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GLI STATI NON SONO PIÙ TANTO UNITI. Ricucire gli strappi della democrazia americana
In diretta su Teleradiopace, Repubblica
Paul W. Kahn, Robert W. Winner Professor of Law and the Humanities, Yale Law School, autore di Democracy in Our America, Yale University Press; Joseph H.H. Weiler, University Professor at NYU Law School and Senior Fellow at the Center for European studies at Harvard. Intervento in video collegamento dagli Stati Uniti di Maurizio Molinari, direttore La Repubblica. Introduce Mattia Ferraresi, caporedattore Domani
La democrazia americana sembra attraversare una fase di crisi, segnata dalla polarizzazione del discorso politico, dalla difficoltà di trovare aree di dialogo e perfino dalla legittimazione della violenza come metodo per risolvere i conflitti sociali. La radice di queste patologie non risiede solo nell’inadeguatezza della classe dirigente o in una generica disaffezione dei cittadini per il dibattito. Ad alimentare la ferita c’è il disimpegno verso i luoghi che formano la trama della vita civile. Il diradarsi della partecipazione trasforma una comunità di persone in aggregati di individui solitari e sradicati, perciò esposti alle false promesse dell’ideologia e al rumore della propaganda.
GLI STATI NON SONO PIÙ TANTO UNITI. Ricucire gli strappi della democrazia americana
GLI STATI NON SONO PIÙ TANTO UNITI. RICUCIRE GLI STRAPPI DELLA DEMOCRAZIA AMERICANA
Giovedì 22 agosto 2024 ore 17:00
Sala Neri Generali-Cattolica
Partecipano:
Paul W. Kahn, Robert W. Winner Professor of Law and the Humanities, Yale Law School, autore di Democracy in Our America, Yale University Press; Joseph H.H. Weiler, University Professor at NYU Law School and Senior Fellow at the Center for European studies at Harvard. Intervento in video collegamento dagli Stati Uniti di Maurizio Molinari, direttore La Repubblica.
Introduce:
Mattia Ferraresi, caporedattore Domani
Ferraresi. Buonasera a tutti, benvenuti a questo panel. “Gli Stati non sono più tanto uniti”: questo è il titolo che abbiamo scelto per una conversazione sugli Stati Uniti, un tema urgentissimo, notissimo, importantissimo in generale e particolarmente sentito adesso, sullo sfondo di questa campagna elettorale piena di elementi assolutamente insoliti e a tratti inediti. Ne parleremo per cercare di approfondire come siamo arrivati fin qui, cosa ci stanno dicendo gli eventi che accadono, e anche cercare di scavare un po’ più in profondità per capire le origini di quello che stiamo vedendo. Abbiamo vari ospiti, tutti di livello straordinario. Io sono felicissimo di essere qui. Mi presento: sono Mattia Ferraresi, sono un giornalista del Quotidiano Domani, mi sono occupato a lungo degli Stati Uniti ma anche di altro. Però non rubo altro tempo, perché vorrei andare innanzitutto, prima di presentare tutti gli ospiti, da un ospite particolare che è in collegamento da Chicago, dove adesso, dal punto di vista dello svolgimento della campagna elettorale, stanno succedendo le cose importanti. Il nostro ospite è il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, che oltre a essere il direttore di Repubblica, ha anche un passato molto importante come corrispondente dagli Stati Uniti e non solo, quindi è un grande conoscitore del mondo americano. Io vorrei iniziare con il direttore per avere da lui un racconto da lì, da dove in questi giorni tutti abbiamo letto lo svolgimento di questa convention democratica estremamente particolare ed estremamente attesa. Lo abbiamo letto anche dalle parole di Molinari su Repubblica, e vorrei dargli il benvenuto innanzitutto con un grande ringraziamento per essersi collegato in questo periodo particolarmente intenso di lavoro. Quindi, appena ho finito, gli facciamo anche un grande applauso, ma vorrei già lanciargli una domanda come introduzione. Vorrei sapere un po’ da lui che ci raccontasse qual è la sua lettura di questi giorni. Io credo che in questi giorni abbiamo almeno letto dai racconti di un momento, potremmo dire, di riconciliazione, almeno per il Partito Democratico, che, lo ricordo, è passato attraverso una fase turbolenta. Per chi, diciamo, avesse passato gli ultimi mesi su Marte, ricordo che Joe Biden, il presidente, ha lasciato la sua candidatura in favore della vicepresidente Kamala Harris, che quindi questa sera, questa notte in Italia, verrà formalmente, ufficialmente incoronata come la candidata del Partito Democratico. Vorrei chiedere, oltre a ringraziarlo, a Maurizio Molinari, una sua lettura del significato di questi giorni e delle cose che ha visto. Lo ringrazio e lo accogliamo con un grande applauso.
Molinari. Grazie Mattia, grazie al Meeting di Rimini. Hai ragione in quello che hai detto: questa è la campagna elettorale delle sorprese, e Chicago, in questa condizione, non fa eccezione. Ciò che colpisce sicuramente è il ruolo di primo piano delle donne. Le donne guidano la politica dei democratici, ne sono l’espressione, come hanno fatto con Michelle Obama e con Hillary Clinton, ma anche ieri sera, ad esempio, con Nancy Pelosi, che ha pronunciato i discorsi politicamente più impegnati, più importanti. Sono la maggioranza dei volti delle delegate, esprimono una straordinaria energia e sono protagoniste di un’agenda che ruota attorno al termine “libertà”, dove per libertà si intende anzitutto la libertà personale, la libertà di gestione del proprio corpo e quindi anche le scelte che hanno a che vedere con la riproduzione, quindi anche il diritto d’aborto. Questa è la carica di maggiore novità, esattamente come assieme, Mattia, ti ricorderai, abbiamo vissuto e raccontato la stagione e la scommessa di Barack Obama, il primo afroamericano che correva per la Casa Bianca e poi la vinse per due volte. In questo caso è la donna. Una donna che mette assieme le eredità degli Obama, le eredità dei Clinton, le eredità di Barack e quella di Hillary, e che chiede il voto. Qui però c’è il secondo elemento. Se le donne sono la base, se le donne sono l’identità – e attenzione perché le donne sono poi alla fine anche la maggioranza degli elettori in America – il secondo tassello