GUARDARE LA REALTÀ, ACCOGLIERE IL SENSO

Vincent Carraud, Filosofo e storico della filosofia francese, Professore Ordinario di storia della filosofia moderna, Università Paris IV-Sorbonne, Parigi; Costantino Esposito, Professore Ordinario di Storia della Filosofia, Università di Bari Aldo Moro. Modera Alessandra Stoppa, Direttrice di Tracce.

La ricerca del senso, la domanda sul perché siamo al mondo costituisce la natura originale del nostro io. Ed è una dinamica che non va facilmente ridotta a un’idea soggettiva, o a un’immagine mentale: essa è il “fatto” più oggettivo del nostro essere, un dato reale in noi, ma che non facciano noi, anzi che noi dobbiamo seguire lealmente per realizzare la nostra vita. Questa è la prima “amicizia” con l’essere che si rivela nella nostra esistenza: siamo fatti per trovare soddisfazione alle nostre domande e al nostro desiderio. Ma grazie a questo possiamo capire l’amicizia che ci lega al cuore di ogni altro essere umano. «Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale», come scriveva Blaise Pascal, il grande filosofo di cui quest’anno ricorre il IV centenario della nascita, e che ha in Vincent Carraud uno dei suoi più importanti interpreti contemporanei.

Con il sostegno di Tracce.

GUARDARE LA REALTÀ, ACCOGLIERE IL SENSO

GUARDARE LA REALTÀ, ACCOGLIERE IL SENSO

 

Lunedì, 21 agosto 2023 ore: 19.00

Auditorium D3

 

Partecipa

Vincent Carraud, Filosofo e storico della filosofia francese, Professore Ordinario di storia della filosofia moderna, Università Paris IV-Sorbonne, Parigi; Costantino Esposito, Professore Ordinario di Storia della Filosofia, Università di Bari Aldo Moro.

 

Modera

Alessandra Stoppa, Direttrice di Tracce.

 

Stoppa. Buonasera a tutti, benvenuti a questo nostro incontro, iniziamo questo dialogo dal titolo: Guardare la realtà, riconoscere il senso. Diamo il benvenuto ai nostri due ospiti, innanzitutto al professor Vincent Carraud, professore ordinario di storia della filosofia alla Sorbona di Parigi, per la prima volta qui al Meeting, grazie di essere qui e poi al professor Costantino Esposito, professore ordinario di storia della filosofia all’università di Bari. Quest’anno ricorrono i 400 anni dalla nascita di Pascal, di cui il professor Carraud è uno dei principali interpreti contemporanei. Di recente papa Francesco ha scritto una lettera apostolica dedicata a Pascal, in cui lo definisce un infaticabile ricercatore del vero che come tale rimane sempre inquieto. Credo che la questione del senso sia la sfida più importante della nostra vita, della vita di ognuno, oggi più che mai, quando sembra che la ricerca del vero sia esaurita se non considerata impossibile. Per alcuni è l’esito drammatico della riduzione della modernità, per altri un guadagno come l’emancipazione dal peso della verità. Stasera vogliamo parlare con voi della verità proprio come senso ultimo di sé e delle cose, attraverso la vostra esperienza. Quindi inizio subito chiedendo al professor Carraud: che cos’‘è questa ricerca per lei? Che cosa c’entra quella che potremmo definire la sua “amicizia con Pascal”.

 

Carraud. Innanzitutto per scuso per il mio parlare in francese. Il mio rapporto con Pascal è legato alla filosofia del XVII secolo e in particolare è dovuto al rapporto tra Pascal e Cartesio. Hidegger nel XX secolo afferma che Pascal ha salvato il cristianesimo nel Cartesianesimo e, inversamente, dice anche che ha salvato, per così dire, il cartesianesimo nel cristianesimo. E questa questione iniziale che mi ha interessato moltissimo e don Giussani, ad esempio, parlando del cuore, riprende degli elementi di Pascal, anche se don Giussani non cita molto Pascal. Credo che abbia però un concetto di cuore molto simile di quello utilizzato da Pascal. Se posso vorrei soffermarmi sul concetto di cuore.

Il concetto di cuore in don Giussani, come in Pascal, è un concetto che evoca molti aspetti. Vale a dire che è comune sia la conoscenza dei primi, dei principi primari appunto: Pascal dice che il cuore è l’elemento che percepisce il tempo e lo spazio e dice anche che Dio è sensibile al cuore. Quindi fino a Cartesio il cuore era l’organo delle passioni e appunto nelle passioni dell’anima Cartesio dice che la sede delle passioni non è nel cuore, da Aristotele a Cartesio si pensa che il cuore sia la sede delle passioni e con Cartesio invece si scopre che il cuore non è la sede delle passioni, è semplicemente un muscolo e quindi con Cartesio si apre un periodo in cui appunto il cuore viene utilizzato in modo metaforico, Pascal, come appunto don Giussani, lo utilizza in modo metaforico e questo è un punto molto importante perché per noi il cuore è bene, per Pascal determina una sensibilità che definirei non sensibile, non sentimentale. Quando si dice che Dio è sensibile al cuore, non è in senso sentimentale, ma è proprio dovuta al cuore stesso, cioè: il concetto di Pascal è il concetto di certezza che si riconduce a questa sensibilità. Quando Pascal afferma, appunto, io so in chi ho creduto, ho questa certezza, che è la certezza del cuore, in cui utilizza un concetto cartesiano, quello di certezza, per definire proprio il rapporto che ha con la propria fede, quindi c’è una certezza della fede in Pascal che è irriducibile, irriducibile a qualsiasi forma di sentimentalismo.

