I RISULTATI DI PLANCK

I risultati di Planck

I risultati di Planck

Partecipano: Marco Bersanelli, Docente di Astrofisica all’Università degli Studi di Milano; Nazzareno Mandolesi, Membro del Consiglio Scientifico (Space Science Advisor Committee – SSAC) dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea) e Membro del CdA ASI. Introduce Letizia Bardazzi, Presidente Associazione Italiana Centri Culturali.

 

I RISULTATI DI PLANCK
Ore: 11.15 Salone D5
Partecipano: Marco Bersanelli, Docente di Astrofisica all’Università degli Studi di Milano; Nazzareno Mandolesi, Membro del Consiglio Scientifico (Space Science Advisor Committee – SSAC) dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea) e Membro del CdA ASI. Introduce Letizia Bardazzi, Presidente Associazione Italiana Centri Culturali.

LETIZIA BARDAZZI:
Buon giorno a tutti e benvenuti a questo incontro con due fra i principali protagonisti e iniziatori del progetto Planck dell’Agenzia Spaziale Europea, il più potente telescopio che sia mai stato concepito, una sorta di macchina del tempo che è stata lanciata quattro anni fa in orbita a un milione e mezzo di chilometri per guardare i confini estremi del nostro tempo e poter vedere il nostro universo neonato e poter rintracciare anche i semi di tutte quelle strutture che si sono formate nell’universo, le galassie, le stelle, i pianeti. Oggi verremo a conoscere che cosa è emerso nei primi quindici mesi di osservazione dal Planck. Da sempre il Meeting ci mette davanti a nuovi scenari emersi dalla ricerca scientifica e ci assicura la possibilità di stare davanti a grandi scienziati, di immedesimarci con i loro occhi. Scienziati che sono la punta avanzata dell’umanità che esplora nuovi spazi e nuove possibilità per nostro avvenire e che, condividendo con noi quello che hanno vissuto e quello che hanno scoperto, ci permettono di scoprire, di conoscere una verità più grande. Lo scorso 21 marzo a Parigi, in una conferenza stampa internazionale, sono state presentate al mondo le prime immagini, le prime mappe cosmologiche del telescopio Planck. Abbiamo visto sui giornali di tutto il mondo la mappa dell’universo neonato, con una definizione senza precedenti. Per tutti gli scienziati del mondo e per i cosmologi è stato come sbarcare per la prima volta su un continente sconosciuto, è stato qualcosa di assolutamente straordinario. Un’impresa che ha un significato scientifico enorme, per le conferme alla cosmologia tradizionale ma anche perché è un’avventura che ha portato alcune nuove scoperte sugli ingredienti del cosmo, lasciando affiorare domande inedite che hanno grandi conseguenze in termini scientifici e che metteranno al lavoro i nostri cosmologi nel futuro e che ha avuto, ha richiesto migliaia di ore di impegno di lavoro a un piccolo esercito di brillanti scienziati e ricercatori di tutto il mondo. I nostri due ospiti da oltre vent’anni condividono una collaborazione, una profonda amicizia alla guida della missione, in particolare del Low Frequency Instrument, che è uno dei due strumenti a bordo del Planck. E’ stata la loro comune amicizia con il Professor George Smoot, premio Nobel per la fisica nel 2006, che abbiamo avuto l’onore di avere sui palchi di Rimini nel 2007, che ha permesso che questi nostri ospiti oggi si incrociassero. Quindi un grazie caloroso, un benvenuto a Nazzareno Mandolesi e a Marco Bersanelli. Ve li introduco. Il Professore Nazzareno Mandolesi è Professore di fisica all’università di Ferrara, è membro del Cda dell’Agenzia Spaziale Italiana e associato INAF, ha iniziato il suo percorso scientifico prima con lo studio dei raggi cosmici di altissima energia nel mondo dell’infinitamente piccolo, per passare all’infinitamente grande, l’universo, attraverso lo studio della radiazione fossile o di fondo cosmico. Negli anni Ottanta ha realizzato un esperimento sul fondo cosmico alla stazione di White Mountain, in California, in collaborazione con il professor Smoot. Oggi il professor Mandolesi è il Principal investigator Low Frequency Instrument del Planck e dirige un consorzio internazionale di università, istituti di ricerche e industrie che ha coinvolto durante la realizzazione della missione più di mille persone. Attualmente fanno parte del consorzio di Planck più di cinquecento ricercatori e ingegneri per l’operabilità del satellite, per l’analisi e l’interpretazione dei dati. Ha diretto un istituto del CNR, oggi dell’INAF, dal 1994 fino al 2010. Dal 2004 si è interessato al trasferimento tecnologico e a tale scopo ha creato nell’INAF l’Ufficio Nazionale di Innovazione Tecnologica, poi il Servizio di Innovazione Tecnologica di cui è stato responsabile fino al 2011. In cinque anni INAF ha depositato venti brevetti e quattro società di spin-off. Benvenuto professore. L’altro nostro ospite di oggi non avrebbe bisogno di molte presentazioni. Se in questi anni il Meeting è sembrato delle volte una succursale della Nasa o del MAT, lo dobbiamo proprio alla sua preziosa passione per la divulgazione della ricerca e della scoperta scientifica, e soprattutto alla sua capacità di mettere sempre al centro non solo l’oggetto della ricerca ma l’uomo, il protagonista della ricerca. Grazie a lui abbiamo imparato a guardare in modo nuovo le stelle e anche coloro che le scrutavano. Vi presento Marco, che è Professore ordinario di Astronomia, Astrofisica e Direttore della Scuola di Dottorato in Fisica astrofisica e fisica applicata, presso l’Università degli Studi di Milano. Fin dall’inizio della sua carriera si occupa di Cosmologia, in particolare di misure del fondo cosmico di microonde, la prima luce dell’universo. Dal 1986 al 1991 ha lavorato presso il Lawrence Berkeley Laboratory University of California con il professor Smoot, partecipando a due spedizioni scientifiche alla base antartica di Amundsen, al Polo Sud, per misure dello spettro della luce primordiale. Oggi ha il ruolo di Instrument Scientist Deputy Principal Investigator del Low Frequency Instrument di Planck ed è membro del Plancks Scientist Team. Oltre alle molte pubblicazioni scientifiche, Marco è autore di una vasta produzione di carattere divulgativo e interdisciplinare. È Direttore scientifico di Euresis, l’associazione scientifica con la quale ha promosso mostre didattiche che noi tutti conosciamo, conferenze scientifiche, conferenze internazionali su temi interdisciplinari. Dal 2012 è Presidente della Fondazione Sacro Cuore per l’educazione dei giovani. Grazie ancora Marco e benvenuto. Chiederei a Marco Bersanelli di partire proprio dall’immagine che ha fatto il giro del mondo, l’immagine a tutto cielo prodotta da Planck. Ti chiederei di dirci come si è arrivati a questa mappa in questi quindici mesi, dopo il lancio e che cosa essa rappresenta.

