volta celeste ha dato all’uomo lo spettacolo di una serie di drammi cosmici: lo spuntare quotidiano del sole ed il sorgere della luce, la sparizione del sole dietro la linea dell’orizzonte ed il ritorno della notte; il sorgere degli astri al crepuscolo, il loro itinerario imperturbabile nel corso della notte da un lato all’altro del cielo, poi il loro tramonto, le fasi di crescita della luna, luna piena, luna decrescente e poi la scomparsa per alcuni giorni. Tutti questi fatti sono innegabili.
Constatiamo che le prime tracce di riti funebri appaiono alla fine del percorso dell’Homo erectus e diventano chiare con le tombe dell’Homo sapiens a Qafzeh in Palestina (90.000 avanti Cristo) e con quelle dell’uomo di Neanderthal a partire dall’80.000 avanti Cristo. I riti funebri e le tombe sono testimoni di sentimenti di alterità e di affetto riguardo al defunto, così come della credenza della sopravvivenza nell’aldilà. Ci fanno individuare un momento storico nel percorso dell’Homo sapiens e della sua esperienza del sacro.
Dobbiamo interrogarci sull’origine di questa credenza e a questo scopo dobbiamo restare nella linea tracciata dall’attività culturale dell’Homo habilis ed erectus nel contesto del percorso antropologico nel quale collochiamo l’azione del simbolo. Da allora noi possiamo pensare che l’Homo sapiens posto sotto la duplice influenza dello spettacolo cosmico e della sua situazione nel cosmo, abbia preso coscienza del suo destino a immagine del destino simboleggiato dagli astri e da tutto il movimento della volta celeste: ha preso coscienza della vita e della sopravvivenza nell’aldilà situata nella prospettiva della sua credenza in una Trascendenza, e in un Cielo separato dalla Terra.
Nel corso del Paleolitico superiore, all’epoca dell’arte franco-cantabrica, la generalizzazione delle tombe e la loro disposizione, gli ornamenti che coprivano i cadaveri, le offerte deposte sulle tombe vicino al defunto, l’utilizzo più regolare dell’ocra rossa, sostitutiva del sangue e della vita, indicano una nuova crescita della coscienza della sopravvivenza nell’aldilà presso l’Homo sapiens sapiens. Mircea Eliade ha insistito sulla posizione fetale di numerosi scheletri e sul loro orientamento verso est. Questo ultimo rito sembra essere l’indice presso i vivi di una intenzione: “unire la sorte dell’anima al corso del sole dona la speranza di una nuova nascita nell’altro mondo”. Troviamo questa credenza nella religione del Egitto faraonico. Una serie di riti funebri conferma ciò: la lettiera di fiori simbolo dell’immortalità sul quale era posto un cadavere in una tomba di Shanidar in Iraq 50.000 anni fa, le conchiglie incastonate nelle orbite oculari al fine di dare al defunto degli occhi di eternità; la casa dei morti di Byblos del V millennio, dove una trentina di cadaveri si trovano in una terra rossa.
Non bisogna dimenticare che all’epoca del Paleolitico superiore, dal momento in cui l’Homo sapiens sapiens ha preso veramente coscienza del mistero della vita, della morte e della sopravvivenza, l’arte franco-cantabrica, grazie ai soffitti decorati, ci invita a pensare all’esistenza di mitogrammi oltre che a riti di iniziazione; ciò ci mette alla presenza di una simbologia molto ricca, rivelatrice del mistero. Qui l’esperienza del sacro, unita alla percezione di una Trascendenza, è legata a una memoria che fa riferimento alle origini, al cosmo, al mistero della vita. Per la prima volta ci troviamo alla presenza di una storia sacra rammentata da un clan, che prende da essa dei modelli per la sua vita. La coscienza religiosa di una comunità fa la sua apparizione allorché la sedentarizzazione non esiste ancora. La simbologia maddaleniana annuncia una mutazione nella coscienza religiosa dell’Homo sapiens sapiens.
III. Il simbolo dell’acqua e il mistero della vita
L’acqua costituisce un simbolo primordiale, fondamento di ogni manifestazione cosmica, sorgente della vita, principio di rigenerazione.
L’acqua sorgente della vita — Le acque simboleggiano la sostanza primordiale che precede ogni forma e costituisce il supporto della creazione. Questo tema si ritrova in numerose cosmogonie. In Egitto, il Noun è il grande oceano, prima sorgente e condizione della vita.
È anteriore al creatore di tutte le cose. In India, i miti cosmogonici hanno trasmesso numerosi racconti delle acque originali creatrici dell’albero cosmico o del loto. La Genesi (1,2), parla del soffio di Dio che aleggia sulle superficie delle acque.
Questo tema delle acque madri della vita ha segnato la storia religiosa dei popoli. Nella Bibbia i pozzi e le sorgenti sono i luoghi di incontro e di alleanza degli uomini e di Dio; la roccia colpita da Mosé, il pozzo di Giacobbe, segno dell’acqua viva del Vangelo. La rugiada è il simbolo della benevolenza di Dio. Il savio è paragonato ad un pozzo (Sal 3,20).
Il simbolismo della purificazione — L’acqua cancella le colpe ed abolisce la storia. Tutte le tradizioni del diluvio vi si trovano. A causa dei suoi peccati l’umanità scompare nel diluvio: è la distruzione di tutte le colpe e di tutte le iniquità. Questo simbolo si trova anche nei rituali di aspersione e di immersione. Prima di entrare nei templi e nei santuari, i fedeli sono invitati a fare delle abluzioni. In Egitto, vicino ad ogni tempio, si trova un lago sacro richiamo del Noun primordiale. Prima delle loro funzioni sacerdotali, i preti dovevano immergervisi. La preghiera rituale mussulmana è obbligatoriamente preceduta dall’abluzione, poiché il fedele deve prima mettersi in stato di purezza.
Contrariamente al fuoco che distrugge, l’acqua lava e dissolve l’impurità poi ridà una forza vitale. Presso gli Aztechi e presso i Germani, il nuovo nato era immerso in un bagno purificatore poi dedicato alla divinità. Giovanni il Battista predicava un battesimo di penitenza e di remissione dei peccati (Lc 3,3).
Il simbolismo della rigenerazione — L’acqua opera una rinascita, cioè spiega i rituali antichi del bagno sacro nei culti della fertilità dove le dee erano immerse nelle acque sacre allo scopo di assicurare la pioggia e la fecondità della terra. Si conoscono gli stagni sacri di Pessinonte, di Ancyre e di Paphos. La chiesa ha lottato per secoli per estirpare questi riti, che i pagani convertiti portavano nel cristianesimo.
I riti funebri parlano della sete dei defunti. Il Vangelo di Luca cita il ricco che domanda ad Abramo di mandare Lazzaro a intingere il dito per rinfrescargli la lingua (Luca 16,24). Nelle tombe orfiche delle tavolette d’oro parlano di questa sete che tortura il defunto, in Grecia e in Egitto si prevedeva la possibilità di alimentare con acqua le tombe.
Aggiungiamo ancora la simbologia terapeutica delle acque che spiega le tradizioni popolari e i culti dell’acqua attorno a numerose sorgenti e fontane e attorno a fiumi come il Gange e il Nilo. Alcuni di questi culti risalgono al Neolitico.
Il battesimo cristiano dà all’acqua tutto il suo valore simbolico ed il suo senso del mistero, poiché si ricollega direttamente alla storia biblica che si compie in Gesù Cristo, l’autore del battesimo. La pienezza simbolica del battesimo cristiano viene dall’Incarnazione, dalla Redenzione e dalla Chiesa. Il sacramento cancella la storia antica e fa nascere il cristiano alla vita nuova (Gv 3,3-7). Tutte le tradizioni antiche trovano un senso plenario grazie al Cristo Redentore.
IV. Simbolismo del centro e dello spazio sacro
La simbologia dello spazio sacro è universale; si tratta di spazi naturali e di spazi costruiti dall’uomo come i santuari, i templi, gli altari. Ma la costruzione essa stessa si fonda su di un archetipo; è il caso dell’altare sacrificale vedico o dello stupa buddistico.
Ma l’idea di spazio sacro si riferisce ad una simbologia più fondamentale, quella del centro, essa stessa radicata nel simbolo della montagna sacra dove si incontrano il Cielo e la Terra e che si trova al centro del mondo. Ritorniamo così alla prima esperienza vissuta grazie alla contemplazione della volta celeste che fa scoprire all’uomo l’Altezza e la Trascendenza. Poichè la montagna è considerata come luogo di incontro tra Cielo e Terra, essa diviene centro del cosmo. Le cosmogonie antiche ci hanno tramandato delle montagne sacre celebri: il monte Meru in India, il monte Sumbar dei popoli uralo-altaici, Haraberezaiti in Iran, Himingbiorg dei Germani e degli Scandinavi, Fuji-Yama in Giappone, K’ouen-Louen in Cina, l’Olimpo greco, il Kailasa residenza di Shiva in India. In Mesopotamia si costruiva il centro dell’incontro del Cielo e della Terra, degli uomini e degli dei, la ziggurat, montagna cosmica artificiale, torre a piani allo scopo di montare verso le divinità.
Nella tradizione biblica numerose montagne sono sacre e simboleggiano un centro ierofanico per l’incontro degli uomini e del Dio unico: Sinai, Oreb, Sion, Tabor, Garizim, Carmelo, Golgota. Numerosi salmi scandiscono l’ascensione degli uomini verso le altezze dove avverrà l’incontro con Yhave. Così il Salmo 48 comporta una catena simbolica sacra: Dio-montagna-città-palazzo-cittadella-tempio-centro del mondo. Il tempio è assimiliato alla montagna. In Egitto ogni tempio fa riferimento alla collina primordiale emergente dalle acque alla creazione così che l’offerta fatta ogni giorno agli dei nei templi faraonici era ritenuta indispensabile alla continuazione della creazione.
È nel centro, spazio sacro per eccellenza, che si realizzano la rivelazione divina e il compimento dei misteri; celebrazioni del sacrificio, oracoli divini, riti di iniziazione, consacrazioni e benedizioni. Secondo Nicola Cusano il centro è l’immagine perfetta della coincidentia oppositorum, riserva di dinamismo e focolare dal quale partono i movimenti dell’uno verso il multiplo e dell’eterno verso il temporale. In senso inverso al centro si ricongiungono tutti i processi di convergenza verso l’unità, ciò ne fa un luogo di salvezza nel quale l’uomo tenta di ritrovare la sua condizione primordiale.
Il pellegrinaggio illustra nel modo migliore il simbolo del centro come rivelatore del mistero per l’uomo. Il pellegrinaggio è in effetti un fatto umano universale dalle grotte di Lascaux e di Rouffignac, dove i maddaleniani conducevano gli adolescenti per iniziarli ai riti di clan, fino ai grandi pellegrinaggi attuali di Lourdes, di Loreto e di Compostela. Il pellegrino marcia verso un centro per incontrarvi l’invisibile, al fine di entrare in una dimensione nuova dell’esistenza suscettibile di cambiare la sua condizione.
V. Il simbolo nella vita dell’Homo religiosus
1. Homo symbolicus, Homo religiosus — Nel libro già citato Le religioni, le origini, ho studiato simultaneamente, senza separarli ma per unirli, l’Homo symbolicus e l’Homo religiosus in base ai documenti forniti dai paleontologi e dagli archeologi, dall’Homo habilis di Olduvai fino all’Homo sapiens sapiens dell’Età del Bronzo. Tutta questa ricerca si fa secondo un doppio metodo comparato: storico-comparativo e genetico. I risultati sono eloquenti poiché vediamo attualmente il profilo dell’Uomo della preistoria, il meccanismo del suo immaginario e della sua coscienza, le sue diverse esperienze del sacro, la crescita della sua coscienza religiosa dai primi presentimenti del divino fino alla rappresentazioni delle divinità.
