Chi siamo
I 60 ANNI DI COSTITUZIONE E SFIDE DEL FUTURO
Sono stati invitati: Giulio Andreotti, Senatore della Repubblica Italiana; Paolo Grossi, Docente di Storia del Diritto Medievale e Moderno all’Università degli Studi di Firenze; Giulio Tremonti, Ministro dell’Economia e delle Finanze. Introduce Luca Antonini, Vice Presidente Fondazione per la Sussidiarietà e Docente di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Padova.
MODERATORE:
I 60 anni della Costituzione e le sfide del futuro è il titolo di quest’incontro in cui abbiamo tre grandi amici del Meeting: Andreotti, Grossi e Tremonti, che non presento perché, appunto, sono amici del Meeting ma anche personaggi estremamente noti. Entro subito nel tema: i 60 anni che compie la Costituzione italiana non sono un compleanno banale. La vecchia Costituzione italiana mostra con orgoglio la sua età, ha un cuore giovane, soprattutto perché lascia alla storia d’Italia e in fondo al mondo, una grande lezione di metodo. Venne approvata quasi all’unanimità, nonostante la profonda differenza ideologica che c’era fra le parti che componevano l’Assemblea Costituente. L’ideologia comunista era tutt’altro che morta. Con una metafora potremmo dire che i muri non erano caduti, i muri dell’ideologia. Il muro di Berlino sarebbe stato innalzato da lì a poco. Eppure avvenne un compromesso in nome del bene comune, per una tensione ideale: il cosiddetto miracolo costituente. Un compromesso sincero fra la tradizione cattolica, la tradizione socialista e la tradizione liberale che porta a un’approvazione quasi all’unanimità. Un compromesso sincero sull’assetto dei valori da riconoscere alla base di una società che usciva dalla ferita della dittatura e dal dramma di una guerra. Compromesso significa, secondo la sua etimologia, promettere insieme, e fu una promessa reale, perché realizzò, veramente, uno straordinario patto istituzionale che fece anche da motore a tutto lo sviluppo, anche economico, che ebbe l’Italia negli anni successivi.
Allora qui la prima domanda, che vorremmo fare al presidente Andreotti, e che è: qual è stato il segreto di questo miracolo costituente, cosa dice oggi alla politica? Venne definita la Costituzione di tutti: che differenza rispetto a questa e a quella che è stata nel 2001, una Costituzione di parte, approvata solo per 5 voti alla fine della legislatura. Ma non è solo nel metodo che la Costituzione italiana merita di essere onorata nei 60 anni che compie. Lascia anche una lezione sui contenuti, soprattutto quelli della prima parte, che rappresenta la traduzione di principi che valevano, che rappresentavano la cifra giuridica del popolo che viveva allora in Italia. Per esempio l’articolo due dice che diritti e doveri sono le facce di una stessa medaglia. Ben altra prospettiva è quella di oggi, dove si diffondono in modo irragionevole diritti che sembrano insaziabili, dimenticando che per ogni diritto che crei nasce un dovere a carico di qualcun altro. Per questo Grossi ci parlerà della Costituzione come atto di ragione. E noi abbiamo visto perché atto di ragione, cosa vuol dire una ragione allargata: nella Costituzione ci sono formulazioni come quella sul valore rieducativo della pena, e noi abbiamo sotto gli occhi le immagini di quei carcerati che, incontrando un soggetto che è protagonista veramente, vengono rieducati e riconquistano una stima di sé. Ecco, questa è la traduzione in fatti di quello che è un principio che è scritto nella Costituzione. Ma la storia procede, e alla caduta del muro di Berlino è seguita un’altra caduta, la caduta di un altro muro, che ha avuto un effetto ben più dirompente: la caduta del muro di Pechino. L’11 dicembre del 2001 la Cina entra a far parte del WTO, la globalizzazione economica sconvolge gli assetti e le logiche del progetto dello Stato nazione. Il problema del potere si pone in termini diversi: i popoli chiedono e i governanti faticano a rispondere. Un fenomeno nuovo che genera paura e speranza, come è il titolo del libro di Tremonti che con lucidità descrive i fenomeni che si stanno verificando, con lucidità quasi profetica li definisce e li giudica. E’ un libro di cui Bernabei ha scritto, in un’intervista sull’Osservatore Romano, che questo libro avrebbe potuto scriverlo La Pira. La Pira era un costituente, quindi diciamo che siamo in tema. E in effetti è un libro strano da un certo punto di vista, perché critica anche una certa visione di società. Critica lo scientismo, il laicismo negazionista, critica il ’68, anche.
