GLI ULTIMI SARANNO I PRIMI

Partecipano: Claudio Burgio, Cappellano del carcere minorile “Beccaria” di Milano e Presidente Associazione Kayros Onlus; Mario Persano, Presidente Associazione di Volontariato Opera San Nicola Onlus. Introduce Monica Poletto, Presidente Compagnia delle Opere Sociali.

GLI ULTIMI SARANNO I PRIMI

Gli ultimi saranno i primi

MONICA POLETTO:
Buongiorno a tutti. Papa Francesco nel suo messaggio al Meeting ci ha detto che il titolo di quest’anno, Tu sei un bene per me, è coraggioso: ci vuole coraggio per affermare ciò, mentre tanti aspetti della realtà che ci circonda sembrano condurre nel senso opposto. Sull’esempio del Signore Gesù, che coltiva sempre un cuore aperto verso l’altro, chiunque egli sia, perché non considera nessuna persona perduta definitivamente. In questo incontro parliamo degli ultimi, cioè di persone che si potrebbero pensare perdute definitivamente. Siamo in un contesto sociale in Italia che sembra fabbricarli, questi ultimi. Secondo l’ultimo rapporto Istat sulla povertà, in Italia ci sono 4 milioni e mezzo di persone in situazione di povertà assoluta, che vuol dire che non possono permettersi un’alimentazione adeguata, un’abitazione riscaldata, il minimo per vestirsi, informarsi e per la salute. Una persona su 13 vuole dire che è il dato più alto dal 2005. I migranti presenti in Italia nel 2014 erano 66.000, nel 2015 103.000, a marzo del 2016 siamo già a 111.000. I minori non accompagnati sbarcati in Italia sono stati 12.000 nell’anno scorso, ma a oggi, a giugno, siamo già a 7.000. In questa situazione oggi vogliamo incontrare due cari amici che con gli ultimi condividono tutto perché ci vivono. A loro chiedo, e faccio subito le domande, poi passo la parola senza ritornarci: chi sono gli ultimi che incontrate? Che esperienza fate con loro? E in che senso sono un bene per voi? Iniziamo con don Mario Persano, che è Presidente dell’associazione di volontariato San Nicola Onlus. Ti presento solo così, perché tutto il resto lo dici tu. Grazie.

MARIO PERSANO:
Buonasera, ti ringrazio Monica per questa opportunità, ma ringrazio anche chi ha voluto che fossi qui, non vi nascondo l’imbarazzo, ho degli amici, ho visto anche degli alunni e questo mi assicura e mi rassicura, da un certo punto di vista. Mi presento un attimo: sono un prete che da 30 anni fa il parroco in una periferia di Bari, si chiama Carbonara e in questa periferia ho imparato a capire che cosa davanti ai miei occhi si prospettava come una domanda a me personale, perché nelle cose che facciamo dalla mattina alla sera non possiamo mai dimenticare la ragione, il motivo per cui le facciamo. Nella mia vita di prete, ho sempre svolto alcune funzioni come l’insegnante, da qualche anno sono anche cappellano dell’Oncologico di Bari. Ho festeggiato i miei 30 anni di parroco invitando il Vescovo di Bari e tutte le persone bisognose con le quali viviamo questo rapporto di aiuto e di cammino comune. Abbiamo fatto un pranzo, quest’anno, perché finalmente abbiamo avuto una struttura dal comune di Valenzano, vicino a Bari. In questo pranzo, preparato molto bene dai miei amici, abbiamo festeggiato con i bisognosi che abitualmente aiutiamo. La sorpresa è stata – prima di tutto per me ma anche del Vescovo e delle persone che erano con me – di condividere un ringraziamento, perché tutto quello che riusciamo a fare è veramente una Grazia. Siamo fortunati a vivere questa esperienza, ad avere dinnanzi a noi persone che ogni giorni si affacciano, ci incontrano e ci guardano. Cosa facciamo? Abbiamo cominciato 15 anni fa facendo una mensa per i bisognosi, abbiamo cominciato silenziosamente, quasi in sordina, ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: “Però, c’è gente che non mangia nel nostro quartiere!”