HIV, L’EPIDEMIA DIMENTICATA

Hiv, l'epidemia dimenticata

Partecipano: Gregg Alton, GILEAD Sciences Executive Vice President Corporate and Medical Affairs; Paul De Lay, UNAIDS Deputy Executive Director, Programme; Carlo Federico Perno, Docente di Virologia all’Università di Roma Tor Vergata; Luis Gomes Sambo, WHO Regional Director for Africa. Intervento di saluto di Elisabetta Belloni, Direttore della Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri. Introduce Alberto Piatti, Segretario Generale della Fondazione AVSI.

 

HIV, L’EPIDEMIA DIMENTICATA
Ore: 11.15 Sala Neri GE

ALBERTO PIATTI:
Buongiorno a tutti, benvenuti al Meeting di Rimini e a questa interessantissima discussione su un tema che sembra essere un po’ meno all’attenzione dell’opinione pubblica, rispetto a tanti anni fa, “HIV, l’epidemia dimenticata”.
Come ci è capitato di fare in questi ultimi anni, abbiamo continuamente insistito che la cooperazione allo sviluppo debba essere un’azione coordinata di più attori, ben rappresentati nel panel che oggi abbiamo la fortuna di avere presente: dalla mia destra Elisabetta Belloni, Direttore Generale per la Cooperazione allo Sviluppo in Italia; Luis Gomes Sambo, Direttore Regionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per l’Africa; Paul De Lay, Deputy del Programma del Direttore Esecutivo dell’UNAIDS, un programma dedicato delle Nazioni Unite per la lotta all’AIDS; Gregg Alton, della società GILEAD, società leader mondiale nella produzione di farmaci per combattere la malattia, che ci racconterà un’esperienza assolutamente interessante – voi sapete che uno dei punti più drammatici, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, è l’accesso ai farmaci e loro hanno un programma particolarmente importante, anche dal punto di vista economico per l’accesso ai farmaci nei Paesi via di sviluppo e in particolare in Africa – e, infine, il professor Federico Perno, Ordinario di Virologia presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Tor Vergata di Roma, persona che conosce profondamente la materia, avendoci dedicato la sua esistenza, che ci aiuterà ad avere un quadro della situazione dell’evolversi della malattia.
Quando si parla di una malattia così importante, che è stata definita, se vi ricordate, la peste del secolo, sicuramente ci si pone il problema di come permettere l’accesso alle cure di milioni e milioni di persone che, viceversa, non hanno alcuna possibilità, soprattutto in Africa, per circoscrivere una zona ben definita. Molte volte, però, rischiamo di dimenticarci che la natura dell’uomo è nesso con l’infinito e quando una persona scopre di avere una malattia di questo tipo, che fino a pochi anni fa era una condanna a morte, per certezza non può non trovare dentro di sé quelle domande fondative, fondamentali, sul significato dell’esistenza, sul valore della vita e sul valore della vita dei propri figli.
Io penso che quando parliamo di interventi di questo tipo, non bisogna dimenticare questo aspetto fondamentale: una persona non può essere ridotta ad una cura, il mistero della vita ha necessità della cura, ma vale molto di più. Noi, con la Fondazione AVSI, abbiamo fatto un programma di dieci anni di prevenzione della trasmissione materno fetale. Vorremmo farvi vedere qualche minuto di un video; prima però chiederei a Elisabetta, che ha fatto un lungo viaggio per raggiungerci, di iniziare con la presenza istituzionale del Ministero degli Affari Esteri, che riteniamo importante perché, in questa cooperazione di sistema, il quadro di riferimento istituzionale diventa un punto chiave. Prego Elisabetta.

ELISABETTA BELLONI:
Grazie Alberto e vorrei innanzi tutto esprimere la gratitudine della Cooperazione italiana per essere stata anche quest’anno invitata al Meeting di Rimini. È questo un appuntamento al quale noi abbiamo sempre cercato, sotto diverse formule e anche riflettendo i vari momenti di disponibilità finanziaria, di partecipare attivamente. E credo che sia importante, anche su un tema delicato quale quello dell’AIDS, tenere presente che le istituzioni, ed in particolare la Cooperazione allo Sviluppo, hanno un ruolo decisivo da svolgere. È per questo che vi porto il saluto del Ministro degli Esteri, che fra l’altro sarà ospite del Meeting questo pomeriggio e permettetemi di condividere alcune brevissime osservazioni con voi per darvi anche il senso di quello che lo Stato, e in particolare la Cooperazione allo Sviluppo, stanno facendo oggi sul tema della lotta all’AIDS nel mondo, e in particolare nei Paesi in via di sviluppo. Il tema che è stato scelto dal Meeting, l’“HIV, l’epidemia dimenticata”, da un lato contiene un elemento di provocazione, perché sembra quasi dare per scontato che, di fronte al dramma di una epidemia di così ampia portata, ci sia quasi una negligenza da parte di tutti, delle Istituzioni in primis, delle società civili, in quanto viene abbandonata la lotta in prima linea su questo fronte. Ma in realtà io credo che l’intuizione degli organizzatori nella scelta di questo tema sia invece quella di porci davanti il problema al fine di sollecitare una riflessione, che dovrebbe consentirci, oggi, di ripensare o di affinare le strategie che finora sono state messe in atto per combattere nel mondo l’Aids. Che cosa è cambiato? Non spetta a me entrare nei tecnicismi di questa problematica, ma certamente rispetto a trenta anni fa – leggevo, in preparazione di questa chiacchierata di oggi, che proprio adesso ricorre il trentennale della scoperta in maniera più tecnica di questa malattia – non vi è più la percezione dell’emergenza nella lotta all’HIV, nel senso che la malattia è diventata cronica, patologia cronica, quindi il fattore tempo diventa quasi più rilevante rispetto a quello che trenta anni fa era la percezione di dover combattere una malattia percepita come mortale in ogni caso. Questo però non vuol dire che si debba abbassare la guardia, non vuol dire che i risultati positivi che ci sono stati fino a oggi – in termini di minore percentuale di tasso di mortalità, di rallentamento del ritmo dei nuovi casi che vengono registrati – debbano fermare la nostra azione. E’ necessario un mantenimento di attenzione sulle metodologie per combattere questa malattia, che deve indurci, al tempo stesso, a cambiare l’approccio su come affrontare questa malattia. Noi come Cooperazione allo Sviluppo abbiamo avviato da qualche tempo questa riflessione, una riflessione che si inquadra tenendo distinti due aspetti fondamentali. Il primo è quello del reperimento dei finanziamenti necessari per fare una lotta seria a questa malattia; le iniziative possono essere promosse nella misura in cui vi è anche una disponibilità finanziaria. E se l’Italia ha, nella propria storia su questo tema della lotta all’AIDS, un curriculum di tutta eccellenza, non bisogna tuttavia sottacere che oggi siamo in una grave crisi: siamo noi il Paese che nel G8 di Genova ha lanciato l’iniziativa del Fondo Globale -che oggi rimane l’Istituzione con il maggior impegno finanziario su questo tema -, abbiamo erogato nel corso degli anni, a partire da quella data, un miliardo di dollari, tuttavia oggi ci troviamo in una crisi tale – non ho timore a denunziarlo – per cui dobbiamo recedere dal Fondo Globale, in quanto non siamo in grado di assicurare gli impegni finanziari che avevamo assunto in quel contesto. La crisi finanziaria tocca tutti noi e quindi inevitabilmente tocca la Cooperazione; tuttavia non dobbiamo dimenticarci, per tornare al tema scelto del dibattito di oggi, che questi impegni vanno mantenuti e che uno sforzo deve essere fatto anche per fare delle scelte prioritarie, che ci consentano di mantenere il livello di guardia che questa epidemia ormai cronica richiede.
Sull’altro fronte, l’altro grande contenitore di riflessione, è quello che invece riguarda la strategia. È questo un settore di particolare interesse, sul quale voglio in questa sede dare atto di una eccellente collaborazione, in particolare negli ultimi anni, fra la mia Direzione Generale, i grandi Centri di Ricerca italiani, il Ministero della Salute, tutto il mondo del volontariato e delle organizzazioni non governative, a cominciare anche dall’Osservatorio, che ci hanno consentito di portare avanti una strategia articolata e integrata che abbiamo promosso in primis nell’ambito del Fondo Globale e che ci è stato riconosciuto certamente anche a livello internazionale. Brevemente si tratta di una strategia sulla quale ancora stiamo riflettendo e sulla quale è nostra intenzione continuare questo processo di consultazione ad ampio raggio, che ci permetta di percepire le istanze e le idee dei vari settori della società civile. Una strategia che punta molto fermamente al rafforzamento dei sistemi sanitari nazionali dei nostri Paesi partner. Noi siamo forse il Paese che più di ogni altro, anche nell’ambito del Fondo Globale, ha sostenuto la tesi che la lotta seria per combattere questa malattia non può prescindere dal rafforzamento dei sistemi sanitari dei Paesi in via di sviluppo. Quindi un approccio meno verticale rispetto a quello che caratterizzava la fase dell’emergenza di trent’anni fa, ma più orizzontale e più volto a rafforzare le capacità dei Paesi in via di sviluppo a combattere con i propri mezzi e le proprie strategie questa malattia. Poi formazione del personale, sia in patria che soprattutto nei Paesi in via di sviluppo e, terzo, educazione sanitaria delle popolazioni a rischio, intendendo per educazione anche la messa in opera e la promozione di tutte quelle iniziative che pongano l’uomo, e in particolare il malato, al centro delle nostre strategie, in quanto non è solo la malattia che deve essere combattuta, ma anche gli aspetti economici, sociali e psicologici che la malattia stessa molto spesso comporta. Quindi una attenzione all’uomo nel suo insieme, che implica da parte nostra dei progetti integrati e sinergici che consentano di affrontare il tema in tutti i suoi aspetti. Noi stiamo riflettendo al nostro interno sulle implicazioni della cosiddetta cronicizzazione della malattia; vogliamo anche pensare ad un pacchetto di finanziamenti che insieme possano consentire, non solo l’applicazione di questa strategia che molto brevemente ho cercato di illustrarvi, ma che consentano anche di promuovere, attraverso la collaborazione con i centri scientifici, la ricerca che ovviamente è necessaria anche per arrivare ad avere a disposizione dei farmaci sempre più idonei e accessibili, a prezzi accettabili da parte delle popolazioni più colpite. In questo senso noi auspichiamo di continuare ad avere la collaborazione di tutti i soggetti che possono contribuire all’affinamento di questa strategia e lasciatemi concludere dicendo che auspico, altresì, che questa strategia che l’Italia ha e che è stata in grado di mettere a punto in maniera sempre più articolata negli ultimi anni, possa anche essere accompagnata da quella disponibilità finanziaria che ci consentirebbe anche di continuare, come abbiamo fatto fino adesso, ad essere determinanti nell’ambito del Fondo Globale per la definizione delle strategie a livello Internazionale del Fondo Globale stesso. Grazie.