C’è una frase che vorrei leggere. Dice: “Il ’68 ha spogliato gli altari. Ma se tu non credi più a niente finisci per credere a qualunque cosa. E così la mediocrità diventa maestà: la maestà della mediocrità”. E’ il contrario del protagonismo del titolo del Meeting. Il libro di Tremonti è anche speranza. Speranza che lui lascia intravedere nella critica che fa al mercatismo, che definisce come l’ultimo discendente, astuto e calcolatore, dell’illuminismo, “combinato disposto tra la nuova ingegneria sociale – dice – e un’illusione demenziale”. Pone quindi con forza la ragione delle radici dell’Europa, e dice che l’Europa, rinunciando a codificare le sue radici giudaico-cristiane, ha rifiutato la propria identità, perché ha rifiutato la propria anima. Quindi la domanda che poniamo al professor Tremonti è: valore della Costituzione italiana e la speranza per il futuro.
Io darei la parola all’inizio al professor Paolo Grossi.
PAOLO GROSSI:
E’ questa la terza volta che partecipo al Meeting di Rimini come relatore. Ed è questo, motivo per me di grandissima, sincera soddisfazione. Voglio esprimere all’amico Antonini e ai promotori del Meeting un sentimento di aperta riconoscenza per questo onore che mi viene fatto. Antonini vi ha delineato quello che sarà l’oggetto di questo mio intervento, che se non sbaglio non deve durare più di 20 minuti, secondo le direttive del presidente e io ho qui di fronte un orologio che sarà inflessibile nel misurare il tempo.
La Costituzione italiana come atto di ragione. E questo può essere un titolo che non torna a qualcuno, che sa di bassa retorica, che sa di un’apologia, di una difesa d’ufficio della Costituzione. E’ un titolo che intende sottolineare la prevalenza della dimensione razionale e ragionevole, almeno nei principi fondamentali e nella prima parte della nostra Carta Costituzionale del 1947. E’ chiaro che sotto questo titolo c’è, da parte mia, una valutazione estremamente positiva dei principi fondamentali e della prima parte della nostra Carta. Quella prima parte in cui si delineano analiticamente diritti e doveri dei cittadini. Però è singolare questo titolo. Sembrerebbe quasi porsi in antinomia, in contraddizione con quello che diceva ora, con una constatazione storica, Antonini: la Costituente fu fatta da ideologie diverse. Si potrebbe pensare a una Costituzione, a una Carta che è il frutto di una transazione, di una serie di transazioni, di accordi di bassa lega. E c’è anche chi ha dato, della nostra Carta Costituzionale, una valutazione negativa. Penso ad un grande giurista, uno dei protagonisti della scienza giuridica del ’900, Arturo Carlo Jemolo. Certo, non siamo così ingenui da vedere un coro di angeli adunati nei palazzi romani, però quello che più sorprende me storico del diritto e quindi giurista, è un’assemblea che si è sinceramente autointerrogata nel tentativo di dare un ordinamento razionale, nel momento in cui veniva disegnato un nuovo Stato. Uno stato che veniva disegnato guardando al di là dello Stato, a di là del politico contingente. Ciò è tipico di quella grande corrente del pensiero filosofico, politico e anche giuridico che noi chiamiamo costituzionalismo e che impegna l’Europa continentale e non solo continentale nel ’600, nel ’700 e arriva intatta fino ad oggi. Occorre fare una precisazione di carattere storico. C’è un tratto comune del costituzionalismo ed è il tentativo di leggere ciò che esisteva prima dello Stato, il tentativo di difendere il soggetto contro gli arbitrii del potere politico, risalendo a un momento in cui ancora lo Stato non era nato. Però la precisazione storica da fare è: dividere nettamente un primo costituzionalismo, quello seicentesco, settecentesco, ottocentesco, e un secondo costituzionalismo a cui appartiene la nostra Carta Costituzionale. Quella prima storia del costituzionalismo moderno si identifica con quel grande fenomeno che noi chiamiamo Giusnaturalismo, cioè il tentativo di disegnare uno stato di natura, pre-storico, pre-sociale, pre-politico. Ma questo stato di natura non è mai esistito, è una grande invenzione, una sublime invenzione, se volete, un artificio. Il Giusnaturalismo ci disegna un paesaggio irreale, astratto, virtuale, dove galleggiano degli individui, ma non individui che sono uomini in carne ed ossa, ma individui modelli di uomo, come delle statue uscite da una stessa officina. Non ci sono i soggetti, variati e incarnati nella loro storia quotidiana, c’è il soggetto, astratto, unitario. Questi individui, astratti dal loro contesto storico, sono tutti uguali, sono tutti individui, cioè realtà insulari e un solo dovere compete loro, l’autoconservazione. Dominati dall’istinto di conservazione individuale e perciò proprietari di se stessi, tutti pensati come liberi perché proprietari del proprio corpo e del proprio talento. Ecco, questo periodo storico è dominato da questo emblema, liberty and property, libertà e proprietà. E’ il costituzionalismo che si identifica con la nascente età borghese. L’astrattezza preme ad una civiltà individualistica, perché lascia intatte le disuguaglianze delle fortune. L’astrattezza