è il ceto medio, ovvero la lotta alle disuguaglianze, e qui il termine è “inclusione”. La gioia di una democrazia, l’idea di opporre a una descrizione della società tutta in negativo, attribuita a Trump, un’idea di una società che include, che include ogni tipo di minoranza, ogni tipo di gruppo, ogni tipo di identità, ogni tipo di genere, e ogni tipo di tassello sociale che soffre a causa delle disuguaglianze. Basterebbe questo per dire che questa idea di grande coalizione libera o democratica è sicuramente una novità sul piano americano, ma c’è molto altro. Tanto per darvi un’idea, Bernie Sanders, portavoce dell’ala più libera del Partito Democratico, la più a sinistra, come una volta Ted Kennedy, Bernie Sanders si definisce un socialista. Ha fatto un discorso nel quale ha testualmente detto: “Noi siamo i più progressisti qui dentro. Noi siamo stati con Biden perché è stato il presidente molto più progressista di Obama nelle scelte che lui ha fatto. Noi sappiamo che il Partito Democratico non è sulle nostre posizioni, ma il Partito Democratico, questa è la frase che lui ha detto, dobbiamo guardarlo come in Europa si guarda alle coalizioni. Noi siamo parte della coalizione del Partito Democratico.” Questa idea è molto forte e spiega perché Kamala Harris, tutti i suoi portavoce, tutti i suoi alleati – Shapiro, il governatore della Pennsylvania, Bashir, il governatore del Kentucky, Pritzker, il governatore dell’Illinois – tutte queste persone, cosa dicono? Si rivolgono ai repubblicani, e dicono ai repubblicani: votate per Kamala, agli indipendenti. L’ha detto chiaramente Michelle Obama, l’ha detto anche Barack Obama, l’ha detto Hillary Clinton. Il punto è che il Partito Democratico ha una grande coalizione, una grande casa di tutti gli americani che vogliono difendere e rinnovare la democrazia americana, perché la sfida, questo è il cuore del messaggio di Nancy Pelosi, è fra autocrazia e democrazia, identificando in Trump un personaggio per il quale l’unica cosa che conta è il suo potere, la sua capacità di imporsi su tutti, sulle regole, sui collaboratori. E questo è l’elemento: tutta l’America contro Trump. E questo è un altro elemento di novità, perché in effetti chi ha seguito, Mattia, siamo noi, la convention di Milwaukee, ha notato che la narrativa di Trump è stata proprio il movimento di Trump. A Milwaukee, dal palco della convention, non si è mai parlato del Partito Repubblicano. Gli oratori che pronunciavano la parola “Partito Repubblicano” erano pochissimi. In realtà, esattamente come il candidato vicepresidente Vance ha detto, noi siamo il movimento di Trump. Quindi questa elezione, noi usciamo da Chicago e da Milwaukee con un duello anche qui molto nuovo. Da una parte c’è il Partito Democratico che si professa inclusivo di tutte le identità politiche che ci sono in America. Tutte. Certo, siamo progressisti, certo, siamo liberali, ma includiamo anche i repubblicani e gli indipendenti e i libertari. Dall’altro fronte, c’è un movimento che si riconosce nella persona fisica di Donald Trump.
Ferraresi. Approfitto brevemente per chiederti un’ulteriore domanda su questo. Tu te lo aspettavi? Cioè, la domanda è… C’era un alone di sfiducia, ma non solo nel Partito Democratico, nella forma del partito in generale, e direi più in generale nella politica. Tutti questi mesi con le pressioni su Biden per ritirarsi e tutto questo dibattito sembrava che, almeno nel racconto che noi ne abbiamo fatto, finisse tutto in una specie di grande rissa fra correnti, personalità diverse, Biden stesso non ha segnalato di essere stato particolarmente felice di doversi fare da parte, il clan di Obama e i socialisti da una parte… Ti aspettavi che il partito potesse invece riprendere in mano la cosa, tutto sommato in modo, direi, ordinato e anche con, diciamo, una certa coerenza, cosa che, a prescindere dagli schieramenti, forse ci dà un segnale almeno di fiducia nella politica, nella capacità anche delle vecchie forme, che ci sembrano un po’ sorpassate da movimentismi e personalismi, ancora di dire qualcosa, essere in grado di prendere decisioni?
Molinari. No, non me lo aspettavo, è stata una sorpresa e il primo indicatore che questo stava avvenendo è arrivato nella prima giornata, dove sono avvenuti due fatti. Il primo è stato l’inizio delle manifestazioni pro-Gaza e lì è stato subito evidente che il Partito Democratico aveva deciso di tenerle il più lontano possibile dalla convention. È vero che Kamala Harris ha un approccio personale alla sofferenza dei civili palestinesi a Gaza diverso da quello di Biden, ma ha fatto di tutto per tenere questo tema lontano dalla convention. Anzi, ieri sera la convention ha abbracciato in maniera calorosa la famiglia di un ostaggio israeliano nelle mani di Hamas. Perché? Perché il partito aveva capito che il tema Gaza avrebbe lacerato profondamente la convention e distrutto questo tentativo, invece di unire il Partito Democratico su una nuova piattaforma inclusiva. Questo è stato il primo evento ed è successo prima ancora che iniziassero i lavori lunedì pomeriggio. E poi c’è stato un intervento di Biden: è vero che è stato molto identitario, però Biden ha rivendicato i suoi risultati e poi è fisicamente scomparso. È vero che tutti lo ringraziano, che c’è questo coro che nasce, che viene dal parterre, “Thank you Joe, thank you Joe”, però il punto vero è che lui e i suoi uomini non ci sono più. Questo è il partito di Kamala, ovvero il partito di Barack Obama. La vera staffetta è stata questa. Finisce la stagione dei Clinton, che ha avuto poi l’ultima propaggine in Biden a fianco di Barack, e inizia il partito completamente nelle mani di Barack e Michelle, direi più di Michelle, che ha come sua espressione politica Kamala e, consentitemelo, come espressione pop Beyoncé.
Ferraresi. Grazie mille a Maurizio Molinari. Ti ringrazio molto, Maurizio, per il tempo che ci hai dedicato. Oggi hai davanti a te una giornata molto intensa, quindi ti lasciamo al tuo lavoro con un altro ringraziamento, un applauso e un saluto. Buon lavoro.
Molinari. Grazie mille, buon lavoro e grazie al Meeting di Rimini. Grazie.