 

Stoppa. Grazie. Mi collego per questo, perché al professor Esposito ha spesso parlato di una nuova forma di nichilismo, se possiamo dire così, che non è una demolizione di antichi valori, quanto piuttosto un’inedita mancanza di senso, quindi di una crisi del senso che ne esprima al contempo una esigenza e che può essere espresso con un disagio esistenziale, ma che appunto esprime il grido, l’attesa di compimento. Ci può aiutare a comprendere meglio questa crisi del senso, anche rispetto alla certezza del cuore di cui ci ha appena parlato Carraud.

 

Esposito. Dunque io partirei innanzitutto da quello che il mio collega, ma soprattutto il mio grande amico Carraud ha detto rispetto al cuore. Perché io credo che anche nel nichilismo, anche quando una persona avverte, anche se non studia il fenomeno, ma lo avverte, lo patisce nella propria vita, che è come c’è un’ombra di insensatezza nelle cose della vita: ci vuole un cuore per accorgersi che non c’è il senso. Quindi anche di fronte alla crisi dei valori, delle evidenze, dei significati, degli ideali, non è mai tutto in crisi, perché ci vuole qualcuno che si accorga della crisi, ci vuole già un cuore. Per questo mi ha sempre interessato il fatto che il nichilismo non è semplicemente il fatto che siano persi dei valori, ma che si riconosca la crisi del senso. Ma che significhi, cosa significa la crisi del senso? Noi normalmente pensiamo questi due termini, il senso, il significato, il vero, il motivo ultimo per cui uno, anche senza teorizzarlo, è al mondo, il motivo ultimo che gli fa guardare i suoi figli, gli fa tentare di non morire al lavoro, di ricominciare ogni mattina: quindi un senso non semplicemente come una dottrina, ma come una motivazione esistenziale. E la crisi invece è quando sembra svanire, sembra illanguidire, non avere più la certezza. Ma a ben vedere, vi è una intima compenetrazione tra il senso e la crisi, anzi, mi verrebbe quasi da dire che la crisi è la stoffa del senso, perché il senso non è mai una ideologia. Naturalmente può essere una ideologia, non è mai una convinzione astratta, ma vista dall’interno dell’esperienza, il senso si produce sempre come una crisi. Perché, proviamo a pensarci: un animale non ha il problema del senso, una cosa, una pietra, non ha il problema del senso. Il senso è, appunto un problema, che nasce perché qualcuno chiede: perché? Perché è successo questo? Perché ti ho incontrato? Perché questo avvenimento doloroso? Perché io sono al mondo? Ed io che sono? Diceva il pastore errante dell’Asia di Leopardi. Però bisogna poi sempre dire sempre anche la seconda parte del verso: ed io che sono, così meco ragiono. La domanda è l’apertura di uno spazio di crisi e quindi, ogni qualvolta noi riconosciamo il senso di noi e del mondo, si avvia sempre un processo critico, cioè un processo che, per così dire, costituisce un contro movimento rispetto al meccanismo delle cose. Per questo ai miei occhi è assai interessante che la crisi come perdita del senso e la crisi come la natura, il motore, la dinamica del senso, possano essere considerati insieme l’uno con l’altro e questo ci sta a dire dunque che la perdita dell’evidenza del senso è un formidabile invito e quindi questo è a mio modo di vedere il carattere starei per dire affascinante di ogni crisi e sembrerebbe un po’ strano dirlo, perché ciascuno si eviterebbe volentieri le crisi a qualsiasi livello: finanziario, economico, edilizio, personale, psicologico e, tuttavia, è proprio la crisi che dà il ritmo al nostro esistere. E soprattutto ci spiega che il senso ha bisogno per mostrarsi di un essere libero. Cioè noi in genere pensiamo al senso delle cose come un destino necessario e a volte chiamiamo addirittura questo destino Dio e intendiamo per dio come un ordine un po’ spinoziano, cioè un ordina necessario rispetto a cui noi dobbiamo assentire o al limite dobbiamo ribellarci. Ma è come un ordine impenetrabile, una necessità e invece fenomenologicamente parlando il senso chiede sempre di essere scoperto, ma anche per il fedele, per colui che crede in Dio, per cui Dio è una certezza, ma anche la certezza chiede di essere riguadagnata sempre attraverso una dinamica critica. Insomma il senso chiede la libertà, chiede uno che lo riconosca. Non esiste senza questo riconoscimento: intendiamoci: Non sto dicendo che il senso delle cose o la verità ultima del mondo dipenda dalla nostra libertà, è più grande di noi, è chiaro. E’, per usare un termine un po’ambiguo, è oggettivo e tuttavia questa oggettività ogni qualvolta accade deve essere riconosciuta, un senso che non sia riconosciuto è come se non esistesse, non dipende dal nostro riconoscimento, sia chiaro, il senso è qualcosa che è nella realtà: ma se qualcuno non ha gli occhi, se qualcuno non è disponibile a riconoscerlo, il senso evapora, il senso ci sfugge o ci si cristallizza semplicemente in una dottrina. Per questo la crisi del senso è, come per così dire, il fiore discreto, permettetemi di chiamarlo così, del nichilismo, è il lato interessante della crisi: perché? Perché ci fa capire che il senso aspetta, il senso è quasi in attesa di qualcuno che se ne accorga. E quindi è come se il nichilismo ci dicesse, riformulasse il problema della verità, il problema del senso ultimo per cui noi stiamo al mondo: non se c’è un senso o se non c’è, ma: è possibile accorgersene, dove posso accorgermene? Con chi posso accorgermene?