. E abbiamo messo su una mensa, molto semplicemente, pensando che gli ospiti potessero essere quasi come una famiglia. Dopo poco gli ospiti sono diventati 150 persone e abbiamo proseguito nell’esperienza dando ancora più forza a questa realtà della mensa, rivolta a chi aveva il bisogno di mangiare, di nutrirsi. Abbiamo aumentato le giornate e inventato una sorta di distribuzione di viveri: la cosa bella e impressionante è che noi non spendiamo una lira, aiutiamo quasi 400 famiglie ogni mese, raccogliendo tutto quello che i supermercati ci danno: in particolare devo ringraziare il Banco alimentare e poi tanti amici che in quest’opera non ci lasciano soli. Non spendiamo una lira per permettere a tante persone di mangiare, in una città come Bari che è una città commerciale, piena di attività, una città che a volte non riesce ad abbracciare gli abitanti, soprattutto le persone che sono ai margini, che vivono in periferia, non solo come territorio ma anche dal punto di vista esistenziale. In questo, devo innanzitutto riconoscere come Papa Bergoglio ci abbia dato veramente un grande conforto con la sua grande determinazione, dal momento in cui ha cominciato e ha rivolto lo sguardo agli esclusi, agli emarginati, alle persone che sono vite di scarto, un’attenzione particolare a loro che pone innanzitutto una domanda a me che sono prete e ai miei amici che mi aiutano in quest’opera. E qual è questa domanda? La domanda di un cambiamento.
Perché non si può offrire un pranzo, dare dei viveri, senza incrociare lo sguardo, senza incrociare il volto, senza ascoltare, senza abbracciare queste persone. E allora, la prima cosa che dico è che quanto accade è sempre una sfida alla mia vita e alla mia vocazione. Adesso mi è anche facile provvedere ai bisogni materiali, ma questo non basta se non viene messa in moto anche la mia affezione, il mio cuore e la mia intelligenza, nell’essere più attento nel camminare insieme a queste persone per dare un contributo, una soluzione, un sollievo al bisogno. Così abbiamo continuato: oltre al bisogno del cibo, c’era il bisogno medico. Abbiamo messo su un ambulatorio con medici che offrono gratuitamente la loro assistenza: siamo un’associazione di volontariato, per cui tutto quello che si fa è sempre fatto gratuitamente. Qualche volta mi chiedo: da dove nasce questa gratuità? E penso che questa gratuità nasca dal fatto di essere noi per primi oggetto di gratuità, oggetto di un abbraccio misericordioso, oggetto di grazia del Signore. Abbiamo continuato ancora, cercando di creare un ambiente per i bambini del mio quartiere, della mia realtà. Facendo il parroco, come tutti i parroci di questo mondo, faccio il catechismo, amministro i sacramenti, però mi accorgo di come a volte questi bambini sono lasciati soli davanti al loro dovere, alla loro famiglia e anche al loro futuro.
Ho visto dei miei alunni qui, questo pomeriggio, ragazzi che mi supportano con i bambini, nell’aiuto allo studio e anche nel gioco. Mi sembra che questo sia un atteggiamento di grande paternità, ma soprattutto – permettetemi – di grande gioia: si tratta di imparare da questi bambini, che vengono da noi per essere aiutati, ad essere semplici, umili, cordiali, ad essere affettuosi, perché chiaramente in questo tipo di incontro è proprio un affetto che lega. E ancora abbiamo continuato in quest’opera che si chiama San Nicola, perché sapete che a Bari il protettore è San Nicola, un santo particolarmente importante e decisivo per le opere di carità. Abbiamo continuato con l’attività sportiva pomeridiana, abbiamo continuato accogliendo giovani e meno giovani che vengono a fare da noi una prova di sostegno alle nostre attività, ragazzi e adulti che, invece di scontare una pena giudiziaria, vengono affidati a noi e diventano i volontari più appassionati.