L’Homo symbolicus agli occhi dell’antropologo è l’uomo che è dotato di una facoltà che lo rende capace di afferrare l’invisibile partendo dal visibile e così, grazie alla sua immaginazione, diviene creatore della cultura e delle culture.
L’Homo religiosus è l’uomo in quanto soggetto dell’esperienza del sacro. Questo concetto implica una esperienza che può essere vissuta in modo rudimentale, come nel caso dell’Uomo di Neandertal, seppellendo i defunti. Questa esperienza può essere una vera esperienza religiosa come quella degli oranti della Valcamonica o del Neolitico, che alzano le mani verso il cielo. Presso i fedeli sumeri o egiziani l’esperienza del sacro raggiunge un livello di venerazione della divinità. Così il concetto di homo religiosus è legato all’esperienza del sacro in un luogo determinato: greco, romano indù, giudeo, cristiano.
2. Il passaggio dalla religiosità alle religioni — L’Homo habilis e poi l’Homo sapiens hanno conosciuto l’esperienza del sacro grazie ai simboli del cielo, della volta celeste, del sole, della luna, degli astri, della montagna, dell’acqua. Attraverso i grandi simboli l’Homo sapiens sapiens del Paleolitico superiore ha già conosciuto i primi miti, è entrato nei riti di iniziazione e ha coscienza di una storia sacra delle origini.
Una grande svolta si è avviata con la sedentarizzazione poiché dei nuovi simboli hanno ossessionato l’immaginario dell’uomo del Vicino Oriente, che ha tradotto il divino con due nuovi simboli: la donna e il toro. Si tratta di una profonda mutazione mentale che ha preso il suo slancio nel Neolitico con le statue divine, i santuari, gli affreschi di Anatolia, di Siria, di Palestina. L’umanità è passata alle grandi religioni della Mesopotamia, dell’Egitto, del Mediterraneo.
In questa crescita permanente dell’umanità sia dal punto di vista culturale che dal punto di vista religioso, i simboli e il simbolismo hanno avuto un ruolo importante. La personificazione del divino e le sue rappresentazioni simboliche con delle statue e con altre figure hanno spinto l’Homo religiosus a costruire dei templi, dei santuari, delle ziggurat, allo scopo di incontrare delle divinità. Così i santuari sono divenuti luoghi dove gli dei parlano con l’intermediazione degli oracoli. Calendari delle feste, libri sacri, riti e teologie fissano la memoria, accrescono il patrimonio simbolico e diventano sorgenti di iniziazione e di rivelazione.
3. Simbolo, Bibbia, Chiesa e Rivelazione dei misteri divini — Ho dedicato molto spazio alla simbologia cosmica attraverso la quale si realizza una manifestazione del sacro. Grazie ai differenti simboli cosmici, l’uomo antico si è trovato in presenza di numerose ierofanie. I simboli furono per lui un vero linguaggio di rivelazione.
Passiamo adesso alla religione biblica e ci fermeremo qualche istante al ruolo del simbolo. Come ha ben detto Paul Ricoeur “Con la fede ebraica la parola prevale sul numinoso” (1974). Le ierofanie indietreggiano e il nome di Yhavé si oppone all’idolo delle religioni pagane: è il divieto di scolpire immagini. Il sacro della natura arretra. E ci poniamo la domanda: la Bibbia, la Rivelazione biblica ha rifiutato il simbolo? Il simbolo non è più un linguaggio di rivelazione?
Solo ora si comincia ad esplorare seriamente il simbolismo biblico e il suo ruolo nella rivelazione e nella vita del popolo di Dio.
Bisogna dapprima dire che nell’Antico Testamento il numinoso costituisce ovunque un vero sfondo alla rivelazione: pensate al cespuglio ardente, alla rivelazione del Sinai, al deserto nella vita d’Israele, al Giordano, alle montagne sacre, Sinai, Oreb, Sion. Di fianco a questa simbologia cosmica si trova un vasto ventaglio di simboli preso dalla natura: il fulmine, il fuoco, la luce, le luci celesti, l’acqua, le tenebre, la notte, il vento, le nubi, l’ombra, il fumo, il tuono, l’arcobaleno. Questa simbologia molto ricca entra veramente nella trama del messaggio biblico. Nel Nuovo Testamento tutta la rivelazione di Gesù avviene con l’aiuto di un linguaggio simbolico, carico di una densità dottrinale suscettibile di far entrare i suoi discepoli nel mistero. Il Regno è annunciato con una serie di parabole nelle quali Gesù è ricorso alla natura, al lavoro quotidiano, alla famiglia e alla vita della sua epoca. I grandi simboli cosmici si ritrovano di capitolo in capitolo: il cielo, la montagna, l’acqua, la terra, l’albero, l’uccello. Di pagina in pagina la lettura dei vangeli fa sorgere in noi dei lampi luminosi provenienti dalla simbologia che ornano il testo: il sale, l’acqua, i fiori, l’olio, il vino, il pastore, il gregge, le pecore, gli agnelli, il pranzo di nozze, il campo di grano, le spighe, le sementi, il raccolto, la cassa, la lampada accesa, la vigna, le vendemmie, il pozzo, l’acqua viva. È attraverso questa straordinaria raccolta di simboli che passa la rivelazione di Gesù.
Il simbolo della pietra e della roccia indica la durezza, la resistenza, la solidità, la consistenza. Incrollabile, la roccia serve per tagliare pilastri e colonne. La montagna di Sion è una roccia incrollabile che simboleggia il radicamento di Israele come popolo dell’Alleanza. Gesù si è servito del simbolo della roccia per designare l’Apostolo sul quale costruisce la sua Chiesa. Pietro è la colonna fondatrice del collegio apostolico, il fondamento del mistero di unità dei pastori della Chiesa di Cristo e della perennità dell’Istituzione ecclesiale. Nel simbolo di Pietro, roccia fondatrice, abbiamo per i secoli la rivelazione permanente del mistero del Vicario di Cristo nella sua Chiesa.
I simboli del pane e del vino sono dei simboli biblici molto numerosi nei due Testamenti. Ritornano sotto diverse formule significative nei discorsi e nei miracoli di Gesù. All’ultima cena, ultimo pasto pasquale segno dell’Alleanza di Dio con il suo popolo, Gesù prende il pane e il vino non soltanto come simboli e come significanti, ma come materie del Sacrificio e del Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue nell’Alleanza Nuova. Siamo al vertice della rivelazione e al cuore stesso del mistero della presenza di Dio tra gli uomini.
3. Il simbolo sorgente di creatività
Nel suo libro Sacro, Simbolo, Creatività (Jaca Book, Milano 1992), Jacques Vidal scrive: “Perché studiare il simbolo? Dal momento che si tratta di un personaggio misterioso, è necessario che studiamo la sua oggettività, la sua universalità, la sua qualità scientifica. Esso può aiutare l’uomo disorientato, nella propria cultura ad avere vedute più ampie, a cogliere il proprio vero orientamento al di là dei determinismi socio-culturali.
Scopriamo che il pensiero simbolico è intimamente legato al sacro, vi è una correlazione tra l’identità del simbolo e l’identità dell’esperienza religiosa. L’uno e l’altra vanno insieme”.
I. L’emergere dell’uomo creatore
Abbiamo già lungamente parlato del simbolo carta di identità dell’uomo e rivelatore del mistero. Bisogna ora guardare l’uomo sotto il suo aspetto di creatore. E per questo dobbiamo, ancora una volta, tornare alle origini, a quel momento in cui l’Uomo si è separato dall’Australopiteco per la sua specificità di saper creare della cultura. Così noi ritroviamo l’Homo habilis, bipede, eretto, che si serve delle mani per tagliare gli utensili e degli occhi per contemplare l’orizzonte e la volta celeste.
Però, prima bisogna fare uno studio scientifico a partire dalla paleontologia del simbolo. Questo studio è stato fatto da André Leroi-Gourhan nel suo libro Il gesto e la parola (1965). Il momento decisivo fu quello del raddrizzamento dell’essere vivente sui suoi piedi. Questa posizione esteriore è il segnale di una nuova forza interiore, di una potenza di dominazione sul mondo esterno, di un nuovo sguardo. Fu anche il momento di quello che Leroi-Gourhan chiama “l’equilibrio antropico”, cioé l’equilibrio umano (anthropos, uomo in greco). L’Homo habilis risponde in modo stabile all’esigenza della posizione eretta. C’è dunque un dinamismo di verticalità che si manifesta.
A partire da questo bipedismo, da questa verticalità. da questa posizione eretta l’Homo habilis taglia gli utensili, scopre la simmetria, scopre i colori. In lui il tragitto antropologico permette l’attuazione di una coscienza creatrice grazie a una luce nuova che non esiste presso le grandi scimmie erette. È “una luce di trascendenza venuta da altrove”, dice Mircea Eliade, storico delle religioni. La Bibbia interviene qui, per parlarci del soffio di Dio: “allora il Signore Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gen, 2,7). Ecco la risposta decisiva: l’uomo diventa creatore perché ha ricevuto il soffio divino che è venuto ad animarlo e a staccarlo definitivamente dall’Australopiteco. È la luce della trascendenza venuta da altrove di cui parla Eliade.
Affinché la comprensione della mia esposizione sia chiara per tutti, riassumo i diversi dati dei livelli della nostra conoscenza dell’uomo arcaico.
1° livello. Dal 1959 abbiamo una preziosa documentazione archeologica e paleoantropologica nuova: l’Homo habilis già eretto 2 milioni di anni fa; creatore della cultura di Olduvai; il taglio degli utensili, a una faccia e bifacciale; la scelta dei materiali; la scelta dei colori; Homo symbolicus, Homo creator, in crescendo per diventare Homo sapiens. Questa scoperta è la prova dell’unità psichica della specie umana.
2° livello. L’Homo habilis, erectus ha la coscienza di essere un creatore. Sa di sapere. (Y. Coppens, 1985). Secondo i paleoantropologi, all’origine di questa coscienza si trovano il raddrizzarsi, la verticalità, l’equilibrio antropico, la facoltà di simbolizzazione, un nuovo sguardo sul mondo esteriore. L’uomo non si fermerà più nella sua funzione creatrice perché il suo dinamismo interiore e il suo immaginario sono forze che spingono sempre verso nuove realizzazioni culturali e religiose.
3° livello. La spiegazione paleoantropologica non basta. La spiegazione della psicologia del profondo non fa che prolungare la spiegazione scientifica ma non è la spiegazione ultima. Per lo storico delle religioni bisogna andare più lontano poiché le creazioni religiose dell’uomo (culti funerari, religioni neolitiche, grandi religioni antiche) esigono la scoperta da parte dell’uomo dell’esistenza della Trascendenza, di un legame tra il Cielo e la Terra, tra l’uomo e la Realtà trascendente. Mircea Eliade parla “di una luce di trascendenza venuta da altrove”.
4° livello. La Genesi ci dice che il Dio creatore ha infuso all’uomo un soffio divino. Questa nozione di soffio divino è molto importante: bisogna comprenderla nel senso biblico del principio di vita. Noi abbiamo qui, l’espressione della rivelazione e della fede ebraica, cristiana e musulmana: il miracolo della vita.
Dopo questa precisazione relativa all’Homo creator, si apre la prospettiva delle realizzazioni storiche operate da lui nel corso dei secoli nell’immenso campo delle culture e delle civiltà. Mi limiterò ad alcuni aspetti relativi alla creatività religiosa.