 

Carraud. Vorrei aggiungere qualcosa perché ascoltandoti e parlando di senso è molto importante che si parli non solo di senso ma di verità, quindi articoli il senso e la crisi e non in termini di crisi e verità: questo è un punto molto importante. Per il fedele la verità è Cristo stesso, quindi la crisi che mette in relazione con senso non è lo stesso modo di parlare di crisi in relazione alla verità. Questo è un passaggio molto importante. E vorrei tornare sul nichilismo. Il nichilismo nasce dall’equivalenza, quindi di una sorta di io, io diventa io, l’io diventa valutatore, colui che produce valori, ego che diventa ego. Quindi tutti gli oggetti designati si basano dalla valutazione del soggetto stesso, è per questo che c’è una crisi del senso. Quindi ci sono due secoli di nichilismo e siamo all’inizio di due secoli di nichilismo inaugurati da Nietzsche e questo però non riguarda il concetto di verità come certezza, ma il concetto di senso e volevo sottolineare questo rispetto a quello che hai appena detto.

 

Esposito. Infatti se posso, chiedo il permesso alla moderatrice, infatti la cosa che mi ha più, ne parlavamo anche ieri sera, la cosa che mi ha più interessato è: in Nietzsche la cosa più problematica, la cosa che più drammatica, non è tanto la celeberrima morte di Dio, Dio è morto, cioè i valori della tradizione sono… ma l’implicazione immediata, perché la conseguenza è immediata del fatto che è morto Dio, è che è morto io, è l’io che è morto, diventando appunto semplicemente uno che deve porre dei nuovi valori o deve autorealizzarsi nella volontà di potenza. Ecco questo è in profonda crisi oggi e forse c’è la possibilità di ricapire i due termini che da Agostino in poi e naturalmente in Pascal fino a noi sono i più interessanti del pensiero. Dio è io: hanno ancora una referenza questi due termini?

 

Carraud. Sì e anche nell’opposizione tra il mondo e la realtà: quindi il mondo è quello che è criticato dal Vangelo, il mondo è quello che io non amo, quello che non mi piace. Invece la realtà è l’elemento con cui bisogna confrontarsi come se fosse un oggetto.

 

Stoppa. Ecco professor Carraud: vorrei chiederle un affondo su questo, su questa tensione, se possiamo dire, di questo io che come lei diceva prima, può diventare misura di tutto, eppure costantemente in rapporto con l’infinito e, come in una sproporzione costitutiva: vorrei sapere per la sua esperienza, cosa ci può dire di questo mistero dell’io.

 

Carraud. Il mistero dell’io non è che si ritrova in questo rapporto con l’infinito, il rapporto tra l’infinito è sempre un rapporto metafisico: L’infinito è un concetto metafisico. L’interesse di Pascal, quando appunto inventa l’espressione l’io, è di dire che l’io non è trovabile metafisicamente, ma è probabile solo nella volontà e la volontà è sinonimo di libertà e quindi mi ricollego a quello che diceva appunto il collega poco fa: cioè il fatto che la volontà è proprio la libertà ed è lì che bisogna trovare l’io come oggetto, quindi per dire le cose diversamente, significa che l’io cessa di essere un principio e quindi un principio valutatore di tutti i valori che sono in crisi, per al contrario riceversi quindi e viene come… c’è una disappropriazione. Il concetto fondamentale è quello di disappropriazione per Pascal: in questo senso c’è proprio anche un commento della Lettera ai Galati quando Pascal quindi dice che “non sono io che vivo è il Cristo che vive in me” oppure come dice Don Giussani citando quindi un passaggio specifico, spero di ritrovarlo: quindi come nella lettera ai Galati si dice: sono io, io sono abitato da un altro che non sono io, da un altro diverso da me, e questo altro è fondamentale per Giussani. Quindi c’è una disapprovazione del mio io come principio e mi scopro quindi disappropriato, abitato da un altro. Questo concetto quindi ripreso anche nella lettera ai Filippesi e questo non modifica il concetto di verità ma il rapporto tra appunto tra la crisi e il senso.

 

Stoppa. Torneremo dopo su questo essere abitato da un altro. Ma prima chiedo al professor Esposito perché spesso lei parla del desiderio come strada maestra per il senso e, appunto, spesso diciamo intendiamo anche pensando a quello che stava dicendo il professor Carraud il desiderio come istintività o diciamo una soggettività. Perché quindi per lei è strada per il senso?