Adesso mi vengono in mente alcuni di questi che sono rimasti con noi, si sono proprio fermati con noi dopo aver fatto questa prova per potersi poi reintegrare nella società. In modo particolare, mi viene in mente un ragazzo, si chiama Maurizio, passato dalla droga, passato anche dal carcere, sposato, con una bambina: mi ha chiamato l’altra sera perché ne ha combinato un’altra delle sue. A un certo punto, in una lettera scritta in maniera molto sgrammaticata, diceva: “Io vi ringrazio per come mi avete trattato, sono andato via sbattendo la porta perché qualcuno non mi ha compreso. Oggi vengo daccapo da voi perché ritengo che siate le uniche persone che potete darmi una mano in questo momento”. Ha vissuto un momento drammatico in famiglia, ha avuto una denuncia, potrebbe di nuovo rischiare il carcere. Io lo incontrerò lunedì pomeriggio. Capisco bene che la vita di una persona non può dipendere da noi, da me o da quello che facciamo, però ho una convinzione: che nel bisogno la cosa importante è che non siamo lasciati soli, perché nella solitudine non c’è via d’uscita. Nella solitudine il cuore si indurisce, diventa più cattivo. In uno sguardo, in un abbraccio accogliente, e anche in un sostegno reale, per quanto è possibile, allora la cattiveria che a volte emerge in noi, in tutti noi, è vinta da qualcosa che sorprendentemente ci fa comprendere come nella vita esista una bellezza, una verità. La bellezza e la verità in fondo coincidono, la bellezza è lo splendore del vero. Quando chiedo ai miei amici: “Perché fate del volontariato?”, mi rispondono: “Perché è bello”. Questa risposta mi convince sempre di più. Perché “è bello” vuole dire perché è vero, perché si cresce, perché si è contenti, perché quella forma di gratuità è lavoro vero, quello dove non c’è compenso ma sei in gioco tu, sono in gioco io, così come sono, con tutte le mie incapacità ma anche con la consapevolezza che ciò che uno semina, ciò che uno prova a seminare, porta frutto perché il frutto lo porta il Signore.
E abbiamo continuato in questa esperienza, ci siamo inventati una preparazione ai concorsi per questi ragazzi: io collaboro con tre generali in pensione, che si sono messi a preparare questi ragazzi per i concorsi pubblici, i concorsi militari, i concorsi delle Forze Armate. Una sorpresa è stata che molti di questi ragazzi che abbiamo incrociato, che avevano lasciato la scuola, si sono messi a studiare: una trentina di loro si sono già inseriti in questo cammino. Poi, la formazione: abbiamo chiesto a degli amici di darci una mano perché vogliamo comprendere di più come accompagnare, sostenere, abbracciare le persone che vivono il bisogno.
Chi sono gli ultimi per me? Quando vado all’ospedale dove dico messa abitualmente la domenica, e dove mi affaccio parecchie ore durante la settimana, gli ultimi sono gli ammalati che incontro in questo ospedale molto particolare perché è un oncologico, si cerca di curare il cancro e a volte le cure non bastano. C’è sempre una domanda: “Perché a me?”. Io non sono capace di rispondere, l’unica cosa che riesco a dire è questa: “Guardiamo insieme il crocefisso, chiediamo a Lui il perché”. L’altro giorno sono stato a trovare un uomo di Saba, un paese della Puglia, il capo dei vigili urbani. Lo incontravo quando veniva a trovare sua moglie, che poi è morta giovanissima, venivano a messa da me, la moglie con i tre figli e questo signore, anche lui più giovane. E ricordo questa scena che mi ha sempre molto colpito: questa signora che con un grande sorriso, pur avendo un grande dolore, una grande sofferenza, abbracciava i suoi figlioli e questi figlioli che abbracciavano lei, come se non volessero staccarsene, e quest’uomo che, sicuramente in preda a tante domande, a tante sofferenze, consapevole anche di quello che sarebbe accaduto, mi guardava come a dire: “Perché?”. L’ho trovato qualche giorno fa, ci siamo abbracciati e l’ho visto sereno, anche consapevole che sua moglie, che è morta oramai da un po’ di tempo, è ancora di più dentro la sua vita: “Don Mario, sai che ho perso mia moglie, però la sua presenza la sento sempre con me, sempre più viva. Quando guardo i miei figli, li guardo così come lei li guardava, ho imparato da lei a guardare di più i miei figli rispetto a come li guardavo prima”.