ALBERTO PIATTI:
Grazie, cara Elisabetta, di averci raggiunto e di averci dato, con molta onestà, una notizia abbastanza difficile da comunicare, quella del recesso dell’Italia dal Fondo Globale. Speriamo che molti si mettano la mano sul cuore e si commuovano.
Vi propongo, più di quanto possa raccontarvi io, un’esperienza raccontata in questo breve filmato. Grazie.

Video

Nell’introduzione del Ministro Belloni, c’è stato un passaggio di come cambiare l’approccio, meno verticale – lei ha usato questa espressione. Se questa attività è stata possibile, se quasi duecentomila donne sono state testate e verificate, quindi curate, è stato esattamente perché questo approccio non era verticale. Come avete potuto considerare e cogliere dal video, le risorse locali sono la prima risorsa fondamentale che bisogna capacitare e valorizzare. Senza questo approccio sono programmi sempre calati dall’alto, che lasciano il breve spazio dell’intervento. Invece noi dobbiamo fare delle attività che rendano protagonisti del proprio sviluppo, della gestione dei propri problemi le persone locali.
Chiedo adesso a Carlo Perno se ci fa un quadro della situazione. Poi entreremo nel merito delle strategie di come combattere la malattia. Grazie Carlo.

CARLO FEDERICO PERNO:
Grazie Alberto, il mio compito è quello di raccontarvi la storia dell’AIDS, raccontarla in maniera la più lineare possibile. Il modo migliore per raccontare una storia è quella di raccontarla attraverso la storia delle persone che la vivono e infatti in questo senso vorrei introdurre la mia relazione, che dovrebbe avere delle diapositive, con una paziente. Credo che la concretezza della storia passi attraverso l’esperienza delle persone e vedere appunto le persone malate di AIDS, malate di HIV aiuta a capire di che cosa stiamo parlando. Questa è una storia recentissima, che è capitata alla nostra osservazione, non molto diversa da tante altre storie. La storia di un ragazzo di 14 anni che si è scoperto essere sieropositivo. Parlando con lui, non ha riportato alcun fattore di rischio per l’AIDS, però poi parlando a fondo ha ricordato un rapporto sessuale con una ragazza tredicenne. La ragazza tredicenne è stata ritrovata, è stato parlato a lungo con lei, all’inizio lei ha negato qualsiasi tipo di interazione, poi però, grazie all’aiuto dei genitori, all’aiuto dei famigliari, all’aiuto degli assistenti sociali, è uscito che aveva avuto rapporti sessuali con più di 50 ragazzi nel suo breve lasso di vita adolescenziale e la ragione principale per aver avuto questi rapporti sessuali era legato essenzialmente all’acquisto di beni di consumo, di beni di divertimento, tra cui in particolare soprattutto carte telefoniche prepagate. Ovviamente la ragazza, lo dico con molto dolore, ovviamente era sieropositiva; sono stati recuperati alcuni dei ragazzi che avevano avuto rapporti con lei e anch’essi erano sieropositivi, molti di essi erano sieropositivi. In questo caso si vede chiaramente che l’AIDS non è una causa di qualche cosa, ma è un effetto, è l’effetto di una perdita del senso delle cose per le quali vale la pena vivere ed è questo che ha caratterizzato l’AIDS, una malattia che coinvolge l’uomo, coinvolge la società, perché è l’espressione più piena di un qualche cosa che evidentemente non va nel nostro modo di vivere. Allora, entrando più nel dettaglio in questo virus, un virus, come diceva prima la dottoressa Belloni, scoperto da circa 30 anni, vediamo che è un virus che ha delle caratteristiche un po’ particolari, perché innanzitutto non è solo da trent’anni che il virus interagisce con noi, come potete vedere in questa diapositiva. In realtà, i primi incontri dell’uomo con questo virus risalgono alla fine del 1800, all’inizio del ’900, ma ovviamente le nostre scoperte sono state limitate nel tempo dal fatto che i grandi flussi migratori erano limitati a quell’epoca, quindi la malattia rimaneva localizzata in determinati villaggi. Poi appunto i grandi flussi migratori, i movimenti di popolazioni hanno fatto sì che il virus si sia diffuso, sia arrivato anche in altri Continenti e lì è stato scoperto. Quindi è un virus relativamente antico, non così recente come si pensa. Un virus che ha la capacità di colpire e uccidere le cellule umane. Quello che vedete sembra un paesaggio lunare, in realtà è la superficie di una cellula, su di essa vi sono delle serrature che noi chiamiamo recettori, che aiutano la cellula a interagire con l’esterno e quando un virus arriva nell’organismo, normalmente attraverso rapporti sessuali – oggi il sangue è sicuro, non trasmette più l’AIDS in Italia, i rapporti sessuali sono la prima causa di trasmissione del virus -, a sua volta ha delle chiavi che gli permettono di riconoscere i recettori. Se questo riconoscimento avviene, i due si incontrano ed ecco che il virus inizia il suo processo che lentamente lo porterà ad entrare all’interno della cellula. Vedete, qui siamo sulla superficie esterna della cellula, il virus si fonde con la cellula stessa e qui è entrato ed entrando ha iniziato il suo percorso che lo porterà a uccidere la cellula infettata, non prima però di aver prodotto migliaia di particelle virali che, nel frattempo, saranno andate ad infettare altre migliaia di cellule. Ecco come avviene l’AIDS, una lenta espansione del virus e della mortalità delle cellule che piano piano comporterà la malattia in tempi futuri. Da dove viene questo virus? Si è parlato tanto, errori di laboratorio, produzione di strani laboratori di ricerca, in realtà la soluzione è molto più semplice: la natura fa i suoi percorsi normali ed è l’uomo, certe volte, a turbarli in qualche maniera. HIV è un virus che è presente naturalmente in una varietà di scimpanzé che vive nell’Africa centro-orientale. È un virus tra l’altro che allo scimpanzé non fa assolutamente nulla e che convive con esso da almeno 70 mila anni. Sono state trovate tracce di esso in DNA antico di scimmie, quindi in realtà, quello che ci insegna questa storia, è che non sempre il virus è letale per la specie che infetta. Anche gli uomini contengono tanti virus dentro di sé. Tanti davvero. Uno di essi, ma non entrerò in dettaglio perché queste sono cose specialistiche, ha addirittura la capacità di bloccare l’entrata del virus dell’AIDS. Pensate che i virus sono un mondo complesso ed articolato. Alcuni di essi addirittura ci aiutano nella nostra vita. Il virus dell’AIDS è presente nello scimpanzé da tanto tempo. Nello scimpanzé lo chiamiamo SIV, Simian Immunodeficiency Virus, simian=scimmia ed è un virus assolutamente innocuo, passa nell’uomo e diventa un virus letale. Tutto questo ci insegna che un’infezione virale non necessariamente causa una malattia, ma anche che un virus che è innocuo in una specie può diventare letale in un’altra. L’esempio dell’influenza è un altro classico esempio di ciò che può accadere quando il virus fa il cosiddetto salto di specie. Quindi è una malattia che era mortale in circa il 100% dei casi delle persone infettate, è cambiata nel 1995-96 quando in questa conferenza è stata scoperta una cosa apparentemente banale, ma non così banale, perché il frutto di un lavoro enorme del pubblico e del privato, delle industrie farmaceutiche, degli stati, dei privati, delle associazioni, che hanno mobilitato coscienze e risorse per risolvere questo problema. Si è scoperto che tre dei farmaci che vedete qui indicati in sigle, oggi ne abbiamo più di 25, combinati insieme, sono in grado di bloccare, di addormentare il virus. Ahimè non di eliminarlo, non di guarirlo. Il termine Inglese “cure” indica guarire, questo crea confusione, in Italia curare ha un altro significato. Ebbene noi possiamo curare le persone, ma non le possiamo guarire, ma di sicuro possiamo addormentare il virus per lunghissimi anni, talmente bene che addirittura l’AIDS che era diventata la prima causa di morte, in un breve lasso di tempo, negli Stati Uniti, nella popolazione tra i 25-44 anni, altrettanto rapidamente, proprio come un lampo che si accende nella notte e si spegne subito dopo, è ridiventata una importante causa di morte, ma sicuramente non la prima causa, come era invece destinata a diventare sempre di più nei Paesi occidentali e anche, soprattutto, nei Paesi in via di sviluppo. Ed è questa l’epoca in cui questa bambina infettata dall’HIV, tramite sangue infetto – vedete, aveva già perso i capelli, era ridotta ad uno scheletro con tantissime infezioni – ha iniziato il trattamento, ad aprile. Sono bastati sette mesi di trattamento per farla risorgere. Ed è lo stesso caso di questa altra paziente, una delle prime che ho visto quando sono tornato dagli Stati Uniti, dopo tanti anni passati negli Stati Uniti ad occuparmi proprio di AIDS: è una paziente paradigmatica, perché ha iniziato il trattamento nel ’97, ha sempre preso i farmaci in maniera adeguata e vedete che il virus in questa linea rossa è stabilmente al di sotto, è addormentato ormai da 12-13 anni e con un po’ di speranza, probabilmente, non si sveglierà più, il suo sistema immunitario funziona. E questo non vale solo per gli adulti, vale