 

Esposito. Ma ricollegandomi a quello che diceva il mio collega e che è davvero interessante, cioè l’io non è più il principio che, diciamo, il regolo del mondo quello che decide la misura del mondo, no? ma è dato a sé stesso, si riceve E perché è abitato da un altro, non sono più io. Ecco la mia attenzione al desiderio è perché a me sembra che il desiderio sia proprio, giustamente dicevi, la strada maestra, il modo con cui noi ci accorgiamo di essere un altro perché, proviamo a pensarci un attimo: il desiderio è un fenomeno, diciamo che ci attira, è un fenomeno affascinante, un uomo che non desiderasse sarebbe già in qualche maniera, diciamo, avviato alla morte. Ma il desiderio non è semplicemente la mancanza di qualcosa, naturalmente si comincia di qui perché noi tendiamo a raggiungere, a possedere, a godere di qualche cosa di cui avvertiamo la mancanza e questo fenomeno del desiderio è molto scabroso e urticante, cioè, non è una cosa sentimentale o una cosa edificante, perché è come un vuoto che grida. E i filosofi dicono che, da questo punto di vista, il desiderio è come una Vis a tergo, cioè una forza che mi spinge, senza che io possa in qualche maniera decidere di essa. Mi spinge verso una meta, il riempimento di un vuoto. Ma il desiderio, lo sappiamo tutti, non è soltanto questo, e anche una forza che davanti mi attira è un’erotica, è un essere è un essere affascinato, chiamato da qualcosa. E proprio anche qui, è l’unità di queste, di queste due flessioni del desiderio che mi sembra ci facciano apprezzare e considerare valorizzare il nostro desiderio come la via per riconoscere l’altro. So bene che nel linguaggio comune il desiderio significa ciò che è irrazionale, ciò che incontrollabile è una hybris, è una tracotanza, è una eccedenza che a volte fa paura e che quindi bisogna moderare perché non tracimi, e quindi bisogna riportare l’irrazionale ai canoni della ragione. Bisogna moralizzare il desiderio, perché il desiderio urge, spinge, tracima mentre la ragione frena, trattiene, gestisce. Ma se noi ci fermassimo a questo gioco di ruolo tra desiderio e ragione, li perdiamo entrambi. Invece bisogna come liberare il desiderio, ma liberare il desiderio, non nel senso un po’ vintage anni 70 , rivoluzione sessuale, c’è bisogno appunto riappropriarsi del corpo, dell’istinto, è un po’ appunto vintage questa …e ha mostrato anche tutta la sua criticità, perché liberare il desiderio non vuol dire: ma allora sì bisogna danzare nel caos, perché se noi intendessimo così il desiderio, il desiderio ci brucia, e lo fanno capire bene i figli di Pedro Almodovar. Ci brucia! Ho tante serie televisive: nel senso che nel desiderare si consuma il desiderante, cioè ci fa fuori il desiderio. Invece in che senso dico che bisogna liberare il desiderio, naturalmente non è un inno al non essere morali. Ma liberare il desiderio, vuol dire dobbiamo assecondare la logica del desiderio, perché la logica del desiderio è che nulla ci basta, perché tutto ciò che noi crediamo possa essere decisivo, risolutivo della nostra mancanza, è un’esperienza quotidiana che facciamo, in realtà non la compie e normalmente noi ci fermiamo lì, alla delusione o al risentimento e, come ancora diceva, ci sono delle pagine di Giussani su questo passo, su questa intuizione di Leopardi meravigliosa: allora la bellezza della donna per esempio che è una promessa di felicità, poi ti delude e quindi porta il risentimento, all’amarezza, noi ci fermiamo lì e invece cosa significa sbloccare il desiderio significa capire qual è la natura del nostro bisogno, che è appunto il bisogno dell’infinito. Sì, so bene Vincent, dirai ma l’infinito è una nozione metafisica, come direbbe per esempio Lèvinas, ma come direbbe anche Cartesio nella terza meditazione: possiamo dirlo anche con un’altra parola, che non è infinito. E’ il riconoscimento dell’altro, perché in fondo è questa la vera posta in gioco: che un altro ci riconosca, che un altro ci possa accogliere nel suo sguardo e possa farci capire tutta la profondità e l’ampiezza del nostro desiderio. Ecco questo significa liberare il desiderio, come la via maestra del senso. Il desiderio è la cosa più nostra che ci sia, nessuno può desiderare al posto mio, è impossibile, ma noi non siamo capaci di realizzare il nostro desiderio, perciò questo è come il suggerimento, è come la traccia che noi siamo, non soltanto in rapporto ad un altro, ma che, come dice Agostino, questo altro già agisce in noi almeno come inquietudine.