premia sempre l’abbiente, l’uguaglianza, quella che sarà la legalité degli stendardi della Rivoluzione, è solo giuridica, è solo formale, è solo possibilità di uguaglianza. Però c’è qualcosa di positivo in queste Carte dei diritti, in queste prime testimonianze del fenomeno costituzionalistico. Ci sono dei cataloghi di situazione soggettive protette rispetto all’arbitrio eventuale del potere politico. E la prima situazione giuridica protetta è la proprietà, ma non solo la proprietà, ci sono delle libertà che vengono finalmente sancite, sia pure ad un livello che non è giuridico, ma è, fino ad ora, filosofico-politico. L’individualismo, la dimensione grezzamente individualistica, è il limite di questo primo costituzionalismo. L’individuo, ripeto, realtà insulare. Un individuo modellato su di un uomo che non è un uomo in carne ed ossa, un lavorar per modelli che contribuisce ad isolare questi soggetti dai contesti storici. L’allora
Trascrizione della registrazione non rivista dai relatori
Cardinale Ratzinger, nel 2004, in un colloqui splendido, denso di contenuti, un colloquio tra lui e uno storico di impostazione laica, Ernesto Galli della Loggia, identificava con acutezza la modernità, e quindi anche la modernità che preme a me, la modernità giuridica, come, sono parole dell’allora Cardinale Ratzinger, la divinizzazione della soggettività. Il ’900 è il secolo del secondo costituzionalismo. Perché secondo? Che cosa innova questo secondo momento della grande fiumana costituzionalista? Non c’è più lo stato monoclasse, lo stato borghese che crea un diritto a sua immagine. C’è uno stato, ormai, pluriclasse. Certamente si vuole creare delle tutele forti per i soggetti ma non si disegna uno stato di natura che non è mai esistito. Non si lavora su dei modelli astratti. Quello che dalla prima grande Carta Costituzionale di questo secondo momento, quella di Weimar, del 1919, si fa in continuazione visibile e di cui è testimone la nostra splendida carta, è che il paesaggio socio giuridico non è più un paesaggio artificioso. Si presuppone lo stato pluriclasse, si guarda, certo, al di là dello stato, ma in un paesaggio concreto, storicamente concreto. Si cerca in altre parole di esprimere la cifra giuridica della società nella sua complessità. Se lo stato è sempre, anche quello democratico, un apparato potestativo, la società è realtà più materna, perché più magmatica, è società di società, è comunità di comunità. Quello che il nuovo costituzionalismo vuole operare è leggere, al di là dell’apparato di potere, la cifra giuridica di un popolo nella sua vicenda storica e tradurla non in conclamazioni filosofiche o politiche, come erano le vecchie Carte dei diritti del primo costituzionalismo, ma in una norma giuridica suprema, regolatrice della vita di quel popolo che può regolare, che è chiamata a regolare perché interprete dei valori diffusi nella comunità di quel popolo. Al centro ci sarà sempre il soggetto; il soggetto è sempre oggetto di cura da parte di ogni fenomeno costituzionalistico. Ma è un soggetto finalmente carnale, inserito in un contesto storico, per quanto ci riguarda è il cittadino italiano vivente nel 1946/48, in una certa zona geografica e storica. Se le Carte si riducevano in cataloghi, le nuove costituzioni meritano il nome, il titolo, di ordinamenti. Permettetemi che rifletta un attimo su questo termine. Non è un termine noto, è un termine che è entrato nel linguaggio dei giuristi durante tutto il corso del ’900, del secolo passato. Ma significa che la norma, che è ordinamento, è una norma, vuol guardare ciò che avviene in basso. Vuol ordinare la società che sta in basso ma non può ordinarla se non parte da quella società. Quindi non si tratta di proiettare sulla società dei comandi, magari violenti e astratti, si tratta di arrivare al comando astratto partendo da interessi e valori diffusi nella società civile. La Costituzione, la nostra Costituzione, più che esprimere la dimensione potestativa di uno Stato, più che risolversi in un catalogo astratto, fisso, immobile, di situazioni soggettive, o in una serie di comandi, è ordinamento. Cioè è un grande atto di umiltà verso la società italiana, verso la storia del popolo italiano, così come i costituenti la lessero. E’ un grande atto di umiltà perché è lettura rispettosa di quella società civile, è rispetto verso un ordine oggettivo. Finalmente abbiamo un recupero di oggettività da parte del diritto e questo si ottiene, innanzitutto, sul piano costituzionale; sul piano di queste seconde Costituzioni, le Costituzioni del secondo momento costituzionalista, che sono ordinamento. La nostra è ordinamento, perché intende essere registrazione di un ordine preesistente. Un ordine, voglio ripeterlo perché è un punto essenziale, che si identifica con una storia di un popolo, con la sua esperienza di vita, con i valori effettivamente vissuti da una collettività. E proprio perché ordinamento, la Costituzione valorizza la dimensione intimamente razionale del diritto. Noi dobbiamo, e io lo predico da tempo, operare un recupero per il diritto, l’abbiamo troppo