anche per i bambini che erano citati nel video. I bambini, noi dobbiamo prevenire la loro infezione, come mostrava bene il video. Purtroppo abbiamo dei bambini che sono già stati infettati. E’ il caso di questa bambina del Camerun. Noi abbiamo un ospedale, che seguiamo nel Camerun, che tratta più di 5000 persone infettate con il trattamento antiretrovirale. Vedete che, anche in questo caso, la carica virale, la quantità di virus nell’organismo è scesa, il virus si è addormentato grazie alla terapia antivirale. Il suo sistema immunitario funziona, la bambina cresce bene. Quindi c’è un cambiamento radicale, un cambiamento enorme, quasi epocale, che è ben descritto da questa diapositiva che è un po’ il centro della mia relazione, in cui si vedono due eventi non necessariamente simili fra loro. Il primo evento, appena descritto, sono le due linee nere che mostrano con chiarezza che la mortalità da AIDS è tracollata grazie proprio alla terapia antiretrovirale, ma questi grafici contengono anche delle linee blu, che vedete in inesorabile crescita e sono il numero di nuove infezioni, il numero di pazienti infettati con HIV viventi. In parte questo numero è legato ovviamente al fatto che i pazienti muoiono di meno e quindi sopravvivono alla malattia e si accumulano nel tempo, ma si accumulano perché abbiamo ogni giorno nuove infezioni e qui è il punto nodale del titolo del nostro incontro “L’epidemia dimenticata”. La dimenticanza non è tanto politica, è un problema legato all’abbattimento delle coscienze, alla mancata percezione che questa malattia esiste, che è pericolosa, che è mortale e che non necessariamente, attraverso i nostri interventi, essa potrà essere debellata se non andiamo a cambiare al fondo il cuore dell’uomo. Vedremo adesso perché. Questo è il decorso della malattia, vedete, il blu indica le difese immunitarie che lentamente negli anni vengono ad essere distrutte, con la carica virale che aumenta; vedete che a questo punto iniziano i sintomi che noi chiamiamo AIDS. Prima di questo punto noi parliamo di infezione da HIV. Dopo questo punto noi parliamo di AIDS. Ebbene il nostro problema oggi è qui, è in questa fase chiamata latenza clinica. Questa fase le persone sono apparentemente sane, stanno benissimo, svolgono attività sportiva, svolgono una vita assolutamente normale, non sanno di essere sieropositivi. È questa la fase nella quale il virus viene trasmesso per via sessuale, perché questa è la fase in cui la persona è in perfetto benessere. Se noi vogliamo chiudere la finestra dell’AIDS, abbiamo due cose da fare: la prima l’abbiamo in buona parte fatta, che è quella di ridurre la mortalità della malattia trattando i pazienti infettati, ma la seconda è quella di evitare che nuove persone si infettino. Abbiamo a questo punto due alternative: o otteniamo un vaccino per prevenire che il virus si diffonda, ma il vaccino oggi non ce l’abbiamo, oppure trattiamo le persone infettate il più presto possibile, quindi spostiamo verso sinistra il momento del trattamento, perché se lo trattiamo, il virus si addormenta, se si addormenta non passa nelle secrezioni sessuali e di conseguenza non si trasmette. Questo è il grande sforzo che noi oggi stiamo svolgendo, su cui si sta lavorando, che ha prodotto grandi risultati. Questi sono i risultati delle cosiddette coppie discordanti. Sono le coppie in cui uno è sieropositivo e uno è sieronegativo. Ebbene, trattando la persona sieropositiva fin dall’inizio, il virus non passa alla persona sieronegativa. Ecco la ragione per cui il trattamento dovrebbe essere il più precoce possibile, non appena la diagnosi viene fatta. Questo grafico dice in un certo senso la stessa cosa, ma ci apre all’ultimo punto della mia relazione. Vedete che in uno stato del Canada, man mano che è stato aumentato il numero delle persone trattate più presto possibile, è venuto ad abbattersi il numero di nuove infezioni, che è segno indiretto, inequivocabile, che, addormentando il virus nelle persone infettate, andiamo a ridurre la probabilità di trasmissione nelle altre persone. Ma voi noterete anche un altro fattore, che questa curva verticale all’inizio si orizzontalizza e scende molto lentamente. Questo è l’effetto nel cuore dell’uomo, quando l’uomo, che non è riconducibile a formule matematiche, pensa che attraverso la tecnologia, attraverso la tecnocrazia, si possa, di fatto, in una concezione positivistica della vita, si possa controllare a fondo quelle che sono le malattie. Che cosa ha prodotto questo appiattimento, e non abbattimento, lo dimostra quest’altra diapositiva. Dal ’95, da quando abbiamo iniziato il trattamento antiretrovirale che funziona, calano le infezioni di HIV ed è ricomparsa la sifilide, una malattia tipicamente a trasmissione sessuale, che è il segno inequivocabile che quella sicurezza che deriva dall’approccio positivista ai farmaci -tanto ho i farmaci, io sono sicuro e non mi ammalerò – ha prodotto un aumento dei comportamenti a rischio e l’aumento dei comportamenti a rischio, ovviamente, aumenta il rischio, anche se c’è la protezione dei farmaci. Il risultato è che la curva si appiattisce, ma se io aumento di 10 volte le probabilità di proteggermi, e aumento di 10 volte anche i comportamenti a rischio, l’effetto della terapia è ovviamente parziale. Se non cambiamo i comportamenti, la terapia, che rimane il nostro fondamento, non avrà alcun risultato. E’ qui il valore dell’esperienza dell’Uganda che Alberto ha già presentato nel suo bellissimo filmato che abbiamo appena visto. In Uganda, nel 1992, quando la prevalenza dell’HIV arrivava al 30% – uno su tre nella capitale dell’Uganda era infettato, uno su tre, pensate che numeri spaventosi -, il governo ugandese ha fatto partire un programma di cambiamento comportamentale, in cui il problema non era soltanto la distribuzione di preservativi – farmaci ovviamente a quell’epoca non c’erano – ma era l’idea di cambiare i comportamenti, perché attraverso il cambiamento dei comportamenti è possibile controllare l’evoluzione della malattia. In tutti i distretti ugandesi, prima e dopo questo approccio e in genere nella capitale, c’è un calo marcato, evidente delle nuove infezioni, laddove, nei Paesi circonvicini, dove l’approccio culturale era stato solo quello di produrre un enorme distribuzione di preservativi, nessun risultato come questo è stato ottenuto. Quindi il problema non è quello di introdurre tecnica in un sistema che cura l’uomo, ma è quello di accompagnare la tecnica, il cambiamento del cuore dell’uomo. Quindi abbiamo tre elementi da tenere presenti quando noi approcciamo una malattia come l’AIDS, che è una malattia comportamentale, una malattia sociale: cambiare i comportamenti, se non cambiamo i comportamenti non ci sarà tecnologia che ci salverà; avere disponibili la tecnologia, i farmaci antivirali, che hanno oggettivamente cambiato la nostra storia – ma attenzione, dobbiamo avere anche una fattibilità economica, che ha toccato bene la professoressa Bellone che ha messo il dito su un problema serio, che riguarda tutto il mondo -; i tagli lineari che sono qualche cosa di cui noi ormai siamo parte integrante, in Italia come in altri posti. I tagli lineari, come quando si taglia qualcosa con la falce, indipendentemente se si taglia il grano buono o erbacce; forse dobbiamo fare un salto di qualità e provare a passare dai tagli lineari ai tagli mirati, selezionando in ambito sanitario quelle terapie che hanno risultato minore rispetto ad altre a parità di costo. Ebbene, questo studio ci indica una cosa molto importante. A parità di costo, la terapia antiretrovirale è quella che ha prodotto in assoluto, nella storia della medicina, insieme ai vaccini, il maggior beneficio. Quindi il rapporto beneficio/costo, dato dalla terapia antiretrovirale, è incommensurabilmente superiore a tutti gli altri trattamenti esistenti, compresi i trattamenti di grande successo, come il trapianto di midollo, per esempio, nelle persone con linfoma, come il trombolisi in pazienti con infarto, come la terapia adiuvante nelle donne con carcinoma della mammella: sono tutti trattamenti in cui il rapporto costo/beneficio è estremamente buono, ma quello migliore è sicuramente il trattamento antiretrovirale. E su questo bisognerà riflettere in futuro, quando si faranno i tagli in sanità. Quindi in conclusione, noi abbiamo due fattori fondamentali che hanno permesso questo grande successo: 1) un grande investimento privato, privato, una storia veramente di successo. Il privato dell’industria farmaceutica ha messo in campo le sue migliori energie. Il privato-privato, le associazioni, l’AVSI ne è un esempio, che hanno lavorato per creare coscienza e conoscenza in questo ambito e il pubblico che non ha lesinato le sue risorse, che ha prodotto il risultato che è innegabile che si possa definire come il più grande successo della storia della medicina in un così breve lasso di tempo, che ci ricorda cosa può fare l’uomo quando non guarda vicino a sé, quando guarda lontano e quando ha questa capacità di entrare in rapporto con l’infinito. Vi ringrazio.