 

 

Carraud. Pascal non utilizza il concetto di desiderio, ma parla di secondarietà dell’io. Quindi l’io si riscopre e secondario rispetto quindi a un principio primario. Quindi utilizzando un’immagine usata da Pascal, Pascal si chiede: a quale condizione posso amare me stesso? E risponde: occorre che io immagini un tutto di cui io sono una parte e l’amore di sé, quindi l’amore di sé unicamente di sé, quindi è il contrario di amarsi come un tutto. Quindi come il tutto ama la parte, come amarsi come Dio. Tutto il testo di Pascal sull’odio di sé, si può capire solo se si capisce che, solo se io mi amo come una totalità, quindi come la mano si ama come la ama il corpo, c’è una legittimità quindi dell’amore per sé stessi: quando l’amore per sé quindi, non è più come un principio, ma si ama come il tutto, come Dio lo ama, questo lo ritroviamo quindi in tutti in tutta una serie di testi di Pascal. Quindi viene da, quindi c’è una commistione di Cartesio e San Paolo: quindi c’è un concetto cartesiano Paolino. Quindi questo approccio cartesiano paolino di Pascal: quello che tu chiami desiderio, Pascal lo chiama l’amore di sé, quindi consiste non nel detestare se stessi, ma detestare quindi l’amore di sé come forma di principio, per prediligere invece un amore verso di sé giusto. E, se ciò non avviene, allora per Pascal la verità diventa un idolo. Vorrei citare, ecco volevo citare questo passaggio di Don Giussani: ci si fa un idolo della verità stessa, significa che quindi la verità diventi un idolo, significa che la verità un idolo se viene separata da Dio. Bisogna adorare Dio come verità, ma se io adoro la verità separata da Dio, allora diventa un idolo. E quindi Pascal denuncia la metafisica come produzione di un idolo. Le dimostrazioni metafisiche dell’esistenza di Dio, ad esempio, portano solo all’orgoglio. Se io quindi pretendo di raggiungere Dio e di poterne provare l’esistenza, allora è solo merito mio e se il merito è solo mio quindi, si cade nell’orgoglio. In altre parole per Pascal quindi posso accedere a Dio solo attraverso la mediazione cristica, solo il Cristo è la mediazione tra me e Dio. Così come la mediazione tra me e Dio, quindi quello che tu hai detto del desiderio si potrebbe rivedere in termini di mediazione in termini di teologia altrimenti la verità stessa diventa un idolo. Ecco ho ritrovato la citazione che volevo fare che non è nel senso religioso, ma è ne ‘Il cammino al vero è un’esperienza’ e leggo la fine che cita la lettera ai Filippesi 21 e Don Giussani scrive: esistere è essere amati definitivamente, abbandonarsi a questo amore definitivamente. E cita quindi: il mio vivere è Cristo. Questa è la citazione della lettera ai Filippesi: il paragrafo successivo è solo una frase che conoscete: l’esistenza umana è un’amicizia inesauribile e onnipotente e si capisce bene quindi: ecco onnipotente è stato tolto dalla citazione completa, ma la frase di Don Giussani ha senso solo nel Cristo. Come dice qui l’esistenza umana in generale, l’esistenza degli uomini quindi, esistenza umana quindi nel senso del Cristo, è un’amicizia inesorabile ed è in questo senso onnipotente. E da qui la citazione dei Filippesi e dei Galati che giustifica unicamente il Cristo. Se mi permetta ancora 30 secondi di appunto dissertazione filosofica: il mio lavoro consiste nella fare la storia della filosofia, non era questo il mestiere di Don Giussani. Ma se Don Giussani avesse conosciuto l’origine della parola esistenza, viene inventata questa parola nel terzo secolo da qualcuno che conoscete sicuramente, oppure Marius Victorinos che inventa quindi il concetto di esistenza exsistens quindi esistenza: da San Tommaso a Kant, ebbene non si sente più questo elemento ex, quindi in realtà riconduce all’essere, quindi c’è sempre questo ex importante, quindi venire da, ex indica venire da, e solo il Cristo merita questo termine esistenza perché proviene da Dio, perché questo che significa esistente. Quindi Mario Marius Victorinos vive una generazione prima di Sant’Agostino. E quindi lui, professore di filosofia a Roma, e non voleva appunto però svelare che si era convertito al cristianesimo. Nelle confessioni appunto si parla anche da Sant’Agostino, a sono i muri che fanno la chiesa dice Sant’Agostino, quindi sono i muri che fanno la chiesa . Io prego da solo e poi Marius Victorinos si è convertito per mostrare anche appunto questo ex di Cristo aveva un senso ecclesiale, collegiale, perché in realtà l’esistenza di cui si parla nel senso religioso e l’esistenza nel senso di esistenza di Cristo ed è questo appunto che dà il senso pieno al titolo di questo meeting. L’esistenza umana è un’amicizia inesauribile e onnipotente, è l’esistenza di Cristo che è come un’amicizia inesauribile, non è la mia esistenza.