Ancora una cosa, gli ultimi sono anche i miei studenti, io faccio ancora l’insegnante perché nella mia vita non ho mai rinunciato a questo compito: la scuola, il liceo, è il luogo in cui passo abitualmente le mattine, con un grande desiderio nel cuore di provare a rispondere a questi ragazzi che incontro, diversissimi tra di loro, questi ragazzi con tante domande, con tanti desideri, con un volto unico, con un volto preciso, che si aspettano sempre qualcosa da me, che a volte non chiedono però mi guardano. Ogni mattina, quando vado a scuola, mi faccio sempre una domanda e dico anche un’Ave Maria alla Madonna: “Aiutami ad essere compagno di questi ragazzi, compagno di questa avventura umana che si sta svolgendo in loro, compagno, padre e fratello”. Perché se c’è una cosa che mi colpisce di questi ragazzi, è che si può imparare da loro, che posso imparare da loro, soprattutto il modo come a volte affrontano la loro giornata, il loro entusiasmo, il loro sorriso e anche il loro sostegno. Ho avuto un momento drammatico nella mia vita, quando mia sorella è stata molto male. Adesso sta bene, grazie a Dio, ma ricordo che entravo in classe e non riuscivo a parlare. Loro mi guardavano e io proprio non riuscivo a parlare, ero incapace di dire qualsiasi cosa. A un certo punto, ricordo che nel silenzio di questi ragazzi ho intravisto il desiderio di aiutarmi a vivere quello che stavo vivendo. Erano lì che mi guardavano e sicuramente qualcuno di loro diceva una preghiera per me e per mia sorella. Gli ultimi sono questi, insieme ai tanti divorziati, alle tante persone che vivono la solitudine, interiore e a volte anche fisica. Ma a volte sono anch’io ultimo a me stesso, quando smetto di domandare, smetto di chiedere, smetto di sperare, e allora anch’io ho bisogno di incontrare qualcuno che mi accolga come ultimo e mi abbracci. Grazie.

CLAUDIO BURGIO:
Li chiamano ragazzi cattivi, bulli, delinquenti, giovani devianti, altri invece li chiamano bamboccioni, inetti: le definizioni si sprecano quando si parla di giovani. Io ho capito che le definizioni, le categorie sono sempre abili espedienti per non occuparsi dei giovani, per distrarsi, per non affrontare la realtà. Anche un paradosso evangelico come quello che abbiamo scelto come titolo, “Gli ultimi saranno i primi”, può essere semplicemente uno slogan, una definizione: noi adulti siamo abili a eludere quella che è la verità di un paradosso come questo. E allora, vi dico la verità, io ho incontrato da dieci anni i ragazzi del carcere minorile di Milano, il Beccaria, e ho scoperto davvero che per me questa è stata una grazia, un risveglio della mia coscienza di uomo, di prete. Immerso com’ero nella pastorale delle parrocchie, non mi ero accorto di essermi un po’ impigrito, di essermi un po’ addormentato su un quietismo del fare, anche pastorale, che mi accompagnava in maniera semplice però disincantata. Devo dire che la cella e il primo ragazzo incontrato in cella al Beccaria sono stati per me un risveglio potente, una forza travolgente.
Io, nuovo, ancora abbastanza giovincello, arrivo e dico: “Ciao, sono don Claudio, tu come ti chiami?”. “Cazzi miei” fu la risposta, chiara, perentoria, senza giri di parole. E io devo dire grazie a quel primo ragazzo, perché è stato come un risveglio: avevo puntato tutto sul mio ruolo, il cappellano, avevo pensato che le sicurezze che ti costruisci nella vita adulta appartengono a un certo modo di stare nella Chiesa, nella società, e quel ragazzo in maniera così semplice mi aveva fatto cadere, mi aveva consegnato questa bellezza del fatto di essere anch’io un ultimo, di non poter contare assolutamente sul mio ruolo, sulla mia esperienza, sul mio essere prete, sui miei schemi pastorali, mentali.