MARCO BERSANELLI:
Grazie. Ciao a tutti. Devo dire che per me è un grande piacere. È un grande piacere raccontare qualcosa oggi, dopo più di vent’anni di lavoro su questo progetto, della bellezza, della fatica e dei risultati che stiamo vedendo, e di farlo insieme a Reno, con cui abbiamo condiviso questa grande e lunga storia. Di cosa si tratta? Partiamo da un’esperienza che è un’esperienza comune a tutti: quella del cielo, il cielo stellato che ci sovrasta e ci colpisce per la sua vastità; la quantità di stelle che ci riempie gli occhi e il cuore quando siamo davanti a una notte veramente buia; e questa striscia che è la Via Lattea, che (oggi lo sappiamo molto bene) è fatta di miliardi e miliardi di stelle che non possono essere viste a una a una, ma il cui chiarore costruisce questo arco nel cielo. Ebbene, tutte queste stelle, sia quelle che vediamo una a una, sia la galassia, la luce della Via Lattea, fanno parte della nostra galassia, di una famiglia di 100-200 miliardi di stelle. Ma se adesso con un telescopio potente noi andiamo ad analizzare quello che succede in profondità, in un piccolo spicchio del cielo … In questa animazione vedete il cielo stellato, vedete la costellazione di Orione, questo è il cielo come lo vediamo ad occhio nudo. Questo è l’Hubble Space Telescope: adesso andremo a fare uno zoom in questa regione, che è la regione in cui il telescopio Hubble ha fatto l’immagine più profonda che noi conosciamo dell’universo delle galassie. Queste sono ancora stelle della nostra galassia, ma da questo momento in poi, vedete, noi usciamo dalla nostra galassia e da questo momento in poi ogni punto che vedete è una galassia: ognuno di questi punti contiene 100 o 200 miliardi di stelle e laggiù in fondo, ecco le più lontane galassie che noi conosciamo. Questo è il cosiddetto “Hubble Deep Field”, è una regione di cielo grande circa come … prendete un centesimo di euro, portatelo alla distanza del vostro braccio e qui vedete migliaia di galassie. Ognuna di queste galassie si trova ad una distanza diversa da noi, ma le più lontane, quelle più piccole in questa immagine, appena percepibili, si trovano a dieci, undici miliardi di anni luce da noi. Miliardi di anni luce da noi vogliono dire che la luce ha impiegato dieci, undici miliardi di anni per raggiungerci e quindi noi vediamo quelle galassie come erano dieci, undici miliardi di anni fa e siccome sappiamo che l’universo, questo oceano di galassie, è in espansione, vuol dire che le galassie, nel passato, dovevano essere più vicine tra di loro. E sappiamo, dal ritmo di questa espansione, che l’inizio di questa storia espansiva dell’universo risale circa a 14 miliardi di anni fa. Allora vedete che quelle galassie più lontane le vediamo come erano in un universo giovane, in un universo di pochi miliardi di anni, rispetto ai 14 circa che ha adesso. Noi vogliamo investigare quello che sta ancora più in là, ancora più lontano. E’ possibile avvicinarci ancora di più a quel momento iniziale in cui l’espansione ha avuto il suo avvio. Ebbene, questo è possibile. E’ possibile grazie ad una scoperta fondamentale fatta da Pierce e Wilson, due radioastronomi americani negli anni ’60, con questo radiotelescopio che vedete qui in questa immagine. Si sono infatti accorti che dalle regioni del cielo dove non vediamo alcuna sorgente – ma solo il fondo nero del cielo, l’ultimo velo che fa da sfondo a tutte le nostre immagini celesti – riceviamo una luce, molto debole, molto tenue, con la stessa intensità all’incirca in tutte le direzioni. E’ una luce che ha viaggiato per l’intera storia dell’universo, per 14 miliardi di anni, e quindi ci arriva da quel momento in cui l’universo era ad altissima temperatura e altissima densità. E questa è appunto quello che chiamiamo il fondo cosmico di microonde, la prima luce dell’universo, che oggi possiamo studiare con grande precisione grazie a Planck. E’ un fossile preziosissimo, meraviglioso di questa storia che ci permette di entrare in contatto diretto con quello che accadeva all’inizio della storia dell’universo. E questa immagine riassume quello che abbiamo detto. Vedete, qui ogni punto rappresenta una galassia. Qui ci stiamo allontanando nello spazio e andando quindi anche indietro nel tempo, rispetto al nostro punto di osservazione. Ogni punto è una galassia, siamo circondati da miliardi di galassie, ma laggiù, dove ci appare quell’ultima sfera nera, che è il fondo del cielo, in realtà, scopriamo che c’è questa luce tenue, che possiamo osservare nelle microonde, quindi non visibile direttamente ai nostri occhi, ma a lunghezze più grandi. Quella luce porta a noi un’immagine di come era l’universo all’inizio della sua storia. Questa scoperta abbiamo detto è degli anni ’60. Un altro grande passo, che coincide con l’inizio dell’avventura di Planck, è nel ’92, quando un altro satellite, precursore di Planck, che si chiamava Cobe, Cosmic Background Explorer, guidato appunto dal nostro comune amico George Smoot e John Mather, ha realizzato la prima mappa su tutta quanta la sfera celeste di questa luce primordiale. E ci si è quindi accorti che è molto uniforme, ma non è perfettamente uniforme: questi colori, queste macchie mostrano delle differenze di intensità di questa luce, a seconda di dove la andiamo a vedere nel cielo. Quindi l’universo iniziale è molto tranquillo, molto uniforme, molto uguale a se stesso, molto semplice, ma c’è un’increspatura, che per la prima volta Cobe ha mostrato, ha misurato. Una parte su centomila, come se in un lago profondo cento metri avessimo delle increspature di circa un millimetro sulla superficie, quindi un universo molto semplice. E questo è molto importante, perché queste increspature denotano i semi da cui si sono formate tutte le strutture, le galassie e gli ammassi di galassie. Sono delle regioni in cui la gravità è leggermente più forte che in altre regioni. In quel momento è nata l’idea di fare un passo avanti, cioè di avere questa stessa immagine del cielo primordiale, del cosmo primordiale, ma molto più accurata, molto più precisa. E questo è l’inizio della concezione di Planck. Uno potrebbe dire: “Perché vuoi fare questa immagine che è così difficile fare? Che cosa impariamo? Non è per il gusto semplicemente di vedere un’immagine? Che cosa veramente Planck può dirci di più rispetto a quello che già Cobe aveva mostrato (cioè che esistano questi semi gravitazionali, strutture che andranno a formare l’universo come noi lo viviamo e lo possiamo osservare)? Adesso vi farò vedere un paio di dispositive un po’ tecniche ma non vi spaventate. Il concetto si può capire facilmente. Vedete, qui abbiamo una rappresentazione sintetica di tutta l’informazione che ci può essere in una mappa come questa. Queste differenze di intensità si possono ricostruire statisticamente in una curva come questa, dove abbiamo: la scala angolare, quindi quanto grandi sono le regioni che andiamo a considerare e il contrasto, quanto alte sono le ondine sulla superficie della nostra immagine. Cobe, la mappa che avete visto prima, ci fa vedere solo un piccolo pezzettino di questa informazione. La curva gialla è quello che la teoria predice a riguardo di come devono essere distribuite, come ci si aspetta che siano distribuite queste onde sulla superficie della nostra immagine. Allora vedete che il grosso di quello che questa curva ci dice, è ancora terra incognita dopo Cobe. Cobe ha detto che esiste questa curva gialla, questi sono i punti sperimentali, ma ci dice che occorre andare a scrutare con molta più accuratezza quel fondo cosmico, per poter avere l’informazione contenuta in questi picchi e in queste valli di questa curva. E perché è così interessante misurare quella curva? Perché quella curva, il dettaglio di quella curva, dipende dal valore di alcuni parametri fondamentali, che sono i parametri fondamentali della cosmologia, che nella relatività generale ci dice come effettivamente questo nostro universo reale si comporta, quali sono i suoi ingredienti, quali sono le sue qualità geometriche e così via. Quindi una misura precisa di questa curva consente di catturare questi parametri. Quindi Planck inizia proprio nel ’92 con la scoperta delle isotropie da parte di George Smoot e di Cobe e da allora sono passati più di vent’anni. Planck è stato lanciato nel 2009, oggi siamo qua nel 2013, abbiamo i primi dati e il satellite ormai sta concludendo la sua brillante carriera. E’ una storia che è fatta soprattutto di uomini, di persone, di rapporti, di fatica, di entusiasmo, di centinaia di persone. Questa è la immagine degli addetti di Plank, cioè sono persone full time dedicate all’analisi dei dati. Qui ci sono i nomi, uno a uno, dei circa 400 scienziati che collaborano a questa impresa. Devo dire che anche dal punto di vista umano, come potete immaginare, è davvero un’avventura straordinaria, un percorso di oltre vent’anni per arrivare a questo tipo di obiettivo. Questo è il satellite, lo vedete qua, per darvi un’idea questi sono circa quattro metri, la base, il telescopio è un metro e mezzo; questo è lo specchio che raccoglie questa luce che ha viaggiato per 14 miliardi di anni e la porta su questo altro specchio, che poi la riflette sul piano focale, questa scatola, che qui vedete ingrandita, con questi che sono un po’ gli occhi, se