Ferraresi. Passo senza indugi a presentarvi gli ospiti che abbiamo qui, con cui parleremo in presenza, cercando di andare un po’ a fondo anche delle cose che ci ha raccontato Molinari da Chicago. Abbiamo Paul Kahn, giurista, teorico politico e con interessi vastissimi ed eclettici; insegna ed è professore di Law and Humanities alla scuola di legge di Yale. E accanto a lui c’è una persona che non ha bisogno di presentazione al Meeting di Rimini, ma certamente ne merita una, che è Joseph Weiler, anche lui giurista ed è professore alla scuola di legge della New York University. Li accogliamo con un grande applauso. Cercando di fare il mio mestiere di giornalista, direi questo: se dovessi dire l’immagine che da qui abbiamo dell’America e di quello che sta succedendo, ma dell’America in generale, non solo di quello che sta succedendo in questa campagna, direi che ci sono due caratteristiche che vengono messe in luce. Giusto o sbagliato, sto parlando della percezione, almeno quella che ho io, e penso molti di voi, che magari conoscono l’America attraverso la mediazione di chi fa il mio lavoro. Sono due caratteristiche: una è la divisione e l’altra la violenza. Divisione a tutti i livelli, cioè il racconto e la percezione dell’America è un luogo diviso fra la campagna e la città, fra l’America di mezzo e l’élite costiera, fra i ricchi e i poveri, fra i bianchi e i neri, divisioni di tipo razziale a tutti i livelli, fra i più educati e chi invece non ha o ha una scarsa istruzione di base, insomma tutte queste divisioni. L’altro aspetto è la violenza, dove per violenza l’aspetto che naturalmente ci viene, credo a tutti, più in mente è l’aspetto della violenza delle armi da fuoco, delle stragi di massa e anche della violenza politica, ad esempio nel caso dell’attentato a Donald Trump, che tutti abbiamo visto e di cui ci siamo già praticamente dimenticati. Però c’è anche un altro tipo di violenza, una violenza, direi, autoinflitta. C’è anche un popolo dove i morti per overdose da oppioidi sfiorano più o meno le 100.000 persone all’anno, con una percentuale di crescita incredibile. C’è un popolo che soffre, che ha margini di sofferenza enormi, tanto che due grandi economisti, che si chiamano Angus Deaton e Anne Case, hanno coniato già ormai parecchi anni fa questa definizione delle “morti per disperazione”; non avendo altra categoria sotto la quale mettere tutta una serie di patologie e malesseri che portano alla morte precoce hanno trovato che la disperazione fosse la categoria che tentativamente le includeva tutte. Purtroppo, trovo che sia una definizione felice. Ecco, io vorrei approfittare dei nostri ospiti, che sono profondi osservatori della società americana e non solo commentatori della superficie politica e dell’effimero. Io vorrei che ci aiutassero a capire, intanto, se questa percezione, che, almeno è la mia percezione, è vera, ha un suo perché. Magari io naturalmente l’ho estremizzata per farmi capire. E poi vorrei che ci aiutassero a capire, a provare ad approfondire quali sono le cause profonde, quali sono le radici di questo malessere e di queste divisioni, di questa violenza, così come la percepiamo almeno qui. Darei la parola a Paul Kahn, che – ho dimenticato di dirlo – ha scritto qualche anno fa un libro bellissimo che si chiama “Democracy in Our America”, in cui coglieva alcune di queste patologie della democrazia americana raccontando però la cittadina dove vive, ha vissuto, per gli ultimi 25 anni, come se fosse una specie di microcosmo, un piccolo laboratorio nel quale vedere con il microscopio ciò che sta succedendo nella società americana. Quindi questa prospettiva, io credo, sia molto utile, affascinante e anche assolutamente unica per capire meglio. Paul.
Kahn. Bene, innanzitutto grazie al Meeting di Rimini per avermi invitato. Allora, vorrei rispondere a queste due domande una alla volta. Penso che ci sia un problema forse di esagerazione e di immagine. L’America è divisa, però dobbiamo stare attenti a quello che vogliamo dire. La nostra democrazia, anche, fa fiorire le divisioni, perché la democrazia muore quando c’è troppa uniformità. La democrazia ha bisogno di forti opposizioni, e anche di diversi gruppi di interesse e di persone che si occupano di diverse questioni, di idee con cui altri non sono d’accordo. La democrazia è un sistema di governo particolarmente adatto alle divisioni, quindi non dobbiamo temere le divisioni in democrazia, dobbiamo celebrare le divisioni. Allora, la domanda è: quando è che la divisione diventa pericolosa per la democrazia? Quando è che questa divisione diventa una caratteristica patologica per la democrazia? Quanta divisione può sopportare una società? Ecco, qui credo che abbiamo delle questioni importanti. E la percezione comune è corretta: il Paese diventa sempre più polarizzato. E cosa succede quando è polarizzato? Che le persone assumono una posizione. E la polarizzazione significa che, nonostante tutte le nostre divisioni, più o meno grandi, si creano solo dei grandi gruppi di interesse di tipo politico. E cosa succede? Che in America adesso c’è una comunicazione tra questi gruppi che sta scomparendo, non ci sono più azioni condivise, c’è un’esacerbazione della divisione attraverso anche i mezzi di comunicazione. E questo arriva al punto in cui questi due gruppi non si fidano più l’uno dell’altro, non credono più che ci sia un terreno comune, una base comune di opinioni, di impegno per un impegno politico comune unico. In alcuni dei miei lavori più estremi, ho scritto che il Paese è al margine di una guerra civile. Cosa voglio dire con “guerra civile”? Intendo la violenza. Parlerò della violenza tra poco. Ma la guerra civile è una situazione in cui le istituzioni politiche di un Paese non sono più in grado di colmare le divisioni nel Paese. In quella situazione, una decisione di un’istituzione non placa i conflitti, ma li esacerba. Quindi abbiamo visto nelle elezioni del 2020: ha vinto Biden, Trump non ha detto, come era tradizione negli Stati Uniti, “dobbiamo unirci a sostenere il nostro Paese.” Lui ha detto “non è il mio Paese, non è un presidente legittimo, non è il mio presidente, non ha vinto lui.” Ecco una situazione in cui, invece di avere elezioni che mettono tutti d’accordo su chi è il presidente, si crea invece un conflitto politico. Si può dire la stessa cosa anche delle decisioni della Corte Suprema. C’erano persone che dicevano: “beh, è così che ha parlato la Corte Suprema, e la questione è stata appianata.” Invece, adesso ci sono persone che vanno contro le decisioni della Corte Suprema. Il partito di coloro che perdono dice: “no, è una decisione illegittima e non rispetteremo la decisione.” E questa è una situazione molto pericolosa per un Paese quando le istituzioni non sono in grado di gestire queste divisioni. E penso che ci troviamo in questa situazione, o vicini a questa situazione, molto spesso. Non è che ci siano divisioni molteplici, c’è una sola forte divisione che polarizza il Paese in due mentalità politiche organizzate diverse. Da una parte abbiamo i populisti, partiti populisti molto ben organizzati che si organizzano attorno alla personalità di Donald Trump. Dall’altra parte abbiamo il Partito Democratico che, abbiamo appena sentito dire, è una coalizione, una coalizione con diversi interessi. Per essere una coalizione di diversi interessi bisogna essere un partito tollerante; bisogna tollerare le differenze e la tolleranza può apparire molto minacciosa a coloro che si trovano dall’altra parte. Non vogliono parlare della tolleranza, loro vogliono parlare della verità. Quindi, penso che la prima cosa che posso dire è che sì, siamo divisi, ma la divisione non è un problema in democrazia. La forte polarizzazione che va al di là della capacità delle istituzioni di colmare tale polarizzazione è veramente il problema di un Paese democratico, dove la democrazia può rompersi in pratica. E abbiamo avuto casi nella storia, per esempio la schiavitù contro l’abolizionismo, e ci possono veramente essere problemi con i risultati delle politiche e le istituzioni. Sono preoccupato per questa situazione. Vedremo cosa succede dopo le elezioni, se c’è veramente un’unione o se c’è un’esacerbazione ulteriore della divisione.
