Chi siamo
GUARESCHI: FILM, VIGNETTE, MUSICA E RACCONTI
Partecipano: Davide Barzi, Scrittore e Sceneggiatore specializzato in fumetti; Daniele Benecchi, Cappellano militare; Enrico Beruschi, Regista e Attore; Eugenio Martani, Clarinettista e Direttore del Concerto Cantoni; Corrado Medioli, Fisarmonicista. Introduce Egidio Bandini, Giornalista e Presidente del “Club dei Ventitré”.
GUARESCHI: FILM, VIGNETTE, MUSICA E RACCONTI
Ore: 21.00 MeshAREA TALK Intesa Sanpaolo B1
GUARESCHI: FILM, VIGNETTE, MUSICA E RACCONTI
Partecipano: Davide Barzi, Scrittore e Sceneggiatore specializzato in fumetti; Daniele Benecchi, Cappellano militare; Enrico Beruschi, Regista e Attore; Eugenio Martani, Clarinettista e Direttore del Concerto Cantoni; Corrado Medioli, Fisarmonicista. Introduce Egidio Bandini, Giornalista e Presidente del “Club dei Ventitré”.
MUSICA
EGIDIO BANDINI
Buonasera a tutti, grazie di essere qui così numerosi, vi ringrazio perché effettivamente è una soddisfazione. Avete appena ascoltato Fumetto di Lucio Dalla, fumetto perché? Perché qui alla mia sinistra c’è Davide Barzi, che è lo sceneggiatore della collana Don Camillo a fumetti, della quale parleremo fra pochissimo. Qui alla mia destra, Don Daniele Benecchi, cappellano militare, che ha in comune con Don Camillo le origini, perché è della bassa parmense, e anche il mestiere, perché fa il prete e anche il cappellano militare. Accanto a lui, posso evitare di presentarlo ma ve lo presento lo stesso, Enrico Beruschi, attore, regista, comico, ecc. In mezzo agli altri, ci sono io che mi chiamo Egidio Bandini, per sbarcare il lunario scrivo sui giornali. Allora, direi di cominciare con Davide, che tra l’altro stasera ci ha fatto una bella sorpresa, ha portato questa bellissima cartina illustrata con i luoghi di Mondo Piccolo, perché settant’anni fa usciva il primo volume di racconti di Mondo Piccolo, che ha qualcosa a che vedere anche con la mostra che abbiamo allestito qui, sul viaggio di Giovannino Guareschi lungo la via Emilia, perché la copertina di quel primo volume recava proprio davanti la fotografia di Castelmassa, un paese in provincia di Rovigo che Guareschi aveva fotografato durante quel viaggio. Settant’anni fa nasceva il primo volume di Don Camillo, oggi stanno preparando il XX volume della collana Don Camillo a fumetti, che è stata tradotta anche in coreano. Insomma, un successo nuovo, un Don Camillo diverso perché non è il cinema, non è il racconto, è qualche cosa che sta a metà e che però compendia un po’ tutte e due le cose, o sbaglio?
DANIELE BENECCHI
Non sbagli. Grazie a voi della partecipazione, vengo direttamente dalla montagna, in quel di Tenno in Trentino, dove c’è questa mostra di cui vi ho portato il catalogo su Don Camillo a fumetti. Pensavo di avere portato un numero spropositato di cartine ma mi trovo con un numero spropositato di persone, quindi spero ce ne siano per tutti. Comunque, cercatele, ne ho portate un qualche centinaio, ci sono i ragazzi che le distribuiscono. È un piccolo esempio della mole di lavorazione che c’è dietro una serie a fumetti, perché quando cerco di spiegare che cosa faccio di mestiere, faccio sempre un po’ fatica a farmi capire. Intanto, dico che faccio i fumetti e la prima domanda è: «Allora disegni?». No, faccio lo sceneggiatore, cioè sono quello che li scrive, i fumetti. «Ah, che cosa fai?». Eh, faccio gli adattamenti dei racconti di Guareschi. «Ah, ma li ha già scritti Guareschi, tu cosa fai?». Insomma, diventa faticoso spiegarlo. Io sono proprio l’anello di congiunzione tra la grande, enorme, bellissima, pesante eredità che ci ha lasciato Giovannino Guareschi e il lavoro di visualizzazione che fanno i disegnatori della nostra collana. Adatto un lavoro che è in prosa su un linguaggio per immagini. Il nostro obiettivo, fin da subito – fin da subito vuol dire 2011 -, quando abbiamo fatto questa ipotesi di adattamento totale e cronologico a fumetti dei racconti di Giovannino Guareschi, lo abbiamo detto: «Facciamo quattro numeri per vedere come va». Appunto, oggi siamo al sedicesimo in uscita, stiamo lavorando ai prossimi quattro e ad una serie di iniziative collaterali. Usciamo in Germania, in Francia, in Corea, come ricordava Egidio, quindi siamo ovviamente molto contenti. Non sono qui a dire se siamo bravi o meno, non sta a noi dirlo, ma sicuramente un premio allo scrupolo filologico con cui lavoriamo… Io mi interfaccio pressoché quotidianamente con Alberto Guareschi, il figlio di Giovannino. Abbiamo la fortuna, oltre ad essere gli unici al mondo ad avere il diritto di fare i fumetti tratti dai lavori di Guareschi, anche di avere Alberto, che quotidianamente lavora con noi alla più attenta e scrupolosa cura del dettaglio di ogni minima vignetta. Vi dico la cosa più estrema che mi è capitato di chiedere ad Alberto Guareschi nel volume sei, Il Traditore: c’è una sequenza in cui Peppone, per dimostrare che uno dei rossi in realtà è un borghese travestito, porta gli altri rossi a vedere il bagno che quest’uomo si è fatto in casa. Come sapete, stiamo parlando di fine anni Quaranta, primi anni Cinquanta, avere il bagno in casa non era proprio una cosa da tutti. Allora dico: «Senti, Alberto, siccome ti ho già chiesto com’erano fatte le porte, le finestre, i bicchieri, come era il vino, come si vestiva la gente, con che auto andava, eccetera, non è che per caso avresti anche documentazione di un water dei primi anni Cinquanta?». Ce l’aveva. Io non lo so che archivio abbia Alberto Guareschi, ma davvero senza di lui la nostra collana non potrebbe esistere. Questa cartina, se l’aprite, ha alcune indicazioni che vi spiegano esattamente a quali luoghi abbiamo fatto riferimento. E poi ha questa cosa finale, che per i più giovani dico che è la versione di Google map del Mondo piccolo, per quelli della mia età dico che è il Tuttocittà del Mondo piccolo, ok? Se qualcuna delle mogli dei partecipanti riesce a fare la foto a loro, che hanno tutti la cartina aperta, mi sembra un momento bellissimo, poi la pubblichiamo sulla pagina Facebook dell’editore della rivista. Grazie mille, gentilissimi! Mi tocca però, adesso che abbiamo fatto questa cosa simpatica, darvi subito una delusione perché sono crudele, perché tutti probabilmente si aspettano, o forse i guareschiani doc no, ma gli amanti del cinema, dei film di Duvivier, di Fernandel e di Gino Cervi, sì, Brescello! No, qui dentro c’è il Mondo piccolo per come lo aveva concepito Giovannino Guareschi. Immagino sappiate – se non lo sapete ve lo dico io – che Brescello fu una scelta del regista Duvivier perché, per una questione di logistica e risparmio delle maestranze e dei mezzi aveva trovato questo paese, peraltro, onta massima, in provincia di Reggio Emilia e non di Parma, dove il Comune e la chiesa stavano sulla stessa piazza. Quindi, piazzando la telecamera nel mezzo, tu risparmiavi. Mentre l’idea di Giovannino Guareschi originale, ovviamente un pochino più dispendiosa dal punto di vista cinematografico, era che la chiesa deve essere quella di Fontanelle di Roccabianca, il Comune deve essere la Rocca di Sissa, e via così. Praticamente, il suo borgo è un insieme di suggestioni del Mondo piccolo, un insieme di ricordi di infanzia, di amicizie in corsa, è un insieme di cose, un luogo ideale, un luogo del cuore, ma in