volete, del nostro strumento e le antenne sul piano focale, che viene raffreddato a bassa temperatura, e che ci permette di cogliere la radiazione con grande precisione. Italia e Francia sono i due Paesi leader di questo consorzio che comprende molte università, molti istituti in tutto il mondo. Adesso in poco più di un minuto e mezzo vediamo il lavoro di oltre vent’anni, cioè la costruzione di questo gioiello della tecnologia che è Planck. Vedete il piano focale che avete visto prima, queste sono le guide d’onda che portano il segnale dell’high frequency instrument, nella parte bassa dello strumento. Questi sono tre schermi che separano la parte fredda dalla parte calda, questo invece raffredda il piano focale e porta tutto questo sistema intorno a 20 grandi Kelvin, venti gradi sopra lo zero assoluto. Il secondo raffreddatore, che vedete animato qua, porta la temperatura della parte centrale a quattro Kelvin, e infine il dilution cooler, con l’elio tre e l’elio quattro che è in queste sfere, porta il centro del piano focale fino ad un decimo di grado sopra lo zero assoluto, cioè 273 gradi sotto zero. E’ la prima volta che una cosa del genere è stata fatta nello spazio. Qui vedete adesso i sottosistemi del modulo di servizio, qui vedete l’elettronica che guida la performance degli amplificatori, questo è il pannello solare qua sotto e qui vedete la struttura telescopio secondario. Il momento del lancio, era il 14 maggio del 2009, credo che ce lo ricordiamo come una delle emozioni più grandi; dopo di che il satellite è andato a grande distanza dalla Terra. Questo è un altro momento critico, che è la separazione del satellite, vedete questa è un’animazione ovviamente del satellite, vedete questo spinning, questa rotazione che viene data al satellite, che è una parte fondamentale del modo in cui il satellite osserva il cielo, e una volta arrivato a un milione e mezzo dalla Terra, quindi veramente un’orbita lontana, vedete il satellite cosa fa? Per tutto il tempo in cui è stato in orbita, ha continuato a ruotare su se stesso una volta al minuto, quindi il suo occhio, il suo telescopio, una volta al minuto, fa una scansione di una piccola fettina di cielo. Ma siccome lui segue la Terra nel suo viaggio intorno al Sole, piano piano l’angolo con cui il telescopio vede il cielo cambia e quindi questa fettina piano piano copre tutta quanta la sfera celeste, come vedete in questa animazione. Vedete molto bene in questa simulazione queste piccole differenze di segnale che trovate nella parte sopra e sotto di questa sfera, che sono appunto le segnature della prima luce dell’universo. Questa fascia rossa non è nient’altro che la nostra galassia. La nostra galassia, la vedete qua nella lunghezza d’onda visibile, emette microonde, quindi in qualche modo contamina quella visione globale del cielo che a noi interessa. E proprio per questo Planck, come avete già intravisto, contiene tanti di questi occhi di dimensioni diverse, perché ci permette di vedere lunghezze d’onda un poco diverse. Questo è fondamentale per poter discernere qual è la luce, la radiazione che ci arriva dall’universo vicino della nostra galassia, come se fosse della polvere sul vetro, come dire che dobbiamo in qualche modo toglierla da quella che ci interessa, che viene da più lontano, dal fondo dell’universo. Vedete il Low Frequency Instrument, quello su cui io, Reno e tanti altri abbiamo lavorato in questi anni: sono questi occhi quelli più grandi, se volete, nel piano focale. E la High Frequency Instrument sono questi altri più piccoli. Vuol dire che noi lavoriamo a frequenze più grandi e questi altri invece a lunghezze d’onda più grandi e le altre a lunghezze d’onda più piccole. In questa ultima fase voglio mostrarvi dei dati, i primi risultati. Adesso spero di avere detto in qualche modo di che si tratta. D’ora in poi sono dati reali. Per la prima volta, da poco tempo a questa parte, possiamo mostrare a tutti queste cose. Vi mostro le nove mappe che corrispondono alle nove lunghezze d’onda che Planck è in grado di produrre. Vedete quali sono gli occhi che hanno prodotto quella mappa. Partiamo dalle lunghezze d’onda più grandi, quindi dalle frequenze più piccole e ci aspettiamo che la nostra galassia, l’inquinamento, la polvere sul vetro, sia abbastanza grande. Questa curva rossa dimostra quanto è importante la galassia, le nove barre grigie sono le nove lunghezze d’onda di Planck. Ecco la prima mappa. Questi sono i dati reali dei 30 gigaherz, la frequenza più bassa, e vedete che la contaminazione della galassia è piuttosto forte. E’ chiaro che è molto importante togliere quella contaminazione per misurare con grande precisione il fondo primordiale. Ora passeremo alla seconda lunghezza d’onda, un po’ più alta e vedete che la galassia è diminuita, come ci si aspettava. Ecco qui, a 70 giga, adesso abbiamo il minimo della nostra emissione, e poi da qui in poi piano piano incomincia a crescere di nuovo. Vedete: 100 gigaherz, 143, 217, 353, 545, 857. Qui ormai il fondo cosmico non si vede più, è solo polvere, ma perché vogliamo fare tutto questo? Perché dall’insieme di tutte queste informazioni, di queste nove mappe, è possibile discernere la radiazione che arriva da questa contaminazione locale da quella che invece ci arriva dall’universo profondo, che è quella che a noi interessa. Per darvi un’idea di quello di cui si tratta, in questa breve animazione vediamo il senso di quello che stiamo dicendo. Noi abbiamo sostanzialmente una mappa grezza con tutta quanta l’informazione della nostra galassia, delle sorgenti anche puntiformi, delle altre galassie che sono tra noi e il fondo ultimo dell’universo e che si possono separare. In realtà è un processo molto complesso che ci permette di fare questo. Questa è la polvere presente nella nostra galassia dove nascono nuove stelle. Laggiù in fondo c’è la radiazione primordiale, che è il nostro vero obiettivo, quella che ci arriva dall’inizio dell’espansione dell’universo. Questa non è più una simulazione, non è più un’animazione, questa è la mappa. In fondo, tutta l’impresa di Planck, vent’anni di lavoro, sono stati dedicati per costruire una macchina fotografica il cui scopo era di realizzare un’unica immagine, che è questa. Questa è l’immagine più profonda, più accurata, mai così realizzata, della nostra origine cosmica. Immagine che ha fatto un po’ il giro del mondo. Tutti i giornali ne hanno parlato. Forse qualcuno noterà l’assenza di qualche prima pagina di qualche giornale italiano, ma questo non lo dico per polemica, lo dico perché è significativo di una situazione, dopo che l’Italia ha dato quello che ha dato in questa missione. Vedete tre numeri, non vi spaventate, penso che nessuno si spaventi. Sono tre numeri importanti, che dicono tre cose semplici e importanti. Partiamo da questo in mezzo. Questo ci dice qual è il livello del contrasto tra queste regioni più intense, che sono quelle rosse e quelle meno intense, che sono quelle blu. Una parte su centomila, che è quello che già Cobe aveva visto, ma soltanto con una accuratezza molto più scarsa. Vedete qui con quale dettaglio Planck è riuscito a fare questo. Il contrasto nell’intensità coincide grossomodo con il contrasto della gravità che inizia ad agire, è come vedere le galassie che iniziano ad essere concepite nella loro esistenza. Non abbiamo ancora le galassie; questo è un universo in cui non esiste praticamente nulla, esiste questa brezza, questo soffio, questa lieve increspatura, e questa realtà così semplice, iniziale che è un’increspatura che da origine alla gravità. Ed è la gravità che dà origine alle galassie. Questo numero ci dice quanto è intensa quella iniziale increspatura. Il secondo numero che è a sinistra, è il tempo, l’età dell’universo nel momento in cui la luce è iniziata a propagarsi verso di noi. Oggi abbiamo detto che abbiamo un universo di 14 miliardi di anni, e Planck l’ha misurato, come Reno vi dirà molto accuratamente. Il momento in cui quella luce è partita, risale a un universo in cui l’età era di 380 mila anni, quindi un universo che aveva l’età di un bambino di poche ore di vita rispetto ad un adulto. Il terzo numero, è il più impressionante, è un po’ più speculativo se vogliamo, e dice il tempo in cui si sono formate, secondo la teoria che stiamo estrapolando, presumibilmente quelle increspature. Parliamo di una frazione straordinariamente piccola di un secondo, dieci alla meno trentacinque secondi. Lo scopo di Planck era di misurare quei picchi, quella curva gialla, con grande precisione, perché da quella misura potevamo estrarre dei parametri. I punti rossi sono le misure e la curva verde è quello che la teoria prevede con quei parametri che a questo punto possono essere fissati. E qui su questo Reno poi vi condurrà. Io concludo con una frase di Max Planck, cui è dedicato il nostro satellite, che è stato uno dei più grandi fisici della storia ed è stato anche uno che ha saputo descrivere in modo adeguato, accurato, a mio avviso, l’esperienza del ricercare, il lavoro della ricerca. Così lui descrive in qualche modo la posizione dello scienziato, della persona che vuole indagare la realtà: “Chi ha raggiunto lo stato di non meravigliarsi più di nulla, dimostra semplicemente di aver perduto l’arte del ragionare e del riflettere”. Grazie.