ALBERTO PIATTI:
Grazie al professor Perno, che in un tempo assolutamente contenuto, ci ha dato un quadro che ho capito anch’io che non sono un medico, quindi grazie e soprattutto qui entriamo ora nel merito: dopo la scienza cosa si fa? Perché, come abbiamo ripetuto più volte, la grande infrastruttura sociale che la comunità internazionale ha disegnato con il Millennium di Valman Goals, esito di un percorso di riflessione di tante conferenze che sono state fatte negli anni ’90, ha un punto di debolezza che abbiamo chiamato “l’infrastruttura sociale dell’ultimo miglio”. Come questo grande disegno raggiunge quella persona? Questa osservazione mi permette di salutare due persone che dell’“ultimo miglio” se ne intendono molto, uno è Mons. Jean-Marie Mate Musivi Mupendawatu, Segretario Pontificio per la Pastorale Sanitaria; l’altro e Mons. Silvano Tommasi, che conoscete tutti, nostro grande amico, Nunzio della Santa Sede a Ginevra. Ci accompagnano nelle nostre fatiche soprattutto favorendo questo dialogo tra gli attori del sistema che il professor Perno ha ricordato, la ricerca, il settore privato che ha avuto un ruolo fondamentale nella lotta alla malattia, il quadro istituzionale nazionale o internazionale. In questo senso io sono molto grato a Gregg Alton di essere qui cono noi, si è preso un aeroplano per stare poche ore qui con noi, perché la sua azienda ha giocato in questa battaglia un ruolo decisivo e darei a lui la parola.