II. La creatività dell’Homo religiosus del Vicino Oriente antico.
1. La prima grande simbologia religiosa — Verso l’8.000 a.C. a Mureybet sul medio Eufrate appaiono delle figurine femminili così come delle rappresentazioni simboliche del toro: questi simboli della donna feconda e del toro precedono la nascita dell’agricoltura. Due millenni più tardi dei tratti nuovi segnano le figure femminili presentate con più nobiltà da Byblos fino all’Iran: sono delle donne incinte, regali; un’attenzione particolare è posta per la testa e per gli occhi. Nelle rovine della città di Catal Huyuk in Anatolia, sono stati scoperte altre statuette di dee-madri, degli affreschi dipinti e degli alto-rilievi così come delle teste di toro, prova di un culto nel VI millennio. La diffusione di questo culto della dea-madre e del toro è testimoniata in tutto il Vicino Oriente, sulle coste adriatiche, a Creta, a Cipro, a Malta e in Macedonia dal VI al III millennio. Le maschere, i simboli e gli ideogrammi sono la prova dell’esistenza di riti. La scoperta di scene di oranti, le mani alzate verso la divinità mostra che all’epoca di Catal Huyuk, una vera religione neolitica si era diffusa in tutto il mondo mediterraneo. L’Homo religiosus ha creato la prima grande simbologia religiosa.
2. L’uomo Sumero e Babilonese — Nel IV millennio i Sumeri arrivano in Mesopotamia dove saranno raggiunti dai Semiti venuti dall’Ovest, gli Accadi. I Sumeri inventano la scrittura cuneiforme, un’invenzione geniale, dovuta al loro immaginario e al loro dinamismo creatore, una invenzione che è all’origine di una vera esplosione culturale e religiosa di cui abbiamo un mezzo milione di documenti (Bottero, 1987). In sumero, l’Essere divino è indicato con il vocabolo dingir, in accade con ilu. Un ideogramma precede sempre il nome divino: una stella che significa che dio è in alto. Il mondo divino è concepito come un mondo celeste: l’astrologia è la scienza religiosa che riallaccia il destino degli uomini alle volontà divine. Il divino si divide in molte personaggi incaricati dei quattro settori: cosmo, astri, natura, città-Stato.
Le divinità sono rappresentate sotto forma umana con, come caratteristiche essenziali, la luce e lo splendore. Questa luminosità può diventare una forza irradiante attorno alla testa della statua, un alone che sarà ripreso dall’India, dall’Iran e dall’Occidente. Le statue divine sono riparate nei templi, residenze divine. Percepito dai fedeli, lo scintillio risplende sui vestiti e all’interno dei santuari. Il rito dell’incoronazione delle statue degli dei e delle dee è capitale perché conferisce alle statue una potenza nuova e sovrannaturale. La luce e il fuoco danno al sacro la sua vera dimensione.
Impressionati dalla volta celeste, dalla luminosità degli astri e dal loro corso nel cielo, sensibilizzato al sacro e cosciente dell’esistenza di un mondo divino trascendente con degli dei e delle dee organizzati in gerarchia celeste, l’uomo mesopotamico ha creato una religione coerente con delle statue divine e dei templi, con dei sacerdoti e dei libri sacri, con delle feste e dei culti, con dei decreti divini e dei sacrifici giornalieri, con dei miti e delle preghiere. Ogni dio abitava nel suo tempio costruito su una terrazza e sempre ricostruito nello stesso posto. Ma gli dei abitavano anche nel cielo. Grazie alle ziggurat, torri sacre a piani munite di scale, i sacerdoti salivano a cercarli in occasione delle grandi feste, specialmente alla festa dell’akîtu che a ogni primavera segnava il rinnovarsi della vita in mezzo all’allegrezza popolare.
3. La creatività religiosa dell’Egitto faraonico — Dal IV millennio, gli abitanti della valle del Nilo non hanno cessato di meravigliarsi ogni giorno: al mattino il sorgere del sole che avrebbe percorso lo spazio della volta celeste per tuffarsi la sera dietro la linea dell’orizzonte; mai pioggia, ma la crescita annuale del Nilo e l’inondazione della valle con una regolarità impressionante; acqua a profusione, un limo nero fertile che prometteva bei raccolti, attorno al fiume una vegetazione lussureggiante sotto un cielo luminoso. L’Egiziano concepiva le origini come un’età dell’oro con l’emergere della terra, della luce, dell’uomo e la trasformazione del caos nel cosmo. Tale simbologia sottintende la sua creatività religiosa e culturale.
Dall’inizio del III millennio, tre teologie simboliste aprono un varco nel mistero delle origini. A Heliopolis, si pensava a Atoum-Râ, il dio solare creatore di una “collina primordiale” emergente dall’acqua. Così ogni tempio egiziano è considerato come una copia simbolica di questa collina: anche la piramide ne è una replica. I teologi di Hermopolis hanno immaginato una simbologia cosmogonica più complicata: collina originale, isola del fuoco (sole), uovo del mondo, dio in un fiore di loto. A Memphis capitale della prima dinastia è il dio Ptha che ha creato col suo cuore e la sua parola l’universo visibile e invisibile, tutti gli dei, le creature viventi, la giustizia e le arti. A ogni dio — ce n’erano 753 — ha assegnato un posto nel paese e nel cosmo.
Gli dei sono delle potenze simboleggiate con lo scettro regale e personificate con un corpo di uomo o di donna, o di animale. Per esprimere e simboleggiare la vita, il segno ankh è inciso sui muri dei templi, sulle statue, sulle steli, è portato dai re e dalle regine, accompagna il defunto nella sua tomba e sarà ripreso dai copti per simboleggiare la croce di Cristo che dà la vita al mondo.
Tutta la cultura egiziana porta l’impronta di una simbologia sacra, ivi compresa la scrittura geroglifica riservata agli scribi, i maestri dell’iniziazione. Elaborato secondo la simbologia tripartita del ka, il soffio divino, del ba, la coscienza personale e del akh, il principio di immortalità, il mistero della vita ingloba la vita terrestre e la vita dell’aldilà poiché con l’imbalsamazione si rifà al defunto un corpo di immortalità al quale un rito rende l’uso simbolico della bocca, dell’odorato, della vista, dell’udito. Maat, lo stato della creazione, della natura e dell’Egitto previsto dagli dei creatori è un dono divino personificato in dea.
III. Simboli, sorgente di ecclesiologia dei Padri.
Dalla fine del I secolo comincia l’elaborazione di una teologia cristiana che presenta al mondo contemporaneo della nascita del Cristianesimo una sintesi del messaggio evangelico. Ci fermeremo alla nascita dell’ecclesiologia e vedremo come prende radici nei simboli del mondo biblico e del mondo ellenico che gli servono come supporto e fattore di crescita. Insisto sul doppio supporto: mondo biblico, mondo ellenico.
1. La vigna e l’albero della vita — Il simbolo della piantagione, phuteia, ritorna regolarmente, e questo simbolo è preso a prestito dal giudeo-Cristianesimo (Daniélou, 1961). La piantagione è un simbolo che fa riferimento sia alla realtà del Paradiso, dove la piantagione fatta da Yahvé è irrigata dai quattro fiumi, che alla simbologia della vigna in Isaia 61,2. Secondo San Cipriano “la Chiesa, come il Paradiso, contiene nei suoi muri degli alberi carichi di frutti. Essa irriga questi alberi con quattro fiumi che sono i quattro Vangeli attraverso i quali dispensa la grazia del battesimo”. Sant’Ephrem e Ippolito da Roma parlano del Verbo che è l’albero della vita piantato al centro del Paradiso. Quest’albero della vita piantato al bordo delle acque ritorna come simbolo nelle catechesi battesimali. Abbiamo a che fare con una serie di testi maggiori nei quali un insieme simbolico costituisce un gruppo creatore importante per la dottrina della Chiesa: phuteia come simbolo della Chiesa, l’albero del Paradiso figura del Verbo e annunciatore del battesimo (Daniélou, 1961).
Segue una precisazione: l’albero della vita diviene ceppo di vigna. Questa precisazione è influenzata dal linguaggio di Gesù che d’altra parte ha le sue radici nella Bibbia poiché Israele è la vigna di Yahvé in Isaia ed in Ezechiele. Il simbolo dell’unione del ceppo e dei tralci o del tronco e dei rami per indicare l’unione di Cristo e della Chiesa si trova in Ippolito da Roma e in Zenone da Verona che scrive che la vigna del Signore fu dapprima la sinagoga poi la Chiesa nostra madre. Diversi testi dei Padri mostrano il riferimento al simbolo della vigna riferito alla Chiesa nel vangelo di Giovanni (Gv 15,1-7). Il catechismo dei primi secoli cristiani ha sfruttato questa simbologia nell’ottica dell’ecclesiologia e all’interno di questa spiega il senso del battesimo e del suo mistero. La simbologia della piantagione, phuteia, ripresa dal Paradiso terrestre e accentuata dal discorso di Gesù sulla vigna è servita a segnare un aspetto caratteristico della Chiesa, quello del suo innesto da parte degli Apostoli e dei loro successori. Questa simbologia diviene una leva della creatività missionaria dei primi secoli. Così Clemente di Alessandria mostra che i pagani sono trapiantati nella buona terra della Chiesa per trovarvi frutto. La Chiesa di oggi ritrova questi grandi simboli ecclesiologici dell’epoca patristica. Ciò mostra l’attualità del nostro lavoro nella riscoperta della creatività dei simboli.
2. La nave della Chiesa — La simbologia nautica occupa un posto di rilievo nell’elaborazione dell’ecclesiologia dei Padri. Questa simbologia è molto ricca di significati e proviene da due mondi differenti: dal mondo biblico, specialmente dagli avvenimenti della vita di Gesù sul mare di Tiberiade e nella barca di Pietro, da un lato e dall’altro dal mondo greco che era un mondo di navigatori.
a. Antenna crucis. L’antenna della croce — La simbologia dell’albero maestro, al quale è attaccato il pennone che dà così forma ad una grande croce in legno, antenna crucis si trova già presso san Giustino nel II secolo (Apologia I,55,3 e 4). Due altre figure intervengono: l’arca di Noè e la barca di Pietro. Per mezzo di questa simbologia combinata, i Padri costruiscono l’ecclesiologia: ai loro occhi, la Chiesa è la barca composta di numerosi legni diversi ma diretta e guidata dall’albero maestro che è la croce di Cristo; “crucis ligno portamur” dice Agostino (H. Rahner, 1964). La nave con il suo albero maestro appare come il simbolo della croce salvatrice. È senza dubbio la forma più antica del simbolismo salvifico della nave: essa persisterà nel corso dei secoli. In certi testi, l’antenna è considerata come un luogo di riposo, anapausis, mentre la scala rizzata contro l’albero maestro permette ai fedeli di montare fino ai cieli. Questa simbologia cosmica della scala è nello stesso tempo presente sia nella Bibbia che nel culto di Mitra. I Padri la riprendono dandole il suo vero senso alla luce della croce di Cristo, salvezza degli uomini. Ippolito da Roma ha evocato specialmente questa simbologia della salvezza.
b. La nave simbolo della Chiesa — Nell’antichità le navi erano costruite in legno e questa stessa costruzione permetterà un primo significato. Diversi testi del III secolo spiegano minutamente il simbolismo delle parti costitutive della nave e giocano sul senso dei diversi legni per mostrare gli elementi umani che entrano nella composizione della Chiesa e per insistere sulla sua unità. Come i diversi legni non fanno che una nave, così i diversi ordini sono necessari all’unità della Chiesa, una nave di cui Dio è il proprietario, di cui Cristo è il pilota, di cui il vescovo è la vedetta, di cui i presbiteri sono i marinai e i diacono i capi rematori. Epiphane ha dettagliato i pezzi della costruzione e ha mostrato come essi contribuiscono all’unità.
Un’altra sorgente di ispirazione simbolica è l’episodio della tempesta sedata in Marco (Mc 6,47-51). La visione dei dodici apostoli attorno a Gesù ha creato l’occasione per lo sviluppo del tema della nave che è la Chiesa luogo di salvezza in mezzo al mondo che assomiglia al mare in tempesta. Secondo Tertulliano, la barca scossa dai flutti è il simbolo della Chiesa in mezzo allo scatenarsi delle persecuzioni e delle tentazioni allorché il Signore sembra dormire fino al momento in cui si sveglia per la preghiera dei santi, simboleggiati dagli Apostoli, egli domina il mondo e rende la pace ai suoi (De baptismo, XII, 8).