E allora ho scoperto che l’educazione – qualcuno già lo diceva prima di me ma io l’ho scoperto solo adesso – è rischio, è rischio soprattutto per te che educhi, è rischio perché ti pone sempre di fronte all’inedito. Ogni incontro è un incontro per sempre, però è un incontro che ti sconvolge se davvero lasci che questo incontro entri dentro di te, che sia uno spazio di condivisione vera, di ascolto vero, autentico. Ecco, devo dire, quel primo ragazzo mi ha consegnato qualcosa di importante a tal punto che quella sera, ricordo, mi dissi: “Ma io chi sono? Chi sono i primi, chi sono gli ultimi, chi sono io davanti a questo ragazzo?”. Certo, nella mia presunzione, la risposta immediata fu di chiamarlo “cazzi miei” per tutta la settimana: si chiamava così, per cui l’ho un po’ assecondato. Ma anche queste erano ancora le modalità di chi voleva vivere il rapporto con l’altro all’insegna di un potere, di un esercizio di potere. Farsi ultimo vuol dire riscoprirsi debole, spogliato delle tue sicurezze. Oggi sembra che educare sia un esercizio di autorità ancora quasi verticale, dall’alto in basso: io al Beccaria ho imparato che è un esercizio circolare, tra persone di pari dignità, non importa la provenienza, non importa l’età. C’è una asimmetria che va tenuta, certo, stiamo parlando di un ambito pedagogico, ma c’è una simmetria perché tutti siamo persone che avvertono la mancanza, che hanno paura della perdita, che hanno paura di affrontare le sofferenze.
E allora, ecco, questi ragazzi, l’incontro con loro, mi hanno riconsegnato la bellezza di questa vita che è dinamica, che non si abitua mai. Certo, poi vivere con loro è sempre una giornata inedita, non ti abitui mai, un giorno sei qui, un giorno magari qualcuno viene arrestato, un giorno un altro si ubriaca: però, tutto sommato, questo continuo dinamismo ti riconsegna sempre la gioia di dire che va bene, ricominciamo da dove siamo. Ecco, così ho imparato a fare mie le parole di Gregorio Magno, il quale già diceva: “Molte cose che nelle Sacre Scritture da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli; mi sono reso conto che l’intelligenza mi era concessa per merito loro”. E così è stato. Ecco allora per me il senso di questo titolo, “Tu sei un bene per me”, è la possibilità che l’altro non sia semplicemente una minaccia, un ostacolo, non sia l’inferno, come dice qualcuno, ma l’altro sia la tua ricchezza, la tua possibilità, la tua risorsa. Per me, questo è stato, ed è ancora, l’esperienza del vivere con questi ragazzi anche in comunità, a tal punto che, come diceva don Mario, noi siamo qui e ve la raccontiamo, ma siamo soprattutto voce, molto debole, fra l’altro, di tanti ragazzi, di tante persone che abbiamo incontrato. Oggi qua con me ci sono Dario, Ian e Mustafà, ma ognuno è voce importante, sono loro i primi, sono loro quelli che possono raccontarvi molto meglio di me, anche se certamente noi siamo in grado di rielaborare il vissuto loro e nostro, e insieme di trovare dei significati, perché la sfida educativa è questa: tu sei un bene per me perché mi fai scorgere chi sono, mi fai capire quanto valgo.
Ecco, ci sono ragazzi al Beccaria che non si apprezzano, che si lasciano andare. Io ricordo sempre un ragazzo che mi dice: “Don, è inutile che ti sbatti per me, io sono un tossico, non ce la farò mai a cambiare”. E io semplicemente replico: “Guarda, tu non sei un tossico, al limite sei un ragazzo che ha usato sostanze stupefacenti”. E giustamente lui mi dice: “Vabbè, che differenza fa?”. “Eh no” gli spiego “è molta la differenza: se tu sei un tossico, vuole dire che ti sei identificato con il tuo male, il tuo problema, che non hai vie di uscita. Invece tu sei un bene, innanzitutto, il bene è originario. Allora, sì, hai usato sostanze, sei un ragazzo che ha avuto qualche caduta, ma sei un ragazzo, innanzitutto”. E questo ragazzo mi dice: “Vabbè, non mi hai convinto”. Passano due settimane e ad un certo punto di nuovo incontro questo ragazzo, sento che dal fondo di una cella un altro lo chiama: “Oh, sfigato”, e lui si gira e dice: “No, io sono un ragazzo che ha sfiga”.