realtà non esiste. Noi, invece, proprio grazie alla collaborazione di Alberto, e allora di Carlotta, abbiamo fatto questo viaggio sentimentale nel Mondo piccolo, siamo andati a vedere, a fotografare, a respirare tutti i luoghi che hanno ispirato Guareschi e abbiamo, insieme al disegnatore Werner Maresta, abbiamo costruito questa mappa che è quindi, come dire, il risiko su cui i nostri disegnatori muovono le pedine, muovono i nostri personaggi e, mi vien da dire, visto che siamo in questa metafora, muovono i loro carri armati – mi sembra adatta come metafora – all’interno delle nostre storie. Quindi, il Mondo piccolo è un luogo che non c’è ma che noi abbiamo ricreato. Rispetto al cinema, scusate il gioco di parole, che noi rispettiamo – ma facciamo un altro lavoro -, oltre a non aver messo Brescello, non abbiamo messo – adesso vi do un altro dolore, preparatevi! – Fernandel e Gino Cervi, perché anche in questo caso furono scelte della produzione, all’inizio non del tutto digerite da Giovannino Guareschi che poi, in realtà, li seppe apprezzare con il tempo. Ma all’inizio, a recitare nella parte di Peppone, avrebbe dovuto esserci Giovannino Guareschi stesso che era, come dire, una superstar, era l’antecedente degli youtuber odierni, era uno scrittore superstar e quindi, da parte dei produttori, l’idea che ci fosse uno scrittore all’interno del film era una garanzia di persone che sarebbero venute al cinema. Nel ruolo di Don Camillo, invece, ci sarebbe dovuto essere Gino Cervi ma Duvivier si portò dalla Francia Fernandel, ci fu lo scambio tra i due attori e probabilmente fu una delle scelte che fecero la fortuna del film. Nel nostro caso, abbiamo recuperato l’idea originale di avere Giovannino Guareschi come Peppone, quindi dovreste avere il buon cuore di passare poi alla libreria e di vedere nella sezione Omaggio a Giovannino Guareschi i nostri libri. Troverete in copertina Giovannino Guareschi perché lui è il nostro Peppone, mentre il nostro Don Camillo è una sorta di Guareschi giovane e senza baffi, in virtù del fatto che lui diceva che in realtà Peppone e Don Camillo erano due lati della sua anima, due aspetti della stessa medaglia e due angoli di un triangolo che si concludeva con il Crocifisso. Niente, che dire? Noi stiamo lavorando al volume sedici, ed è ormai arrivato il momento per noi, ora che la Collana si è assestata, di uscire con due volumi l’anno in libreria e in fumetteria. Di solito, ne presentiamo uno a maggio perché ci piace presentarlo il Primo Maggio a Roncole, per augurare buon compleanno a Giovannino Guareschi che in quella data compie gli anni; mentre il secondo volume dell’anno lo presentiamo a Lucca, che invece è una cosa un po’ più nostra, da fumettari, perché a novembre c’è Lucca Comics and Games che è il più grosso evento di settore, quindi adesso stiamo giocando con il formato, abbiamo fatto questa cartina, se vi capita di andare in libreria troverete un volume piccolino così, in formato Diabolik, con Don Camillo che incontra Diabolik. Può sembrare una roba impossibile e improbabile che i due personaggi dall’abito nero più famosi della cultura italiana si incontrino, ma in realtà è la trasposizione di un racconto di Guareschi, in cui lui – che era una persona con interessi a 360 gradi, ed era anche un lettore di fumetti, ma Albertino ancora di più, ne Il Corrierino delle Famiglie lo vedi spesso perso nei suoi giornaletti – cita proprio Diabolik in uno dei racconti, parlando di Veleno, il figlio di Peppone. Per cui abbiamo creato questo albo di Diabolik che sembra un fumetto di Don Camillo, o viceversa. E tra l’altro c’è questa curiosità, visto che siamo a Rimini, il secondo albo prodotto in realtà da Cartoon Club e non da Renoir, che è il nostro editore, in cui i nostri personaggi sono a Rimini. C’è un’ambientazione riminese, e anche lì c’è una logica per cui ci spostiamo leggermente di solito dal racconto originale ma sempre concordandolo con Alberto Guareschi. C’è anche in edicola in questo momento un numero di Fumo di China con un bel dossier su Giovannino Guareschi, sempre con una copertina di Werner Maresta, il nostro cartografo preferito. E chiudo – perché mi hanno detto dieci minuti e dopo mi sparano, ci terrei a tornare a casa perché ho una figlia piccola -, dicendo che per Natale regaliamo ai nostri lettori, finalmente, dopo aver fatto in cronologica tutti i primi 120 racconti (ma il nostro obiettivo è adattarli tutti e 346, visto che abbiamo adattato ormai tutti i racconti che sono sparsi all’interno dei diversi numeri della Collana, che poi gli sceneggiatori cinematografici hanno messo insieme per fare il primo film), il film a fumetti, che è una operazione secondo noi interessante visto che presenta il film – ci vien da dire, se non sembra troppo immodesto – come Giovannino Guareschi l’avrebbe voluto. Perché i racconti sono adattati in maniera filologica e non un pochino rimaneggiati come è stato fatto al cinema e come a volte è necessario fare al cinema. E c’è un bel dossier finale che ci racconta un pochino cosa succede dal 1947, anno in cui qualcuno comincia a leggere i primi racconti sul Candido del Mondo piccolo e comincia ad annusare il business, fino al 1952: cinque, sei anni in cui c’è uno scambio tra produttori, scrittori, registi, attori; scambi anche belli accesi, perché Guareschi era molto sanguigno, fino ad arrivare poi al film nella forma in cui tutti lo conosciamo. Vi dico solo, giusto per scatenare la vostra curiosità, che in questo breve dossier ci sono tre nomi che a diverso titolo avrebbero potuto essere coinvolti o sono stati coinvolti nella lavorazione dei film di Don Camillo: Frank Capra, Spencer Tracy, Orson Welles. Ci rivediamo nel libro, grazie.
MUSICA
EGIDIO BANDINI
«Sulla via Emilia ci passa il mondo»: la frase che un amico mi disse un paio di mesi orsono, alla prima tappa della nostra mostra a Piacenza, mi ha convinto ancora di più sulla bontà della scelta di proporla quest’anno al Meeting, e i motivi sono due. Il primo è il senso della frase di Don Giussani, “le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”. E cos’altro se non la storia, quella con la esse maiuscola, ha mosso la via Emilia, assieme ai milioni di persone che durante 2200 anni sono passati su questa strada che attraversa l’Italia, da Occidente a Oriente e viceversa? E cosa ha reso felice l’uomo che percorreva la via Emilia, oggi che percorre l’autostrada? Ma il traguardo della strada consolare, il mare, che significava e significa non solo vacanza, riposo, divertimento, è il senso della vastità, dello spazio sconfinato, di quella pace che Gabriele D’Annunzio sintetizzava in «quell’Adriatico selvaggio che è verde come i pascoli dei monti». Secondo motivo per proporre la mostra al Meeting, l’anno in cui Don Giussani pronunciò questa frase, il 1968, l’anno delle rivoluzioni giovanili, ma soprattutto l’anno in cui Giovannino Guareschi morì a Cervia, cadendo in ginocchio accanto al letto in una bella mattina di sole. Solo 27 anni prima era partito in bicicletta per quello che chiamava impropriamente «giro d’Italia» e che è il tema della nostra mostra, intitolata, appunto, Route 77, a ricordo dei 77 anni passati da quel viaggio lungo la via Emilia, a scoprire cinque anni prima il Mondo piccolo di Peppone e Don Camillo.