Queste poche indicazioni non sono che una breve introduzione alla vasta simbologia della nave e della navigazione utilizzata dai Padri nella loro ecclesiologia (vedi H. Rahner, 1964).
Tentativo di sintesi
Il simbolo e l’orizzonte dell’anno 2000 — Al termine delle mie tre relazioni sul simbolo vorrei procedere a una breve sintesi.
Mircea Eliade dice che il simbolo appartiene alla sostanza della vita spirituale e che il pensiero simbolico precede il linguaggio e la ragione discorsiva. Io ho mostrato che l’Homo habilis si rivela come un Homo symbolicus e abbozza, con la creazione della prima cultura, l’identità dell’Homo sapiens. Ho insistito sulle recenti scoperte africane perché sono capitali per la conoscenza dell’Uomo. Esse permettono di risalire fino alle origini e di coprire ciò che viene chiamato tempora ignota, i tempi oscuri, durante i quali l’Homo habilis creava le prime culture, e così facendo, si rivelava Homo symbolicus e Homo religiosus. Eliade ci ha mostrato con tutta la sua opera che lo studio dei simbolismi interessa la nostra conoscenza dell’uomo come tale e il ruolo che esso ha laddove si parla di un nuovo umanesimo e di una nuova antropologia.
Il simbolo è rivelatore dell’invisibile e del mistero. Attraverso il simbolismo della volta celeste l’uomo arcaico è entrato nel mistero della Trascendenza, ha fatto le prime esperienze del sacro (J. Vidal, 1992). Queste esperienze si moltiplicheranno e daranno alla coscienza umana una crescita che non cesserà più. Decifrata alla luce dei simboli, la vita umana rivela le sue profondità il suo lato divino e sacro. In Mefistofele e l’Androgino, Mircea Eliade spiega come il cosmo parli attraverso i simboli. Essi rivelano delle modalità del reale che non sono evidenti sul piano dell’esperienza immediata; essi considerano il reale, cioé il sacro, come cifrario dell’opera divina; essi sono multivalenti e permettono all’uomo di scoprire una certa unità del cosmo, le sue origini, le sue leggi che formula attraverso dei miti e dei riti. Il simbolismo religioso ha anche la capacità di esprimere la coincidenza degli opposti e dei paradossi e guarda sempre delle realtà che impegnano l’esistenza umana. Così i simboli hanno svelato all’uomo arcaico delle strutture del reale, delle dimensioni dell’esistenza e hanno dato un significato all’esistenza umana. In altre parole l’Homo religiosus fu dapprima Homo symbolicus.
Come si pone la questione del simbolismo biblico e della rivelazione nella Bibbia? Abbiamo forse un rifiuto del simbolismo cosmico? No! perché il simbolismo giudeo-cristiano non contraddice il simbolismo universale e “certi Padri della Chiesa hanno misurato l’interesse della corrispondenza tra le immagini archetipe proposte dal cristianesimo e le immagini che sono ben conosciute dall’umanità” (Eliade 1952). Nella rivelazione cristiana i simboli hanno ricevuto una nuova valorizzazione, ma questa fu sempre condizionata dalla struttura stessa del simbolo. C’è un compimento del senso. È il caso dell’acqua nel battesimo. È il caso dell’Albero cosmico che è ripreso nel simbolo dell’Albero della Croce eretto tra la Terra ed il Cielo.
Il simbolo non è soltanto rivelatore del mistero e dell’invisibile, ma è anche sorgente di creatività e a questo titolo è all’origine di un vasto campo nelle attività umane. In effetti tutte le culture affondano le loro radici nell’immaginario dell’uomo. Mettendo in opera una dinamica di unità e di totalità e mobilitando le pulsioni della vita psichica profonda che Jung chiama “archetipi”, il simbolo sviluppa delle nuove sorgenti di energia. Così l’esperienza simbolica diviene un’esperienza biologica, essa diviene luce e forza di creazione. A partire da questa esperienza l’uomo passa allo stadio delle realizzazioni e delle creazioni culturali e religiose.
Le immagini e i simboli esercitano una profonda influenza sulla vita, sull’orientamento, sulle attività dell’uomo e della società. Bisogna prenderle sul serio e servirsene a ragion veduta. Eliade ha scritto (1981) che “l’uomo moderno brulica di miti, mezzi dimenticati, di ierofanie decadute, di simboli profanati e… che la desacralizzazione ininterrotta ha alterato il contenuto della vita spirituale”. Ciò si verifica ogni anno sempre più nelle nostre società occidentali.
Il nostro studio del simbolo e del simbolismo è pienamente di attualità. Esso ci preme per passare all’azione al fine di usare le nostre forze al servizio dei nostri contemporanei e specialmente dei giovani. Assistiamo ad un impoverimento drammatico dovuto ai positivismi ed ai materialismi, agli pseudo-miti del sesso e della droga, ai nuovi simboli di una società alla deriva del godimento e dell’edonismo. Stiamo per passare dal cosmo al caos.
L’uomo d’oggi deve ritrovare le strutture del reale, le dimensioni e il senso della sua esistenza nel mondo. Deve ritrovare i suoi simboli, iniziatori all’invisibile, rivelatori del senso e sorgenti di una nuova creatività. È un passo indispensabile per la creazione di una vera cultura. Ogni anno il Meeting ce ne consegna degli esempi attraverso le sue esposizioni e le sue mostre artistiche. A voi l’augurio di continuare perché una delle funzioni del simbolo è di essere promotore. Tra natura, cultura e religione c’è una missione di legame e di educazione all’invisibile, di trasformazione d’energia e di costruzione di una alleanza nella società *.
Demetrescu: Come definire il tempio cristiano? La Chiesa è nata con Cristo, le sue porte si sono aperte duemila anni or sono e rimarranno spalancate fino alla Parusia, fino alla seconda venuta quando si chiuderanno per sempre e avrà inizio il Giudizio. Per tutti, per chi sarà dentro e per chi sarà fuori.
Dopo il Giudizio il tempio non avrà più ragione di esistere, come sta scritto nell’Apocalisse di Giovanni di Patmos perché nella Città sacra, nella Gerusalemme celeste, il tempio sarà Dio stesso. E non ci saranno altari né roghi accesi per l’olocausto perché il grande sacerdote ha sacrificato se stesso. Né serviranno candelabri, fiaccole o altri lumi perché tutto risplenderà della propria luce; né arpe né organi per incantare i silenzi perché nelle anime vibrerà la musica della gioia.
1. Simbolica del tempio cristiano
Arca, Etimasia, Corpo di Cristo — Tre significati assume la Chiesa terrena nell’arco di tempo che scorre da Betlemme fino alla Parusia: Arca, Etimasia, Corpo di Cristo.
La Chiesa è la nuova Arca di salvezza dal diluvio del male insito nella storia stessa dell’umanità. Quando alla fine dei tempi il diluvio della storia si fermerà, dall’Arca approdata sulla montagna sacra scenderanno i vivi e dalle valli di fango saliranno a Giudizio i morti rimasti fuori dall’Arca.
La Chiesa è allo stesso tempo Etimasia che in greco significa preparazione, attesa della seconda venuta. Durante tutto il periodo di attesa della parusia la Chiesa sostituisce la presenza-assenza di Cristo, e in questo senso è il Corpo di Cristo.
Arca, Etimasia, Corpo divino: tutta la simbolica del tempio è incentrata su questa triade. Non si può capire la complessità dei significati che stanno alla base della architettura e dell’iconografia cristiana senza partire da questi tre simboli fondamentali.
Per definizione il tempio è lo specchio in cui si riflette il mondo celeste (Templum era lo strumento antico per osservare il firmamento). Tutti i tempi rispecchiano la perfezione del creato ed in essa la presenza divina. Il tempio cristiano, e sta qui la grande novità, non è più l’immagine riflessa del divino, ma il corpo stesso del Dio incarnato. L’abside è la testa, la navata il corpo, il transetto le braccia aperte, l’altare il cuore di Cristo, come scriveva Onorio di Autun.
Quando Gesù scacciò i mercanti dal tempio i Giudei gli chiesero conto: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?” Rispose loro Gesù: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. E i giudei: “Questo Tempio è stato costruito in 46 anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Ma “Egli parlava del Tempio del suo corpo”, commenta Giovanni (Gv 2,18-21). La Chiesa cristiana è la Chiesa dell’incarnazione. La si può definire quindi come l’incarnazione dell’antico tempio di Gerusalemme nel Corpo di Cristo.
Con la Sua morte in croce, moriva anche l’antico tempio. “Il grande velo che copriva il Sancta Sanctorum si squarciò in due da cima a fondo” (Mt 27,51). Il mistero nascosto agli occhi del popolo nel tempo ebraico si scoprì agli uomini. Lo spirito si rivelò alla ragione. Al posto del Dio dei sacerdoti, del Dio severo e vendicatore della vecchia legge venne il Dio degli umili, della misericordia e del perdono. È questa l’essenza del tempio cristiano. Tutta la sua simbolica riassume i significati dell’incarnazione del Verbo, immagine visibile del Dio invisibile.
La chiesa cristiana nacque nell’istante stesso in cui lo sguardo di Elisabetta si posò sul ventre di Maria venuta a visitarla nella sua casa in montagna. “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, racconta Luca nel Vangelo, il bambino (Giovanni Battista) le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e Benedetto il Frutto del tuo grembo”” (Lc 1,41-42). Incontrando il suo Battista, prima di scendere nell’inferno della carne, Gesù metteva la prima pietra non contaminata dai peccati del mondo per edificare la Sua Chiesa.
Il nuovo tempio sorgeva, come nel sogno di Ezechiele, su un’alta montagna, nella casa di Elisabetta, presso la città di Gerusalemme, nel silenzio del grembo cosmico, non profanato dai rumori del cantiere mondano, dai martelli e dalle asce per squadrare le pietre, come voleva la tradizione ebraica. Le pietre dovevano essere lavorate lontano dal cantiere e portate già tagliate. Si dovevano soltanto mettere insieme. Le “pietre vive” dovevano combaciare l’una con l’altra nella geometria della nuova legge annunciata dai profeti.
Come per l’Arca di Noè, per il tabernacolo di Mosè e per il Tempio di Salomone, le proporzioni della Chiesa sono rivelate da Dio stesso. “Ecco, ti ho fatto il disegno sul palmo della mia mano, le tue mura sono sempre davanti a me”, dice il Signore a Israele (Is 49,16). Ezechiele riceve nel sogno le misure del nuovo tempio di Gerusalemme, la cui struttura ha una sorprendente analogia con la Chiesa romanica. Le regole costruttive venivano da Dio che ne è il vero architetto. I costruttori imitano Dio, eseguendo il Suo progetto. Per questo la Chiesa romanica non è firmata. L’anonimato medioevale rende omaggio al Grande Costruttore del tempio edificato con le pietre viventi degli uomini, una Chiesa viva fatta di anime e non di pietre.
Nel rito di consacrazione della chiesa romanica, che dall’XI secolo, fa parte della liturgia, l’inno riporta le parole di Pietro (2,5): “Beata città di Gerusalemme simile ad una visione di pace, costruita nei cieli con le pietre viventi”. Il vescovo canta benedicendo: “La pietra che è stata buttata dai costruttori è diventata la pietra d’angolo”. Cristo è la pietra d’angolo della Nuova Gerusalemme, tempio del Suo Corpo.
Se la Chiesa cristiana è il riassunto del cosmo, della genesi, ogni chiesa, corpo di Cristo, è il centro del mondo, è la nuova Arca che salva l’uomo dal diluvio del male. Entrando nel tempio si entra nel mistero della creazione e della salvezza. Sono questi i due rami fondamentali dell’iconografia cristiana.