L’altra questione è la violenza. La violenza è una questione complicata da capire negli Stati Uniti. Vorrei cominciare con un esempio che potrebbe sconvolgervi. Io vivo in una cittadina piccola, ne parlava Mattia, che non è così lontana dai grandi centri urbani americani. Ne parlo nel mio libro, di questa cittadina di 6.400 abitanti. E non abbiamo una forza di polizia, non abbiamo bisogno della polizia lì. A volte ci sono delle persone che fanno qualcosa di sbagliato, ma se ne occupa la comunità. Se c’è un problema vero, allora magari sì, potremmo chiamare la polizia, però in generale la città si regola da sola, se qualcosa succede la gente se ne accorge e c’è una risposta. E quindi non c’è questa sensazione di prevenzione del crimine nei quartieri con la presenza della polizia. Noi abbiamo una casa di vacanza sulla costa, che abbiamo avuto per tanti anni. Per trent’anni non è mai stata chiusa a chiave la porta di quella casa. Siamo stati lì tante volte, non ci sono mai stati problemi di violenza o di criminalità. Quindi, nella maggior parte del Paese non c’è un problema di criminalità. Sì, ci sono atti criminali, occasionalmente, ci sono adolescenti… ci sono problemi con i suicidi, con la violenza domestica, ma non abbiamo un problema di criminalità lungo le nostre strade. Quindi, quando parliamo del problema del crimine in America, parliamo di quartieri specifici, di zone specifiche, ma parliamo anche del fenomeno culturale delle uccisioni di massa, dei massacri di massa. E lì sì che abbiamo un problema molto grave, di solito con giovani alienati che si procurano fin troppo facilmente un’arma negli Stati Uniti, per motivi di cui potremmo discutere; questi giovani di solito sono maschi, sono giovani, sono alienati e sono disturbati psicologicamente in maniera molto profonda e spesso sono in procinto di commettere un suicidio. Diventa quasi un rituale nel momento in cui attaccano e fanno delle stragi, una follia omicida, e questa è proprio una patologia che deve essere affrontata come tale. E uno dei motivi per cui è difficile gestirla è che è totalmente imprevedibile. Questi sono soggetti giovani, depressi, alienati, e ce ne sono dappertutto. E le armi sono dappertutto. Allora, come possiamo prevedere dove succederà una cosa del genere? Ovviamente, le persone ne sono spaventate, giustamente. Però non si può fermare questa cosa aumentando il numero di poliziotti. La persona che ha sparato a Trump non avrebbe potuto essere identificata dalla polizia, non era neanche tanto interessata a Trump. Quindi, questo è il problema della violenza. La violenza in America sta diminuendo, di fatto. Non è un problema in tantissimi posti del Paese, in alcune città lo è. Però penso che l’immagine della violenza in America sia modellata proprio da questa patologia specifica della follia omicida di massa.
Ferraresi. Ringraziamo Paul, grazie Paul. Tornerò da te chiedendoti di approfondire alcuni aspetti delle cose che ci hai detto, che toccano, secondo me, la parte descrittiva. Vorrei andare un po’ più in profondità nell’indagarne ancora le cause, sfruttando la tua esperienza di osservatore. Però, prima, vorrei chiedere a Joseph di intervenire e reagire su questo.
Joseph. Grazie. Innanzitutto, io mi sento più a casa nella Bibbia che nella politica americana, però…
Ferraresi. Hanno alcuni punti in comune.
Weiler. E la seconda cosa, che poteva rispondere alle tue domande in maniera più facile, molto facile: sono d’accordo con Paul Kahn. Andiamo avanti. Però vorrei esprimere il pensiero che lui ha espresso sulla divisione in maniera un pochino diversa, dicendo la stessa cosa in maniera diversa. Allora, pazienza. Immaginiamo di andare dai danesi in Danimarca e di dire loro: “Perché non decidete di diventare una parte della Germania, un Paese democratico per eccellenza? Sarete cittadini con tutti i diritti, potete essere eletti, potete eleggere, un giorno ci potrebbe esserci un danese cancelliere della Germania.” Sicuramente la risposta sarà: “Grazie, ma no, grazie.” Perché sarà questa la risposta? Non perché la Germania non sia un Paese democratico, ma – la parola “democrazia”, demos kratos – loro sono tedeschi, noi siamo danesi. Non sarebbe democratico perché sarebbero i tedeschi a governare i danesi. Quella sarà la risposta. Ora, un concetto teorico ma molto facile da capire: la democrazia dipende non soltanto da vere elezioni, libere, rappresentative, da un parlamento e da tutte queste cose, ma dipende dall’esistenza del demos. Se non c’è un demos, un popolo, non può esserci una democrazia. In Italia, come ha detto Paul Kahn, ci sono divisioni tra la sinistra, Fratelli d’Italia, eccetera, si odiano, però si sentono tutti italiani e se nelle elezioni vince un partito o l’altro dobbiamo accettarlo perché questa è la volontà del popolo italiano. La mia paura riguardo alle divisioni e alla polarizzazione di cui ha parlato Paul Kahn in America è che il demos americano si sta spaccando. Cioè, non si dice più “non ci piacciono le vostre politiche sulla tassazione, la politica estera, eccetera”. Si vede nella retorica: “Non siete veri americani.” Al momento, non vorrei dire che siamo già arrivati a questo punto, ma nel momento in cui la polarizzazione e la divisione arrivano al punto in cui entrambe le parti dicono “voi non siete veri americani”, è come se i danesi dicessero: “Saranno i tedeschi a governare i danesi.” Non è perché il sistema formale, strutturale, costituzionale non sia democratico, semplicemente io non ti riconosco come un vero americano. Mi sento alienato da te e se arriviamo a questo punto non c’è speranza per la democrazia americana. Grazie.
Ferraresi. Proprio su questo, proseguendo sul filo del ragionamento di Joseph, volevo chiedere a Paul Kahn di approfondire un aspetto che lui ha toccato. Adesso lo hai solo accennato, ma nei tuoi libri e nei tuoi scritti, lo hai approfondito in modo più chiaro. Vorrei che ci introducessi un po’ all’aspetto dell’erosione della vita civica e della diminuzione della partecipazione (attività di volontariato…). Hai dedicato molto spazio a tutte le forme che potremmo, in un certo senso, chiamare pre-politiche, ma che sono in realtà già politiche, quelle appunto della comune libera associazione per fare cose, per costruire, per trovare significato, per creare legami, per creare opere, per creare qualunque cosa, che è un tratto… diciamo, già Tocqueville, quando fa il suo famoso viaggio in America, e che risulta nel libro “La democrazia in America”, nota subito questo aspetto: gli americani sono dei joiners, diceva, cioè gente che si mette insieme per fare cose. Vorrei che approfondissi questo aspetto, che è stato un oggetto della tua riflessione e che, secondo me, ci può aiutare a capire di più.