 

Esposito. Interrompo ancora una volta la moderatrice perché mi interessa troppo quello che Vincent diceva: provo, ma dimmi se sei d’accordo, provo a tradurre nel problema post-nichilistico questa strepitosa domanda. E’ strepitosa: a quale condizione posso amare me stesso? Questa domanda credo che sia la domanda più bruciante della nostra epoca, non soltanto dell’epoca di Pascal o di Mario Vittorino, perché in un’epoca come la nostra in cui sembra appunto che ciascuno diciamo glorifichi se stesso e ciascuno voglia performare se stesso, in realtà l’amore a sé e la cosa più ignota perché noi amiamo noi stessi solo fino al punto che realizziamo quello che è abbiamo nella testa, ma quando noi non riusciamo noi odiamo noi stessi e anche la dimensione, come la chiamava Vincent, cristica dell’esistenza, secondo me nella nostra epoca, che io chiamo ormai post nichilista, non ci prendete più, ormai comunque

 

Carraud. Sono delle ricerche basate sull’odio di sé e non sull’amore di sé chiaramente

 

Esposito. Esatto ma lo dico la poi chiudo, la dimensione cristica nella condizione contemporanea, può essere capita perché è l’unica che permette a me di abbracciarmi, anche quando io non sono come voglio, anche quando io fallisco, perché io amo me in quanto ex – sisto in quanto derivo, e questo secondo me è come già un passo nel nichilismo oltre nichilismo.

 

Stoppa. Vi ringrazio anche perché so ancora un attimo e il professore ha esaurito un mio desiderio che era di approfondire insieme il titolo di questa edizione del meeting e soprattutto perché mi ha sorpresa mi ha colpita la sua reazione immediata al titolo. Quando il professore l’ha letto ha detto impossibile e poi ha aggiunto senza Cristo è impossibile, e soltanto dopo insomma parlando eccetera abbiamo riletto questo brano di Don Giussani da cui è tratto, che lui ha già citato, ma che io riprendo solo perché, per concludere, per ringraziarvi di questo, di come ci avete accompagnata a comprenderlo di più e anche avete condiviso così la vostra ricerca. Don Giussani dice nel Cammino al vero è un’esperienza: La forza dell’uomo è un Altro con la A maiuscola, la certezza dell’uomo è un altro, l’esistenza è un dialogo profondo. La solitudine è abolita alle radici stesse di ogni momento della vita. Esistere è essere amati definitivamente.

 

Carraud. Ecco vorrei tornare su questo punto se posso. Posso farlo io, o usare le parole di Pascal. Non so, come preferite voi.

 

Stoppa. Ma come vuole!

 

Carraud. Però bisogna, bisognerebbe forse partire da quello di cui parlavo poco fa: quella disappropriazione che citavo prima, ebbene forse Pascal nella storia della filosofia è l’ultimo diciamo a capire che per lui Cristo è il verbo, quindi il Verbo gli parla, quindi è Cristo, Cristo stesso come un’esperienza, Cristo, che Cristo stesso come esperienza. Dopo Pascal tutti i filosofi parleranno di Cristo come un concetto: quindi Kant, ma quindi dopo Pascal prima di lui Sant’Agostino utilizzano il concetto di Cristo come verbo e quindi che va esperito, come dicevo prima, come Cristo mediatore, non c’è, io non faccio l’esperienza di Cristo. Cristo in quanto tale ha valore di esperienza. E’ per questo che è il mediatore unico: se voglio accedere a Dio, quindi al di là dell’orgoglio, devo per forza passare attraverso Cristo e quindi il Papa nella sua lettera, quindi parla proprio dell’accesso a Cristo, quindi come colui che mi permette di incontrare la mia dignità e la mia miseria contemporaneamente. Posso continuare su questo punto?

Per Pascal l’uomo è necessariamente duplice è grande, ma anche miserevole contemporaneamente e questa quindi è la risposta all’interrogativo socratico conosci te stesso: tutti i filosofi dicono che l’uomo o è grande come gli stoici oppure miserabile come gli scettici. Solo per Pascal quindi il Vangelo invece ci dice che è contemporaneamente grande e miserabile e questo il Papa quindi l’ha evidenziato nella sua lettera. Questa duplicità dell’uomo grande miserabile contemporaneamente quindi Pascal descrive questo come una contraddizione. Quindi una contraddizione che è impensabile. Ma che viene realizzata in quello che lui chiama l’uomo Dio e quindi c’è proprio la grandezza e la miseria insieme. L’esperienza di Cristo quindi è un’esperienza della mia grandezza e della mia miseria contemporaneamente e questo si ricollega quello, di quello che dicevo prima quindi, dell’io e il fatto che il Cristo vive in me.

 