GREGG ALTON:
Bene, grazie, provo a tenere la cuffia per vedere se…non mi sento. Io farò riferimento anche cose che ha detto il dott. Perno, sono grato a lui per aver evidenziato tanti punti così in dettaglio. Per cominciare vorrei un pochino spiegarvi che cos’è Gilead Sciences. Siamo un’azienda californiana, abbiamo ben 31 sedi in tutto il mondo, abbiamo una presenza globale. Abbiamo appunto Roberto Tossani che è il presidente della nostra sede italiana, abbiamo 14 prodotti sul mercato e siamo molto noti soprattutto per le attività che svolgiamo a livello di ricerca sull’HIV e l’AIDS. Parte della nostra filosofia aziendale è appunto questa: abbiamo due contratti; un contratto scientifico per sviluppare le terapie migliori per malattie che rappresentano una minaccia per la vita e poi un contratto sociale. Nel senso che appunto tutte queste terapie devono dare beneficio al maggior numero di pazienti possibile ovunque essi vivono. Il dottor Perno ha parlato della terapia per l’HIV e ha parlato appunto dell’avvento degli antiretrovirali nel ’96. Vediamo che nel ’96 il paziente doveva prendere tutte le pillole che vedete a sinistra. Non soltanto era molto complesso per il paziente rispettare il regime terapeutico, ma tutto questo era associato anche con enorme tossicità. Invece, vedete a destra un’unica compressa. Questo è il risultato dell’innovazione della GILEAD. Il nostro obiettivo è quello di semplificare la terapia, con appunto un regime che preveda un’unica compressa, ma efficace, regime sicuro, tollerato, che possa consentire un trattamento su base cronica. Qui abbiamo un elenco appunto di quello che stiamo facendo per il futuro alla GILEAD. L’unica cosa che va evidenziata veramente in questa diapositiva è che continuiamo costantemente a innovare. Abbiamo sempre nuove e migliori terapie per il trattamento dell’HIV, AIDS. Parlando adesso dell’epidemia a livello globale, dobbiamo dire che abbiamo più o meno 34 milioni di soggetti con l’HIV in tutto il mondo, con un 95% di questi presenti nei Paesi in via di sviluppo. Abbiamo 2.700.000 nuove infezioni all’anno e abbiamo 1.800.000 morti per l’Aids a livello globale, quindi, come diceva anche il dottor Perno, abbiamo veramente un’epidemia in crescita. Già altri relatori hanno parlato del fatto che l’HIV non sia una patologia cronica. Questo è vero, ma con quel trattamento, una persona con HIV non muore, è una persona senza trattamento che può morire. Noi sappiamo che con un trattamento precoce dell’HIV, una persona che appunto viene infettata dal virus quando ha venti anni, può vivere fino a una settantina, se riceve l’adeguato trattamento. Purtroppo va detto che malgrado tanto progresso che è stato compiuto, ci sono tante persone che convivono con l’HIV e non hanno accesso a queste forme terapeutiche. Vediamo che abbiamo 8 milioni di pazienti trattati, ora però, come si vede qui, dobbiamo fare ancora di più. La GILEAD ha sviluppato un programma di accesso, “access program”, per far sì che i nostri prodotti siano più disponibili. Abbiamo avviato questo programma nel 2003 come approccio sostenibile, basato sul mercato per facilitare l’accesso ai nostri farmaci. Anziché realizzare infrastrutture ovunque nel mondo per erogare questi farmaci, noi consentiamo alle aziende locali di lavorare con noi nel mondo in via di sviluppo. A questo punto facciamo, strutturiamo i prezzi in determinati livelli e vediamo che la maggior parte dei Paesi dove vengono resi disponibili i nostri prodotti, contribuiscono alla realizzazione. Inoltre diamo delle licenze per i nostri prodotti ad aziende indiane, appunto, a un’azienda sud africana, per produrre quelli che sono i farmaci generici corrispondenti ai nostri prodotti, per aumentarne ulteriormente la disponibilità. Questo approccio di dare le licenze per la produzione di farmaci generici, secondo noi ha portato molti più pazienti a ricevere i nostri prodotti. E il prezzo è il più basso possibile in questo modo. Questa diapositiva, infatti, dimostra l’impatto di dare licenze per la produzione dei generici equivalenti ai nostri prodotti. Il prezzo è sceso di oltre il 70%. Abbiamo un prezzo nostro di 57 cent, che scende a 18 cent, che è equivalente al prezzo più basso, quello del prodotto indiano. Per quanto riguarda questo approccio, dobbiamo dire che i partner indiani ricevono il trasferimento tecnologico del nostro know how produttivo. Vediamo che appunto il prodotto può essere venduto da queste persone, da queste aziende, in oltre 100 Paesi del mondo con una grossa rappresentatività di soggetti con HIV e AIDS. Effettivamente i volumi riescono a ridurre il prezzo. È sui volumi che si basa il loro business. Questo che cosa ha significato per il paziente? Qualcosa di veramente enorme. Quando abbiamo cominciato nel 2006 il programma, più o meno 30 mila pazienti ricevevano Viread o regimi che contenevano Viread. Vediamo che il 70-80% dei nostri pazienti in Europa hanno un valore troppo basso. Cioè praticamente in tutto il mondo abbiamo un numero troppo basso di pazienti che ricevono i nostri prodotti. Oggi 2.700.000 soggetti nel mondo in via di sviluppo ricevono regimi che contengono Viread,1/3 cioè di coloro che sono in corso di trattamento. Questo è un progresso, però abbiamo bisogno di fare anche di più. Questo terzo trattato dovrebbe essere più alto come livelli che sono stati raggiunti negli Stati Uniti e in Europa. E come dicevo anche prima, il totale dei pazienti trattati deve crescere sostanzialmente. Abbiamo fatto delle innovazioni di programma recenti, ho parlato di quello che abbiamo in fase di sviluppo per l’HIV, abbiamo un nuovo prodotto che dovrebbe essere approvato negli Stati Uniti e anche in Europa, negli Stati Uniti la prossima settimana e si spera in Europa con la fine dell’anno. Abbiamo dato delle licenze per questo prodotto in fase di sviluppo con lo stesso approccio, l’abbiamo dato in India, anche per quanto riguarda il regime più alto, con l’obiettivo di ridurre i tempi da quando questo nuovo prodotto sarà disponibile in Europa e negli Stati Uniti a quando verrà reso disponibile a Malati, per esempio, in Tanzania. Parliamo invece di un altro argomento, a cui faceva riferimento anche il dottor Perno prima, cioè malgrado tutto questo progresso, il numero di soggetti che vivono con HIV sta crescendo. Abbiamo più pazienti in trattamento, però sempre più pazienti hanno bisogno di trattamento. Abbiamo bisogno quindi di ridurre questo divario. Il dottor Perno ha parlato già del concetto del test and treat. In parole semplici, un paziente che viene trattato con terapia retrovirale efficace non può trasmettere il virus perché, come diceva adeguatamente il dottor Perno, il virus dorme. Questo ha un ulteriore beneficio, di trattare l’individuo. E tutto questo porta a un impatto socio economico molto promettente. Ci sono stati tanti studi sulla fattibilità di questo approccio e una delle domande che spesso viene posta è: com’è che ci possiamo permettere di fare tutto questo? Però io suggerirei una cosa: non ci possiamo permettere di non farlo. La situazione attuale è costosa, ci costa tanto in termini di perdita di vite umane e in termini di costi per trattare tutte le nuove infezioni che si verificano, quindi la linea blu è lo status quo, la rossa invece è quello che noi pensiamo di poter raggiungere con l’approccio test and treat. Praticamente trattare tutti a livello universale. Questo richiede degli investimenti oggi, però a lungo andare ci saranno dei significativi benefici. Quindi non fare nulla non è assolutamente una opzione possibile. C’è sempre più supporto per questo approccio del test and treat. Per esempio alla conferenza internazionale sull’AIDS, a Washington DC, abbiamo visto tutta una serie di eminenti relatori che hanno favorito questo approccio. Da Hilary Clinton al Vaticano, tutti hanno riconosciuto questo come un progresso, supportato da evidenza scientifica, per riuscire a ridurre il rischio di trasmissione in maniera veramente notevole. Abbiamo avuto l’opportunità, alla GILEAD, di discutere diverse modalità per collaborare col Vaticano per riuscire a sostenere questo approccio e sviluppare ulteriori evidenze a favore di questo approccio stesso. Noi siamo in fase di discussione di un progetto di dimostrazione Test & Treat, è un progetto dimostrativo che riguarda una comunità africana, per identificare, testare e trattare un gran numero di abitanti e mostrare l’impatto che tutto questo può avere sia a livello di singoli individui che a livello della comunità in generale. La scienza quindi viene ad accoppiarsi ad una conoscenza diffusa tra la comunità e le famiglie. Questo modello può essere utilizzato per mostrare una cosa, cioè che tutto questo è fattibile, che è un costo efficace ed è la cosa giusta da fare per tutta l’umanità. Quindi stiamo lavorando ad una proposta che riguarda la Tanzania, in un zona dove c’è un’altissima prevalenza di HIV, il 25 %. Vorremmo trattare ventimila pazienti con questo programma e vogliamo avere anche dei risultati misurabili e spingere questo concetto ancora oltre. Grazie.