MUSICA
«L’ambiente è un pezzo della pianura Padana e qui bisogna precisare che per me il Po comincia a Piacenza. Il fatto che da Piacenza in su sia sempre lo stesso fiume non significa niente, anche la via Emilia, da Piacenza a Milano è sempre la stessa strada, però la via Emilia è quella che va da Piacenza a Rimini. Non si può fare un paragone tra un fiume e una strada, perché le strade appartengono alla storia e i fiumi alla geografia. E con questo? La storia non la fanno gli uomini, gli uomini subiscono la storia come subiscono la geografia». Questo è il ritratto, ironico ma veritiero che Giovannino Guareschi fa dell’Emilia-Romagna, e di qui partiamo per raccontarvi una storia, una storia che inizia nella prima metà del 1800, prosegue spostandosi lungo la via Emilia, avanti e indietro nel tempo, fino a mettere insieme la favola vera della nostra regione. Giovannino Guareschi non ha dubbi, dice semplicemente che la via Emilia è quella che va da Piacenza a Rimini, punto! Assolutamente! Ed è da qui che ci muoviamo anche noi nel raccontarvi questa storia, nuova ma vecchia di secoli, la storia di una strada che in realtà è destinata a diventare, lungo il suo percorso, molto più che una via di comunicazione. La via Emilia è un simbolo, una leggenda, un mito, e proprio per questo è esattamente il modo di vivere che racconta la nostra regione, l’Emilia-Romagna, una regione fatta di tante anime, di tanti cuori, di tante magie. Una regione che l’indimenticabile Edmondo Berselli definiva «terra di comunisti, motori, musica, bel gioco, cucina grassa e italiani di classe». Insomma, il ritratto di un sogno, di un’utopia, di un’immagine idealizzata che, come allo specchio si riflette tutta proprio sul nero asfalto della via Emilia, un nastro scuro che però agli occhi di chi lungo questa strada fantastica ci vive diventa trasparente come l’acqua del fiume, con i tantissimi veicoli che la percorrono a formare una vera e propria corrente, cui abbandonarsi in tutte e due le direzioni, dal fiume al mare e viceversa, accompagnati dal valzer dei cantoni e da quelli di Casadei, dal salame felinese a quello romagnolo, dall’Amarcord felliniano al Rigoletto di Verdi, dal rombo della Ferrari al carezzevole suono delle onde di risacca, dal blu del cielo che si specchia nel grande fiume e dal verde pieno di riflessi dell’Adriatico selvaggio. Il tutto seguendo, da Piacenza a Rimini o viceversa, le favole di Guareschi, da leggere ma anche da cercare e da ritrovare e da rivivere sotto questo cielo immenso che sta sopra la piana del Po dove, scriveva Riccardo Bacchelli, «la natura spande, attarda». Un mondo diverso da tutti gli altri, quello della nostra regione, perché, diceva Guareschi, in quella fettaccia di terra tra il fiume e il monte possono succedere cose che da altre parti non succedono, cose che non stonano mai con il paesaggio, cose come la via Emilia, cose come il Mondo piccolo di Peppone e Don Camillo.
MUSICA
Partiamo allora con il viaggio attraverso la musica emiliano-romagnola, perché è musica di terra e musica di famiglia, la musica di Verdi e quella dei cantoni. A proposito, questo era il valzer Don Camillo di Flamini Girardi, fino ad arrivare alla musica dei Casadei che nasce alla stessa stregua degli immortali personaggi di Guareschi, in quel Mondo piccolo di cui Giuseppe Verdi ha scritto le melodie e di cui Giovannino Guareschi ha raccontato le storie. Un mondo piccolo che, lo sappiamo tutti, è un puntino nero che si muove in su e in giù per il Po con i suoi Pepponi, i suoi Smilzi e tutta l’altra mercanzia del genere, un puntino nero dal quale nascono melodie inconfondibili, dal Và pensiero a Romagna mia, un mondo del tutto particolare, dove a raccontare il paesaggio, le atmosfere ed i sapori, la nebbia e il sole a martello ci pensa la musica, quella di Giuseppe Verdi ma non solo, anche quelle popolari.
MUSICA
Per chi non l’avesse riconosciuto e non si fosse immaginato Alain Delon che balla con Claudia Cardinale, questo era il Gran valzer di Giuseppe Verdi dal Gattopardo, musica di Verdi. E lo stesso vale per Giovannino Guareschi, che della sua campagna antica fece un sogno che però non riuscì mai a realizzare, la pubblicazione di un libro a cui teneva moltissimo, un libro che voleva intitolare Romanzo all’antica e aveva già iniziato a scrivere, ai tempi della sua collaborazione al Corriere della Sera, proprio quando fece il viaggio sulla via Emilia. Gli anni sono i primi ‘40 e le storie che Giovannino inventa ripercorrono la vicenda umana e familiare del padre, Primo Teodosio Augusto Guareschi, figlio di quell’Antonio detto Basiva che rappresentava per Giovannino il mito del grande possidente terriero del 1800, innamorato e geloso della propria campagna ma altrettanto generoso con chi lavorava ed abitava in quella grande cascina che era il favoloso Boscaccio. Guareschi, ragionando di ricordi e nostalgia del passato, aveva una particolare venerazione per la bicicletta, della quale soprattutto nella Bassa non si potrebbe più fare a meno. E per motivi ben precisi, che risalgono secondo Giovannino a ricordi ancestrali: «Di una cosa sono ben sicuro. Prima dell’avvento della bicicletta, la pianura Padana non esisteva né poteva esistere. Quando fu inventata la bicicletta, fu inventata la pianura Padana. Quando fui inventato io, il primo maggio del 1908, la pianura Padana esisteva già. Quindi, sin dal mio primo vagito, io fui, e sono, padano e ciclista. Tutto questo non c’entra con quello che voglio narrare, serve solo a spiegare come parli così spesso e con tanto compiacimento della bicicletta».
ENRICO BERUSCHI
«Don Camillo si era lasciato un po’ andare durante un fervorino con sfondo locale, con qualche puntatina piuttosto forte per quelli là; e così la sera dopo, attaccandosi alle corde delle campane perché il campanaro lo avevano chiamato chissà dove, era successo l’inferno. Un’anima dannata aveva legato dei petardi al batacchio delle campane; nessun danno ma un putiferio di scoppi da far venire il crepacuore. Don Camillo non aveva aperto bocca, aveva celebrato la funzione serale in perfetta calma e c’era la chiesa zeppa, non ne mancava uno di quelli là. Peppone in prima fila e tutti con una faccia compunta da mettere la frenesia addosso ad un santo. Ma Don Camillo era un incassatore formidabile e la gente se ne era andata via delusa. Chiusa la porta grande, Don Camillo si era buttato addosso il mantello e prima di uscire era andato a fare un rapido inchino davanti all’altare. “Don Camillo” aveva detto il Cristo crocefisso, “mettilo via”. “Non capisco” aveva protestato Don Camillo. “Mettilo via”. Don Camillo aveva tratto di sotto il mantello un palo e lo aveva deposto davanti all’altare. “Che brutta cosa, Don Camillo”. “Gesù, non è mica rovere, è pioppo, roba leggera e pieghevole” si era giustificato Don Camillo. “Vai a letto, Don Camillo, non pensare più a Peppone”. Don Camillo aveva aperto le braccia ed era andato a dormire con la febbre. Così la sera dopo, quando sul tardi gli comparve davanti la moglie di Peppone, saltò in piedi. “Don Camillo”, cominciò la Donna che era molto agitata; ma Don Camillo la interruppe: “Via di qui!!! Razza sacrilega”. “Don Camillo, lasciate stare queste stupidaggini, a Castellino c’è quel maledetto che aveva tentato di fare la festa a Peppone, l’hanno messo fuori”. Don Camillo aveva acceso tranquillo la pipa: “Compagna, a me lo dici? Mica l’ho fatta io, l’amnistia. Del resto, che te ne importa?” La Donna si mise a gridare: “Me ne importa perché io sono venuta a dire di Peppone e Peppone è partito per Castellino come un dannato, ha preso un mitra!”. “Dunque le armi le avete nascoste, vero?”