identificato in una serie di comandi, che piovono dall’alto sul povero cittadino, abbiamo avuto una visione soggettivistica, quanto a visto giusto il Cardinal Ratzinger in quel suo colloquio con Ernesto Galli della Loggia! Il diritto è qualcosa di diverso, anche se poi si manifesta in comandi, in sanzioni, in coazioni. Il diritto è realtà radicale, nel senso che è realtà di radici. E’ una dimensione, permettetemi un aggettivo filosofico che è un po’ stonato sulla mia bocca di non filosofo, è una dimensione ontica, cioè essenziale, cioè profonda della società, ragione prima di essa, salvataggio di una società civile. Troppo spesso l’abbiamo identificato in una serie di comandi talvolta arbitrari, talvolta iniqui, di chi deteneva il potere supremo. Nella modernità abbiamo dimenticato quella dimensione razionale del diritto che era stata tipica dei medievali; ai miei studenti di giurisprudenza io ricordo sempre la splendida definizione che Tommaso d’Aquino dà della lex, “ordinatio rationis” ordinamento della ragione. Tommaso vede prevalente nel legiferare non l’espressione di una volontà potestativa ma l’espressione di un desiderio di conoscenza, di una lettura del mondo naturale e sociale, per tradurlo poi in una regola, una regola di vita. Il potere per Tommaso e per i medievali è chiamato a leggere, leggere ciò che è già scritto, nelle cose naturali e sociali, con un primato della dimensione oggettiva. Ed ecco perché il diritto, la legge è ordinamento; perché il fine è la messa in ordine, il rispetto di un ordine, ed è razionale perché non c’è nessuna concessione all’arbitrarietà di un comando, perché qui c’è poco spazio per la volontà e molto per quel grande atto di umiltà verso la realtà oggettiva che è la conoscenza. Certo, il ’900 giuridico è un secolo che ha delle sacche purulente, dittature fascista, nazista, staliniana, però grazie a queste costituzioni novecentesche riscopre l’affrancazione del Diritto dal vincolo necessario con lo Stato. Si riscopre l’umanità del Diritto, la socialità del Diritto, e nello stesso tempo il superamento del soggettivismo. Quante volte, fino a ieri, noi giuristi abbiamo pensato soltanto a capire quale era la volontà del Legislatore, anche se il Legislatore era un personaggio vissuto cento anni prima: soggettivismo, divinizzazione del soggetto, direbbe ancora il Cardinale Ratzinger. Ma il Diritto nel Novecento, in queste Carte Costituzionali, lo ritroviamo nella società, tessuto ordinante della società, ossatura razionale della società e, permettetemi di ripetere un termine che ho già usato, salvataggio della società. Ho ancora due minuti? Avevo fatto un’accostamento tra quell’elogio della ragione che io avevo visto in tanti documenti magisteriali di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, a cominciare da quello splendido manifesto intellettuale e non solo intellettuale, che è Fides et Ratio. Può sembrare strano in due uomini di fede, la ragione come arma critica, la ragione come ricerca di verità, che dà all’uomo anche la coscienza dei suoi limiti ed ecco in quei documenti di Benedetto e prima di Giovanni Paolo, il richiamo continuo al razionalismo tomista, alla visione tomista del Diritto e della Politica, dove emergeva l’onticità del Diritto, dove emergeva questa grande verità: il Diritto è scritto nelle cose. Avevo segnato qui, ma lo accenno soltanto, come S. Tommaso fosse frequentatissimo dai nostri costituenti; per esempio da Giorgio La Pira, uno dei grandi studiosi, in prima persona, di Tommaso d’Aquino; e poi da Dossetti, da Fanfani. In altre parole e chiudo, a me storico del Diritto la Costituzione del ’47 appare come lettura della realtà complessa che non esprime i semplicismi illuministici, i semplicismi dell’età borghese, gli artifici dell’età borghese ma che rispetta la complessità. Non un catalogo di diritti, non situazioni astratte di soggetti astratti, non un soggetto fisso fuori del tempo, geometrico, magari sublime ma geometrico e quindi fuori della storia. C’è il soggetto nel suo contesto storico, inserito nel suo paesaggio reale, in un ambiente. E questo soggetto non è un individuo ma è una persona, cioè una creatura relazionale, posta in contatto con l’altro, con gli altri e che negli altri trova il limite della sua libertà. Non solo soggetto singolo ma anche le formazioni sociali di cui i primi articoli della carta costituzionale parlano con tanta provveditezza. Non solo Diritti ma anche Doveri. E’ il Dovere che socializza il Diritto, che inserisce il Diritto all’interno di una realtà sociale. Quanto lontano il soggetto delle Carte con l’unico dovere di autoconservarsi, padrone di sé e del mondo, dove la proprietà era un qualcosa come dimensione interna al soggetto! Ed ecco la Carta Costituzionale che si affida ad una proprietà nuova, ad una proprietà funzione, cioè desoggettivizzata, resa dimensione oggettiva, inserita nell’economia, dove pure la proprietà deve stare. L’applauso, siete molto gentili, e capisco che l’applauso ha un solo significato, che debbo al fatto…. però ho superato di un solo minuto, penso di avervi comunicato il mio pensiero.