Orientatio — Simbolo del Centro, la chiesa romanica è costruita in uno spazio sacro consacrato in tempi immemorabili, spazio da sempre dedicato ad altari e templi. La costruzione di ogni nuovo altare riprende il mito cosmogonico della creazione del mondo. La scelta primordiale di uno spazio sacro, seguiva certe tecniche tradizionali tra cui in primo luogo la separazione dallo spazio profano con un recinto e l’orientatio.
L’analogia uomo-chiesa-cosmo ci aiuta a comprendere il significato di quello che si chiama orientatio. L’antropologia moderna definisce l’uomo un animale spirituale orientato. Il suo orientamento agisce in due direzioni: verso la luce (eliotropismo) e verso Dio (teotropismo). Da sempre l’uomo è stato attratto dalla luce del sole e dal mistero della volta celeste. Il suo duplice orientamento, orizzontale e verticale, verso il sorgere del sole che dà la vita e verso la stella polare, centro del cosmo, indica le due coordinate del suo essere nel mondo: vitale e spirituale.
Allo stesso modo è orientato il tempio cristiano, incarnazione di Dio nell’uomo. L’asse longitudinale è orientata verso il sol levante, verso Oriente (lo dice la parola stessa), e per questo si chiama l’asse solare, mentre l’asse verticale, axis mundi, collega il tempio alla stella polare.
La simbolica dell’asse solare si svolge tra la luce e l’oscurità. In tutte le mitologie il Paradiso si trova in oriente, culla del sole, mentre Ade sta in occidente, nella caverna cosmica delle tenebre. Adamo è stato cacciato dal Paradiso per la porta di ponente, verso un mondo senza luce. L’Ascensione del Cristo ai cieli ebbe luogo sopra il sol levante. La grande battaglia primordiale tra l’Arcangelo Michele e Lucifero, per il dominio del creato, fu data sulla soglia tra il regno del sole e l’abisso delle tenebre nel profondo ovest. Fino al V secolo i cristiani pregavano dinanzi al sol levante, mentre gli ebrei guardavano nella direzione del Tempio. Le tombe dei primi cimiteri cristiani erano orientate, il defunto guardava verso il sole che vince le tenebre.
L’asse verticale, axis-mundi, orienta la chiesa verso l’alto, attraversa il centro del gradino che separa la navata dall’abside e congiunge il cielo, la terra e l’inferno, il divino e il demoniaco. Anticamente vi era incastrata una pietra che segnava il centro cosmico della Chiesa. La Stella Polare, asso fisso dell’emisfero boreale, attorno al quale ruota la costellazione dell’Orsa maggiore, è il punto sacro di riferimento della mitologia stellare. trono di Dio, astro che non tramonta mai, perno dell’universo. Per Gregorio Magno “l’Orsa maggiore è la Chiesa che ruota attorno alla verità”, mentre per Marie Madeleine Davy la Stella Polare è “la chiave degli antichi segreti perduti dall’uomo moderno, tagliato fuori dal cosmo” (Initiation à la symbolique romane).
Orientata in alto verso il trono di Dio, la chiesa romanica può essere orientata orizzontalmente anche verso il Nord indicato dalla Stella Polare. Il costruttore di chiese romaniche orientava di regola l’altare verso Est, ma alcuni templi fanno eccezione, come per esempio Santa Maria di Bominaco presso l’Aquila, con l’altare che guarda a Nord. Questo orientamento in funzione della Stella Polare si può incontrare anche in luoghi dove sorgevano anticamente templi pagani o celtici.
L’asse orizzontale orienta l’edificio verso il Sole, ma allo stesso tempo unisce i due poli della chiesa: il polo cosmico rappresentato dal portale d’ingresso, limite e soglia del mondo esterno, e il polo mistico costituito dall’altare nel cuore dell’abside. Tra i due poli si svolge il percorso iniziatico, il cristiano entra nel tempio per il portale Ovest. Dalle tenebre del ponente si avvicina gradualmente alla luce del Sole che splende nell’altare. La porta Ovest era destinata al popolo, mentre il portale Sud bagnato dalla luce di mezzogiorno era riservato agli iniziati (sacerdoti teologi saggi), già illuminati dalla conoscenza. Sul percorso iniziatico si svolge la via salutis, la via della salvezza che dal portale conduce verso l’altare, verso il trono del Verbo incarnato e allo stesso tempo guida in alto verso il Mistero celeste.
Se la chiesa è il riassunto dell’universo, l’altare è il riassunto della chiesa stessa. La parola altare viene dal latino altus che significa luogo alto. I gradini che solitamente conducono all’altare, ricordano la salita del tempio di Gerusalemme, la montagna sacra sulla quale fu edificato. Cuore della Chiesa che sta nel cuore della montagna sacra, l’altare è il microcosmo in cui si concentra il mundus, l’intero creato. La liturgia dell’altare che si svolge sotto il Cristo Pantocrator, creatore dell’universo, rispecchia la liturgia celeste della Genesi.
Quando è alzato su un Martyrium, su una cripta che ospita le reliquie di un cristiano sacrificato per Cristo, l’altare rispecchia il mondo dei martiri. Talvolta una reliquia è incastrata nella pietra di un altare. Nell’Apocalisse (Ap 6,9), Giovanni di Patmos scrive: “Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio”. Nel rito di consacrazione di un altare, il Vescovo traccia 5 volte il segno della croce con la crisma dicendo: “Signore che hai fatto la pietra, simbolo della durata e della forza, questa pietra a Te oggi dedichiamo come Tuo altare”.
Simbolica dell’architettura — La geometria dell’architettura romanica è rigorosamente simbolica. La pianta dell’edificio fondata sul dialogo tra cerchio e quadrato mette a confronto i due simboli fondamentali del rapporto uomo-Dio. Il cerchio che è simbolo del cielo, del sacro, dello spirituale. Il quadrato invece rappresenta il cosmo, la materia, la condizione terrena. Per secoli la chiesa bizantina era costituita da un cubo sormontato da una cupola. Santa Sofia di Costantinopoli ne è il prototipo. Nel romanico la navata è rettangolare, appartiene alla regola del quadrato. L’abside e la cupola sono circolari, dedicate a Dio, mentre la navata è destinata al suo popolo. Dio e uomo, Spirito e materia si incontrano nel tempo mistico e nello spazio terreno del tempio e della liturgia. Nell’austerità dell’architettura cistercense del XII secolo l’abside è ancora quadrata, poi diventa poligonale, mentre nel romanico e nelle chiese dei Templari è sempre circolare. La cupola, come a San Sepolcro di Gerusalemme, rispecchia la volta dell’universo.
Quello che distingue il romanico dall’architettura gotica, o rinascimentale, è la frequente irregolarità della pianta dell’edificio. Per analogia con il corpo umano la chiesa romanica sfugge al rigore della simmetria. La vita non è geometrica. I capitelli romanici non sono mai uguali, non si ripete mai lo stesso motivo ornamentale, come nei tempi neoclassici dove regna la ripetizione modulare. Talvolta l’abside romanica è deviata rispetto all’asse longitudinale della chiesa per ricordare la testa piegata di Cristo sulla croce. Questa prevalenza dell’umano sul rigore geometrico, verrà eliminata dal razionalismo della nuova architettura umanistica, quando il tempio diventerà palazzo e il simbolo si spegnerà nel puro pretesto decorativo. Il calore del Dio-uomo che respira assieme ai fedeli nello spazio romanico, vivo e imperfetto come la vita stessa, scomparirà gradualmente dalle gelide macchine architettoniche rinascimentali e barocche per disertare del tutto dagli squallidi garage per le anime del nostro tempo, cioè le chiese fatte oggi.
Alla voluta imperfezione geometrica del romanico si contrappone il rigore simbolico dei numeri, imperfetta da una parte ma rigorosa per quel che riguarda il simbolo dei numeri. Pari all’Arca e al Tempio di Salomone, il rapporto ideale tra altezza e lunghezza dell’edificio deve essere di uno a dieci e di uno a sei tra larghezza e lunghezza.
Sei, numero dell’universo, è il numero dei giorni della creazione, sei sono i punti cardinali della croce tridimensionale, la stella di Davide a sei punte è composta di due triangoli sovrapposti che per i cristiani sono le due nature di Cristo: divina e umana.
Dieci è il numero perfetto: due volte cinque [microcosmo (5) + macrocosmo (5) = Dio].
Tre è il numero del cielo. Dio è uno in tre persone, i Re Magi sono tre, simboli delle tre dignità di Cristo: re, sacerdote e profeta; tre sono i livelli della vita umana: materiale, razionale e spirituale.
Quattro è il numero del quadrato, della materia, del creato, dell’incarnazione, dei Vangeli, quattro sono i fiumi del Paradiso, quattro le lettere del nome di Yahvé (YHVH) (Y=uomo, H=leone, V=toro, H=aquila — corrispondente al tetramorfo, ai quattro viventi).
Sette è il numero completo del rapporto uomo-Dio: tre, spirituale, sommato a quattro, materiale. Sette sono i peccati capitali, sette le Chiese dell’Apocalisse, sette le trombe del giudizio, il numero sette è la chiave del Vangelo di Luca, costruito su serie di sette, ecc.
Il dodici, tre volte quattro risulta dai quattro punti cardinali moltiplicati per i tre livelli cosmici: il cielo, la terra e l’inferno. Dodici sono le porte della Gerusalemme celeste, dodici le tribù di Israele, dodici i mesi dello zodiaco, dodici gli apostoli, due volte dodici sono i vegliardi dell’Apocalisse.
La simbolica dei numeri è profondamente radicata nella struttura e nell’iconografia del tempio romanico. “Dio ha messo il numero in tutte le cose”, scrive Sant’Agostino. Per Boezio, “Un uomo estraneo alla matematica è incapace di arrivare alla vera conoscenza”.
Il mistero dei numeri non investiva soltanto il tempio, dimora del corpo di Cristo. Nel chiostro, prefigurazione della Gerusalemme celeste, della città sacra, il rapporto tra l’area totale e il quadrato del giardino interno doveva essere rigorosamente di due a uno, per apparire allo sguardo di uno a tre, per effetto della prospettiva. Il calcolo matematico essendo impossibile a quel tempo, i costruttori romanici applicavano il metodo geometrico di Platone, descritto nel dialogo tra Socrate e lo schiavo (nel Menone), tramandato dagli arabi nel Medioevo.
Il pozzo scavato al centro del giardino, del chiostro, accanto all’albero della vita, segnava l’ombelico del cosmo attraverso il quale l’axis mundi scendeva nel regno dei morti. Quando il pozzo era coperto, aveva una tettoia, il Cristo raffigurato affrescato sotto la cupola del tetto si rifletteva nelle profondità dell’acqua per benedire i defunti.
Il portale — Se l’axis mundi è la via cosmica per la quale il mistero celeste scende nel tempio romanico, il mondo terreno vi può accedere attraverso il portale. L’invito di Cristo agli uomini della terra è chiaro come il sole: “Io sono la porta, se uno entra attraverso di Me, sarà salvato” (Gv 10,9). La porta del tempio di Cristo si è aperta per dire al mondo che le porte del cielo sono spalancate a tutti fino alla fine dei tempi. Quando si chiuderà avrà inizio la conta delle anime, il grande giudizio, e rimarrà dentro soltanto chi sarà scritto nel libro della vita.
Il portale è prima di tutto “un arco di trionfo e un trono di Gloria” (Burckhardt). Ma un arco trionfale che non si apre nello spazio, bensì nel tempo: chi vi entra non passa da un luogo a un altro luogo ma da un tempo ad un altro tempo, dal tempo della vecchia a quello della nuova legge. Il portale del tempo cristiano è la soglia che divide la storia dall’eternità.