. “Don Camillo, lasciate stare, non capite che quello lo ammazza, se non mi aiutate voi quello si rovina”. Don Camillo rise perfidamente. “Così impara a legare i petardi al batacchio delle campane. In galera, lo voglio vedere morire, fuori da questa casa”. Tre minuti dopo, Don Camillo con la sottana legata attorno al collo arrancava come un ossesso sulla strada per Castellino a cavalcione della Wolsit da corsa del figlio del sagrestano. C’era una splendida luna e a quattro chilometri da Castellino vide un uomo seduto sulla spalletta del ponticello del fossone, rallentò, perché bisogna essere prudenti quando si viaggia di notte. Fermò una decina di metri prima del ponte, tenendo a portata di mano un gingilletto che si era trovato in tasca. “Giovanotto” chiese “avete visto passare un uomo grosso in bicicletta diretto a Castellino?”. “No, Don Camillo” rispose tranquillo l’altro. Don Camillo si avvicinò. “Sei già stato a Castellino?” si informò. “No, ci ho ripensato sopra, non ne vale la pena. È stata quella stupida di mia moglie a farvi scomodare”. “Scomodare, figurati, ho fatto una passeggiatina”. Peppone sghignazzò: “Però, che effetto fa un prete in bicicletta da corsa!”. Don Camillo venne a sederglisi vicino. “Figlio mio, bisogna prepararsi a vederne di tutti i colori in questo modo”. Un’oretta dopo, Don Camillo era di ritorno, andava a stendere il suo rapportino al Cristo. “Tutto bene, tutto come mi avete ispirato Voi”. “Bravo, Don Camillo, ma dimmi un po’. Ti avevo anche suggerito di prenderlo per i piedi, buttarlo dentro nel fosso?”. Don Camillo allargò le braccia. “Veramente non ricordo bene. Il fatto è che a lui non gli andava molto di vedere un prete in bicicletta da corsa, e allora ho fatto in modo che non mi vedesse più”. “Capisco. È già tornato?”. “Arriverà tra poco. Vedendolo cadere nel fosso ho pensato che ritornando un po’ bagnato si sarebbe trovato impicciato con la bicicletta e allora ho pensato di tornare solo con tutte e due le biciclette”. Il Cristo approvò molto gravemente. “È stato un pensiero molto gentile, Don Camillo”. Peppone si affacciò verso l’alba alla porta della canonica. Era bagnato fradicio e Don Camillo gli chiese se piovesse. “Nebbia” rispose Peppone a denti stretti. “Posso prendere la mia bicicletta?”. “Figurati, è lì”. Peppone guardò la bicicletta. “Non vi risulta che legato alla canna ci fosse per caso un mitra?”. Don Camillo allargò le braccia sorridendo. “Mitra? Che roba è?”. “Io”, disse Peppone sulla porta, “ho fatto un solo errore nella mia vita, quello di legare dei petardi ai batacchi delle campane. Dovevo legarci mezza tonnellata di dinamite”. “Errare humanum est” osservò sorridendo Don Camillo».
EUGENIO BANDINI
Fra i primi racconti di Modo piccolo, assieme al Peccato confessato c’è questo. È una saga che inizia a prendere forma, a prendere vita nel cammino che Guareschi compie dagli anni ‘30, quando scrive I racconti di famiglia, e narra i racconti della città, agli anni del viaggio lungo la Via Emilia, fino alla prigionia nei lager nazisti e al dopoguerra. La nascita del piccolo mondo delle favole di Giovannino, la crescita della sua fede in Dio e nella Provvidenza, la conoscenza con i sacerdoti e i cappellani militari, la consapevolezza che quel Gesù inchiodato sulla croce sarebbe diventato il pilastro delle infinite storie del paese di Peppone e Don Camillo, passando da due Papi, Pio XII e Giovanni XXIII.
DANIELE BENECCHI
Come vedete, indosso la veste talare, e la indosso per alcuni motivi. Primo, questo momento è pubblico e quindi è giusto che io sia in uniforme, anzi, in alta uniforme. È un po’ scomoda ma pone un segno di una presenza pubblica, rimanda a un fatto. C’è una persona che è donata ad un Altro completamente. Ed è un segno che dà fastidio. Questa talare dà molto fastidio. È una gran rottura di scatole perché, vedete, sulla talare ci sono due stellette. E per i tradizionalisti queste sono due stellette massoniche, perché è la stessa massonica che è stata adottata dal Regio Esercito, poi passata all’esercito italiano. Quindi, per i tradizionalisti è un grosso fastidio vedere le stellette sulla talare. Per quelli dall’altra parte, è un grosso fastidio perché la talare è tradizionalista, quindi do fastidio contemporaneamente alle due estremità. E io sono molto contento. I preti hanno dato fastidio sempre, sull’esempio di Gesù Cristo che ha sempre dato fastidio a tanta gente. Infatti, poi l’hanno crocefisso, e nel suo giro ciclistico nel ‘41 Guareschi li ha visti così perché a quell’epoca erano vestiti tutti così. Il ricordo della mia infanzia, ricordo estivo, era il mio parroco che d’estate con questa veste andava dal Duomo al campetto e l’unica cosa concessa al caldo estivo era che, invece del Tricorno, aveva un fazzoletto con quattro nodi sulla testa. Il campetto era una fetta di terra rimasta incolta e non costruita fra la ferrovia Bologna- Milano, la ferrovia Fidenza- Salso e la via Emilia, proprio dove la via Emilia si alzava per superare con il ponte il torrente Stirone. E qua, sospetto che Guareschi tante volte abbia storpiato questo nome con il famoso Stivone di tanti racconti. Come era arrivato Don Rino ad avere quel campetto? Ci aveva lasciato la sua eredità, quello che era un podere che aveva ereditato dai suoi genitori. Con l’aiuto poi di altre donazioni, soprattutto dei fratelli, aveva comprato e poi aveva messo due porte da calcio. Pian pianino ci aveva messo il campo da pallavolo, ecc., ma soprattutto ci aveva messo un gran obelisco con sopra Maria Ausiliatrice. Perché? Perché prima della guerra a Fidenza c’era l’oratorio dei Salesiani e lui era uno di quei preti maledetti dal mio papà perché, quando giocavano a calcio, infilavano il pallone sotto la gonna e non riuscivi a smarcarli o a fargli il tunnel. Quindi, lui il metodo educativo, anche se era un diocesano, l’aveva appreso da Don Bosco. E l’Ausiliatrice era la protettrice di Don Bosco, sua e di tutti noi bambini dell’oratorio. Era uno dei tanti, perché il clero emiliano-romagnolo degli anni Cinquanta era un clero così, che aveva chiaro il suo ruolo educativo. Questo perché incarnava le direttive del Papa. Il Papa era stato molto chiaro: il sacerdote è per vocazione e mandato divino il precipuo apostolo e indefesso promotore dell’educazione cristiana della gioventù. E Don Camillo per i giovani organizza di tutto: il gioco, il calcio, il cinema, gli scout, ecc. Il cristiano, quasi ad ogni passo importante della sua mortale carriera, trova al suo fianco il sacerdote in atto di comunicargli e di crescergli, con il potere ricevuto da Dio, questa Grazia che è la vita soprannaturale dell’anima. Appena nasce, il sacerdote lo rigenera con il battesimo ad una vita più nobile, più preziosa, la vita soprannaturale, e lo fa figlio di Dio e della chiesa di Gesù Cristo. I battesimi di Don Camillo sono eccezionali, «Vallo a fare battezzare in Russia» dice del figlio di Peppone che poi verrà battezzato lì come Camillo Lenin, ma c’è anche il battesimo dei figli dei dispersi italiani in Russia. Poi, prosegue il Papa, «per fortificarlo, per combattere generosamente le lotte spirituali, un sacerdote rivestito di speciale dignità lo fa soldato di Cristo nella cresima». Il sacramento della cresima viene dato dal vescovo, quindi di Don Camillo non abbiamo descrizioni ma si immagina che, vista la sua amicizia e il suo affetto, chiamasse il vescovo spesso e volentieri per la cresima. Appena è capace di discernere e apprezzare il “pane degli Angeli”, il sacerdote glielo porge, cibo vivo e vivificante disceso dal cielo. Anche qui non abbiamo episodi di prima comunione, ma c’è un bellissimo dialogo sul vestitino delle bambine della prima comunione in Vita con Gio’: «Se caduto» qui il Papa parla sempre dell’uomo, «il sacerdote lo rialza in nome di Dio e con lui lo riconcilia per mezzo della confessione». Le confessioni di Don Camillo sono formidabili. C’è una confessione a questo assassino che cerca di estorcere l’assoluzione puntando la pistola su Don Camillo. Don Camillo si rifiuta. Ma, come dice Guareschi, il miracolo non è che la pistola fa cilecca, il miracolo è che mentre l’assassino fugge nella notte, andando verso il Po a