GIULIO ANDREOTTI:
Io non ho ancora dimenticato l’emozione che provai a 26 anni a trovarmi in aula di Montecitorio, tra l’altro, in ragione dell’età, a fare il verbale della prima seduta, in una assemblea nella quale vi erano uomini come Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti. Che cosa potevamo portare noi, piccolo gruppo di giovani? Soltanto un grande entusiasmo e un grande rispetto di stare a sentire, anche se gli anziani non sempre ci diedero esempio di alto modo di concepire il dibattito. Per esempio, le polemiche tra Nitti e Orlando furono impostate con frasi di questo genere. Siccome Nitti aveva un po’ preso in giro Orlando, che camminava e ragionava in modo non sempre facilmente accessibile agli altri, la risposta fu “è vero, la vecchiaia a chi dà alla testa e chi alle gambe”, per il modo lento con cui.. Questo a noi giovani, eravamo un gruppo di giovanissimi, da un lato dava una certa soggezione, vedere nell’aula Benedetto Croce, vedere gli uomini che avevano fatto la storia del nostro Paese. Che cosa potevamo portare noi? Io, l’unica proposta che avevo fatto, mi fu fatta poi ritirare. Perché nell’articolo in cui si parla del Diritto di espressione, “Tutti hanno il diritto..” io avevo messo un emendamento, “Tutti i cittadini hanno il diritto”, condizionando poi in un sub-articolo, gli stranieri alla reciprocità. Forse tuttora non mi sembra poi così bizzarro, ma era contro il clima di quel momento, che era un clima di grande idealità, un clima in cui si respirava un qualche cosa come di acquisizione di valori comuni, la messa da parte di tutto ciò che era divisione. La grande aspirazione che risulta dagli atti era di scrivere una Costituzione che resistesse nel tempo, che non fosse legata solo a quella situazione storica nella quale si era già ben constatata la divisione del mondo in due, l’Unione Sovietica e il resto del mondo, ma che dovesse sfidare i tempi. L’esperienza ha dimostrato che questo lavoro non fu un lavoro sterile, e salvo alcune pochissime modifiche di carattere assolutamente formale, quella Carta Costituzionale regge ancora quella che è la struttura del nostro Paese e ci ha consentito delle novità assolute, tra l’altro di vedere le dimensioni nella quali noi siamo organizzati, andare verso la dimensione Europea e anche oltre quella che è la comunità delle Nazioni Unite. Io ricordo quegli anni non solo con una grande timidezza che avevamo, noi questo gruppo di giovani, ma anche con la grande coscienza di scrivere, di contribuire a scrivere qualche cosa che durasse nel tempo. L’Assemblea non si sbagliò, la Costituzione direi tuttora rimane un punto di riferimento fondamentale nel nostro modo di convivere ed è anche stato il punto di inquadramento successivamente dilatato della nostra presenza di carattere internazionale. Quello che conta è, a mio avviso e chiudo qui, che la Costituzione non è solo una normativa giuridica, ma è un indirizzo morale e un indirizzo di politica con la P maiuscola. Se si perde questa concezione, se si perde questa valutazione che gli uomini sono tutti uguali sul serio e che non esistono dei potentati intellettuali rispetto ad una massa incolore, si viene meno a quello che è il rispetto della Costituzione. Allora c’era, ripeto, quell’aspirazione di fare qualche cosa che doveva durare e che tuttora dura. A mio avviso alcune enunciazioni della prima parte forse richiedono in via pratica una ulteriore forma di progresso, perché ancora le distanze sia all’interno sia tra le comunità all’esterno, non sono delle distanze irrilevanti o che siano completamente colmate. Io credo che sia importante, come stiamo dicendo questa sera, riflettere sulla Costituzione, che non è solo un documento giuridico, è anche un documento giuridico, ma è specialmente un indirizzo e noi dobbiamo tener conto di questo, che era poi la grande ispirazione che sottostava a tutte le varie formulazioni, sia al comitato dei 75, sia poi del recepimento in Aula. Credo che veramente, ora, può essere dato un giudizio estremamente positivo del lavoro che fu fatto in quel determinato momento attraverso la collaborazione di uomini di provenienza la più diversa. Prima è stato ricordato La Pira, io ricorderò Calamandrei, uomini che avevano tutta un’impostazione di carattere globale diversa ma avevano però questo senso dello Stato, che è un’espressione di cui qualche volta si è abusato, ma che invece è realtà. O ci si sente una parte, una piccola parte di un insieme che è coordinato, che è armonizzato, o non si capisce quella che è l’ispirazione fondamentale della nostra Carta Costituzionale. Mi pare che dopo tanti anni, la constatazione che le norme che sono tuttora ancora valide e lo resteranno ancora senza limitazioni di tempo, rappresenti il miglior omaggio che noi dobbiamo specialmente agli uomini del vecchio mondo, che seppero capire l’esigenza di parlare anche a noi giovani. Io, in modo particolare, non tralascio occasione per ringraziare Iddio di avermi fatto conoscere, di avermi introdotto alla vita politica attraverso un uomo che era Alcide De Gasperi.