Il portale riassume simbolicamente la pianta dell’edificio. Il rettangolo dei battenti riproduce la navata, mentre il timpano ad arco, sovrastante l’architrave, riprende la forma dell’abside. Il popolo terreno passa attraverso il quadrato dei battenti mentre il timpano semicircolare, simile all’abside e alla cupola, ospita il Cristo in gloria benedicente. La porta, aperta a tutti fino alla Parusia, preannuncia il Giudizio Universale ampiamente rappresentato sui portali di alcune grandi cattedrali del XII secolo, come Autun, Vezelay e Moissac.
Il Cristo del portale romanico è solare sempre in gloria. Appena un secolo dopo, nel gotico, sarà sostiuito da un Cristo in agonia, crocefisso. Conseguenza di un profondo mutamento nel pensiero teologico: al Christus vincit del romanico seguirà il Christus victus. L’uomo-Dio sconfitto dalla morte prenderà il posto del Dio-uomo che sconfigge la morte. Il mondo solare del XII secolo si oscurerà. I difensori del gotico parleranno di una umanizzazione del Cristo che soffre come noi trascurando l’essenza del cristianesimo che non è fondato sull’agonia, ma sulla resurrezione di Cristo. Muteranno anche alcuni caratteri simbolici. I cornicioni e le grondaie dei tetti si riempiranno di orrendi mostri, raffigurati con realismo, per infondere il terrore del giudizio e del castigo finale. All’inizio del Rinascimento il tribunale ecclesiastico chiamato Inquisizione diventerà istanza di supplizi, proprio quando il nuovo umanesimo metterà l’uomo al centro dell’universo.
Tre sono i temi fondamentali illustrati dai portali romanici: la Psichomachia, la vita di Cristo e il Giudizio Universale. Temi che corrispondono a programmi iconografici determinati da certe influenze architettoniche, estetiche, morali e teologiche.
La Psicomachia, ovvero la lotta fra le virtù e i vizi per il possesso dell’anima, è un tema nato dall’omonimo poema dello scrittore catalano Prudenzio, vissuto nel V secolo, che ebbe una vasta diffusione nel medioevo. Il tema fu raffigurato prevalentemente sugli archivolti dei portali romanici privi di timpano, in un’ampia area geografica estesa nell’ovest della Francia. Le chiese con simili timpani si trovano sulle vie di pellegrinaggio che scendevano da Mont Saint Michel verso Santiago di Compostela.
Il tema è abbinato sui portali ai segni zodiacali e ai simboli delle vergini sagge delle vergini stolte, ai quali si aggiunge il simbolo giovanneo dell’agnello mistico. Prendiamo come esempio il portale ovest della chiesa romanica di Aulnay, nel centro ovest della Francia, eretta sulla via di pellegrinaggio che portava da Poitier a Compostela. Il portale ovest era destinato al popolo, il tema iconografico aveva dunque una funzione educativa, oltre che di richiamo ai valori spirituali del vangelo.
La composizione del portale è disposta su quattro archivolti che illustrano i tre livelli, o le tre vie della vita cristiana: terrena, spirituale e celeste. Sull’archivolto superiore i segni zodiacali e i lavori delle stagioni parlano della via terrena, della sopravvivenza materiale dell’uomo.
I due archivolti mediani sono dedicati alla salvezza dell’anima: sull’arco di sopra, a sinistra, le vergini sagge con la lampada dritta, simbolo della vigilanza spirituale, a destra le vergini stolte, con la lampada rovesciata, senza olio, simbolo dello smarrimento. In mezzo lo Sposo, Cristo, nella sala del banchetto.
Sull’archivolto inferiore le sei virtù con scudo e lancia che calpestano i vizi: Patientia-Ira, Castitas-Luxuria, Humilitas-Superbia, Largitas-Avaricia, Fides-Idolatria, Concordia-Discordia. In mezzo una corona, simbolo della vittoria, del premio divino.
Sull’ultimo archivolto l’Agnello risorto, in mandorla, fiancheggiato da angeli, simbolo della via celeste.
Cristo appare quattro volte su questo portale, in diverse ipostasi. Al centro dello zodiaco, raffigurato dal cancro, segno del mese di giugno, solstizio d’estate, assimilato a Cristo come “solstizio eterno”, del sole che non tramonta mai. Sul secondo arco in mezzo al banchetto eterno, come Sposo promesso alle vergini sagge, e sotto come corona delle virtù trionfanti sui vizi. E infine, come Agnello sacrificale e risorto, in mandorla, fra gli angeli.
Era una simbolica familiare ai contadini del tempo. “Il gioco degli sposi”, parabola evangelica recitata da attori che giravano per le città nel XII secolo, godeva di un grande successo. Un simile linguaggio colpiva direttamente, ammoniva ed istruiva senza spaventare, senza aggredire e terrorizzare le anime con immagini di demoni e mostri terribili come in certi apocalissi in cui il realismo brutale prevaleva sul simbolo. Ovviamente la scelta iconografica corrispondeva ad un temperamento più sereno e gioioso, pur nel timore del Giudizio di Dio e delle trappole del peccato.
Sul portale di mezzo giorno, destinato agli iniziati, ai teologi, ai maestri della parola, si svolge su quattro archivolti sovrapposti uno dei più spettacolari sinedri di simboli di tutta l’arte romanica.
Sull’archivolto superiore 35 personaggi, uomini e animali bizzarri compongono il physiologus, un vero bestiario simbolico sui temperamenti e sul comportamento umano: animali fantastici, sfingi, dragoni, sirene e tritoni, simboli di tentazioni pericolose, cervi e caproni, asini e uomini che cavalcano leoni (i quattro temperamenti), i vizi della carne e quelli dello spirito, uccelli e testa d’uomo (l’anima che lascia il corpo), asini che suonano l’arpa (l’eterna presunzione umana) e perfino la messa ridicola, tutto il carnevale variopinto della condizione umana sfila sull’arco del portale.
Sui due registi mediani i 24 vegliardi dell’Apocalisse sono raffigurati ben due volte. In alto, seduti sul trono con sopra il capo la corona, i vegliardi tengono in una mano l’ampolla e nell’altra un liuto. Sull’arco sottostante, i vegliardi, in piedi, tengono in modo alternato uno l’ampolla e un altro un libro. Ci troviamo di fronte a simboli di una eccezionale importanza.
L’ampolla, in mano ai vegliardi seduti sul trono, è simbolo della conoscenza rivelata attraverso la preghiera, la meditazione, la conoscenza preadamica, prima del peccato, quando l’uomo parlava la lingua degli dei ed era immerso nei misteri dell’universo senza dover tribolare. È la via della conoscenza dell’assoluto. Il libro che tengono i vegliardi nel registro inferiore è invece simbolo della conoscenza acquisita con lo sforzo della ragione, la conoscenza postadamica, dopo il peccato, quando l’uomo fu condannato a guadagnare, d’ora in poi, la conoscenza con il sudore della sua mente. È la via della conoscenza relativa, caduca e contraddittoria nello scorrere del tempo. Un tema fortemente significativo nel dibattito perenne tra ragione e rivelazione, soprattutto in un mondo come il nostro in cui la ricerca spirituale è stata completamente accantonata a beneficio unilaterale di una conoscenza pragmatica, meramente utilitaria; squilibrio che ha portato ad una grave alienazione della coscienza dell’uomo.
Il contrasto fra i due registri sul portale di Aulnay non è manicheo. Sull’archivolto inferiore non a caso l’ampolla e il libro sono abbinati, così come le sette Arti liberali su cui poggiava l’istruzione del tempo, erano composte dal trivium — la grammatica, la retorica, e la dialettica — arti della parola, del verbo, chiamate artes sermocinales, e dal quadrivium — l’aritmetica, la musica, la geometria e l’astronomia — arti di numeri, della ragione positiva, denominate artes reales.
Il tema delle due vie della conoscenza si è largamente diffusa sui portali delle pievi di pellegrinaggio e della cattedrali del centro-ovest della Francia, fino ai Pirenei, ma nessuno ha raggiunto il livello artistico e la complessità simbolica del portale di Aulnay.
2. Simbolica dell’iconografia cristiana
La visione dell’Apocalisse di Giovanni di Patmos costituisce il grande serbatoio simbolico dell’iconografia cristiana. Senza questo straordinario tesoro di simboli che ha infiammato l’immaginazione degli artisti di tutti i tempi, il messaggio escatologico del vangelo sarebbe rimasto confinato nei limiti della parola scritta, non sarebbero mai nati tanti capolavori dell’arte medievale.
Negli ultimi secoli del primo millennio si usava leggere in chiesa, nella settimana santa, l’Apocalisse. Il priore del convento di Liebana, nel nord della Spagna, un certo Beatus, consapevole della difficoltà per il popolo semplice di capire i simboli del testo giovanneo, scrisse un commento in parole povere, alla portata di tutti. Il commento si diffuse rapidamente ed ebbe una grande fortuna. Illustrato da numerosi miniaturisti dei conventi della Catalogna soprattutto, entrò nella liturgia pasquale con la novità di una vera catechesi audiovisiva: mentre si leggeva il brano in chiesa, l’immagine dipinta a rovescio, sul rotolo, era esposta allo sguardo dei fedeli che vedevano il simbolo commentato. Fu una rivoluzione che riportò in primo piano, alla luce del giorno, il profetico e sconvolgente libro di Patmos.
L’insieme dei manoscritti miniati su pergamena, datati intorno al mille e custoditi nei più prestigiosi musei del mondo, sono entrati nel patrimonio della cultura medievale con titolo generico di Apocalisse del Beatus. Lo studio comparato di questi straordinari esemplari ci aiuta a decifrare e a identificare alcuni dei più importanti archetipi dell’iconografia cristiana.
La chiave fortemente simbolica della visione giovannea ha costituito dal principio un forte ostacolo nella comprensione dei significati, rimasti tuttora avvolti nel mistero, malgrado gli innumerevoli commenti e tentativi di decifrarli. Eppure, la maggior parte degli archetipi dell’iconografia cristiana provengono da questo poderoso serbatoio di simboli che è l’Apocalisse. Prima di entrare nella foresta di capitelli, mosaici e vetrate che brulicano nella penombra del tempio, bisogna ricordare alcuni dei simboli giovannei che hanno maggiormente colpito l’immaginazione degli artisti.
Il Cristo con la spada a doppio taglio in bocca, simbolo del Verbo trionfante sul male; il Cristo in trono circondato dal tetramorfo, simbolo dei quattro evangelisti: Giovanni-l’aquila, Matteo-l’angelo, Marco-il leone, Luca-il toro, raffigurazione di origine babilonese trapiantata da Giovanni nell’iconografia cristiana; la trasmissione del libro quadrato, a simbolo del trapasso dalla vecchia alla nuova legge incarnata nel Vangelo, il libro quadrato che sostituisce l’antico rotolo ebraico; il trionfo dell’Agnello immolato, circondato dai 24 vegliardi dell’Apocalisse (le 12 tribù di Israele più i 12 apostoli); i Sette candelabri d’oro e le sette lampade che inquadrano il trono di Cristo — simboli delle sette Chiese, (sette, numero perfetto che riassume l’intera Chiesa); i quattro cavalieri dell’Apocalisse, simboli della follia umana, dell’infinita scalata di guerre e massacri della storia; la Vergine vestita di sole con la luna sotto i piedi e sul capo una corona di dodici stelle (i 12 apostoli). Minacciata dal drago che si appresta a divorare il neonato, la donna grida per le doglie del parto. Madre del nuovo Adamo, la Vergine è simbolo della Chiesa militante in lotta perenne con la bestia a sette teste e dieci corna.
Agnus Vincit, la vittoria finale del Verbo di Dio, la vittoria di Gerusalemme contro Babilonia, prima della chiusura della storia e delle porte della Chiesa, per il Grande Giudizio. La nuova Gerusalemme, la città eterna, la Sposa dell’Agnello. Visione del nuovo cielo e della nuova terra, senza il mare, simbolo del tormento eterno, della storia. I quattro fiumi del paradiso “con acque limpide come cristallo che scaturiscono dal trono dell’Agnello”, simbolo dell’acqua viva della Verità che irriga il deserto del mondo.