Kahn. Sì, cercherò di ricollegarmi anche alla risposta di Joseph. Credo che, quando pensiamo alla democrazia, sia molto importante avere un’idea ampia di democrazia. La democrazia non riguarda solo il votare, andare a votare nei giorni delle elezioni. Quando si parla di democrazia, non si tratta solo di procedure su aspetti specifici e temi specifici. Questa è un’idea molto esigua di democrazia. La democrazia in realtà racchiude altri due elementi: uno si ricollega proprio alla società civile, cioè lo stato di diritto. La democrazia, quindi, si impegna nell’idea che ciascuno debba sottoporsi alle leggi, seguire le leggi, e soprattutto che il diritto e le leggi rappresentano un’espressione della sovranità del popolo. Quindi, il diritto e le leggi non sono solo un’imposizione, ma sono un’espressione proprio di un’identità politica e storica. Gli americani, appunto, hanno un grande rispetto per la loro Costituzione, hanno già una certa storia di stato di diritto. È molto importante che ci sia questa considerazione del diritto e delle regole, delle leggi, come parte della democrazia. E poi ci sono anche i diritti, i diritti umani. Ogni comunità politica caratterizza la democrazia e in essa gli individui sono riconosciuti con pari diritti, pari dignità e degni di pari rispetto. Ecco perché la democrazia vede la partecipazione delle persone e soprattutto l’impegno e il coinvolgimento delle persone. E poi sì, ci sono le votazioni, ma sono solo uno degli elementi costitutivi di una democrazia. Quindi: come possiamo formare cittadini virtuosi che credano nella legge come espressione di una ragione politica, di una volontà politica, che rispettino gli altri cittadini, e che considerino il voto non come l’espressione ultima di democrazia, ma come una fase della democrazia, qualcosa che consente di decidere su un tema in un certo momento. La mia preoccupazione rispetto agli Stati Uniti è che questo concetto di democrazia non viene capito, non si producono cittadini virtuosi. C’erano due tipi di istituzioni che in passato si occupavano di questo: la società civile, come le chiese, i sindacati, le scuole, le organizzazioni della società civile in genere, e anche tutte le istituzioni di istruzione pubblica. E poi c’è anche la partecipazione agli Enti Locali, ai governi locali. Lì le persone imparavano a rispettarsi, a lavorare insieme, a creare istituzioni che si assumessero responsabilità e riconoscessero anche l’autorità. Che cosa è successo negli ultimi 50 anni? C’è stata una riduzione consistente nell’impegno verso la società civile. Lo si vede ovunque: le chiese sono vuote, anche il commercio locale sta scomparendo, le associazioni di volontariato anch’esse stanno morendo. Lo vediamo con i giornali locali che stanno scomparendo anch’essi. C’è proprio una riduzione di tutto questo, e tutto si riduce al nucleo delle famiglie, tutto si chiude lì, e francamente autogovernarsi all’interno della famiglia è già molto difficile. C’è bisogno di comunità, di un supporto della comunità. C’è bisogno anche di amici, di relazioni. Questo produce un senso di alienazione e anche la scomparsa di questi cittadini virtuosi. Quindi, che cosa manca? Questo vuoto viene colmato dai social media, dalla propaganda che viene infinitamente generata da essi, anche da questo ambiente di diffusione delle informazioni. Potremmo dire la stessa cosa anche dei governi locali, che stanno scomparendo: le persone non partecipano più. A volte le persone sono semplicemente troppo impegnate, occupate a causa del lavoro, piuttosto che dalla vita personale, quindi queste sono alcune delle motivazioni. E poi si sono perse anche le reti di informazione, quelle reti che tenevano informate le persone su quello che avveniva nelle comunità locali. Ormai le comunità locali stanno diventando invisibili. Nella mia città, ad esempio, è più facile sapere cosa succede a Washington D.C. che all’interno della nostra cittadina: è assurdo, paradossale. Non riusciamo a sapere cosa succede nel nostro municipio, ma sappiamo tutto su quello che avviene a Washington D.C. E questo poi ha un impatto enorme sulla capacità degli individui di essere cittadini a tutto tondo, di impegnarsi non solo rispetto al voto, ma proprio di essere cittadini a pieno titolo, che si prendono cura degli altri, che hanno rispetto della legge, delle regole e che cercano anche di impegnarsi nelle attività e di autogovernarsi. La grande sfida per le future generazioni è come far fronte a tutto questo, e sicuramente non si prospettano tempi facili per la democrazia.
Ferraresi. Rimango un attimo con te, Paul, perché voglio chiederti una cosa su questo prima di ripassare la parola a Joseph. Perdonate se uso ancora Tocqueville, che comunque ha scritto un libro che sembra veramente descrivere in modo profondissimo anche il presente. C’è questo altro aspetto. Tra le tante contraddizioni che lui notava nel suo viaggio per descrivere l’America c’era questa: gli americani si mettono insieme naturalmente per fare tante cose e, allo stesso tempo, sono minacciati da una forza di cui Tocqueville era molto preoccupato, che è l’individualismo. Mi sembra che tu stia dicendo, in un certo senso, “tocquevillianamente”, che questo secondo aspetto sta diventando prevalente, ha preso il sopravvento su quell’altra forza della capacità di unirsi e mettersi insieme per costruire. È corretto? Sto andando nella giusta direzione?
Kahn. Sì, credo che ci sia una relazione molto interessante tra l’individualismo e una certa caratterizzazione della vita politica. Tocqueville diceva che se diventiamo troppo individualisti poi le singole opinioni rischiano di dominare intere comunità, rischiano di schiacciare anche la diversità del pensiero. Quando poi la pubblica opinione diventa nazionale, può scaturire in queste famiglie, che sono isolate. Pensiamo a Fox News, ai social media, che sono forze distruttive a livello locale, sovversive, perché a livello locale non c’è niente con cui opporsi. Abbiamo bisogno di corpi intermedi che consentano alle persone di relazionarsi a livello locale e condividere responsabilità. Credo che una democrazia priva di individui che si assumano le responsabilità della vita pubblica sia una democrazia fallace, in fallimento. Non ci può essere una democrazia di soli spettatori in cui tutto è solo rappresentazione. Abbiamo bisogno di imparare la lezione di assumerci responsabilità come cittadini. È solo così che si può resistere a questa dominazione non mediata di un’unica opinione. Dobbiamo creare situazioni in cui le persone possono confrontarsi e cercare di capirsi. Per me questa è una virtù che appartiene alle piccole comunità, ai governi locali. Nei pochi giorni in cui sono stato qui, sono stato colpito dal Meeting, perché una realtà del genere è quello che manca negli Stati Uniti: ci sono tantissimi volontari che si assumono una responsabilità e si impegnano per gli altri, hanno un progetto comune. Questa è la mia visione di come dovrebbe essere la vita sociale in una cittadina americana. Poi è chiaro che ci sono anche grandi centri urbani in America, non solo piccole cittadine, ma anche a livello urbano esistono delle possibilità di assunzione di responsabilità a livello di comunità locali, attraverso i Boy Scout, poiuttosto che centri di comunità, gruppi di volontari che possono prendersi cura degli anziani. Si tratta di iniziative che permettono ai cittadini di impegnarsi e partecipare alla vita comune di una società. Questa è anche l’essenza dei governi. I governi non sono solo istituzioni politiche, ma sono si tratta anche di governance, istituzioni che partecipano a regolare la nostra vita. Questo è molto importante per lo stato di salute della democrazia, e non solo per lo stato del Congresso piuttosto che della Presidenza.