GIULIO TREMONTI:
Non so se mi fa più soggezione un grande soggetto collettivo come questo vasto pubblico o, da questa parte del palco, i relatori che mi hanno preceduto. Cercherò di superare questa prova d’esame. E’ scritto nel Gattopardo che se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. Nella vita, 60 anni della vita, della nostra Costituzione è stato l’opposto; poco è formalmente cambiato ma molto è sostanzialmente diverso da prima. Cerco di spiegarmi. Formalmente in 60 anni la Costituzione è rimasta quasi invariata; è variato nel 2001 il Titolo V, ma nella sua parte sostanziale, non formale, sostanziale, il federalismo fiscale non è ancora stato attuato. Tuttavia, se la forma è rimasta invariata, sotto la forma, la sostanza
materiale della nostra Costituzione ha subito una fortissima e doppia mutazione. Una mutazione interna che si è prodotta dentro la vita politica italiana e una mutazione esterna che è stata prodotta da fuori, dall’Europa.
La mutazione interna.
Io credo che la vita politica italiana come si è sviluppata dalla Costituzione ad oggi possa essere convenzionalmente divisa in due parti. Due parti che hanno a che fare, molto a che fare, con il debito pubblico. Il debito pubblico non è un fatto finanziario, è un fatto politico, nella vita politica dell’Italia. Non farò gaffe perché la vita politica del Presidente Andreotti si è estesa da allora fino ad ora, occupando quindi le due fasi, e siamo in attesa della sua benevole attenzione per la terza fase. Nella prima fase della vita politica della Repubblica, l’Italia è un Paese che non ha un debito pubblico. Dalla Costituzione fino al ’72/73, l’Italia applica rigorosamente la regola basica delle Costituzioni, “no taxes without representations”. L’Italia non ha debito pubblico; poi avviene una mutazione, un forte cambiamento dovuto a ragioni che hanno una radice profondamente politica. Le grandi mutazioni e migrazioni che avvengono dentro la nostra società, ricorderete l’articolo di Pasolini sulle lucciole, ricorderete la risposta scritta allora dal Presidente Andreotti. A fronte di queste intense trasformazioni economiche e sociali, masse agrarie che si muovono verso la città e dal Sud al Nord, la risposta del Governo è una politica di tenuta sociale, finanziata con il debito pubblico. La scelta è illuminata ma la sequenza è poi sfortunata. L’Italia venne presa con il debito pubblico nella fase della grande inflazione e il debito pubblico non è solo un fattore di tenuta sociale ma anche fattore di progressiva corruzione politica. E’ da allora, dal ’72 fino al ’92, che l’Italia diventa una democrazia del deficit, in cui il consenso non è basato, come tutte le democrazie, sulle tasse consentite dal popolo per finanziare la spesa pubblica, ma il consenso è acquistato con la cambiale mefistofelica del debito pubblico. Più spendi più voti prendi, peggio spendi più preferenze; come tutte le cambiali mefistofeliche, viene a scadenza: avviene una rottura traumatica del sistema, che prende anche la forma del giudice vindice, non solo la forma della reazione referendaria popolare, del crescente dissenso verso quella figura politica, ma anche la figura del giudice vindice che fa ragione di una reputata cattiva amministrazione. Per contrappasso, quel prezzo lo paga quella classe politica; non è un caso, guardate che è tutta evidenza, non è un caso che da allora in poi, nel Parlamento della Repubblica Italiana, non c’è più una delle forze politiche che hanno siglato il patto Costituente, sono scomparse tutte. C’è stata evidentemente una meccanica di successione e di trasmissione di valori e di principi, di aree di elettorato, ma le forze politiche che hanno siglato il patto Costituente scompaiono dal ’92/93/94. In questo momento non ci sono più le forze politiche che hanno siglato il patto costituente. Tuttavia, come in tutti i casi della politica, il vuoto viene riempito. Se guardiamo adesso come è la nostra Costituzione materiale, certamente c’è la presenza di forti forze politiche, ma vediamo che alla caduta dei grandi sistemi di partito politico con forti radici ideologiche e legittimazione nella Costituzione, si aggiungono per compensazione due figure fondamentali, la crescente forza politica di prestigio istituzionale del Presidente della Repubblica e del Capo del Governo. E’ una figura, quella del Presidente della Repubblica, che per