L’Apocalisse e il Giudizio Universale — Su alcuni timpani delle grandi cattedrali romaniche il Cristo glorioso, affiancato dalla Vergine e dai santi, presiede il Giudizio Universale, lo straordinario evento che conclude la storia umana nel quarto e ultimo libro dell’Apocalisse di Patmos.
Ma attenzione! L’Apocalisse non è il Giudizio Universale. Al Giudizio Giovanni dedica soltanto quindici righe. Quindici righe, nemmeno tutte insieme: dieci, dopo la vittoria finale contro la bestia e il falso profeta (Ap 20, 11-15), tre nella descrizione della Nuova Gerusalemme (Ap 21, 8), e le altre due alla fine, prima dell’Epilogo (Ap 22, 15). È tutto eppure queste quindici righe contengono le parole di fuoco che hanno acceso la visione creatrice degli artisti di tutti i tempi. Senza questa manciata di righe non sarebbero esistiti né i Timpani di Autun, Vezelay e Moissac, né il grandioso mosaico di Torcello, né l’affresco della Cappella Sistina, né quello di Voronetz.
L’Apocalisse è prima di tutto la visione delle sciagure inflitte all’umanità dal diluvio del male della storia, conseguenza del rifiuto dell’uomo di rinunciare a satana e alle sue opere. È la conclusione logica delle sue scelte storiche che offendono il creatore, deturpano l’armonia cosmica del creato, portano alla distruzione della natura e l’annientamento della vita. L’Apocalisse è l’uragano che si abbatte sul destino umano in ogni epoca e che arriverà al culmine prima del Giudizio. È la prefigurazione della fine della storia, inesorabile, senza ritorno.
L’Apocalisse descrive ampiamente l’abisso di malvagità in cui l’umanità precipitò dopo la caduta originale continuando a sprofondare in ogni epoca. È una vasta istruttoria che prepara il Giudizio e allo stesso tempo ammonisce e richiama l’uomo sulla via della salvezza.
Nell’ampio Giudizio Universale del timpano di Autun le quindici righe della “rivelazione giovannea” (in grego Apocalisse significa rivelazione) rieccheggiano in un grandioso oratorio di pietra, scandito dal contrappunto di luci e ombre che danno vita ai protagonisti della visione di Patmos.
Al centro, nella mandorla che unisce il Cielo alla terra, il Cristo in gloria con le braccia aperte deve solo dar via al Giudizio. Tutto è pronto, ognuno è al suo posto: alla Sua destra la Vergine Maria, il paradiso e San Pietro con le chiavi in mano; a sinistra i due profeti Enoch ed Elia, San Michele con la bilancia per la pesa delle anime e i militi del diavolo che prenderanno in consegna i dannati. In basso, sull’architrave, a destra la schiera dei beati che guardano la luce di Cristo, a sinistra i dannati con lo sguardo disperato rivolto in senso opposto, verso le tenebre. Tutto è attesa, come il trono dell’Etimasia che è la chiesa stessa, con le porte spalancate, ancora, fino all’ultimo giorno.
La Via Salutis — Se in senso architettonico il portale romanico riproduce la pianta del santuario, in senso iconografico preannuncia i temi fondamentali dell’abside: Cristo in gloria e la Vergine, simbolo della Chiesa militante. Il portale e l’abside sono i centri dei due poli — cosmico e mistico — entro i quali si svolge la Via Salutis, il percorso iniziatico che conduce dalla soglia del tempio fino all’altare.
Varcata la soglia si entra nel mistero del tempio cristiano, preannunciato dall’iconografia dei portali e della facciata. Si passa non da uno spazio esterno ad uno interno, ma da un tempo ad un altro tempo: dal tempo della vecchia a quello della nuova legge. Appena entrato, il pellegrino si sente dentro il ventre di una Arca che naviga sulle acque di questo mondo, ma in un altro tempo. I moniti della Psichomachia, gli avvertimenti delle vergini sagge, la fermezza delle virtù in lotta perenne con i vizi umani, rappresentano sugli archivolti romanici, l’inesorabile resa dei conti del Giudizio finale istoriato sui timpani; l’immagine gloriosa del Cristo circondato dai quattro viventi, gli hanno già anticipato i ritmi del nuovo tempo in cui sta per inoltrarsi.
Arca di salvezza dal diluvio del male, Etimasia — trono del salvatore in attesa della Parusia, corpo di Cristo, la Chiesa è il grande orologio cosmico che scandisce il tempo rimasto fino alla fine della storia, quando le sue porte si chiuderanno per il Giudizio e avrà inizio il tempo eterno.
L’importanza della soglia, come dell’intero portale è immensa. L’ingresso delle chiese carolingie era custodito da arcangeli; potenti leoni difendevano i portali romanici, e non solo dal maligno personificato dagli “spiriti del deserto”, ma anche dalle eresie. La Chiesa cristiana è aperta a tutti, l’interdizione riguarda i nemici, i distruttori della fede, uomini o spiriti che siano. Il lato nord delle chiese a tre portali era particolarmente difeso dalle insidie del demonio. Certe volte animali feroci raffigurati sui modiglioni dovevano spaventare e tenere lontani i malfattori dello spirito, il falsi profeti, i falsi messia.
Dalla soglia inizia il percorso iniziatico che conclude, sull’asse solare del tempio, verso il polo mistico dell’altare, al centro dell’abside. Su questo percorso si svolge la Via Salutis, guidata dai simboli raffigurati sui capitelli, negli affreschi, sulle vetrate, nei mosaici, simboli che per Marie Madeleine Davy sono “le pietre miliari” nel cammino della conoscenza del sacro (“Initiation à la symbolique romane“).
La prima prova iniziatica che doveva affrontare il pellegrino nell’esperienza mistica del tempio, appena varcata la soglia, era la prova del labirinto, rappresentato sul pavimento subito dopo l’ingresso nella chiesa. Nella mitologia greca Teseo combatte il Minotauro al centro di un labirinto, e ne esce dall’incantato percorso, che sembra senza uscita, grazie al filo di Arianna.
Nella cultura mediterranea il labirinto diventa simbolo della difesa di un centro: di una città, di un santuario, di una tomba. Simbolo di difesa contro i non iniziati, contro gli ignoranti e i profanatori. Costruito con tessere di pietra a colori contrastati, incastrate nel pavimento, il labirinto aveva il significato del difficile cammino dell’uomo verso la verità, verso la salvezza. L’uomo entra nel labirinto con la nascita e durante il lungo e tortuoso percorso della sua vita si avvicina al centro, alla Gerusalemme celeste. Per chi raggiunge la meta, la morte significa l’ingresso nel Paradiso. La fede è il filo di Arianna che conduce l’uomo alla salvezza.
Contrariamente al mitico labirinto costruito da Dedalo, il labirinto raffigurato nella chiesa cristiana non ha vicoli ciechi, bivi ingannevoli, trappole mortali. Il percorso è continuo ma faticoso; un cammino di grande sforzo e di perseveranza che porta alla conquista eroica e mistica dell’immortalità.
Il labirinto di Chartres, l’unico che si conserva ancora, con un diametro di 13 metri, esteso sul pavimento da un colonnato all’altro della navata centrale, sviluppa un percorso di più di 260 metri, che venivano percorsi in ginocchio dai pellegrini. Chiamato “la via di Gerusalemme”, il labirinto ricordava anche il percorso del calvario di Cristo sul Golgota. Presente nelle cattedrali di Sens, Arras, Amiens, Auxere, e in molte altre chiese, è scomparso durante i secoli, man mano che i significati simbolici del tempio cristiano furono dimenticati.
A Reims, nella cattedrale dell’Incoronazione dei re di Francia, è stato distrutto nel 1825, per decisione del Capitolo. Un “benefattore”, per di più canonico, ne ha pagato mille libbre per la demolizione, considerando un dovere di estirpare dalla cattedrale una simile “indecenza”, che generava confusione, attirava i bambini e gli stolti.
Fortunatamente in Italia se ne conserva ancora qualcuno. Lo si può vedere tuttora sui pavimento di San Vitale a Ravenna, mentre a San Michele di Pavia, metà del labirinto ancora conservato è nascosta nell’abside da un tappeto pesante.
Dopo il portale, il labirinto costituisce la prima soglia della Via Salutis. Superata la prima volta, il pellegrino guarda indietro per contemplare il cammino percorso. Sulla parete ovest, all’interno della chiesa, vede, come a Torcello, raffigurato il Giudizio, con i suoi moniti e richiami all’inevitabile scadenza del destino umano. Oppure, come a San Savino, nel Poitou, incontra lo sguardo di Maria sul timpano interno, sopra la porta, simbolo della Chiesa militante in eterna lotta col drago che fino alla fine dei tempi tenterà di divorare il frutto del suo ventre: la Chiesa, il corpo di Cristo. Dai primi passi verso la mèta del suo cammino, l’altare, gli occhi del pellegrino rivolti verso l’alto si fermano sui capitelli istoriati.
Il trapasso dalla vecchia alla nuova legge è rappresentato magistralmente su uno dei capitelli di Vezelay, intitolato “Il mulino mistico”. In alto a sinistra un personaggio (Mosé) versa in un piccolo mulino con la ruota segnata da una croce il grano grezzo della vecchia legge. Sotto, a destra, un altro uomo (San Paolo) raccoglie in un sacco la farina bianca della nuova legge, macinata dal mulino mistico di Cristo. La forza espressiva, la chiarezza e la semplicità dell’immagine spiegano di colpo l’essenza del cristianesimo, il compimento della primitiva legge ebraica, fondata sulla durezza del Dio vendicatore, nella farina della nuova legge di Cristo, purificata dalla dottrina dell’amore. Il simbolo rimane inciso per sempre nella mente del pellegrino.
Il concetto di incarnazione, su cui poggia tutta la simbolica del tempio cristiano, veniva raffigurato con la stessa semplicità. In certe immagini medievali, sotto il piede del Cristo in trono, come nell’evangeliario di Sant’Omero, oppure sulla croce, veniva tracciato un quadrato iscritto in un cerchio. Simbolo del Cielo, di Dio, del sacro, il cerchio si fa quadrato, lo spirito si fa materia, Dio scende nell’uomo. Era il modo più diretto per rappresentare l’idea di incarnazione del Verbo, usando le virtù simboliche della geometria.
La Trasmissione del libro quadrato, tema frequente nei manoscritti dell’Apocalisse del Beatus, di cui abbiamo già parlato. Quando Dio trasmette a Giovanni, per mezzo di un angelo, il libro quadrato del Vangelo si compie l’atto di incarnazione della vecchia legge in quella nuova. La vecchia legge era stesa su rotoli proibiti agli occhi del popolo (Yahvé chiuso nel cerchio ermetico degli iniziati), mentre i vangeli furono scritti sulle tavolette degli scribi romani, aperte a tutti. La forma quadrata dei vangeli è simbolo della Verità divina incarnata, e corrisponde al Verbo manifestato nella storia.
L’incarnazione di Cristo è raffigurata sui capitelli della navata nei suoi momenti essenziali: l’Annunciazione, la Visitazione di Maria — l’incontro di Cristo con il suo battista, Giovanni, entrambi nel grembo delle madri, nella casa di Elisabetta, incontro che segna la nascita della Chiesa, la Natività a Betlemme, l’Annuncio ai pastori, i Re Magi, il Massacro degli innocenti, il Battesimo di Cristo, temi onnipresenti nell’iconografia romanica. La vita e il destino terreno di Cristo, la predicazione, i miracoli, l’esperienza del deserto, le tentazioni, la passione e la croce, conseguenze inerenti all’incarnazione, sono i temi istoriati sui capitelli, sulle colonne affrescate, sulle vetrate, temi che introducono e preparono le anime dei fedeli al mistero della resurrezione.