ALBERTO PIATTI:
Il percorso che ha descritto Greg Alton è abbastanza impressionante, soprattutto perché, nel quadro di un business che un’azienda deve fare, perché non possiamo fare della filantropia giusto per teorizzarla, il percorso che hanno fatto fino a arrivare ad immaginare un programma che raggiunga 20 mila persone, dicendo non possiamo non farlo perché è come un dovere morale, è abbastanza interessante. E’ il percorso di una dimensione sociale, di una responsabilità sociale di una impresa. Ma ciò che è più interessante, e così mi permetto di introdurre la seconda parte del nostro dialogo, è l’idea di avere, per sanare questo ultimo miglio dell’infrastruttura sociale, una strettissima collaborazione – ha accennato a un programma che stanno discutendo in Tanzania con la chiesa – con le così definite Faith based organizations. Vi do un dato, una notizia che sapete già, che l’accesso ai servizi primari sanitari in Africa, per più del 50%, è garantito da ospedali missionari, più del 50% – lo stesso vale per l’educazione primaria, ma in questo momento ci interessa poco – da ospedali o presidi sanitari gestiti da missionari, prima ancora che l’idea di stato, così come glielo abbiamo esportato, ci fosse, molto prima. E a fronte di questa realtà sembra esserci un grave strabismo, chiamiamolo così, se ascoltate bene queste cifre: il fondo globale per le tre malattie ha erogato fino ad oggi, dal 2002, 541 milioni di dollari alle Faith based organizations, su un totale di 22,6 miliardi erogati. Non esiste una proporzionalità tra una struttura che eroga delle risorse imponenti e la realtà che interfaccia con quella signora che abbiamo visto, con Cinderella del video, che è quella realtà che è capace di intercettare Cinderella con il suo bisogno e quindi, nonostante gli sforzi di tutto il sistema Nazioni Unite, credo che questa cooperazione di sistema vada un po’ meglio registrata, bisogna forse mettere a punto, sono molto provocatorio, lo so, chiedo scusa, credo che ci sia qualche cosa da registrare.

PAUL DE LAY:
Grazie. A nome del UNAIDS, sono uno dei due vicedirettori esecutivi, desidero ringraziare Avsi e anche la segreteria generale con il suo segretario Generale, in particolare il dottor Piatti, per averci invitato. Desidero anche ringraziare tutti gli altri relatori perché normalmente avrei dovuto parlare delle pedagogie, delle linee guida sul trattamento ecc. invece, grazie al loro aiuto, farò qualcosa di diverso, cercando di rispondere al quesito del dottor Piatti. Desidero ringraziare anche tutti quanti voi. E’ stata una settimana lunga questa, e non è veramente un argomento facile questo di cui parliamo, l’epidemia dell’AIDS ha a che fare con problematiche veramente molto private, molto intime della nostra vita, che espone anche i malati e le malattie sociali dell’emarginazione, della mancanza dell’accesso ai servizi ed esami, ad esempi molto estremi di stigmatizzazione e emarginazione. Quindi veramente grazie, perché malgrado l’invito esterno delle spiagge, siete qui presenti ad affrontare questo argomento. Vorrei parlare di collaborazione, voglio parlarvi appunto di come UNAIDS vede la partnership, la collaborazione; vorrei parlare anche dei servizi sanitari che le organizzazioni religiose erogano e sono importantissimi. Vi spiego un pochettino che cos’è UNAIDS, senza dilungarmi troppo. Nel ’96, siamo stati creati per sei ruoli, obiettivi prioritari, la leadership in risposta all’epidemia e il sostenere l’advocacy, il seguire l’epidemia, quindi raccogliere tutti i dati. Tanti dei dati che avete visto in precedenza sono venuti proprio dallo sforzo collaborativo del UNAIDS e dei Paesi con cui collaboriamo e anche dell’OMS. Altro obiettivo era quello di dare voce a chi non ce l’ha, questa epidemia in particolare ha bisogno di questo aspetto. Altro obiettivo era stabilire nuovi partenariati, nuove collaborazioni, partnership, nuove forme di coordinamento, iniziative e anche capire il rapporto tra le ragazze e le donne e i ragazzi e gli uomini. Noi lavoriamo con tutta una serie di collaboratori e di partner, abbiamo 11 co-sponsors a livello delle Nazioni Unite e lavoriamo con loro, collaboriamo con loro e ci coordiniamo insieme. L’ultimo è You and Women, che è una recentissima agenzia delle Nazioni Unite in cui lavoriamo con l’UNICEF, l’UNCR, lavoriamo con le organizzazioni internazionali fuori delle Nazioni Unite, a livello anche di sport, commercio, business, gestione aziendale. Lavoriamo anche con delle organizzazione faith based e confessionali, abbiamo un grosso rapporto di lavoro con la Caritas e lavoriamo con comunità e organizzazioni di persone che convivono con l’HIV. Le comunità aconfessionali e la religione hanno un ruolo importantissimo. Oltre all’erogazione dei servizi, le comunità confessionali sicuramente rappresentano la fonte di tanta prevenzione, trattamento, assistenza, e servizi di supporto. Io credo che sia importante sottolineare proprio questi ambiti, questi ruoli della religione nella vita quotidiana della gente che viene toccata da questa epidemia, da queste tragedie: incoraggiare lo spirito, far sapere loro delle cose, avere compassione di loro, prendersi cura di loro, rispettarli, mostrare dignità. In particolare la dignità della persona è importante. Hanno un ruolo importantissimo queste organizzazioni nel ridurre lo stigma e la discriminazione. L’UNAIDS, come dicevo, porta anche tutta un’azione di supporto, di advocacy; una cosa che abbiamo fatto con i nostri partners, l’anno scorso all’Assemblea Generale, è stata questa, abbiamo sviluppato tutta una serie di obiettivi, di target che chiediamo al mondo di sottoscrivere. Eccoli qui rappresentati, non voglio passarli in rassegna uno per uno, ce ne sono dieci, tutti quanti sono obiettivi che dovranno essere raggiunti per il 2015 ed è importante riconoscere proprio il potere che questi obiettivi misurabili hanno. Che cosa fanno? Consentono a tutti questi partners che lavorano insieme di interagire per raggiungerli. Alcuni obiettivi sono più realistici di altri, e sono il primo a riconoscerlo, però vorrei parlare soprattutto della trasmissione verticale dell’HIV come qualcosa che va eliminato e dei quindici milioni di persone in trattamento nei Paesi a basso e medio livello di reddito, i due punti in viola che sono stati, soprattutto il secondo, già affrontati da Greg e dal dottor Perno. Dove siamo nel raggiungimento di questi obiettivi? Ecco dove ci troviamo oggi: 8 milioni di persone sono in fase di trattamento, vediamo un calo dei tassi di mortalità, però abbiamo ancora tanta strada da fare come potete vedere. Vedete questo cerchiolino blu là in alto a destra? Rappresenta l’obiettivo da raggiungere. Vorrei però evidenziare un aspetto in particolare, correlato al trattamento che ci consentirà di raggiungere questo obiettivo. Non può essere soltanto qualche cosa di basato sull’aspetto clinico, nel senso che non si tratta soltanto di un problema sanitario, di salute. Le persone vengono testate, vengono trattate, poi c’è tutto un discorso di compliance, di aderenza al trattamento di tossicità e poi entra in gioco la comunità: il modello deve essere basato sulla comunità, non è soltanto una questione di aspetto clinico. Qui entra in gioco poi anche la fede, le organizzazioni religiose e vedete che appunto i modelli di trattamento basati sulla comunità sono molto più efficaci, come vedete nella diapositiva, rispetto a quelli che si basano solo su un approccio puramente sanitario. Qui vediamo le nuove infezioni da HIV tra i bambini. Noi attualmente abbiamo 400 mila nuovi bambini all’anno che sviluppano infezione da HIV. Nel nord, qui in Italia, in Europa, nel nord America non abbiamo infezioni tra i bambini, abbiamo le tecnologie che costano relativamente poco, sono facilmente accessibili, non ci sono degli ostacoli tecnico finanziari e nemmeno appunto possiamo consentire a 400 mila bambini di sviluppare nuove infezioni. Dobbiamo cercare di ridurre questo numero ad almeno un numero inferiore a 40 mila. Vorrei mettere qui una citazione del Cardinal Bertone, che riguarda soprattutto la trasmissione verticale: “Che immagine più efficace di amore c’è se non il rapporto tra madre e figlio? Chi salva la madre e il bambino salva il futuro del mondo”. Io vorrei inviare un appello alla comunità internazionale, agli Stati e ai donatori: possa raggiungersi un accordo sull’accesso universale al trattamento, facciamolo a incominciare dalle madri e dai bambini. Noi vediamo quattro aree prioritarie. Per quanto riguarda la collaborazione con le organizzazioni religiose, abbiamo bisogno innanzitutto che i leader religiosi intraprendano azioni pubbliche di supporto, abbiamo bisogno di collaborazioni forti, dobbiamo rafforzare la capacità delle organizzazioni religiose soprattutto per quanto riguarda l’aspetto sanitario e dobbiamo identificare e documentare esempi di buona organizzazione e di buone pratiche. Questo è Michels Diebe, il mio capo, e lui dice sempre che dobbiamo rafforzare questa partnership con UNAIDS per raggiungere tutti questi obiettivi futuri. Finisco con un proverbio africano il mio capo è del Mali e dice che questo proverbio viene dal Mali e tutti quelli con cui parlo, in Africa, dicono che viene dal loro Paese. Ad ogni modo, questo riassume bene dove ci dobbiamo dirigere: “Se si vuole procedere in maniera rapida, bisogna andare da soli, però se si vuole andare lontano, bisogna andare avanti insieme”. Grazie.