LETIZIA BARDAZZI:
Professor Mandolesi, cosa abbiamo imparato da queste mappe? Quali sono le conferme alla cosmologia classica, e quali i nuovi indizi, le nuove piste per la ricerca che ci attende in futuro?

NAZZARENO MANDOLESI:
Grazie innanzitutto agli organizzatori per l’onore e il privilegio che mi hanno offerto invitandomi a questo Meeting, che ho sempre ammirato, apprezzato e mi ha sempre meravigliato per la quantità di giovani e per l’entusiasmo che tutti hanno nell’organizzarlo, nell’osservare ciò che c’è. Grazie, grazie per l’applauso di incoraggiamento! Prima di affrontare il problema di quanto importante è la cosmologia moderna oggi, voglio far notare che la cosmologia ha cominciato a diventare scienza nel 1929, come raccontava Marco, con la scoperta della espansione dell’universo, delle galassie che si allontanano l’una dall’altra, e prima di arrivare cosa la mappa di Planck ci dice e ci potrà dire, vorrei fare una velocissima panoramica di quanto il creato, la natura, la bellezza della natura ci fa vedere. Questa panoramica la faccio con un commento che è il seguente: “Mi domando e vi domando: questa perfezione della natura può essere frutto del caso?” E vado avanti: “Fiori, farfalle, animali, anche gli animali della foresta, che nella loro dimensione non fanno neanche paura in questa foto, assolutamente. O queste tartarughine, che chissà se vivranno, o questi uccellini che tubano, o nel mondo marino queste stelle enormi, stelle marine, e finalmente la nostra meravigliosa Terra, non è tutto questo meraviglioso? Chi di voi in una notte stellata d’estate, soprattutto d’estate ma anche di inverno, su una cima di una montagna lontano dall’inquinamento, o in mezzo al mare, come a me capita spesso quando attraverso l’Adriatico, non ha alzato gli occhi al cielo e non ha visto queste stelle meravigliose che ci sormontano o non ha visto la Via Lattea? Non è questo meraviglioso? Tutto questo secondo me non può essere frutto del caso. E andiamo alla volta celeste: Marco vi ha fatto vedere quell’immagine in due dimensioni: la volta celeste circonda la Terra, e così come la volta celeste può essere rappresentata in due dimensioni in una mappa di questo tipo, nella stessa maniera la mappa della regione di fondo cosmico può essere rappresentata in due dimensioni. Vorrei farvi notare sotto, nella parte in basso, quanto ha visto il satellite della NASA che ci ha preceduto, che è stato lanciato nel 2000 e ha finito lo stesso anno del lancio del Planck. Vedete sotto il dettaglio di una zona di cielo e vedete che le stesse disuniformità della regione di fondo cosmico che vediamo dalla mappa mostrano una nitidezza, un dettaglio che dalle mappe precedenti non appariva. E questo è importantissimo ai fini della conoscenza del nostro universo. Vedete quanto Planck ha fatto meglio questa fotografia di chiunque altro satellite che l’ha preceduto. E che cosa ci dice questa mappa? Che informazioni ci dà? E la cosa che veramente io ritengo meravigliosa è che questa mappa ci fa vedere e ci dice qual era lo stato della materia nel momento in cui la prima luce dell’universo è stata emessa, 380 mila anni dopo il Big Bang, nella visione che abbiamo oggi dell’universo. 380 mila anni dopo il Big Bang, se li paragoniamo alla vita di un uomo, sono circa una ventina di ore, forse meno. Quindi è come se vedessimo un bimbo nato 20 ore dopo: conosciamo il nostro universo, la fotografia del nostro universo, solo 20 ore (raffrontandolo alla vita di un uomo) dopo la sua nascita. E da questa mappa possiamo ricavare una serie di parametri di ciò che è successo prima e di ciò che possiamo immaginarci. E la cosa che Marco ha fatto vedere è che questa mappa viene analizzata in maniera statistica, con questo (parlando in termini tecnici) spettro di potenza dell’enisotropia. Termine difficilissimo, dimenticatevelo. Ma quello che vorrei farvi notare è che gli errori dei punti di questa mappa sono praticamente, inesistenti. Quelli non sono errori strumentali, quelli sono errori della natura, si chiamano varianza cosmica, e sono dovuti al fatto che noi possiamo osservare da questa galassia un solo universo, ne abbiamo una sola rappresentazione. Se potessimo andare su un’altra galassia, avremmo una rappresentazione diversa di quell’immagine, avremmo uno spettro diverso di quell’immagine. E quelli sono errori naturali che sono assolutamente ineliminabili. Come dicevo prima, quella mappa rappresenta quello stato della materia nell’universo neonato, e nell’universo neonato quelle densità, quei punti dove la materia è più densa, rappresentano i semi delle strutture che sono collassate per instabilità gravitazionali dato che la gravità è ciò che domina l’universo. Quest’immagine, che è l’aneddoto che racconta Newton quando disse che la forza che domina nella terra è la gravità, rappresenta appunto ciò che sto dicendo. Per quanto riguarda la mappa, che cosa ci dice? Ci dice appunto che possiamo da quei semi di densità di materia vedere come si sono originate tutte le strutture che vediamo: le galassie, le stelle. Tutte le galassie si sono formate, ma non possiamo seguire tutto punto per punto. Quello che possiamo fare è simulare, con dei potenti calcolatori, che cosa succede, e come vedete la forza che domina è la gravitazione, ma c’è anche la pressione di irradiazione. Alla fine di questa simulazione si è formato da quei semi un ammasso di galassie. Ciò che vedete al centro è un ammasso di galassie. Noi apparteniamo alla Via Lattea, la galassia di 100 miliardi di stelle, e la cosa più bella ancora che posso farvi vedere è un viaggio che fa parte di una simulazione. Ciò che possiamo fare sono solo simulazioni, per vedere se ciò che osserviamo in qualche maniera corrisponde a ciò che la teoria predice. E vedremo in questa sequenza un viaggio a bordo di un fotone che procede dalla luce. Potrebbe essere anche un fotone della regione fossile. E’ un viaggio che ci fa spaziare intorno a noi per sette-otto miliardi di anni luce. Questo è l’universo che noi, a bordo del fotone, vedremmo. Non è meraviglioso? E alla fine arriviamo anche qui ad un ammasso di galassie, a dei filamenti, ci ruotiamo