Le apparizioni del Cristo risorto a Maria Maddalena, a Tommaso e ai discepoli, l’Assunzione, sono raffigurate nelle chiese con deambulatorio sui capitelli che circondano l’altare.
Se la facciata o il portale romanico illustra uno dei tre temi capitali — la Psichomachia, la vita di Cristo o il Giudizio universale — scelta corrispondente a determinare aree culturali, l’iconografia interna della chiesa è un intreccio complesso di più temi, disposti secondo un determinato criterio simbolico: sul lato nord del transetto, come a Aulnay per esempio, dove erano ospitati i pellegrini in cammino verso Santiago di Compostela, i capitelli rappresentano eroi biblici, San Giorgio che sconfigge il drago, l’ultimo abbraccio tra Pietro e Paolo, ma anche l’avaro con la borsa appesa al collo, divorato dai leoni, parabola che incitava i pellegrini alla carità. Sul lato sud, invece, sono raffigurati demoni e dannati, Caino che uccide Abele, Dalila che sconfigge Sansone, i leoni della prova dei neonati.
Soggetti della vita di Cristo si alternano con episodi del vecchio testamento, dell’Apocalisse di Giovanni e del Giudizio finale, allegorie di vizi e virtù, sirene a due code, centauri, dannati, uomini in lotta con le belve feroci delle passioni carnali, uccelli fantastici, simboli vegetali, acrobati, animali solari, serpenti e draghi immaginari, tutto riconducibile al tormento eterno della coscienza umana, ai moniti della Psichomachia di Prudenzio, ai simboli del paradiso e dell’inferno. Il bestiario di Cristo accanto a miti pagani cristianizzati, leggende antiche e teologie popolari, proverbi e credenze, precetti morali fusi in forme e moduli ornamentali arrivati dall’oriente o dall’islam iberico, canoni bizantini abbinati a segni celtici, tutto partecipa a quel inesauribile serbatoio di simboli dell’arte romanica destinata ad accendere e mantenere accesa la fede dell’uomo medievale.
Un uomo che non conosceva la parola profano, per cui tutto era o divino o demoniaco, antagonismo radicale che sta alla base di tutta l’iconografia romanica. Per un simile uomo sarebbe stato impossibile concepire il mondo profano di oggi, il relativismo della morale laica imperante perfino in certi ambienti clericali. Per questo il confronto dell’uomo moderno con la simbolica medievale, quando riesce a superare la soglia del turismo culturale o dell’archeologia estetizzante, può ricondurlo a meditare sul vuoto di significati della vita di oggi.
Fra i temi cristianizzati delle mitologie antiche, oltre il labirinto, dobbiamo ricordare il mito di Orfeo, assimilato a Cristo, che pari all’eroe greco scende nell’inferno della carne per salvare la sua beneamata Euridice — l’anima umana — morsa dal serpente velenoso del peccato originale.
Simile ad Apollo, Cristo, astro-re, porta nel mondo il carro alato della luce del sole. La natività a Betlemme è stata collocata simbolicamente subito dopo il solstizio d’inverno, che segna la rinascita dell’astro solare.
Un capitello di Vezelay, raffigurante un grande uccello rapace che rapisce un bambino, riprende il mito di Ganimede, così come a Saulieu, su un altro capitello, due aquile con le ali spiegate portano al Cielo il corpo di San Vincenzo. Il soggetto s’incontra sui mosaici delle catacombe di San Sebastiano in Roma, su una delle porte della basilica di San Pietro e su alcune pietre tombali e sarcofagi paleocristiani.
Abbonda nell’iconografia romanica la sfinge in varie ipostasi, anche la sfinge tetramorfa, simbolo di difesa del tempio.
Quando l’iconografia non si limita ai capitelli che fiancheggiano la navata, lo sguardo del pellegrino cammina con gli affreschi della volta verso l’altare, come a San Savino di cui abbiamo già parlato. Tutta la storia biblica del creato sfila davanti ai suoi occhi per ricordargli l’epopea del suo destino umano. E quando l’affresco invade tutto il tempio, perfino le colonne e le pareti, in una decorazione continua, come a Brioude o Issoire, o nei monasteri della Bucovina romena, affrescati interamente anche all’esterno, il pellegrino di oggi vive la Chiesa come hierofania del paradiso. Vive la Chiesa come arca di salvezza dalle brutture del mondo, in questa civiltà in cui la bellezza è naufragata nell’utile, in un mondo in cui le chiese nuove sono diventate “garages per la anime”, come la chiama Sedlmayr.
Parlare di architettura della chiesa di oggi, schiacciata, umiliata, degradata dall’ignoranza dei simboli, dalla perversa alienazione dei residui iconografici, sarebbe come affondare il coltello in una piaga dolorosa. I tempi sono cambiati, dicono gli umanisti di oggi; le vergini stolte si sono ribellate al sopruso della morale bigotta, le virtù calpestate dai vizi hanno perso scudo e lancia; intanto l’iconografia moderna non ha più bisogno di simili temi. Cosa dire delle cosiddette vetrate astratte o informali che sono state imposte dalle commissioni delle bellearti nei massimi monumenti romanici della Francia, per esempio?
Per rincuorarci pensiamo alle vetrate della cattedrale di Chartres. Nel XII secolo 45 confraternite di artigiani avevano sponsorizzato la realizzazione della più mirabile opera di vetrate mai viste fino ad oggi. Tutte dedicate all’Anima di questo mondo. La straordinaria storia di Carlo Magno raccontata col fuoco dei colori era stata donata dalla corporazione dei drappieri. Come trattenere un sorriso amaro pensando all’uso che si fa oggi dei fondi pubblici e privati destinati alla cultura sacra “moderna”?
Proseguendo sulla Via Salutis il pellegrino si avvicina all’altare, centro e punto di arrivo dell’iconografia cristiana. Il Cristo risorto, in gloria, il Cristo pantocrator-cosmocrator-chronocrator, regnante sulla volta dell’abside, come a Monreale o Cefalù, è la mèta del percorso salvifico. Dal portale d’ingresso l’uomo va incontro al polo mistico dell’altare, mentre il divino va incontro all’uomo sulla soglia del sancta sanctorum. Lo accolgono i monumentali mosaici del Cristo benedicente o della Vergine, sulle volte di tutte le chiese, dall’oriente bizantino, culla dell’iconografia basilicale, fino all’estremo occidente mediterraneo.
L’iconografia dell’abside sta in una stretta corrispondenza con il tema del portale. Se il timpano esterno raffigura Maria, sulla volta dell’abside troneggia la Vergine in gloria come nel mosaico di Focide, oppure la Vergine col bambino, come sulla volta dell’abside di Torcello.
In alcuni santuari, quando manca il monumentale Cristo Pantocrator, regna nell’abside un silenzio iconografico avvolto nel mistero di una suprema attesa. Al posto del redentore vi è rappresentata l’Etimasia, il trono vuoto di Cristo, simbolo della Sua presenza-assenza, aspettando la Parusia, la seconda venuta, con le insegne della Sua regalità divina e universale, lo scettro e il globo, oppure il Libro o la croce, come sulla cupola del Battistero degli Ariani, a Ravenna, o nel mosaico del trono bizantino a San Paolo fuori le mura.
Al Concilio di Efeso e al secondo Concilio di Nicea, il Vangelo, simbolo di Cristo, fu solennemente deposto sul trono d’onore dell’assemblea dei vescovi. Per la prima volta l’Etimasia fu vissuta dalla Chiesa, non solo raffigurata.
Il terzo tema dell’abside, oltre il Cristo Pantocrator e la Vergine – simbolo della Chiesa militante, è L’Albero della croce, rappresentato sui mosaici di San Giovanni in Laterano, e di San Clemente a Roma. La croce è la colonna vertebrale della Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse. Per chiarire questo concetto ricordiamo la leggenda apocrifa del Viaggio di Seth nel Paradiso:
“All’età di 932 Adamo, ammalato da una malattia mortale, manda suo figlio Seth alla porta del Paradiso per chiedere all’arcangelo che la custodisce l’olio della misericordia. Seth parte, seguendo le orme dei passi dei suoi genitori cacciati dal Paradiso, orme sulle quali l’erba non era mai cresciuta. Incontra l’arcangelo, che lo consiglia di guardare tre volte dentro il Paradiso. Seth ubbidisce.
La prima volta vede l’acqua, i quattro fiumi che scaturiscono dai piedi di un albero secco. La seconda volta vede un serpente attorno all’albero secco. La terza volta vede l’albero che si alza fino al Cielo, e nella sua chioma secca, in alto, vede un bambino neonato.
L’arcangelo spiega a Seth le tre visioni e annuncia la venuta di un redentore che salverà i suoi genitori dal peccato. Poi gli mette in mano tre semi del frutto fatale mangiato dai genitori, per metterli sulla lingua di Adamo che morirà entro tre giorni. Seth ritorna e racconta al padre le parole dell’arcangelo. Adamo, dice il testo apocrifo, ride per la prima volta dopo la cacciata rallegrandosi per il redentore e la sua salvezza. Dopo tre giorni muore.
Dai tre semi spuntano sulla tomba di Adamo tre alberi che vivranno fino al tempo di Mosé. Costui li trapianta sul monte Tabor, al centro del mondo. Dopo mille anni il re Davide riceve l’ordine di portarli a Gerusalemme, dove i tre alberi si fonderanno in uno solo. Dal suo legno fu fatta la croce di Cristo.
Durante il supplizio il sangue del crocefisso cade sul teschio di Adamo sepolto ai suoi piedi e lo lava dal peccato. Nello stesso istante la croce si trasforma nell’albero della vera vita.
La leggenda è una catena di simboli: ai piedi dell’albero della croce nacque il primo uomo Adamo — fu consumato il peccato originale — Abele fu ucciso per mano di suo fratello — morì e fu sepolto Adamo — nacque Cristo, il secondo Adamo — fu crocefisso il redentore — Cristo risorse dalla croce che diventò l’albero della vita eterna.
È fuori di dubbio che si tratta di uno dei temi fondamentali del cristianesimo. Nel XII secolo è stato raffigurato in maestà sul mosaico absidale di San Clemente, in Roma. La composizione è complessa: L’albero della vita, dal quale emerge la croce, cresce sulla montagna del Paradiso. Il suo fogliame riempie l’universo (tutta l’abside). Il legno della croce è segnato da dodici colombe bianche — gli apostoli. Dalle acque dei quattro fiumi del Paradiso che scaturiscono sotto le radici dell’albero, si abbeverano due cervi — anime assetate di verità. Un terzo cervo uccide il serpente: è simbolo del Cristo vincitore.
Oltre la straordinaria ricchezza del mosaico a sfondo dorato, un certo particolare che può passare inosservato, presenta una eccezionale importanza: un uccello chiuso in una gabbia. È il simbolo orfico dell’anima prigioniera nel corpo, tema che per le sue implicazioni morali e religiose costituisce un punto di partenza nel valutare l’essenza della rivoluzione cristiana.
Per gli orfici l’anima non poteva liberarsi dalla tomba del corpo (soma – sema) se non col prezzo della morte, considerata una vera liberazione, il ritorno nel grande cosmo. Cristo insegnerà — ed è questa la verità maestra del cristianesimo — che l’anima può salvarsi dalla prigionia, dalla solitudine del corpo, uscirne fuori, liberarsi, senza dover pagare il tributo della morte, attraverso l’amore. L’amore del prossimo. A San Clemente non è raffigurato il divenire cristiano di questo simbolo orfico, ma la tensione mistica dell’intero mosaico ne suggerisce la metamorfosi: l’immagine di due gabbie invece di una sola, spalancate, perché le due colombe — anime — s’incontrino, vive, nella libertà dell’amore, in Cristo.
* Le relazioni di J. Ries sono state tradotte dal francese da Anna Vigorelli