suicidarsi, Peppone si attacca alle campane e quel suono ferma quell’uomo e lo riporta alla vita. Così come è impressionante la confessione in un albergo di Mosca con un comunista che era esiliato lì, accusato ingiustamente di un omicidio dei primi anni dopo la guerra. Don Camillo confessa in qualsiasi luogo e nella confessione Guareschi mette una nota molto importante, e cioè la necessità e il valore della espiazione. La colpa deve essere espiata, non basta dire: «mi dispiace». Se noi censuriamo il concetto di espiazione, censuriamo uno degli aspetti fondamentali del sacrificio di Cristo e della Croce di Cristo, perché Cristo muore per espiare i nostri peccati e noi non saremmo mai in grado fino in fondo di pagare per il male che facciamo. Ecco che allora Cristo paga per noi, però ci chiede di espiare tanto è vero che lo chiede anche a persone innocenti, perché il dolore innocente diventa partecipazione all’espiazione e Guareschi lo sa e lo scrive tante volte. Chiusa parentesi. Ritorno al Papa che dice: «Se Dio chiama il cristiano a formarsi una famiglia, il sacerdote benedirà le nozze e il suo casto amore». Non parliamo di Gina Filotti e Mariolino della Bruciata e di tutti gli altri sposi. «Quando il cristiano è giunto alla soglia dell’eternità, ha bisogno di forza e di coraggio prima di presentarsi al tribunale del giudice divino: il sacerdote si china sulle membra doloranti dell’infermo e lo riconsacra e conforta con l’olio santo». L’olio santo di Don Camillo è miracoloso e qualche volta fa resuscitare i moribondi: il vecchio Spinelli viene portato in montagna e poi non muore. «Dopo avere così accompagnato il cristiano attraverso il pellegrinaggio terreno fino alle porte del cielo, il sacerdote ne accompagna il corpo alla sepoltura con i riti e le preci della speranza immortale». Anche qua, quanti funerali, da quello della signora Cristina a quello di Civil. «Il sacerdote segue l’anima sino oltre le soglie dell’eternità per aiutarla con i suffragi cristiani se mai abbisognasse di purificazione e di refrigerio». Don Camillo celebra tante messe per i defunti e i defunti più citati sono i morti del Triangolo alla fine della nostra guerra civile. I tanti assassinati e scomparsi, per i quali tante volte Don Camillo celebra la messa per i defunti. «Così, dalla culla alla tomba, anzi sino al cielo, il sacerdote è accanto ai suoi fedeli, giuda, conforta, maestro di salute, distributore di grazia e benedizioni». Qual è il Papa che descrive il sacerdote così, che accompagna il laico dal battesimo alla comunione, alla cresima? Chi mi sa dire chi è questo Papa? Gli offriamo una cena all’osteria. È Pio XI, 1931, papa Ratti, Lumbard. Per dire il tipo, è quello che ha scritto l’enciclica Mit brennender Sorge contro il nazismo, chissà perché non citano mai quella che l’anno dopo scrisse contro il comunismo bolscevico. Tra parentesi, lui era stato l’unico ambasciatore occidentale a non fuggire da Varsavia nel 1920, quando i bolscevichi stavano per conquistarla, e poi ci fu il miracolo della Vistola. Allora, Pio XII ammirava tanto questa enciclica ai sacerdoti cattolici, lui che non ne ha scritta mai neanche una sui preti. Papa Ratti non si era fermato ai sacramenti e sacrestia, dice: «Il sacerdote porta il più valido contributo alla soluzione o almeno alla mitigazione dei conflitti sociali, predicando la fratellanza cristiana a tutti, ricordando ai molti i doveri della giustizia e della carità evangelica, pacificando gli animi inaspriti dal disagio morale ed economico, additando ai ricchi e ai poveri gli unici beni a cui tutti possono e devono aspirare». Il Papa sa. «I nemici della Chiesa ben sanno l’importanza vitale del sacerdozio e contro ciò appunto dirigono prima di tutto i loro colpi, per toglierlo di mezzo e sgombrare la via alla sempre desiderata e mai ottenuta, distruzione della Chiesa stessa». Girare in talare voleva dire anche esporsi ad attacchi, insulti, prese in giro, violenze. «Ogni tanto qualcuno mi diceva: “Quando vedi un punto nero all’orizzonte spara: o è un fascista o un prete”. Rispondevo: “Quando vedi all’orizzonte un punto rosso spara: o è un comunista o è un cardinale”». Allora, dicevo, anche a Giussani capitò qualche cosa del genere. Lo descrive in Perché la Chiesa: «Mi trovavo vicino a casa mia, stavo attraversando la strada in compagnia di un giovane operaio con il quale avevo fatto amicizia in occasione della sua conversione. Stavamo dunque andando a prendere un caffè al bar all’angolo, quando un gruppo di ragazzi che stazionava sul marciapiede ha cominciato a lanciarmi frasi infamanti prendendo spunto dal mio abito talare. Non ho fatto a tempo a rendermi conto della situazione che il mio amico aveva atterrato con un manrovescio uno del gruppo, fugando così tutti gli altri. L’insorgenza di una reazione nel mio amico era giustissima, ma la modalità con cui l’aveva applicata era rimasta ancora rozza e non adeguata». Don Camillo non sarebbe d’accordo, ma questo è avvenuto in Lombardia, a nord del Po. Poi Giussani ti stendeva con uno sguardo, ti distruggeva con le parole, ma era un po’ piccolo, far volare le pacche non era tanto nelle sue possibilità. Allora, dicevo, il Papa quindi sapeva che far girare i preti vestiti in talare voleva dire farli girare come agenti provocatori del Vaticano. Però diceva: «In mezzo all’aberrazione dell’umano pensiero, ebbro di una falsa libertà da ogni legge e da ogni freno, in mezzo alla corruzione spaventevole dell’umana malizia, si erge faro luminoso la Chiesa. La parola del sacerdote scende nelle anime e reca loro luce e conforto. La parola del sacerdote, anche in mezzo al turbine delle passioni si eleva serena e annuncia impavida la verità che insegna il bene. Quella verità che rischiara e risolve i più gravi problemi della vita umana, quel bene che nessuna sventura, nemmeno la morte, può togliere, che la morte anzi, assicura, rende immortale». Non era mai disgiunta, questa consapevolezza di lottare contro le ideologie, dalla carità. «In mezzo al corso di tanti egoismi, nel divampare di tanti odi, fra tanti cupi desideri di vendetta, nulla di più opportuno e di più efficace che proclamare alto il comandamento nuovo di Gesù, il precetto della carità, la quale si estende a tutti, non conosce barriere, né confini di nazioni o di popoli, non eccettua neppure il nemico». Parla nel 1931! In un’Europa scossa dai fascismi, dal comunismo, dalle lotte alla vigilia della guerra, lui dice «La carità non taglia fuori nessuno, nemmeno il nemico. È la risposta adeguata a tutto». Il Papa poi era uno pratico e diceva: «Sì, sì, però guardate, la pietà o si fonda su una fede e una fede che ha chiaro che cosa è stato trasmesso, annunciato a ciascuno di noi dalla Chiesa, o altrimenti diventa pietismo». Il Papa non voleva il pietismo, voleva invece l’affetto alla Madonna. Don Camillo, lo vediamo in tanti racconti, è innamorato della Madonna. Ogni tanto, come appunto ne Il battesimo, si rivolge alla Signora e dice: «Ci puoi mettere una buona parola?». «Vedrò, perché è competenza di mio Figlio». Per fortuna che a Cana aveva detto qualcosa! Un’ultima cosa. Qual era il giudizio di Pio XI sui suoi sacerdoti? «Sia lode a Dio che appunto questa fiamma di zelo apostolico è uno dei più luminosi raggi che brillano in fronte al sacerdozio cattolico e noi, con cuore pieno di paterna consolazione, vediamo i nostri fratelli e i diletti figli nostri, i vescovi e i sacerdoti, come scelta milizia, sempre pronti a correre all’appello del Capo su tutti i fronti dell’immenso campo dove si combattono le pacifiche ma più aspre battaglie della verità contro l’errore, della luce contro le tenebre, del regno di Dio contro il regno di Satana». E i sacerdoti, sostenuti ed incoraggiati e valorizzati da Papi così, correvano ovunque ci fosse bisogno di loro. Su che cosa correvano? Sulle biciclette da donna, con tanto di reticella perché la veste non si infilasse nei raggi.