Ecco, questa è la cosa bellissima, io racconto sempre questo episodio perché in maniera simpatica quel ragazzo mi ha fatto capire che sì, noi siamo un bene originario, a volte stentiamo a crederci, a volte facciamo fatica a riconciliarci con le nostre ombre, con i nostri peccati, i nostri limiti, però siamo sempre un bene che precede ogni mancanza. Allora, in questa strada, in questo cammino che si è aperto di fronte a me, ho imparato a riconoscere nell’altro una risorsa, e a riconoscere anche quello che vuol dire per me educare. Educare esige la pazienza dell’attesa, quella che noi adulti tante volte non abbiamo perché spesso e volentieri abbiamo bisogno di prestazioni, di risultati. In fondo, molto del sistema educativo è basato sui risultati, sui voti a scuola, sulle prestazioni in ambito sportivo: ci sono tante situazioni nelle quali questi giovani, questi ragazzi, devono eccellere. Noi forse non riusciamo a capire che addossiamo ai ragazzi questo dovere di riuscire sempre, secondo le attese dell’adulto. Ecco, ci sono ragazzi che, me lo dicono tutti i giorni, non ce la fanno a reggere queste nostre attese, questa proiezione dei nostri desideri.
Al Beccaria ho imparato a saper attendere, a saper capire che l’attesa è preziosa, che tu non sei l’artefice del cambiamento di una persona, di un ragazzo, ma semplicemente colui che lo accompagna dentro un cammino bello, faticoso, importante; che tu non puoi disporre della libertà di questo ragazzo, non puoi costringere, non puoi in maniera coercitiva dire e imporre un cambiamento. E ricordo sempre Mattia, un ragazzo che tanti anni fa uccise una ragazzina di 14 anni, un fatto che sconvolse l’Italia. Questo ragazzo arriva al Beccaria quattordicenne e per tre anni e mezzo parliamo di tutto, ma mai di questo terribile evento: parliamo di sport, giochiamo a biliardino, a ping pong. Dopo tre anni e mezzo, a diciassette anni e mezzo, la mamma di questo ragazzo mi ferma e mi dice: “Oggi per la prima volta mio figlio improvvisamente mi ha detto: «Mamma, se quella sera ti avessi detto che ero stato io, cosa avresti fatto?». “Non sapevo cosa rispondere” mi dice la mamma. “Gli ho detto: «Guarda, ti sarei stata vicino però ti avrei anche portato a costituirti alle forze dell’ordine»”. La risposta di suo figlio è stata: «Grazie, mamma, era quello che speravo di sentirmi dire». E dopo qualche giorno, ricordo il bisogno di questo ragazzo di dirmi, di raccontarmi in ogni dettaglio quel terribile omicidio.
Ecco, a volte il cambiamento si genera nel tempo e allora quei tre anni e mezzo spesi a giocare a biliardino, apparentemente a dire e fare niente – è la famosa storia dell’inutilità di certi tempi che noi dedichiamo ai giovani o ai nostri figli, che sono in realtà utili – sono serviti a qualcosa, ma non lo capiamo subito. Adesso i ragazzi del Beccaria mi direbbero: “Don Claudio, dì a tutti di smetterla di fare gli eterni giovani perché io gli amici li ho già, dì che se davvero sono un bene per me devono essere adulti, devono essere persone che non mostrano solo ciò che hanno conquistato, ciò che hanno messo in piedi, nella loro vita di bene, ma anche quello che sono, i limiti, le fatiche del diventare anziani”, perché sapete che la parola vecchio oggi in Italia si può usare solo dopo che si è morti.
Oggi ci sentiamo sempre giovani, anche questo mi hanno fatto capire i ragazzi del Beccaria: due mesi fa mi sono fatto una distorsione giocando a pallone e Daniel mi ha detto: “Vabbè, è inutile, è un segno, dai, già non eri buono, è inutile che te la meni, capiscila”. “Va bene, la capisco nel senso che guarirò, aspettami ancora”. Però è vero, bisogna anche ammettere che non siamo sempre giovani, che non siamo sempre capaci di essere competitivi su tutto. Ecco, “gli ultimi saranno i primi”: farsi ultimi vuol dire avere anche il coraggio di guardarsi in faccia e dire: “Sì, io sono una risorsa però sono anche il mio limite, anche le mie fatiche, sono anche la mia anzianità che cresce nonostante sia ancora giovane”. E’ un po’ quello che mi hanno consegnato questi ragazzi. E poi, sapete, la parola misericordia può diventare uno slogan: io ho avuto la grazia di incontrare tanti episodi, fatti di vangelo, di misericordia, ve ne cito uno bellissimo. Un giorno un ragazzo mi porta in cella e mi legge questa lettera, di una mamma. Questo ragazzo aveva ucciso un coetaneo diciottenne. Ho trattenuto nella memoria queste due frasi: “Perché non ci sono i figli miei e i figli tuoi. I figli sono sempre nostri”. “Ho già perso un figlio, non ne voglio perdere un altro”. E’ un bellissimo esempio, gli ho chiesto, anche se ormai era abbastanza comprensibile: “Chi è che ti scrive?”. “E’ la mamma del ragazzo che ho ucciso”.