attorno. Quali altre informazioni ci dà Planck? Sicuramente è la fotografia più dettagliata, più precisa mai fata della prima luce dell’universo. Ci dice come è distribuita la materia. E perché la luce e la materia sono così collegate? Lo vedremo dopo. La cosa importante è che quella prima luce dell’universo giunge a noi così come era allora, 380 mila anni dopo il Big Bang, per la semplice ragione che, per grande fortuna e per grande meraviglia (e io non credo per caso), i fotoni non hanno più interagito con la materia come fecero prima. E quindi l’universo, espandendosi come un gas, si è soltanto raffreddato. Quindi quello che vediamo oggi è nient’altro che la prima luce dell’universo a 380 mila anni, raffreddata mille volte. Era a 3000° K nel momento in cui è stata emessa e ora è circa 3° K (1° K è uguale a 1° C, 3° K sono circa -270° C). Cosa altro c’è? Ce lo dice la mappa, che ci dà un po’ la visione dell’universo, la topologia, la geometria dell’universo. Per la prima volta una mappa dice che l’universo è un universo che segue la legge, cioè un universo piatto. Che non vuol dire che è un foglio di carta. Vuol dire che le leggi della geometria che utilizziamo sono leggi euclidee: la somma degli angoli di un triangolo è uguale a 180°. Questo ci dice che l’universo è piatto. Mentre la blu-mappa lascia un piccolo spiraglio a qualcosa di diverso, Planck ci conferma che l’universo è piatto, è un universo piatto – adesso vedremo quale potrebbe essere la sua fine, il suo fato -, ma ci dice anche qual è la composizione di questo universo, e ce lo dice con grande dettaglio anche rispetto alla blu-mappa. Come vedete in queste due foto, in questa immagine a torta, solo il 5% dell’universo è noto. Il resto è o materia oscura o energia oscura: due quantità l’una più ignota dell’altra, devo dire. E che cos’è la materia oscura? Non lo sappiamo. La materia oscura ha la stessa composizione chimica, fa parte della nostra chimica, ma non è materia barionica. Noi siamo fatti di barioni. I barioni sono per esempio i protoni e i neutroni di un atomo. I protoni contengono tre quark, i neutroni lo stesso, e quella è materia barionica. La materia oscura non interagisce con la luce e quindi non riusciamo a vederla. E questo è un fatto che ci dà da pensare al modello di universo che seguiamo. Ci sono vari candidati di materia oscura: c’è quello che ho delineato lì, quello della supersimmetria, che dice che potrebbe essere dovuta a particelle supersimmetriche delle particelle barioniche. Ma è una delle tante teorie. Come la vediamo? La vediamo per via gravitazionale, perché distorce la luce. È quella che si chiama lente gravitazionale, e Planck per la prima volta ha visto questo effetto: l’effetto della distorsione della luce dovuta alla materia. È una verifica potentissima della teoria della relatività di Einstein. E questa è la mappa simulata, con l’effetto di distorsione, che Planck per la prima volta ha osservato. Questo effetto lo possiamo vedere anche nelle singole galassie. Se volessimo osservare la galassia che è menzionata lì con il punto 1 su questa galassia indicata al punto 3, vedremmo che in mezzo alla galassia che vogliamo osservare c’è un grande ammasso di galassie, quindi c’è un grande campo gravitazionale. A questo punto si forma quello che si chiama effetto di lente: lo spazio tempo viene distorto e la luce è obbligata a seguire il percorso dello spazio-tempo distorto. Questo è un esempio, un cluster di galassie che si chiama Habel 2218 e l’effetto lente che si può osservare è uno sbrodolamento della sorgente che stiamo osservando o un suo sdoppiamento o addirittura entrambi. Qua vediamo che quelle strutture lenticolari intorno alla galassia principale non sono nient’altro che uno sdoppiamento della galassia principale, quella che stiamo osservando. Quindi, visto che ho parlato di relatività in una trasparenza, vi dico che cos’è la relatività speciale. Mi scuso per gli esperti. La relatività speciale si basa su un assunto: viviamo in un universo a quattro dimensioni, spazio-tempo: non lo spazio è nel tempo, viviamo nello spazio-tempo. Se mi chiedete cos’è il tempo io non lo so. Vi posso solo rispondere che il tempo è una delle quattro dimensioni dell’universo. Considerate lo spazio-tempo come un’unica entità che comporta effetti che conosciamo per via teorica e anche non teorica, come la contrazione delle lunghezze e la dilatazione dei tempi. Per esempio, se qui osservo un evento contemporaneo, due treni che partono dallo stesso posto nella stessa ora, per un fotone che viaggia alla velocità della luce ciò non è vero. Il fotone non vede quei due eventi contemporanei, perché viaggia alla velocità della luce. E dalla relatività speciale poi salta fuori la formula magica E=MC², che tutti conoscono. Dieci anni dopo, Einstein si è reso conto che la materia è capace di occupare lo spazio-tempo e lo spazio-tempo è capace di far muovere i fotoni lungo questo percorso distorto, come appare in questa trasparenza: vedete che sto osservando una galassia reale, c’è una grande massa che distorce lo spazio tempo e la osservo in direzione sbagliata. Energia oscura: questa è ancora più oscura della materia oscura, costituisce circa il 70% della densità del nostro universo. Che cos’è? Non lo so! Onestamente non lo so. Una delle ipotesi, secondo le teorie cosmologiche standard, è che sia una accelerazione attuale, osservata in altre maniere anche con delle supernove, una accelerazione della espansione dell’universo. Sapete, come vi ha detto Marco, che l’universo si espande e Planck ha stabilito ad una velocità che è circa 70 km al secondo per due galassie che si trovano a 3,3 miliardi di anni luce una dall’altra. Prima il numero magico era 74, Planck ha stabilito che è 70. Anche rifacendo i conti sulle supernove, potrebbe essere quello l’effetto che potrebbe essere spiegato in maniera teorica da quella costante che è stata introdotta da Einstein nell’equazione che in qualche modo governa l’universo, la costante cosmologica Lambda, che Einstein stesso ha definito il suo più grande errore. Ai tempi di Einstein non esisteva l’universo espanso, esisteva l’universo statico.