MUSICA
EGIDIO BANDINI
Questa era la polka, per chi conosce il dialetto emiliano, Vijon in bicicletta, ovvero Luigione in bicicletta di Vijon in bicicletta di Leonildo Marcheselli. Traduco per chi non è di queste parti: «Ricorda la nostalgia del passato, la suggestione del pensare a chi ci ha insegnato a vivere». Come per Guareschi la signora maestra, anche per Tonino Guerra il riferimento era e resta la mamma: «Se ho potuto studiare lo devo a mia mamma che firma con una croce. Se conosco tutte le città che stanno in capo al mondo è stato per mia madre che non ha mai viaggiato. Ieri l’ho portata in un caffè a fare due passi perché quasi non ci vede più niente. “Sedetevi qua. Cosa volete?”. “Un bigné”». Riconoscenza ma anche tanta nostalgia, soprattutto il ricordo. Quelle due parole che ci ha fatto imparare Federico Fellini, grazie alla sceneggiatura di Tonino Guerra, in dialetto romagnolo diventano una sola: mi ricordo, amarcord.
MUSICA
EGIDIO BANDINI
E in poche frasi, da grande poeta qual era, l’amarcord di Tonino Guerra, potente come la sceneggiatura del film felliniano: «Lo so, lo so, lo so che un uomo a cinquant’anni ha sempre le mani pulite. E io me le lavo due o tre volte al giorno. Ma è quando mi vedo le mani sporche che mi ricordo di quando ero ragazzo». Ricordi come quelli di Guareschi per gli anni del primo Novecento quando in paese, per la sagra, arrivava il festival.
ENRICO BERUSCHI
«Nei paesi della Bassa, il giorno di festa arriva il festival, che da noi nella Bassa, però con l’accento spostato sull’ultima sillaba e si dice festivàl. Conosciamo il grande baraccone che al nostro paese in festa drizza le sue tende nei pressi delle osterie. Di fuori, con quel suo frontale pieno di arabeschi e di figure strane, fa pensare al circo equestre. Di dentro l’impiantito di legno, le alte antenne, le corde, i canapi e l’immenso telone danno l’idea della tolda di un veliero. Quando poi il festivàl è zeppo di folla che ondeggia nel ballo, e il vento leggero della notte estiva gonfia il telone e fa fremere le antenne, l’illusione più viva è il palco dell’orchestra che emerge sopra la ciurma danzante, par proprio un ponte di comando. In verità, il festivàl è un po’ come una nave. Quando viene la primavera e comincia a soffiare leggero lo zeffiro, comincia la sua crociera e naviga il mare calmo dell’immensa distesa verdeggiante dei campi che getta l’ancora e ammaina le vele a tutti i porti e a tutte le sagre. La sera, quando nel festivàl si accendevano le fiammelle azzurrine dell’acetilene e nel buio il grande telone illuminato dal di sotto pareva sospeso nel vuoto, i cantori si producevano nell’invito. Il concerto si sistemava davanti alle osterie e qui eseguiva un valzer che perlopiù era quello dell’Usignolo. Un valzer che ad un tratto dava via libera al clarinetto e lasciava che si abbandonasse ad una di quelle sarabande di note acute che fanno tenere il fiato sospeso. Ma il clarinetto non stava lì giù davanti all’osteria insieme agli altri, era dislocato lontano, non si sapeva dove, ed ecco che quando gli ottoni e il contrabbasso avevano portato a termine la loro azione massiccia e quando, rimasta per un istante sola, la cornetta lanciava un richiamo acuto a qualcuno nascosto nella notte, ecco che dall’alto del campanile il clarinetto rispondeva. I suoi trilli dapprima venivan giù turbinando come una immensa formazione di aerei in picchiata, ma arrivata a mezz’aria, la matassa sonora si dipanava e ogni nota si metteva dietro l’altra e tutte scivolavano velocissime nel cielo sfiorando i comignoli delle case, poi inerpicandosi, poi scendendo e volteggiando, sottile e luminoso filo d’argento che, disegnato un complicato ricamo nel velluto nero della notte, si spegneva ad un tratto, ma rimaneva il solco nell’aria».
MUSICA
EGIDIO BANDINI
Echi di musica ed echi di parole. Don Camillo che predica e che magari pesta qualche pugno sulla zucca della gente, preferibilmente di Peppone e compagnia, ma è il sacerdote che rimane il centro spirituale di ascolto del paese, anche quando è lontano, su un monte dove è stato confinato proprio per le sue intemperanze. Al paese di Mondo Piccolo nessuno nasce, nessuno muore, nessuno più si sposa e la gente, la piazza, l’incontro inevitabile che richiama Don Camillo a casa, in quel paese che in questo caso rispecchia quello de La luna e i falò di Cesare Pavese: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».