E’ un episodio, sono cose che ti porti dietro nella vita, sapere che c’è una mamma che sa vivere la misericordia così. Ecco perché la misericordia è generativa, ecco perché non è mai semplicemente uno slogan, la misericordia è generativa quando muove, dà verità, dà autenticità, muove dal perdono, da una vita di gratuità. Certo, è dura superare certe realtà drammatiche della propria esistenza. Questo ragazzo mi dice: “Se sto cercando di cambiare, se sto cercando di farcela, è perché questa mamma mi ha scritto queste parole”. E allora capite che tutto è possibile, un incontro diventa generativo, un incontro diventa una possibilità. Vedete, noi abbiamo un po’ deformato il linguaggio della Bibbia. Mi sono incuriosito tempo fa perché, andando un po’ a vedere in Genesi, mi sono accorto che le prime parole che Dio rivolge all’uomo sono queste: “Tu potrai mangiare degli alberi che io ti darò, ma poi non mangerai…”. E’ interessante quel “tu potrai”, sono le prime parole della Bibbia rivolte all’uomo da Dio. Poi però arriva il serpente, e astutamente dice ad Adamo ed Eva: “Non vi ha detto Dio che non dovete mangiare dell’albero della conoscenza?”. Quel “non dovete”, ecco l’educazione come la intendiamo. L’educazione è “tu potrai” oppure “non dovete”: uno viene da Dio, l’altro viene dal maligno.
Se pensiamo di educare semplicemente esercitando il potere della legge, dei codici, siamo fuori strada. La giustizia certo è importante, il carcere esiste, è giusto, a volte anche per ragazzi così piccoli, ma è innanzitutto quel “tu potrai” che origina la voglia di bene che c’è in questi ragazzi. E’ quando si sentono dentro un progetto importante, che avvengono i cambiamenti più veri, non è semplicemente per aderire ad una legge, ad un’imposizione dall’esterno, che uno cambia. Ecco noi abbiamo bisogno di diventare adulti che incoraggiano il “tu potrai”, che non hanno paura, che non hanno il desiderio di imporre qualcosa alla libertà di questi ragazzi. Poi ci sono le sconfitte, ma io non le chiamo mai sconfitte, i fallimenti, ma io non li chiamo mai fallimenti, ci sono le storie, le libertà. In questi giorni è venuta fuori molto questa storia dei due ragazzi che sono partiti per l’Isis: appartenevano alla mia comunità. Due ragazzi molto giovani che un anno e mezzo fa sono partiti per la Siria, hanno fatto questa scelta.
Io non riesco a vederli ancora oggi come terroristi, per me sono ancora quei ragazzi. Certamente hanno abbracciato una libertà che, in un caso, ha già portato uno alla morte, però hanno abbracciato un’identità che capiranno o non capiranno che non era vera. Ma rimangono ragazzi, a volte anche vittime. Oggi ascoltavo Mattarella, e davvero è così: dobbiamo aiutare questi ragazzi a sentirsi parte di un progetto importante. Se non c’è futuro, se non c’è accoglienza vera, se non c’è condivisione reale, certo che ci si espone anche al pericolo e alle derive di nuovi terrorismi sempre presenti. Uno dei due ragazzi mi ha mandato un ultimo messaggio prima di partire, non avevo capito che era il suo ultimo messaggio, mi ha scritto: “Grazie di tutto, stammi bene, che Allah ti aiuti sulla retta via, ci vedremo in paradiso, Inshallah”. Ecco, io preferisco ricordarlo così, certo oggi forse è un nemico, chi lo sa, la storia la capiremo sempre dopo, però io penso che anche una storia sbagliata sia sempre storia di salvezza. Non siamo noi a giudicare, non siamo noi a capire. Nella storia dell’umanità, nella storia della fede ci sono storie che sono diventate storie di salvezza, io preferisco vederla così.