decenni e decenni ha avuto un ruolo relativamente minore, ruolo fondamentale in certi passaggi ma nel continuo relativamente minore; per compensazione di potere e di funzione istituzionale, il prestigio accresce enormemente la figura del Presidente della Repubblica. E poi cresce anche la figura del capo del Governo. Questa non per effetto della riforma costituzionale ma per effetto di una riforma che alcuni pensavano che potesse essere solo a bassa intensità, la riforma elettorale. Da allora ad ora, noi vediamo che una mutazione sostanziale e costituzionale molto forte che è avvenuta nella nostra Costituzione, non solo perché è cresciuto enormemente il peso, la funzione istituzionale, il prestigio del Presidente della Repubblica, ma anche il ruolo sostanziale del capo del Governo. Il capo del Governo è eletto direttamente del popolo e al momento presente è titolare del governo, di quello che in tutti i Paesi verrebbe definito come il governo del Presidente. Questi sono due passaggi decisivi e non credo che questo determini una alterazione significativa e sostanziale del rapporto, comunque non un vulnus nel rapporto tra Governo e Parlamento. Credo che la grande questione che vediamo verificarsi rispetto a 60 anni fa, è la questione del potere. 60 anni fa, a ridosso delle tragedie delle dittature, le Costituzione vengono scritte in Europa con il principio, con la logica della riduzione del potere dell’esecutivo, con la tutela della democrazia, fatta rafforzando il ruolo del Parlamento rispetto al Governo. Adesso credo che la situazione sia rovesciata: se vuoi tutelare la democrazia devi rafforzare il potere del Governo, perché i popoli domandano e i Governi devono avere un potere di risposta. Non credo che l’architettura costituzionale sostanziale, come quella che si sta configurando in Italia, che è basata su un crescendo di governance da parte del Governo, sia un limite ma all’opposto sia una garanzia per la democrazia. I popoli domandano e i Governi devono avere un potere di risposta. In qualche modo un’esperienza su questa linea l’abbiamo appena fatta sulla manovra finanziaria. C’è stato, evidentemente, confronto tra le ragioni del Parlamento e le ragioni del Governo. La nostra posizione è stata nel senso che puoi avere il vincolo esterno imposto dall’Europa, dai mercati con il vecchio sistema interno di fortissima autonomia del Parlamento. Non puoi avere il vincolo esterno e in qualche modo un eccesso di autonomia del Parlamento. Non puoi continuare con un sistema parlamentare e regolamentare che ha portato, pur sotto l’articolo 81 della Costituzione che vieta le spese in deficit, ha portato l’Italia avere il terzo debito pubblico nel mondo senza che l’Italia sia la terza potenza. Una ragione di equilibrio, non voglio dire che viviamo una fase in cui dobbiamo tutelare i governi dal Parlamento, ma certamente viviamo una fase in cui c’è bisogno di governo e di governance. Non per questo, anche per altro, circola da parte di cattivi maestri, e si vedono gli stessi album di famiglia, l’accusa verso il Governo di un eccesso di forza di governo, il rischio della democrazia, il rischio di un ritorno del Fascismo. Noi siamo fortemente impegnati sul Federalismo fiscale, a me non risulta che Mussolini fosse un federalista. Il fatto vero è che appare un Governo che cerca di governare e che in alcune fasi ha dimostrato di sapere e di poter governare, non perché noi siamo vicini al Fascismo, ma perché quelli che c’erano prima erano lontani e incapaci di responsabilità di governo. E c’era uno che girava il volante a destra e uno che schiacciava il clacson, uno che girava il volante a sinistra, uno che metteva le frecce, uno che apriva le portiere. Non è che fare diverso è essere autocrati, è essere responsabili. Poi c’è l’altro vincolo, che è ancora più importante in termini di filosofia politica, l’altro fattore di cambiamento, che è quello imposto dall’Europa. Nell’origine, 60 anni fa, la Costituzione Italiana aveva una cifra internazionale relativamente bassa; il riferimento era alla costituzionalizzazione dei Trattati e in questo modo l’Italia importava, costituzionalizzando i Trattati, i valori dell’Occidente. Blindava e legittimava il sistema interno italiano, legittimando costituzionalmente i Trattati Internazionali, i grandi trattati che hanno fatto dell’Italia un grande Paese dell’Occidente e dell’Europa.