Esposito. Mi interessa molto questa sottolineatura che fai: che l’esperienza di Cristo è giusto, cioè non è che Cristo è l’oggetto dell’esperienza, esso stesso è l’esperienza del senso, non è qualche cosa diciamo che come un oggetto tra gli altri entra nella nostra coscienza, ma quando dicevi adesso che l’esperienza di Cristo tendenzialmente coincide con l’esperienza che noi facciamo in noi stessi della nostra grande miseria del nostro nulla e della nostra grandezza. E io credo che torna ancora, non era preparato questo eh, ma torna l’idea che noi possiamo ridare o tentare di ridare un significato alla parola Dio solo se ridiamo un significato alla parola io e che la possibilità di tenerle insieme, questa è la buona vecchia teologia cattolica è appunto Cristo come mediatore. Ma appunto, lo si studiava il catechismo, che Cristo è il mediatore: ma riscoprirlo nella logica dell’esperienza, cioè è mediatore perché permette di poter amare me amando il mio destino e anche questo è interessantissimo. E quindi quando diciamo la parola destino, o Dio come dicevo prima, ha a che fare con qualcosa che ci lega le mani e quando invece pensiamo all’io è il rischio della libertà, del temp,o della storia. E invece questa mediazione cristica come la chiamava Carraud, è proprio quello che permette di, uso volutamente non solo in onore al titolo, l’avrei usato in ogni caso, di capire che c’è un’amicizia tra il destino e la libertà, cioè che la libertà non è semplicemente un tentativo più o meno finito di esprimere se stessi. Ma che la libertà ha a che fare con il destino: attenzione, non la libertà deve arrivare al destino, cioè come se la libertà è una cosa appunto un po’ pericolosa un po’ scivolosa, bisogna purificare la libertà per arrivare a Dio. Ma che la libertà può essere se stessa, proprio in quanto riconosce Dio e come riconosce Dio? Perché riconosce di essere amato e in questo amare se stesso non in maniera egoistica o autoreferenziale, ma io amo me stesso come intuitivamente, analogicamente, scopro di essere amato da Dio e quando appunto si diceva come appartenente ad un tutto, non come una parte che vuole semplicemente affermare se stesso. Da questo punto di vista credo che sia proprio interessante quello che Vincent diceva circa il fatto che, se ho ben capito, Pascal aiuta a capire la certezza della fede nella modernità. Perché noi pensiamo che la modernità secondo una certa immagine una certa storiografia, sia la perdita della fede, perché diciamo, emerge semplicemente un uomo che è solo misura a se stesso. E invece c’è qualcuno come Pascal, se posso in tanti di noi l’abbiamo riscoperto attraverso la l’esperienza di Don Giussani del carisma di Don Giussani che la certezza della fede è la cosa più moderna che c’è, cioè è la cosa in cui l’io prende coscienza di tutto l’arco della delle sue possibilità, della sua miseria e della sua grandezza. E che non sono, mi sembra di capire, però tu correggimi perché lo specialista di Pascal sei tu , non è una dialettica: cioè da una parte siamo limitati dall’altra parte siamo… Questo è il modo con cui noi ciclotomici pensiamo a noi stessi che, o crediamo di essere diciamo i padroni del mondo, oppure quando non ci va bene ci deprimiamo o ci esaltiamo o ci deprimiamo invece lì è come un rapporto in cui le due cose stanno insieme, per cui uno dice che è benedetta anche la nostra finitezza e benedetto quasi il nostro niente, perché è la possibilità di accorgerci della grandezza che siamo. Mi sembra che questa sia una formidabile modernità della fede, altro che l’esperienza della fede come qualche cosa di premoderno. Direi che qualche cosa di meta moderno.

 

Carraud. Assolutamente. Vorrei fare due osservazioni su quello che hai appena detto. La prima: ecco ho parlato appunto di Cristo come mediatore tra me e Dio, ma c’è una lettera di Pascal straordinaruia che scrive quando muore suo padre in cui dice che è Gesù Cristo e anche il mediatore tra Dio e me e Dio mi conosce solo tramite il Cristo quindi è mediatore tra me e Dio quindi io ricevo il Dio tramite Cristo ma Dio accede a me tramite Cristo e questo è un pensiero non metafisico chiaramente. Quindi un pensiero che mette tra parentesi l’infinito a vantaggio invece di questo pensiero basato sul verbo scoperto da Pascal. Poi vorrei tornare sul tema del Meeting sull’amicizia: l’amicizia, da Aristotele, quindi c’è proprio l’amicizia che è sempre l’io come principio, cioè L’amicizia è proprio in senso rigoroso, legata all’io, quando Aristotele e dice colui che ha più meriti ha come amici coloro che hanno meno meriti e quindi il principio dell’amicizia quindi si basa su colui che ha più meriti verso l’altro, quindi io amo più l’altro di quanto l’altro ami me. Quindi Aristotele, per Aristotele, ad esempio la donna ha sempre meno meriti dell’uomo, quindi l’uomo ama diciamo di meno la donna di quanto la donna ami l’uomo. Quindi la difficoltà è capire che i greci non hanno un senso di amicizia come l’abbiamo noi. Loro dicono filein, come anche nel Vangelo, filein, significa amare nel senso di amore ma anche di amicizia. Se non si capisce questo non si capisce perché Cristo Quindi dice non vi chiamo più Mi hai servitori ma miei amici, perché è una dottrina dell’amore che in gioco qui per il Cristo evidentemente amare qualcuno significa essere capaci di morire per lui. Questo è il punto fondamentale. Quindi amare qualcuno significa poter morire per quel qualcuno e questo lo si dimentica, ma credo che invece Don Giussani non lo dimentica quando parla di amicizia. L’amicizia è bene, è sempre reciproca ed è sempre uguale. Si basa su un rapporto di uguaglianza . Ma se si legge correttamente il Vangelo il filein non è una relazione di uguaglianza. Colui che ama è colui che è in grado di morire per l’altro. Un punto essenziale che distingue il Vangelo da tutta la filosofia antica. Quindi il filein, la figlia di cui parla il Cristo è sempre di più dell’equivalenza reciproca dell’amicizia. La conseguenza di questo, e qui torno a quello che si diceva sulla verità, modifica il concetto di verità. In tutta la storia il concetto di verità fino a Cartesio è questo: quindi la verità è definita come adeguamento. Quindi adeguamento significa anche, diciamo, uguaglianza. C’è quello che io penso è uguale alla realtà. Questa messa su un piano di uguaglianza sono io che la affermo. Quando io dico che questa è una cosa è vera, penso che è un’uguaglianza tra il mio pensiero e la cosa vera. Con l’invenzione del concetto di certezza Pascal quindi parla del Memoriale di certezza due volte, quindi Gioia, pianto, pianto di gioia dice : gioia e gioia, gioia, gioia e pianto di gioia. Il concetto di certezza quindi non è un atto del pensiero nel senso di intendimento di comprensione, ma un atto della volontà, quindi della libertà. E quindi è chiaro quando hai ragione quando dici che il rapporto tra certezza e fede è un rapporto post moderno e non antico.