DANIELE BENECCHI
La nostalgia. Mondo Piccolo nasce in Guareschi da una nostalgia particolare, la nostalgia del prigioniero di guerra. Il militare di leva soffre di nostalgia, specialmente in alcuni momenti. A me fa pensare ai cappellani dell’ultima guerra, a cui non sono degno neanche di slacciare i lacci delle scarpe. Però, avere in comune con loro una esperienza è qualcosa di molto grande. Dicembre 2001. Golfo Persico. Siamo lontani dall’Italia ormai da tre mesi e mezzo, l’unico contatto con le famiglie è ogni quindici giorni quando si arriva in porto, si fa la coda alla cabina telefonica e si chiama a casa. Il giorno di Natale abbiamo scortato navi americane attraverso il Golfo di Hormuz, con l’incognita di mine, battelli esplosivi. Alla vigilia della seconda guerra dell’Iraq, le navi portavano rifornimenti che sarebbero serviti poi per l’invasione. Il giorno di Natale abbiamo cominciato scorte alle otto di mattina e tutti sono al posto di combattimento. Abbiamo finito alle undici di notte, ininterrottamente. A mezzanotte abbiamo celebrato la messa di Natale nell’hangar, tranne quelli che erano ai posti di navigazione c’era tutto l’equipaggio, perché Cristo arrivava lì dove nessuno voleva esserci; nessuno di loro, in quel momento lì, voleva essere lì. Ognuno di loro avrebbe voluto essere a casa, forse l’unica eccezione ero io. Ma Cristo è voluto essere lì, con loro e ha dato loro la possibilità di vivere quel gesto sentendosi a casa, sentendo che vivevano lo stesso identico gesto che le loro famiglie in quel momento vivevano nella chiesa del loro paese. Capite bene che queste sono esperienze che ti segnano per la vita. Guareschi ha fatto l’esperienza del Natale prigioniero di guerra e quando nei suoi racconti parla dei comunisti che cercano di snatalizzare il Natale, di fare un Natale senza Cristo, vederlo come un giorno normale, poi Peppone, nello squallore di una casa senza luce, senza gioia e senza niente, ripensa ai suoi natali passati: «All’improvviso si ricordò del Natale del ‘44, quello lo aveva passato in montagna, dentro una tana da bestie, con il pericolo di essere ammazzato da raffiche di mitra da un momento all’altro ed era stato un Natale tremendo, però meno angoscioso di questo perché lo aveva passato pensando disperatamente ai dolci e sereni Natali di pace e quel pensiero gli aveva scaldato il cuore». Quel Natale del ‘44, Guareschi lo aveva preparato e vissuto nel lager tedesco. In quella occasione, aveva creato per sé e per tutti gli internati una rappresentazione con tanto di accompagnamento musicale che è uno dei suoi capolavori, La favola di Natale. Da un altro suo capolavoro, Diario clandestino, che se vivessimo in un mondo vero e giusto avrebbe preso il Nobel per la letteratura (provate a confrontare Diario clandestino di Guareschi e Una giornata di Ivan Denisovič di Solženicyn) emerge che la nostalgia di casa era la compagna di tutti i prigionieri, ma anche che i ricordi, l’attaccamento a famiglie e paesi, erano la forza da cui i prigionieri potevano attingere per resistere alle privazioni e ai rigori della prigionia, alimentando la speranza del ritorno. Giovannino si aggrappa ai suoi baffi, ai suoi ricordi, alla nostalgia di tutto il bello che riconosce esserci stato nella sua vita: i tramonti della Bassa, della sua gioventù, la sua famiglia, la casa, gli amici, la fede. Nel calvario del lager, di fronte a tutta quella disperazione, a quella disumanità, Giovannino ritroverà forse la sua fede, prima di tutto attraverso Maria. C’è nel Diario clandestino una bellissima descrizione del santuario di Jasna Gora a Czestochowa. Il suo primo lager fu una caserma, un ex caserma dell’esercito polacco a Czestochowa, erano tutti ufficiali e i tedeschi li portarono a visitare il santuario. Lui descrive bene questa visita e lo dicono i suoi biografi. Lui esce dal santuario e comincia a scandire: «Non muoio neanche se mi ammazzano. Non muoio neanche se mi ammazzano». E scusate, io più divento vecchio, più mi rimbambisco, mi commuovo, tutti i prigionieri cominciano a scandire insieme la stessa frase. Diventerà il loro slogan nei due anni seguenti: «Non muoio neanche se mi ammazzano». Il secondo aiuto viene dai cappellani militari. Per questo Guareschi fa di Don Camillo un cappellano militare. Prima guerra mondiale, artiglieria pesante campale (Guareschi era un artigliere), in uno dei suoi racconti lo decora di medaglie di bronzo, uno dei tanti: «Durante la prima guerra mondiale, solo per lama di artiglieria, qua in questa regione furono decorati Don Benini di Rimini, medaglia di bronzo, Paoletti (Imola), croce, Tullio Santoro (Bologna), Emilio Rossi (Piacenza)». Questi sono solo quelli dell’artiglieria, poi ci sono gli altri. Non vi leggo le loro citazioni però vi faccio il nome di uno che qua in Romagna non può essere dimenticato, Don Giovanni Minzoni. Don Giovanni esce dalla guerra con l’assoluta e ferma decisione di educare i giovani, e nel ‘22 apre ad Argenta, dove è parroco, il gruppo scout. Viene contestato dai fascisti perché c’erano già i Balilla. Viene presentata l’esperienza scout cattolica e quando il relatore, che è l’assistente degli scout di Bologna, dice: «Vedrete i vostri giovani uscire sulla piazza di Argenta con il loro bel giglio sul cuore», il capo dei fascisti risponde «non sarà mai». E don Minzoni dice: «Finché sono vivo sarà». E i fascisti lo devono ammazzare. Perché, come facevano a lasciare vivo uno di cui vi leggerò la motivazione della medaglia d’argento al valore militare? Tenete conto che lui durante la prima guerra mondiale ha assistito almeno un centinaio di condannati a morte, ci sono i suoi diari con la descrizione delle notti che lui passava con questi condannati. La medaglia l’ha meritata in questo modo: «Instancabile nella sua missione pietosa di confortare ed aiutare i morenti, durante il combattimento, impugnato il fucile e messosi alla testa di un gruppo di arditi, si lanciava all’assalto contro un nucleo nemico, faceva numerosi prigionieri e liberava due nostri militari di altro corpo precedentemente catturati. Fronte del Piave, 15 giugno 1918». Un prete così, o lo ammazzi o non riesci a fermarlo. Capite che Guareschi mette in Don Camillo quello che lui aveva visto in tanti cappellani militari di allora? A me viene in mente un mio amico carissimo, un cappellano a cui diedi il cambio in parrocchia, lo sostituii quando lasciò a ottant’anni la parrocchia. Cappellano dei paracadutisti durante la seconda guerra mondiale, prima in Jugoslavia poi con il Corpo nazionale di Liberazione si fece tutta la campagna di liberazione dell’Italia. La medaglia gliela diedero perché di notte andava in terra di nessuno, raccoglieva i cadaveri dei nostri e li riportava per seppellirli. Una marea di cappellani hanno preso medaglie per questo. Se avete visto qualche film di guerra, sapete cosa vuol dire. Mio nonno ha fatto la prima guerra mondiale, mia nonna diceva che aveva fatto il suo dovere finché una notte sentì un amico lamentarsi nella terra di nessuno, strisciò fuori, vide che spuntavano le gambe dalla buca di bomba dov’era, lo prese per i piedi per trascinarlo e gli rimasero in mano le gambe. Dopo questo, agli assalti faceva tre metri e poi si buttava per terra. Questo dà un’immagine di cosa voleva dire la prima guerra mondiale e andar fuori alla notte a recuperare. Questo prete, nel ‘48, cosa faceva? Visto che quegli altri si preparavano alla seconda ondata, leggetevi il racconto di Guareschi sulle elezioni del ‘48 e su come erano pronti quegli altri. Don Luigi insegnava ai ragazzi dell’Azione Cattolica di Busseto come si smonta, si pulisce, si rimonta e si usa il moschetto automatico Beretta, così l’Azione Cattolica sarebbe stata pronta alla seconda ondata della rivoluzione proletaria. Nonostante la registrazione internazionale permettesse di non finire internati, tanti preti hanno scelto di essere internati con i loro: io ho assistito alla testimonianza di uno di questi, era Don Enelio Franzoni di Bologna, che era stato catturato in Russia. Nel lager dice: «Arriviamo dopo giorni di cammino, nel freddo, arriviamo disperati, urlando, in questo grande, enorme baraccone dove veniamo stipati. Immaginate le urla, la disperazione, l’incomprensibilità delle guardie. Uno mi viene vicino e mi dice: “Don, dobbiamo fare qualcosa”. Ed io: “E cosa facciamo?”. Lui: “Diciamo un rosario”. Abbiamo tirato fuori il rosario ed abbiamo cominciato a dirlo, io e lui, poi piano piano si sono aggregati gli altri e poi in tutta la baracca, in silenzio, dicevamo tutti insieme il rosario. Nei tre anni di prigionia che seguirono quello era l’unico momento di pace della giornata, dove noi alla sera, tutti quanti, dicevamo il rosario». Tornò cinque anni dopo che la guerra era finita perché rifiutava di fare l’autocritica che i comunisti imponevano. Un altro cappellano militare era in Germania, ed è stato quello di cui forse Guareschi, se non lo ha conosciuto, ha sentito parlare. Vi faccio leggere alcune pagine su questo uomo. Io non riesco a leggerle perché mi metto a piangere
ENRICO BERUSCHI
«Il 10 febbraio 1944, al centro di cinque campi di lavoro, al centro della disumanità più spietata, della miseria più impressionante. Aveva chiesto lui questo trasferimento per assistere spiritualmente i minatori, e non potendo scendere nelle miniere come cappellano chiese di scendervi come lavoratore. Si è poi trovata una sua poesia scritta là.