Da allora la situazione è profondamente modificata; non è che la Costituzione Italiana si limiti ad importare da fuori i materiali internazionali, ma, attraverso la struttura costituzionale Europea, è la Costituzione Italiana stessa che diventa parte della Costituzione Europea e viceversa. C’è un traffico continuo, abbattute le frontiere giuridiche, di materiale costituzionale. Le Costituzioni nazionali sono riconosciute e dette in sentenza dalla Corte di Giustizia Europea come parte esse stesse della Costituzione Europea, e i principi della Costituzione Europea vengono detti dalla Corte di Giustizia Europea, al di sopra dei principi costituzionali nazionali. Quello che cerco di dire è che la cifra internazionale della Costituzione vigente, attraverso i Trattati e nel circuito del sistema Europeo, è assolutamente più forte di quella precedente; diciamo che la Costituzione non è più sola. La Costituzione Italiana è un pezzo della Costituzione Europea e viceversa. Non è privo di senso il fatto che appena due anni dopo la nostra Costituzione viene approvata la Carta, credo più bella, che circola in Europa, che è la Carta dei Diritti Fondamentali. E’ una carta di straordinario rilievo, di grande valore. Una carta su cui la Corte di Giustizia dice il Diritto dall’Atlantico agli Urali, dal Baltico al Mediterraneo. Questo è il sistema in cui ci troviamo, un sistema in cui la Costituzione ha saputo vivere integrandosi e arricchendo a sua volta la Costituzione. La grande questione che abbiamo adesso non è quella di avere qualcosa di meglio della Costituzione Italiana, che almeno nella prima parte è già il meglio, e non è avere qualcosa di meglio che a sua volta ha la allure delle grandi Carte dei Diritti che hanno fatto la storia. Il nostro problema è di definire qual è il sistema dei valori e dei principi che devono e possono animare quelle grandi architetture che altrimenti sono solo astratte. Questa è la grande questione che vediamo al principio di questo secolo. Se facciamo un bilancio del ’900, vediamo che tutte le ideologie del ’900 hanno fatto fallimento. Comunque è molto difficile trovare tra i giovani, che sono il nostro futuro e la nostra speranza, il riconoscimento in quei sistemi di valori. Non c’è riconoscimento nelle ideologie socialiste, non c’è riconoscimento nelle ideologie fasciste, non c’è riconoscimento nelle ideologie comuniste, non ce nessuno o sono pochi che credono convintamene nelle ideologie nichiliste, nulliste del ’68. Hanno fatto fallimento le ultime ideologie del ’900. La grande questione che abbiamo è che tipo di apparato ideologico dobbiamo e possiamo costruire come quadro di riferimento per i nostri principi e per la nostra vita civile al principio di questo nuovo secolo. Certo non il socialismo, non il comunismo, non il fascismo, non il nullismo del ’68, non il mercatismo liberista. Quale nuova ideologia? Io credo che un pezzo del nuovo sistema di valori possa essere non nuovo ma vecchio, cioè possa essere il ritorno ai grandi valori che nell’Ottocento hanno fatto una parte fondamentale della nostra vita civile. Non ho una profonda nostalgia per il romanticismo, ma è certo che nei sistemi di valori del Romanticismo, nell’attaccamento alle tradizioni, alle riserve di memoria, al territorio, alla famiglia, ai geni creatori, ai principi fondamentali, alla Cattedrali, c’è una base di partenza che non possiamo ignorare e sulla quale dobbiamo lavorare, sapendo che il problema che abbiamo non è cercare valori economici nell’economia, non è stare dalla parte dei valori secondi ma dalla parte dei valori primi, che sono i valori senza aggettivi, sono i valori fondamentali di identità, di moralità, di responsabilità e quindi dentro le architetture politiche e costituzionali, la sussidiarietà, il federalismo, i meccanismi di responsabilità che prendono la forma nuova del cinque per mille, lavorando su criteri e logiche di questo tipo. Se uno mi chiede, e finisco, cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire una cosa che per me può essere da una parte nuovissima e dall’altra parte vecchissima, ma fa lo stesso: sintetizzare tutto questo in tre parole, Dio, patria e famiglia, grazie.
MODERATORE:
Io, vista l’ora, ringrazio tantissimo i nostri ospiti, perché è stato un incontro eccezionalmente ricco, in cui abbiamo visto una ragione allargata, ognuno a un livello diverso. Per questo noi li sentiamo profondamente amici e li ringraziamo.