LETIZIA BARDAZZI:
Adesso farò delle domande ai nostri ospiti, ai quali chiedo di rispondere abbastanza velocemente. Professor Mandolesi, lo sviluppo del Planck, abbiamo visto, ha impiegato venti anni, un sacco di scienziati coinvolti, più di mille persone: qual è stata la motivazione, qual è tuttora la motivazione che vi ha spinto a un’impresa del genere?

NAZZARENO MANDOLESI:
La motivazione è sempre la curiosità, l’andare avanti, il guardare in avanti. E l’aneddoto che ho raccontato ad alcuni studenti ieri con cui ho pranzato riguarda com’è nata l’idea di Planck. L’idea di Planck è nata nell’84 circa, quando lavoravo con George Smoot, e in quel momento George disse: “Vedi, le anisotropie del fondo cosmico devono vedersi, devono assolutamente vedersi; bisogna solo avere una missione spaziale, bisogna soltanto avere la giusta sensibilità per osservarle”. E lui fece la proposta alla Nasa, che fu accettata. Nel ’90 fu lanciato COBE, nel ’92 vide queste anisotropie. Noi qui in Europa abbiamo l’ESA, l’ESA è molto precisa, il successo del missile dell’ESA è altissimo, pressoché il 100%, però ci impiega del tempo. Ma, come vedete, abbiamo fatto meglio. Abbiamo impiegato forse vent’anni in più, ma siamo arrivati.

LETIZIA BARDAZZI:
Perfetto, grazie. E per te Marco, quali sono state le motivazioni, quali sono tuttora.

MARCO BERSANELLI:
Aggiungo una cosa un po’ diversa, per completare. C’è la curiosità, e questa è fondamentale, ma una cosa per me molto importante è condividere, cioè la compagnia delle persone con cui si lavora che contribuisce molto alla motivazione di un lavoro. Si condivide questa passione, questa curiosità, penso per esempio anche al gruppo con cui lavoro a Milano, ai giovani, agli studenti, a quelli che ti guardano con una curiosità ancora più fresca della tua e quindi ti danno nuova prospettiva. In un tempo così lungo questo è decisivo. Anche voi qua al Meeting, per quanto mi riguarda, la vostra attesa, aspettativa è fondamentale, perché quando uno parte per una esplorazione, fa l’esploratore, io credo che abbia sempre nel cuore il desiderio di tornare e raccontare quello che ha visto. Fa parte della motivazione, del gusto di questo lavoro.

LETIZIA BARDAZZI:
Chissà quante cose sono successe in questi anni, in questa avventura, ce ne ricordate una che vi ha particolarmente colpito, emozionato?

NAZZARENO MANDOLESI:
Per me è stato certamente il momento in cui Planck è stato lanciato. È stata veramente un’emozione fortissima, forse seconda soltanto alla nascita di mio figlio, Non so se sapete che il razzo Arianna con cui Planck è stato lanciato ha un motore tradizionale, che viene acceso ed entro dieci secondi può essere spento, dopo quei dieci secondi si accendono i razzi che vanno a propellente liquido e non è più possibile tornare indietro. Ecco, quelli sono stati i 10 secondi più emozionanti della mia vita.

LETIZIA BARDAZZI:
E per te Marco, oltre che questo momento, sicuramente…

MARCO BERSANELLI:
Oltre a questo, naturalmente, un altro momento incredibile, è stato qualche settimana dopo il lancio, quando Planck è andato in temperatura, quindi ha raggiunto quei valori di temperatura così estremi, bassi, che avete visto prima, e, come avete visto prima, a quel punto spinna, cioè ruota su se stesso, ma solo se gli strumenti funzionano, se tutto è andato bene, perché non è detto che la delicata elettronica, gli strumenti siano sopravvissuti alle vibrazioni del lancio. C’è un primo momento in cui Planck apre gli occhi, d’accordo? Si accende lo strumento, e se funziona, lui spinna in questo modo, una volta al minuto. Quello che noi ci aspettiamo di vedere è che ci sia un segnale leggermente modulato, cioè che appunto faccia una correlazione con la sua rotazione. Noi sappiamo che il fondo di microonde ha questa asimmetria globale, dovuta al fatto che la nostra Terra si muove in una certa direzione nell’universo locale, ma quello che importa è che in quel momento è come se fosse arrivata per la prima volta. Quando abbiamo visto i dati che effettivamente davano questa modulazione, sono come il primo grido del bimbo che è nato e questo, anche questo è abbastanza importante.