 

Esposito. O addirittura meta moderno. Vorrei sapere una cosa brevissima, anche perché siamo in chiusura, credo. E cioè anche a me aveva colpito quando Vincent leggendo il titolo aveva detto: ma una amicizia inesauribile per gli esseri umani è impossibile, perché siamo esseri umani. Lo sappiamo tutti perché, basta che consideriamo la nostra esperienza, a meno che non si tenga conto di quell’uomo che è stato, che Dio, che è Cristo. Ma io credo che questo lanci un’inquietudine per tutti, anche per coloro che non sono cristiani. Perché in fondo sta a dire che noi leggerei così il rapporto tra miseria e grandezza: che noi siamo esseri capaci dell’impossibile. I medievali dicevano che uomo capax day, ma capaci dell’impossibile intendendo la capacità non come una performance, ma come quando diciamo che una botte è capace di 50 litri di vino, per esempio. Siamo capaci dell’impossibile, perché siamo fatti. Di qui il nostro ex-sistere perché proveniamo siamo nati perché qualcuno ci ha voluti. La nostra capacità è quella di accogliere, accogliere il dono accogliere l’impossibile e cioè un’amicizia che possa essere, adesso possiamo completarlo il titolo, non solo inesauribile ma anche onnipotente. Naturalmente non per la nostra volontà di potenza, ma perché qualcuno ha vinto la morte.

 

Carraud. Se posso fare un esempio di quello che hai appena detto, dell’impossibile di fatto. Ebbene: amare i propri nemici, come dice Matteo, perché sembra una cosa assolutamente impossibile, perché se si amano i nemici non sono più nemici, sono amici. Bisogna fare attenzione, in latino come in francese, in italiano, c’è amicus e il suo contrario quindi inimicus, quindi nemico. Ma in greco nel vocabolario di fileine c’è: colui che amo ma c’è un’altra parola per dire nemico, quindi il nemico non è il contrario dell’amico, quindi amare i propri nemici non significa amare coloro che si presentano come nemici nel senso appunto di inimicus. Faccio un esempio molto semplice: alla fine di San Luca c’è un episodio celebre dei due ladroni. Il ladrone buono e il ladrone cattivo. E’ un esempio che viene letto sempre come il Cristo che dice al buon ladrone questa sera sarai con me in Paradiso. Ma in realtà per tutte le religioni, compresa quella ebraica dell’Antico Testamento, e anche per gli atei, ebbene perché la coscienza come dice San Paolo nella Lettera ai Romani è quella che diciamo sta per la religione, quindi il Buon ladrone viene sempre salvato, nel giorno del giudizio universale lui sarà salvato perché appunto lui si è pentito nel momento della morte, che conoscendo quindi i suoi errori, conoscendo Cristo, quindi il buon ladrone, quindi diciamo che teoricamente non aveva bisogno di Cristo perché quindi, pentendosi dei suoi errori, sarà salvato il giorno del giudizio universale, in altre parole per chi muore Cristo? Muore per il cattivo ladrone, solo la sua morte, la morte di Cristo può salvare il cattivo Ladrone e questo che significa amare proprio i nemici. Il cattivo ladrone, colui che non riconosce la divinità di Cristo, ma è per lui che Cristo muore. E’ questa la figura per eccellenza del nemico nel Nuovo Testamento. Quindi non muore per il buon ladrone che si salverebbe comunque, ma muore per il ladrone cattivo. E credo che questo sia l’esempio migliore di cosa si intende per amore dei nemici. Bisogna capire che nella citazione che è oggetto del titolo di questa edizione del Meeting quindi amicizia significa Filia. Quindi tutte le forme di amore, non solo quella che noi chiamiamo amicizia nella reciprocità, che ha l’io come il suo principio.

 

Stoppa. Io vi ringrazio molto di nuovo per questo, per poter entrare di più nel significato del tema, ma soprattutto per la possibilità che questo dialogo è stato di un contributo al cammino umano di ciascuno. Grazie, grazie a tutti.

Data

21 Agosto 2023

Ora

19:00

Edizione

2023

Luogo

Auditorium isybank D3
Categoria
Incontri