ALBERTO PIATTI:
Grazie a Paul De Lay, che ci ha dimostrato che ciò che andavamo sostenendo da tanto tempo, cioè di guardare la realtà per quello che la realtà è, incomincia ad essere una politica attiva dell’organizzazione a cui dedica le sue risorse, le sue capacità. Adesso abbiamo Luis Gomes Sambo, che è Direttore Regionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per l’Africa. Prego.

LUIS GOMES SAMBO:
Grazie. Cari partecipanti, signore e signori, a nome del OMS, dico è un privilegio per me essere qui alla 33ma edizione del Meeting per l’amicizia tra i popoli con il tema “La natura dell’uomo è rapporto con l’Infinito”. So che le precedenti edizioni di questo Meeting sono state occasioni importanti per l’incontro di esperienze, di persone e popoli di diverse culture, che hanno tutti un desiderio positivo nei confronti di un mondo migliore. Io sono convinto che la visione che emergerà da questa edizione del Meeting farà fare passi notevoli per migliorare la vita della gente in tutto il mondo. Desidero ringraziare sinceramente gli organizzatori per avermi invitato a parlare a questa riunione su “L’HIV l’epidemia dimenticata” e desidero dire innanzitutto che l’Africa sub-sahariana è la regione più colpita dalla pandemia HIV AIDS, ha il maggior carico di HIV AIDS rispetto ad altre parti del mondo. Nel 2011, 22,5 milioni ossia il 65,8% di tutti coloro che vivono con HIV e Aids erano nell’africa sub-sahariana, nello stesso anno 1.700.000 soggetti con nuove infezioni da HIV si trovavano in Africa, inoltre il 70% delle morti dovute ad HIV AIDS si sono verificate nel Africa sub-sahariana. In totale in Africa la prevalenza stimata è 4,8% degli adulti mentre nel mondo è soltanto 0,8% tra gli adulti.
I giovani e le donne sono particolarmente vulnerabili alle infezioni da HIV e sono quelle parti della società più colpite. L’uso degli antiretrovirali per la prevenzione del HIV nella trasmissione madre-bambino ha portato all’eliminazione vera e propria della trasmissione del HIV a livello perinatale nei Paesi occidentali, però nell’Africa sub-sahariana più o meno 300.000 bambini sviluppano nuove infezioni da HIV ogni anno e quindi non possiamo permetterci che l’HIV AIDS sia un’epidemia dimenticata.
L’HIV AIDS ha toccato tutti gli aspetti della vita, sia dei soggetti infetti che di quelli colpiti, effettivamente superando i servizi sanitari sociali del continente, creando milioni di orfani e decimando le persone nel gruppo di età produttiva. L’HIV AIDS continua a causare un impatto demografico, sociale ed economico negativo. Man mano che i genitori e i lavoratori soccombono per malattie correlate all’HIV, le strutture, le divisioni del lavoro, nelle famiglie, nei luoghi di lavoro e nelle comunità, vengono completamente alterate e le vite quotidiane cambiano, con le donne che soprattutto devono sostenere un notevole carico. Da lì gli effetti procedono a cascata in tutta la società, aumentando i livelli di povertà e anche i livelli di dipendenza.
La prevenzione dell’HIV è l’approccio più efficace al fine di ridurre le nuove infezioni e minimizzare l’impatto dell’epidemia. A partire dall’ultimo decennio i Paesi dell’Africa sub-sahariana hanno allargato la copertura dei servizi e hanno migliorato la qualità dei servizi preventivi per l’HIV. Questo significa interventi sia comportamentali biomedici che strutturali. Tra questi abbiamo, per esempio, la consulenza per i cambiamenti comportamentali dei singoli soggetti, coppie e comunità, la promozione dell’uso del preservativo, l’ottimizzazione dei benefici della terapia antiretrovirale e anche la rimozione di tutta la stigmatizzazione e la discriminazione correlate all’HIV. Alcuni progressi sono stati si raggiunti in Africa. Il numero di giovani e bambini che hanno nuove infezioni da HIV continua a ridursi, il numero di bambini si è ridotto da 500.000 nel 2003 a 300.000 nel 2011, possiamo adesso realisticamente prevedere delle riduzioni drastiche delle nuove infezioni da HIV nei bambini, se riusciremo ad attuare in maniera collettiva il piano globale che mira all’eliminazione della trasmissione dell’HIV dalle madri ai bambini.
Questo sarà uno degli strumenti per raggiungere una generazione che sia priva dell’HIV. L’OMS è un’organizzazione molto impegnata, insieme al UNAIDS e ad altri partners, per sostenere i vari Paesi nell’attuazione del piano globale per l’eliminazione della trasmissione dalla madre al bambino. Molte persone ora ricevono la terapia antiretrovirale, nel 2011 oltre 6 milioni di persone ricevevano un trattamento nella zona sub-sahariana, rispetto a soltanto 100.000 persone nel 2003; questo ha portato a un minor numero di decessi correlati all’AIDS e questo ha anche cambiato la percezione della società relativamente all’AIDS. L’AIDS non viene più considerata come una condanna a morte ma come una patologia cronica. Si stima che nel 2011 siano morte 500.000 persone in meno nell’Africa sub-sahariana rispetto al 2006 e questo rappresenta una riduzione della mortalità del 31%, quindi 31% in meno di mortalità associata all’HIV AIDS. Tutto questo è stato possibile grazie a una responsabilità collettiva da parte di tutti coloro che sono coinvolti, questo ha significato anche un investimento finanziario significativo per quanto riguarda appunto la risposta all’HIV AIDS. Abbiamo adesso a disposizione più farmaci a un prezzo più basso, abbiamo farmaci migliori e abbiamo tutta una serie di cose che sono più accessibili a tutti i Paesi della regione. Abbiamo inoltre delle innovazioni per quanto riguarda le erogazioni di servizi, abbiamo maggiore attivismo e tutto questo ha promosso un maggiore controllo dell’HIV AIDS e tutte le comunità sono state anche loro in prima linea nella risposta a questo problema. Vogliamo anche riconoscere il ruolo estremamente importante che ha svolto la comunità internazionale e faccio riferimento in particolare modo alla comunità scientifica, che non ha risparmiato alcun sforzo per condurre ricerche per migliorare gli strumenti in grado di combattere l’epidemia di HIV AIDS.