LETIZIA BARDAZZI:
E d’obbligo adesso la domanda: qual è il momento di maggior stress, qual è il momento in cui avete detto “adesso noi rischiamo che il progetto fallisca e noi perdiamo tutto”?

NAZZARENO MANDOLESI:
Quello me lo ricordo molto, ma molto bene. Mi ricordo forse precisamente anche il giorno: era il 28 di luglio del 2009. Planck era già arrivato a destinazione, a un milione e mezzo di km dalla terra e si stavano facendo tutti i test di validazione dei vari sistemi, sottosistemi, dei ricevitori e tutto funzionava perfettamente. Quindi a quel punto tutti avevamo deciso di prenderci un periodo di vacanza. Anch’io. Dice mia moglie: perché quest’anno non andiamo in Croazia, non attraversiamo il mare, e veleggiamo lungo costa? Però, appena partito, ero arrivato a Cesenatico, mi arrivò una telefonata dal centro operativo delle missioni dell’ESA, che si trova ad Darmstadt vicino a Francoforte, e mi dissero: “Il raffreddatore, il cooler, a 4 kelvin, che è un elemento fondamentale di tutta la catena criogenica di Planck, ha smesso da solo di funzionare. Che facciamo?”. Beh, cominciamo a contattare tutti. Nessuno era contattabile, Marco credo che fosse sulle cime di qualche montagna, il mio collega francese era anche lontano, nei Caraibi, tutte le altre persone che potevano prendere decisioni non c’erano. L’unico ero io. Veramente quella fu la fine delle mie vacanze. A quel punto cominciai contattare tutti gli ingegneri, tutte le industrie ecc., e decidemmo che l’unica cosa da fare era aspettare un giorno e riaccenderlo. Fu riacceso, da allora in poi non si è più spento.

LETIZIA BARDAZZI:
E per te?

MARCO BERSANELLI:
Io mi ricordo una scena, questa volta un po’ prima di quella che ha raccontato Reno, non mi ricordo il giorno, ma mi ricordo molto bene il dramma che ho vissuto. Eravamo a Milano, alla ex Laben, dove avevamo fatto i test criogenici allo strumento. In pratica lo strumento era completato, era stato calibrato, tutto era andato bene, finalmente era stato portato alla bassa temperatura, tutto aveva funzionato. L’ultimo test, l’ultima formalità era un test a temperatura ambiente, in cui semplicemente si riaccendeva tutta la strumentazione, dopo si chiudeva, si impacchettava, e si mandava per l’integrazione sul satellite, per essere poi lanciato. Tre giorni dopo doveva avvenire questa integrazione e ormai non c’era più spazio, quindi doveva andar bene, era una formalità. Bene, accendiamo gli strumenti, su 22 canali, 12 non davano segni di vita e io vi giuro in quel momento mi sono un po’ come paralizzato, mentalmente, cioè non riuscivo più a capire come andare avanti e mi ricordo che è stato fondamentale che alcuni, tra l’altro fra i più giovani del gruppo, si siano invece messi con buona lena a cercare di capire, a cercar di capire questo problema, che poi è stato capito e grazie a Dio era una cosa veramente banale, ma non facile da cogliere nella sua origine. Poi abbiamo risolto questo problema in tempo e da allora anche lì, dopo il lancio, su 22 canali 22 canali hanno funzionato perfettamente e ancora adesso che sono qui a parlare è vivo, e ci sta dando, come avete visto, dei buoni risultati.

LETIZIA BARDAZZI:
Una domanda un po’ più impegnativa. L’oggetto di questa ricerca, l’universo e la sua origine, tocca un contenuto fondamentale, che per sua natura incontra il tema della totalità, si incontra con la domanda religiosa. Come viene percepito oggi questo rapporto in ambito scientifico, qual è la vostra esperienza e come considerate il nesso tra la ricerca scientifica e la fede?

NAZZARENO MANDOLESI:
In ambiente scientifico, Marco può confermarlo o meno, ma credo che lo confermi, questo tema non viene trattato. Nel senso che la fede e la scienza appartengono più all’io. Qual è la mia opinione? Per quanto mi riguarda mi son riletto il primo verso della Genesi, il primo versetto della Genesi, che dice esattamente “In principio Dio creò il mondo”, “il cielo e la terra” più esattamente. Lì è un problema di fede, chi crede, crede anche a questo primo verso della Genesi, chi non crede dice “tutto ciò che non è dimostrabile non è vero”. Questa è la mia percezione. Ma a livello umano, tra persone che credono e persone che non credono non c’è mai stato, secondo la mia esperienza e ormai ne ho tanta, confronto aperto, il problema non è mai stato trattato, probabilmente per un problema di privacy.

LETIZIA BARDAZZI:
E il tuo punto di vista?
MARCO BERSANELLI:
Si vede come tanti dei più grandi scienziati questa dinamica, questa domanda, questo nesso l’hanno vissuto, lo vivono profondamente. Planck per esempio, mi sono annotato questa sua frase, diceva: “Scienza e fede non sono in contrasto, ma hanno bisogno l’una dell’altra per completarsi nella mente di un uomo che pensa seriamente”. Nella mia esperienza posso dire questo, che il mio lavoro scientifico sicuramente aumenta lo spessore e la prospettiva della fede. La natura, la creazione, anche Reno lo diceva prima, sono un segno del mistero. E in fondo la scienza che cos’è, se non catturare nuovi segni, scoprire di più come questo è vero? Oggi possiamo godere di bellezze che un tempo non era possibile godere. Pensiamo a quello che abbiamo raccontato oggi. E viceversa la fede personalmente è un aspetto che è decisivo per me, anche nel modo in cui mi motiva nel mio lavoro, dà gusto al mio lavoro. Mi sono letto l’Enciclica recente, la Lumen fidei. C’è una frase che volevo dire, che mi sembra molto interessante: “La fede risveglia il senso critico, in quanto impedisce alla ricerca – parla proprio di questo, del nesso della fede con la scienza – di essere soddisfatta nelle sue formule e la aiuta a capire che la natura è sempre più grande”. Ecco, la fede è quella prospettiva per cui non ci si accontenta di una risposta parziale. La fede è sempre un’apertura verso l’oltre, è un coraggio della ragione. Questo per me è un aspetto veramente affascinante di questo nesso che ho la fortuna di vivere insieme a tanti amici.

LETIZIA BARDAZZI:
Un’ultima domanda su cosa pensate voi del futuro della ricerca spaziale in Italia. Abbiamo visto che il progetto Planck ha avuto un ruolo di leadership internazionale anche grazie al talento di molti ricercatori italiani che tutti ci hanno invidiato. Sappiamo che il nostro Paese si meriterebbe migliori prospettive di quelle che sembrano affiorare. Ecco, la domanda a lei, Professore: come membro del CdA dell’Agenzia Spaziale Italiana, cosa prevede per il nostro futuro?