Ferraresi. Grazie, Paul. Joseph, dicci cosa pensi. Tra l’altro, sono vent’anni che frequenti questa comunità che potrebbe ispirare una piccola società urbana americana.
Weiler. Il fatto che mi invitano è già la prova, no?
Ferraresi. Va beh, l’anno prossimo vediamo.
Weiler. Il primo commento è che non mi piace quella divisione, la retorica di populisti, perché se ci piacciono sono “popolari”, se non ci piacciono sono “populisti”, giusto? Allora evitiamo questa etichetta. Potevo anche qui dire: sono d’accordo con Paul Kahn, ma vorrei mettere più in evidenza una cosa che ha detto in passato e su cui ha scritto parecchio, che secondo me è molto importante. Tornando alla tua prima domanda sulle divisioni, hai detto della divisione fra la popolazione urbana e quella meno urbana, fra quella con educazione superiore e i “meno educati”, in una certa maniera fra i più benestanti e i meno benestanti – in Europa avrebbero detto tra la classe operaia e la classe media, ma questo è comune. La domanda è …, e lo dico in maniera un po’ esagerata: ci sono alcuni settori della popolazione che, non si capisce perché, per esempio, possano andare in una direzione trumpista. La cosa che vedo non è che magari loro sono ricchi e noi siamo poveri o loro hanno un’educazione superiore e noi no. Noi non veniamo rispettati. Il rispetto è un elemento fondamentale della vita civile. La persona può accettare che qualcun altro sia più intelligente, che abbia avuto più fortuna nella vita, che sia nato a Boston e io sono nato in un piccolo paese in Virginia. Si può convivere con queste distinzioni. Ma quando sento che mi guardano con disprezzo, dall’alto in basso, questo mobilizza e dà un aspetto di amarezza, proprio, vorrei vendicarmi perché non mi sento rispettato: ho la sensazione che non sono rispettato. Che il mio lavoro, anche il lavoro manuale… una volta qualsiasi lavoro era degno, oggi se non lavori per Google non vale più e quel sentimento di mancanza di rispetto è la benzina di questa deflagrazione americana. È veramente una piccola nota a quello che ha detto qui il grande maestro Paul Kahn.
Ferraresi. Joseph, sono curioso di sapere: è un po’ quello che ci dicevi prima, questa mancanza di rispetto da dove nasce? Dall’idea che l’altro non è considerato come parte della comunità, non è considerato all’altezza di essere parte dello stesso popolo o di avere un progetto comune? È questo?
Weiler. No, questa è la conseguenza della mancanza di rispetto, non la fonte. Viene semplicemente dal sentimento che mi guardano dall’alto in basso, che pensano di essere superiori, più educati, più meritevoli. È questo. E qui la cultura è cambiata. Vorrei dire che esiste questo sentimento anche in Europa, in Francia, in Polonia, eccetera. Quando la gente si sente non rispettata, anche se ha una vita decente, anche se va a lavorare, si crea un risentimento molto più forte della divisione classica tra ricchi e poveri, eccetera. È un nuovo sistema di classe, non quello vecchio marxista, ma un nuovo sistema. Loro si pensano come élite, anche se non vogliono ammetterlo, e noi siamo… va bene, dobbiamo supportarvi.
Ferraresi. Qui ci sta un piccolo aneddoto giornalistico: tra i giornalisti c’è l’opinione perché nel 2012, quando c’è stata la cena dei corrispondenti della Casa Bianca, una tradizione in cui il presidente fa un sacco di scherzi e ci si prende tutti quanti in giro, c’era anche Trump presente, che all’epoca era stato un candidato ma di scarsissimo successo. Molti degli scherzi, anche molto duri, molto brutali, erano stati rivolti a lui. Si dice che quel momento sia stato decisivo nell’infiammare questo risentimento e indurre in lui il pensiero: “Adesso davvero farò il presidente degli Stati Uniti per vendicarmi di questo”, cioè della società che mi sta irridendo davanti a tutti. È un piccolo aneddoto, ma forse ci dice qualcosa della forza – mai da sottovalutare – di chi sente una mancanza di rispetto e si sente trattato senza dignità. Paul, volevi aggiungere qualcosa.
Kahn. Sì, vorrei condividere qualche pensiero su questo sentimento di non sentirsi rispettati. Sono d’accordo con Joseph; è vero, si tratta di una forza politica molto potente, ma dobbiamo stare molto attenti nel trattarla. Non si tratta, credo, di un’emozione naturale nella vita politica, è un’emozione per così dire coltivata. Secondo me c’è molto risentimento; ad esempio nel Partito Repubblicano questo risentimento sicuramente è attizzato da Trump e dai suoi sostenitori, i suoi seguaci, il fatto di accusare l’altro partito, quindi anche di mancanza di rispetto culturale. Credo che sia qualcosa che non sia completamente vero nel senso che dagli anni ’60 in poi il Partito Democratico ha considerato la popolazione bianca media come il centro del partito democratico, e quindi si è cercato di estendere ad es. la tutela sanitaria alle classi meno abbienti. Tema dopo tema, c’è stato un tentativo, a livello di piattaforma politica dell’ala progressista del Partito Democratico, un focus su questa classe che si era sentita non rispettata a sufficienza. Molti citano sempre il commento non felice di Hillary Clinton su alcune classi considerate “deplorabili”. Ma in realtà questo commento forse è stato sopravvalutato. Credo che i democratici stiano reagendo in modo molto forte, ora sono molto più attenti a parlare un linguaggio di rispetto inclusivo. In passato i democratici sono stati considerati come un partito di persone istruite e forse in un certo senso c’era del vero, e si sono anche sentiti colpevoli per questo. Ma se guardiamo in modo più ampio la storia dei partiti e chi ha cercato di agire di più in favore delle classi più svantaggiate, penso che non ci siano dubbi sulla risposta su quale partito ha cercato di agire di più, di fare di più con i programmi politici per queste classi meno fortunate. Quindi, sicuramente ci può essere questo senso di mancanza di rispetto, ma credo che sia importante riflettere a più ampio spettro su tutta la storia della politica americana.