Un’ultima cosa, voglio dire, sono un uomo di fede, anche io con le mie povertà, e devo dire che i ragazzi del Beccaria, i ragazzi della comunità hanno domande serie, non è vero che Dio sia semplicemente un’entità estranea alla loro vita. Anzi, nel momento del dolore, della sofferenza, mi interpellano spesso su Dio e sul suo mistero. Due ragazzi lo hanno fatto anche fisicamente, mi hanno blindato in cella un pomeriggio di Pasqua e mi hanno detto: “Adesso tu non esci finché non ci spieghi ‘sta storia di questo qui che scappa dalla tomba e le guardie non si accorgono”. Ecco, è iniziato con questa domanda molto diretta, simpatica. E poi due ore e mezza a parlare della risurrezione: sapete, non lo facevo nemmeno in parrocchia, a volte noi siamo cristiani e non ci chiediamo nulla sull’evento decisivo della nostra storia, la risurrezione. Quella sera sono tornato a casa, dopo avere balbettato qualche parola, cercato di spiegare. Mi sono detto: “Da dove ripartiamo?”. Perché anche la fede non è mai un arrivo, non è mai qualcosa che ti è dato per sempre, qualcuno diceva che nasciamo sempre con i bagagli, è vero. Anche chi nasce in una famiglia del movimento, magari appartiene al movimento ma poi non basta, ci vuole un movimento di riconquista, se vuoi veramente ereditare, ci vuole un movimento di soggettivazione, se vuoi veramente fare tuo ciò che la vita ti ha consegnato. Allora devo dire che, anche nell’ambito della fede, questi ragazzi che incontro sono un bene per me, perché mi aiutano a non avere una fede scontata, appiattita su formule, ma una fede sempre in ricerca, una fede che sempre si chiede: “Dove sei?”. E forse è anche bello dire che la vita poi è: “Vieni e vedi”, e ognuno ha questo compito bellissimo, originario, di scoprire e di meravigliarsi.

MONICA POLETTO:
Grazie a tutti e due. Mi veniva in mente mentre parlavate un altro pezzo del messaggio del Papa, quando ci dice che “tanti sconvolgimenti in cui spesso ci sentiamo testimoni impotenti sono in realtà un invito misterioso a ritrovare i fondamenti della comunione tra gli uomini per un nuovo inizio”. Mi ha molto colpito mentre parlavate pensare a questo pezzo perché era evidente in voi. Per questo vi ringrazio, perché questo stare vicino agli ultimi, questa implicazione con le realtà, con le persone con cui vi trovate, sono un invito innanzitutto a riscoprire la vostra umanità, di cui penso che ci abbiate dato una testimonianza realmente commovente. Adesso nessuno si alzi prima di aver sentito l’avviso sul fundraising. Mentre saluto ancora i nostri amici, vi dico che prosegue la campagna del fundraising del Meeting, ne avrete sentito parlare. Siamo stati molto incoraggiati dall’esperienza positiva dello scorso anno e per questa ragione chiediamo a tutti di contribuire, come si riesce, di dare soldi per costruire il Meeting. Troverete tante postazioni in giro, parlatene con i vostri amici e vediamo di vincere la sfida che abbiamo lanciato l’altro anno. La seconda cosa, questa sera alle 21.45 presso l’Arena Spettacoli Unipol Sai D3 andrà in scena Un solo canto, lo spettacolo inaugurale del Meeting, con Tosca, Tania Cassis e Mirna Cassis. I biglietti sono in vendita presso la biglietteria Hall Sud o sul sito web. Inoltre alle 19 Tosca, Tania e Mirna incontreranno il pubblico del Meeting presso il palco delle Piscine Ovest, in occasione del quotidiano appuntamento “Un aperitivo con”. Vi saluto tutti e vi ringrazio.

Data

19 Agosto 2016

Ora

15:00

Edizione

2016
Categoria
Incontri