Diverse sfide devono però essere ancora affrontate. Dobbiamo per esempio aumentare il numero di interventi che sappiamo essere efficaci contro questa epidemia, devono essere condotte più ricerche, questo per perseguire delle soluzioni più efficaci nei confronti della prevenzione dell’HIV e anche per una erogazione dei servizi maggiormente integrata, per nuovi farmaci e anche per lo sviluppo di vaccini. Dobbiamo trovare anche delle soluzioni locali in Africa, questo per promuovere l’accesso ai farmaci. Tra queste soluzioni possiamo avere anche la produzione di farmaci antiretrovirali, abbiamo bisogno di affrontare il problema della povertà, dell’ignoranza tra le varie famiglie, abbiamo bisogno di responsabilizzare le comunità, i giovani e soprattutto le donne, per sensibilizzarli rispetto ai fattori che li rendono più vulnerabili davanti a queste infezioni.
Signore e signori, il mondo si trova adesso ad un crocevia, dove i precedenti investimenti stanno mostrando risultati tangibili e contemporaneamente alcuni donatori mettono in questione la sostenibilità, nel lungo periodo, degli investimenti per l’AIDS, data l’entità delle esigenze che ancora non sono soddisfatte. Però adesso non ci si può ritirare, è responsabilità di tutti, è responsabilità collettiva di tutti, completare, portare a termine quello che è stato cominciato, in modo da rendere universale l’accesso alla prevenzione, al trattamento e alla cura. Il dottor Perno e il dottor Greg Alton hanno fatto riferimento a nuove opportunità offerte dalle evidenze scientifiche, in relazione alla possibilità di allargare il trattamento a tutti quanti.
Naturalmente tutto questo ha delle implicazioni del punto di vista dei costi. Ci sono degli aspetti operativi e pratici che vanno affrontati per rendere tutto questo possibile, dovremo perciò affrontare queste sfide. I Paesi sono davanti a una sfida per gl’investimenti, per ottenere una risposta all’HIV; con un appiattimento degli investimenti internazionali, i Paesi africani sempre più sono chiamati a condividere gli investimenti. Gli investimenti interni per l’HIV nell’Africa sub sahariana sono praticamente quasi raddoppiati tra il 2006 e il 2011, ma gli investimenti internazionali ancora rappresentano i 2/3 di tutta la spesa correlata all’AIDS. Direi che ancora siamo a un grosso livello di dipendenza da finanziamenti esterni. Secondo noi è obbligatorio, è una necessità urgente, che sia le risorse internazionali che quelle interne vengano utilizzate in maniera più efficiente, perché le persone colpite proprio sul territorio possano beneficiarne al massimo. Riteniamo anche che ci sia bisogno di nuovi meccanismi di finanziamento, che vadano al di la del concetto tradizionale dell’assistenza allo sviluppo, in modo da potersi spostare verso un accesso universale all’assistenza sanitaria. Diciamo che il coinvolgimento maggiore dei vari Paesi e la partecipazione dei Governi, delle società civili, delle organizzazioni non governative, delle comunità e anche delle organizzazioni dei professionisti, rappresentano una precondizione, un presupposto critico, per ottenere una risposta efficace ed efficiente a livello globale.
Coglierei questa occasione, questa opportunità, per riconoscere e apprezzare veramente il ruolo e l’impegno del Consiglio Pontificio degli Operatori Sanitari del Vaticano e tutta la loro rete di strutture sanitarie presenti in Africa. Riescono infatti a svolgere i servizi preventivi e anche di trattamento per l’HIV e soprattutto mostrano compassione per coloro che sono colpiti e soffrono. Signore e signori, più di 30 anni dopo che appunto è iniziata l’epidemia dell’HIV AIDS, sono fermamente convinto che sia possibile raggiungere una generazione senza AIDS e HIV in futuro. Questo può succedere se c’è un impegno sostenuto a livello finanziario, politico e scientifico, è grazie a uno sforzo coordinato per allargare le iniziative di prevenzione e trattamento dell’HIV, integrando l’HIV AIDS in più ampi servizi sanitari, aumentando i finanziamenti, migliorando anche i diritti dell’uomo nelle popolazioni più vulnerabili, tra cui anche una riduzione della stigmatizzazione, della discriminazione, che cominceremo a spostarci, a muoverci verso una generazione che non ha più l’AIDS. L’obiettivo è ambizioso, però è raggiungibile. Ciascuno di noi ha un importante ruolo da svolgere e quindi svolgiamolo, questo ruolo e vi ringrazio tanto.

ALBERTO PIATTI:
Grazie, io vorrei ricordare, avviandoci alla conclusione di questo, molto interessante panel di questa mattina, una storia molto semplice, che forse riesce a sintetizzare quanto abbiamo ascoltato questa mattina nei fatti e nelle intenzioni. Ricorderete che qualche anno fa noi utilizzammo per la nostra campagna di Natale di fund-raising questo titolo “Viky. Storia di un altro mondo in questo mondo” ed è la storia di una signora malata di AIDS che, quando ha scoperto la sua situazione, è stata rifiutata dal marito, ha scoperto che anche i figli erano malati e si stava lasciando morire in una misera capanna fino a che una persona, che quasi tutti qua conosciamo, Rose Busingye, ebbe il coraggio di andarla a trovare in questo lurido giaciglio dove stava ed ebbe il coraggio di affermare davanti a lei, in quella circostanza, “la tua vita vale di più della tua malattia, tu sei più grande della tua malattia”, proponendole una via di uscita, una speranza e facendole accettare di andare sotto trattamento. Viky è stata anche ospite del Meeting, se vi ricordate, con la sua testimonianza e questa storia dice fondamentalmente che gli sforzi che abbiamo sentito descritti intorno a questo tavolo, se non arrivano alla dignità ultima di ogni essere umano, quindi a una capillarizzazione dell’azione o meglio all’infrastruttura sociale dell’ultimo miglio, sono destinati a fallire. Ed è questo, mi permetto di ribadirlo, il valore della presenza, anche sociale, delle Faith based organizations, perché non siamo, e non vogliamo essere, degli erogatori di servizi che altri non riescono a fare. Se ci comportiamo come ci comportiamo, nei Paesi in cui siamo, con la presenza della Chiesa e dei missionari è perché abbiamo un’idea di essere umano di cui voglio ricordare, chiudendo, una spettacolare sintetica definizione di papa Benedetto XVI, in cui ha parlato, nel Messaggio per la Pace di due o tre anni fa, di “innata dignità”. Quest’innata dignità certamente può essere sepolta dalla malattia, dalla fame, dalle guerre, dai disastri e il nostro lavoro è certamente rispondere al bisogno che emerge, come abbiamo visto questa mattina, ma rispondere a quel bisogno che emerge per il riconoscimento dell’“innata dignità” di natura, creata nel suo rapporto con il Creatore, cioè nel suo rapporto con l’Infinito. La natura dell’uomo è rapporto con l’Infinito.
Grazie a tutti per l’attenzione.

Data

24 Agosto 2012

Ora

11:15

Edizione

2012

Luogo

Sala Neri GE
Categoria
Incontri