Weiler. Qui potevo dire “amen”.
Ferraresi. Perfetto.
Weiler. Però, è proprio quello che tu hai detto un minuto fa. È chiaro chi ha fatto di più. È chiaro chi ha fatto di più per questa classe media, bassa, quale partito, ma la domanda è: se è chiaro, perché hanno perso tanti di questi cittadini? E lì c’entra l’elemento di sentirsi non rispettati, ma poi hai detto una cosa molto importante – io ero troppo…: semplificare le cose. Cioè, che quando un politico furbo sente questo sentimento, allora capisce che deve alimentare questo senso di non rispetto perché si converta in voti per sé. Hai ragione. Allora il non rispetto è un fatto oggettivo ma anche un fatto soggettivo che viene sfruttato dai politici, quasi tutti, in tutto il mondo: chi ci interessa, cosa devo fare perché votino per me? E quando sentono questo sentimento, sanno di alimentare questo fuoco.
Ferraresi. Aggiungo un elemento per dare l’occasione a Paul di rispondere. Questa idea che il Partito Repubblicano, cioè la destra, sia invece una casa più ospitale, possa essere una casa più ospitale, soprattutto per la classe operaia, non è del tutto nuovo perché, vado a memoria, ma era degli anni ’70, credo del ’76, un famosissimo studio, famoso nel mondo della politologia americana su quelli che chiamavano “Reagan Democrats”, cioè i democratici, soprattutto nel Midwest, che erano naturalmente di sinistra e votavano il Partito Democratico, ma a un certo punto hanno fiducia in quel partito e trovarono che invece il Partito Repubblicano guidato da Reagan, potesse essere la loro casa politica e l’espressione dei loro interessi. Era solo per aggiungere il fatto che, associandomi alla domanda di Joseph (“perché poi non vincono?”) non è un fenomeno nuovo o completamente nuovo.
Kahn. In realtà, come dico sempre anche ai miei studenti, non c’è mai nulla di completamente nuovo. Ma credo che dobbiamo anche ricordarci che negli anni ’70 ci fu un riallineamento politico molto ampio negli Stati Uniti. Ci fu anche una strategia per il Sud da parte dei Repubblicani, e cercarono di andare a caccia dei voti dei bianchi nel Sud, per opporsi anche alla legislazione sui diritti civili. E il Partito Repubblicano cominciò ad assorbire elementi che tradizionalmente erano democratici; cercarono in un certo senso quasi di quasi rubare argomentazioni, ad esempio da chi aveva problemi con le questioni di razza, di uguaglianza di genere, le persone che erano in disaccordo sulla gestione dei conflitti – questo negli anni ’60-’70. Diciamo che forse questo partito è sempre stato incline a un certo tipo di risentimento, un partito che si era sempre costruito intorno all’opposizione culturale. Se facciamo un confronto con l’Europa, tutto quello di cui stiamo parlando ha pochissimo a che fare con le divisioni economiche. Non ci sono divisioni economiche all’origine di questa posizione politica; non si tratta di classe operaia contro capitalisti. Questo rende, secondo me, tutto il dramma degli interessi politici ancora più interessante, e questo lo vediamo nei partiti, non ci sono interessi economici dominanti. Ad esempio nel mio libro parlo anche di un effetto della prosperità, cioè vediamo che non sono i più ricchi che esercitano un dominio rispetto allo spettro politico, ma una cosa invece molto più importante negli Stati Uniti è il cosiddetto ritiro dalla vita politica, nel senso che ci sono persone che smettono di partecipare alla vita politica, anche delle comunità. E, ripeto, come dicevo, tutto si riduce alla cellula familiare. Non c’è un orientamento verso le comunità, non c’è più. E quindi questo fa sì che anche, non so, alle elezioni locali, municipali, non c’è più partecipazione, non c’è più interesse per questo tipo di partecipazione, o se c’è, è davvero molto esiguo. Quindi la politica americana ormai è una questione culturale, sociologica. E poi è chiaro che le persone più ricche hanno accesso a più risorse. Non voglio sminuire la questione della prosperità economica e materiale, ma per me è più importante forse proprio il fatto che l’America deve affrontare questa evoluzione della sua politica, cioè come la politica può tornare a essere interessante, come può di nuovo suscitare l’interesse e la partecipazione delle persone. Non abbiamo parlato dei media, ma anche i media contribuiscono a questa polarizzazione, ma bisognerebbe cercare di fare di più che ascoltare i media più diffusi per avere una democrazia di successo e riuscita.
Weiler. Mi permetti di fare io una domanda a Paul Kahn? Vorrei sfruttare la tua presenza qui e ci sono tre elementi che mi interessa molto sapere fai ad integrare nella tua visione: la questione razziale, la questione religione e l’immigrazione. Come questi tre elementi figurano nella tua, non teoria, ma nella tua visione, la tua analisi della circostanza americana e politica di oggi? Razziale? Quale era il secondo? Religiosa. La religione è un pochino importante, direi, no? E immigrazione.
Kahn. C’è sicuramente un allineamento di questi tre elementi se consideriamo le posizioni della destra. Il Partito Repubblicano Conservatore sta continuando a portare avanti delle battaglie sui temi razziali. Queste battaglie stanno assumendo una nuova forma, ad esempio rispetto anche agli attacchi, a certe istituzioni. Vediamo anche un cambiamento radicale, ad esempio nel corpo studentesco al MIT, proprio per alcune azioni affermative. Il problema della razza, appunto, in America è il fatto che le persone si considera non vengano trattate in modo equo. Ci sono, ad esempio, persone che si preoccupano moltissimo dei flussi migratori, soprattutto dell’immigrazione illegale. Quando si parla di immigrazione e del problema dell’immigrazione si fa sempre riferimento al confine col Messico, e il partito, rispetto anche al voto, fa leva su queste tematiche. Quindi, sicuramente, sono tre temi portanti delle argomentazioni repubblicane. A sinistra la situazione è più complessa. La prima cosa che direi è che negli Stati Uniti l’immigrazione, ma credo sia così anche in Europa, è un tema sempre difficilmente digeribile per i politici democratici. C’è sempre un amplissimo conflitto molto vivo tra l’ordine giuridico che regolamenta l’immigrazione e la capacità delle istituzioni politiche di gestire l’immigrazione stessa. Quindi gli immigrati hanno dei diritti, ma c’è sempre un rischio di crisi là dove ci sono dei confini. E molti miei amici detestano quando affermo questo, soprattutto quelli che agiscono a livello di diritti, ma è difficile trovare delle soluzioni puramente democratiche al problema dell’immigrazione clandestina. Vediamo che l’amministrazione Biden ha cercato di avere una risposta più basata sul diritto alla gestione dell’immigrazione. Però, alla fine, è stato necessario chiudere i confini perché la situazione rischiava di esplodere e andare fuori controllo. Quindi non c’è una risposta efficace da parte di nessuno al problema dell’immigrazione negli Stati Uniti. Nessuno dei due partiti ha una risposta efficace in merito. Sulla questione della religione è difficile per me rispondere. Negli Stati Uniti c’è una tradizione che fa sì che si sia trovata una pace con una sorta di privatizzazione della questione religiosa. Lo Stato ha mantenuto una certa distanza e non c’è nessuna pressione sul fatto di essere o non essere religiosi. Forse, il modo migliore per capire la sentenza del ’73 sull’aborto, Roe vs Wade, è proprio considerarla anche come una questione religiosa, nel senso che è una questione privata, quindi tra sé e la propria fede, così come la religione è una questione personale. Quindi questa decisione sull’aborto ha adottato un modello simile a quello usato per la religione. C’è sempre stato forse un tentativo di trattare questa questione come la religione, ma questa non è stata considerata come una buona risposta etica per gran parte della popolazione, e questo ha fatto sì che ci fosse una tensione anche a livello di vita pubblica nonché di accettazione di questa decisione. Questo forse ha dato una scossa alla questione religiosa negli ultimi decenni. Quindi mi sembra ci sia anche una connessione fra questi temi a destra. Ma la sinistra credo non abbia ancora le idee chiare su come affrontare in modo integrato questi tre temi. È chiaro che gli Stati Uniti sono una società di impronta laica. Qual era l’altro elemento?