NAZZARENO MANDOLESI:
Innanzitutto lasciatemi dire che la scienza spaziale in Italia è sempre stata una delle punte di eccellenza della ricerca. E questo è dimostrato dal fatto che il 10% delle pubblicazioni mondiali in questo campo, nelle scienze dello spazio, è fatto da autori italiani, rispetto a una media dal 4 al 6% delle altre scienze. Quindi la scienza spaziale certamente – l’astrofisica tra l’altro fa parte della scienza spaziale – ha ricoperto un ruolo molto importante per i giovani. A livello europeo, la scienza spaziale sta colpendo il mondo, l’Europa in particolare ed in particolare l’Italia, perché protetta da accordi internazionali. Quindi è il budget dell’ESA o del Cern che finora non sono stati toccati. Il problema invece in Italia si pone perché l’ASI che finanzia le scienze spaziali è in qualche maniera in deficit di bilancio. Tra l’altro ricordo che l’Italia è il terzo contributore dei venti Paesi dell’ESA più il Canada, ed il terzo contributore dopo la Francia e la Germania, quindi non poco. Tra l’altro è un contributore che, proprio per le regole internazionali, per gli accordi internazionali che sono stati scritti dai nostri padri fondatori, ritorna indietro – quello che si chiama il giusto ritorno -: ciò che investiamo in ESA ci ritorna alle nostre industrie, alle nostre imprese, piccole, grandi, medie, soprattutto grandi. Quindi in qualche maniera un ritorno l’Italia ce l’ha. L’Italia, se volete il numero ve lo dico, l’Italia contribuisce per 400 milioni all’anno al budget dell’ESA. Per quanto riguarda l’ASI, l’ASI purtroppo è in deficit di bilancio ed abbiamo sentito ieri il Ministro che certamente non ci ha dato delle note positive per quanto riguarda il finanziamento né della scuola né della ricerca. Questo è molto grave, soprattutto pensando ai nostri giovani. La Ministra ieri l’ha detto: una persona su due, di età inferiore ai 35 anni, non ha lavoro e questo è drammatico, veramente drammatico. Bisogna far ripartire l’economia di questo Paese, perché se non si fa ripartire l’economia di non si va avanti. E’ vero che ci vuole l’istruzione, la ricerca e l’innovazione, questo è il triangolo virtuoso dell’economia, però se non c’è quella, quel flash iniziale che fa ripartire queste tre componenti, istruzione, ricerca e innovazione, non riusciamo a vendere i nostri prodotti manifatturieri all’estero. Dobbiamo perciò investire sempre di più in ricerca. Per quanto riguarda l’ASI, l’ASI fa quello che può, nel senso che l’ASI supporta le missioni scientifiche dell’ESA. Queste sono pagate dall’ESA per quanto riguarda la parte complessiva, quello che si chiama in termini tecnici il Bus – adesso non vorrei fare offese a nessuno, in italiano la chiamiamo la carrozza, nessun riferimento alla Ministra, al Ministro di ieri. Quindi l’ESA finanza il Bus, il lancio di tutti gli aspetti tecnici complessivi di integrazione e i Paesi membri invece finanziano gli strumenti, gli strumenti a bordo, qui si chiamano carico pagante, come i passeggeri del Bus. Quindi l’ASI supporta tutte le missioni dell’Esa, ovviamente stringendo la cinghia in altre attività, come per esempio quella della insolazione della terra, dove l’Italia con il sistema Cosmus, un sistema a micronde in banda x, che è un radar ad apertura sintetica, è leader mondiale, è avanti rispetto anche gli Stati Uniti di tre o quattro anni. Questo tipo di osservazione della terra, che è stato creato sia per motivi di sicurezza che soprattutto per osservare, per essere pronti in caso di catastrofi, come il terremoto che c’è stato all’Aquila, funziona sia di notte che di giorno che in presenza di nuvole. Quindi a questo punto, se il bilancio dell’ASI non viene in qualche maniera rinforzato, poco si potrà fare nel campo dell’impulso da dare alla ricerca e all’investire nei giovani.

LETIZIA BARDAZZI:
Marco, qual è il futuro dei nostri studenti che desiderano seguire gli studi in fisica ed astrofisica?

MARCO BERSANELLI:
La cosa più importante è che lo desiderino, cioè che questo desiderio, quando uno lo avverte, lo prenda sul serio. La cosa più importante è fidarsi di una prospettiva, di un’intuizione, verificarla, con realismo, perché non c’è situazione difficile o negativa come quella che magari oggi viviamo, che possa impedire ad una risorsa umana di esprimersi. Può essere in difficoltà, ma alla fine questo desiderio è la cosa più preziosa. Occorre un orizzonte internazionale per fare queste cose, quindi è importante non sentire il limite di una situazione locale, perché il mondo è grande. Vorrei anche dire che il sistema universitario della scuola e dell’università italiana, sino a questo momento, è eccellente a livello mondiale. Noi esportiamo alcuni dei migliori ricercatori nel mondo, ci vengono a cercare gli studenti, perché crescono delle persone capaci di fare ricerca fino a livello dell’università e del dottorato. Quindi questo orizzonte internazionale, come penso anche l’incontro di oggi abbia dimostrato, lo si può vivere anche dall’Italia e quindi tenete presente che l’Italia ha anche bisogno di voi, qui, in Italia. Non sto dicendo di non andare all’estero, il punto precedente è l’orizzonte internazionale, altro che provinciale. Dico che noi non siamo fuori da questa possibilità, pur nelle difficoltà innegabili che ci sono, che non sono però insormontabili. Ultima cosa che dico, e, qui mi lego a quanto un po’ ha detto già anche Nazzareno: chiediamo ai nostri governanti di prendere molto sul serio questa questione delle possibilità di formare dei ricercatori fino in fondo, non soltanto investire su delle qualità straordinarie per poi cessare. Noi dobbiamo mantenere anzi riprendere, costruire, una tradizione di ricerca nella fisica italiana. Se noi perdiamo una generazione, perdiamo una storia, è una discontinuità che sarebbe gravissima. Quindi io credo che, questo sia un messaggio che forse possiamo lasciare dopo questo incontro di oggi.

LETIZIA BARDAZZI:
Grazie di cuore per la ricchezza che abbiamo ricevuto da questo dialogo di oggi, che ci ha condotto in questo sguardo sull’universo, per potere ammirare la realtà nella sua totalità, fino a questa profondità. Grazie perché fa impressione rendersi conto di come noi, il più enigmatico di tutti i frutti dell’universo, dipendiamo proprio da questa sinfonia cosmica che avete descritto. Siamo un punto infinitesimale di questa vastità, eppure abbiamo la capacità di conoscere la realtà, abbiamo il dono di poter ammirare la realtà nella sua totalità e niente ci è più estraneo. Come diceva Einstein: “La cosa più incomprensibile dell’universo è che l’universo sia comprensibile”. Noi, questa corrispondenza fra le cose che ci sono e la nostra conoscenza, a volte la diamo un po’ per scontata ed invece è qualcosa di straordinario, di grandissimo. Vi ringrazio nuovamente e vi saluto e vi invito a firmare l’appello in difesa dei cristiani perseguitati. Grazie ancora ai nostri ospiti.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

24 Agosto 2013

Ora

11:15

Edizione

2013

Luogo

Salone D5
Categoria
Incontri