“Palombaro scavante alla miniera, pistola in mano contro il blocco attrito che infrango aspiro asporto a tutta possa, carbone io pure, negro e ischeletrito, scavato fin nell’anima e nell’ossa, gettato in un carrello che si muove nell’ingranaggio della gran miniera sospinto al rogo, fuori è sole o piove? L’ignoro, io parto e torno sol di sera, già m’arde nei polmoni il focolare”. Si impose di sorridere, come sempre, continuamente, si interdisse ogni espressione depressiva, ogni atteggiamento che denotasse demoralizzazione, ritornando alla sera dalle miniere, stanco e col capo dolorante, e con lo stomaco tormentato dai morsi della fame si adagiava sfinito sulla branda in attesa che giungesse il turno di avvicinarsi e ricevere quella disgustosa brodaglia di rape per cena. Ma quando ritornava con la gavetta spesso non la teneva tutta per sé, la divideva con quelli che sapeva più affamati, più arrabbiati e impazienti. Un giorno finse di dormire per lasciare che un povero diavolo gli rubasse la razione di pane senza che si accorgesse di esser stato scoperto. Gli infermi erano i suoi prediletti, i giovani gettati su di un letto dal digiuno, dagli stenti, bruciati nei polmoni, sicuri di dover morire lontano dalla patria, dalle persone amate. Molti ebbero da padre Lega la forza di accettare sorridendo il loro duro sacrificio, molti ebbero da lui la serenità che li aiutò a guarire, l’aiuto materiale per riacquistare la salute, e a lui sono debitori se poterono rivedere l’Italia e ricostruirsi un’esistenza. C’era da intercedere presso il comandante tedesco perché mitigasse un provvedimento disciplinare a carico di qualche prigioniero? Il padre Lega subito si presentava. Fu umiliato, preso a calci dai tedeschi, il cappellano sopportava tutto pur di ottenere qualcosa per i suoi ragazzi. A Lemmer c’erano in tutto 30.000 prigionieri russi, francesi, belgi, olandesi, italiani e greci, 180 italiani morirono a Lemmer, quasi tutti di tubercolosi, ma nessuno si spense senza i sacramenti. Padre Lega visitava i malati due volte al giorno, pregava insieme a loro, una volta rimase inginocchiato per tre ore al giaciglio di un morente».
DANIELE BENECCHI
Non dico che tutti i cappellani militari della seconda guerra mondiale fossero così, però accettarono di andare e non tornarono dai loro campi di prigionia finché non furono sicuri che fossero tornati tutti gli italiani che erano là. Guareschi quindi fa di Don Camillo un cappellano militare, e come la Bassa lo aveva seguito in Polonia, così la Polonia lo sostenne nella sua vita del dopoguerra. Quando si presentò all’ingresso del carcere, unico giornalista italiano del dopoguerra a finire in galera per un’accusa di diffamazione, si presentò con le sue poche cose nel tascapane della sua prigionia da internato militare, speranzoso che nel carcere di padre Lino la Madonna lo avrebbe sostenuto come aveva fatto in Polonia, senza contare che dalle finestrelle del carcere entravano l’aria, i rumori e le musiche di Parma».
MUSICA
EGIDIO BANDINI
La Bassa è senz’altro la patria del festival e dei concerti famosi che non hanno mai avuto altra letteratura che la prosa stereotipata e scipita dei vari inviati speciali che vedono le cose come fa loro comodo, ma che sono pieni di tutta una poesia dolce e profonda scritta nei ricordi dei vecchi campagnoli. Attorno al festival, si raccoglievano popolazioni intere di lontanissimi paesi, venute a piedi lungo le monotone e piatte strade della Bassa, non per ballare ma per sentir suonare. E a mezzanotte il concerto usciva dal baraccone, si portava ai piedi del campanile su cui saliva il clarinetto, e mentre la folla taceva dall’alto della torre il clarinetto lanciava verso il cielo il primo trillo del valzer famoso e dolcissimo, La mezzanotte.
MUSICA
EGIDIO BANDINI
Una musica struggente come il canto del più grande poeta della nostra terra, Giovanni Pascoli, capace di commuovere con una composizione che è parole fatte musica, La cavalla storna, una poesia che ritroviamo anche in un racconto di Guareschi. «Don Camillo si era appena messo a tavola per cenare quando udì un rumore, e siccome il rumore non finiva andò a dare un’occhiata per vedere cosa stesse succedendo davanti alla canonica. Si trovò davanti al colossale cavallo Menelik che scalpitava fermo davanti alla porta, udì il gemito venire dall’alto del biroccio e fattosi scaletta della ruota salì. Si trovò con la faccia a pochi centimetri dalla faccia dell’uomo sdraiato sul colmo del carico di sabbia. “Giaron” esclamò Don Camillo, “sono io, Don Camillo!”. “Che Dio mi perdoni” sussurrò con un filo tenue di voce il vecchio Giaron. Poi non disse più niente, non gemette più, ma oramai Dio l’aveva perdonato. “Menelik” sussurrò Don Camillo accarezzando il muso del cavallo “non può averti guidato lui fino a qui, le redini non le teneva più, gli sono scappate di mano fin da quando si è sentito male, e questo dev’essere successo tanto tempo fa, perché si vede che le redini hanno strusciato a lungo per terra e ti sono finite sotto gli zoccoli. Menelik, come hai fatto ad arrivare fin qui?”. Menelik non rispose, perché i cavalli non possono parlare, e allora Don Camillo si accorse della cosa pazza che stava facendo. “Gesù” disse “perdonatemi, non so cosa mi sia successo, mi è venuta in mente la poesia della cavalla storna, quella che risponde col nitrito”. “Don Camillo, non confondere la fede con la poesia”. Menelik era nero come la notte e immobile come fosse di marmo, a un tratto nitrì, e più che un nitrito pareva un singhiozzo. Ma era poesia, solo poesia, e Don Camillo scoppiò a piangere come si era messo a piangere quando, ragazzo, aveva letto l’ultimo verso della Cavalla storna. Poesia, solo poesia».
MUSICA
EGIDIO BANDINI
Poesia, solo poesia. Eccola, l’Emilia Romagna, una poesia che è un territorio e un territorio che è poesia, una terra speciale che, diceva il maestro Giuseppe Verdi, «simile a se abitator produce». Il mondo piccolo, dove bisogna rendersi conto che in quella fettaccia di terra tra il fiume e il monte possono succedere cose che da altre parti non succedono, cose che non stonano mai con il paesaggio, e là tira un’aria speciale che va bene per i vivi e per i morti, e là hanno un’anima anche i cani. Allora si capisce meglio Don Camillo, Peppone e tutta l’altra mercanzia, e non ci si stupisce che il Cristo parli e che due nemici si trovino alla fine d’accordo nelle cose essenziali. Perché è l’ampio, eterno respiro del fiume che pulisce l’aria, la stessa aria della poesia di Tonino Guerra: «L’aria è quella cosa leggera che sta intorno alla tua testa, e diventa più chiara quando ridi». L’aria dell’Emilia Romagna, unica come la sua gente.
MUSICA
EGIDIO BANDINI
Grazie al Maestro Corrado Medioli e grazie al Maestro Eugenio Martani. Prima di darvi la buonanotte e invitarvi a venire nel Mondo Piccolo, un avviso. Ciò che rende il Meeting un evento del tutto unico è il fatto che tutto sia completamente gratuito. Le mostre, gli incontri, lo spazio dedicato allo sport, il villaggio ragazzi, i parcheggi ed ogni altra cosa, eccetto la ristorazione, sono offerti a chi viene la settimana del Meeting e a chi lo segue da casa in ogni parte del mondo. Sapete cosa rende possibile questa totale gratuità? Il fatto che il Meeting sia frutto del contributo di ciascuno di noi, dai volontari ai donatori, dai relatori ai curatori delle mostre, agli artisti, fino ai visitatori che lo vivono. Ognuno regala al Meeting qualcosa di sé, il proprio tempo, le proprie energie, il proprio danaro, i propri talenti. Anche quest’anno è possibile contribuire alla costruzione del Meeting attraverso donazioni: a questo scopo lungo tutta la fiera troverete delle postazioni “Dona ora”, caratterizzate dal cuore rosso. Le donazioni dovranno avvenire unicamente ai desk dedicati, dove troverete i volontari che indossano la maglietta color magenta. Quindi, donate ora. Grazie e buona notte.
MUSICA
Trascrizione non rivista dai relatori