Ferraresi. Razza, religione e immigrazione.
Kahn. Credo che la sfida sulla questione razziale, a sinistra, si sia forse evoluta più velocemente di quanto la politica fosse capace di assorbire. Il movimento dei diritti civili non ha risolto completamente alcune questioni. Ma credo che lo sforzo di affrontare le ingiustizie strutturali a lungo termine, soprattutto nei confronti di alcune minoranze, sia stato un tema polarizzante. Anche qui, forse, i politici non sono stati all’altezza di affrontare questo tema, ed è un tema che forse fino ad ora non è nemmeno stato affrontato molto nella campagna elettorale presidenziale, ed è strano considerando anche la natura etnica della candidata dei Democratici. Forse rispetto alla questione religiosa l’unico blocco della popolazione veramente interessante da un punto di vista politico sono gli evangelici.
Ferraresi. Grazie mille.
Purtroppo abbiamo solo pochissimi minuti, però un’ultima cosa vorrei dire, ma possiamo ridurla a una sola battuta.
La mia impressione da osservatore è che sia emersa negli ultimi tempi, in modo più forte, una critica agli Stati Uniti, dall’interno degli Stati Uniti, molto più radicale. Gruppi di pensiero, intellettuali e persone hanno iniziato a dire qualcosa che era forse meno detto in passato, cioè, non solo l’America ha un sacco di problemi, ci sono state mille questioni, la guerra civile, le questioni razziali, ma l’America in fondo, nella sua essenza, non è un progetto buono, è un progetto fondato su un fattore o dei fattori malvagi e quindi va criticato radicalmente, non va migliorato, non va portato avanti. Faccio solo un esempio: questa critica a sinistra, ad esempio nel mondo progressista, si è declinata con l’idea che in verità la fondazione degli Stati Uniti non è nel 1776 ma nel 1619, cioè l’anno in cui la prima nave carica di schiavi arriva sulle coste della Virginia, e quindi questo deve farci capire che i fondamenti stessi sono marci perché sono nati sulla schiavitù e sul male. Ti chiedo solo una battuta: evidentemente questo aprirebbe un grandissimo dibattito, però mi chiedo se anche tu, Paul, anche tu, Joseph, vedete l’emergere – e anche questo come parte della turbolenza che stiamo vivendo – l’emergere o il prevalere – ce n’è una versione anche di destra, peraltro, più conservatrice – di questo tipo di critiche radicali che mettono in discussione l’idea che all’origine stessa degli Stati Uniti ci sia un’idea buona su cui si può lavorare per migliorarla storicamente e per portarla avanti.
Kahn. L’origine degli Stati Uniti sono statui schiavitù e genocidio. Bisogna ammetterlo. Ma gli Stati Uniti sono un progetto moderno grandissimo, forse uno dei più grandi, il più grande: l’idea che una comunità possa crearsi, autogovernarsi, gestirsi e anche riuscire. Credo che sia l’espressione più profonda della modernità. Se siamo onesti, dobbiamo accettare questo dualismo, questa complessità. Tutto è cominciato con il peccato, poi tutto ha preso una forma che ha dato prova di una grande forma di democrazia. Alcuni peccati non si possono espiare, per altri si cerca redenzione ed è possibile. Io credo profondamente nel progetto americano e credo sia un grande progetto della mente umana. L’idea di una nazione di migranti che possa dar vita al paese più potente del mondo, beh, è qualcosa di incredibile. Se il progetto sia completamente davvero riuscito, forse non possiamo ancora dirlo. Sicuramente adesso questo progetto sta vivendo un momento di grande stress che lo sta mettendo a dura prova. Ma se questo progetto fallisse sarebbe una tragedia.
Ferraresi. Giusto applauso. A te l’ultima parola. A Joseph l’ultima parola, poi chiudiamo e salutiamo.
Weiler. Due cose: prima, quando ci sono i giochi olimpici, il mondiale, eccetera, è molto facile per me. Se c’è l’Italia, tifo per l’Italia, se c’è l’America, tifo per l’America, perché sono patriota italiano e patriota americano. Il problema è quando c’è l’America contro l’Italia, allora sono per la Spagna. In maniera un pochino più seria, questa critica, anche se oggettivamente può essere giusta o meno giusta, è un regalo che la sinistra fa alla destra, perché la reazione della destra è: “Loro criticano l’America, noi siamo fieri di essere americani.” E poi allo stesso tempo dicono: “Hanno ragione, starà a noi to make America great again!” È un regalo dal punto di vista politico. Grazie.
Ferraresi. Ci sta, bella lettura politica. Ringraziamo tantissimo Paul Kahn e Joseph Weiler, gli state già facendo l’applauso. Grazie. Grazie a tutti voi e buona serata. Però prima di darvi la buona serata veramente, mi corre l’obbligo di ricordarvi le donazioni. In questo particolare momento storico, dove sempre più incognite ci fanno chiedere come sia possibile costruire dialogo e pace, non potevamo non sentirci provocati e riaccesi da quanto ci ha detto il Cardinale Pizzaballa nel suo intervento all’incontro inaugurale. Per questa ragione il Meeting devolverà parte delle donazioni raccolte nel corso di questa settimana per l’emergenza in Terra Santa. Tenetelo bene a mente mentre visitate e vedete il Meeting e ne godete. Mi raccomando, buona serata.