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GIOVANNI BELLINI E GLI ANGELI DELLA PIETÀ COME ANNUNCIATORI DELLA RISURREZIONE
Giovanni Bellini e gli angeli della pietà come annunciatori della Resurrezione
Partecipano: Marco Bona Castellotti, Docente di Storia dell’Arte Moderna all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia; Massimo Pulini, Assessore alla Cultura, Identità dei luoghi e Istituto Superiore di Studi Musicali G. Lettimi del Comune di Rimini. Introduce Daniele Celli, Dirigente Scolastico.
GIOVANNI BELLINI E GLI ANGELI DELLA PIETÀ COME ANNUNCIATORI DELLA RISURREZIONE
Ore: 15.00 Sala C1 Siemens
DANIELE CELLI:
Vorrei presentare due personaggi ma sottolineo due persone dalla cui collaborazione nel contesto di un‘equipe più ampia è nata l’idea, il progetto, la realizzazione di questa mostra. Mi permetto solo una parola introduttiva, poi lascio all’assessore Pulini e al professore Bona Castellotti la parola. Una sola parola introduttiva che consta di due piccolissime sottolineature. La prima sottolineatura: questa mostra su questa opera di Bellini che è il capolavoro custodito e conservato nel museo della città di Rimini documenta in un certo senso una duplice ospitalità. La parola ospite nella lingua italiana ha un significato doppio: ospite significa chi è ospitato ma anche chi ospita. L’ospitato e l’ospitante. E quindi ospite contiene già in sé una duplicità. Dicevo allora che la prima sottolineatura riguarda la duplice e reciproca ospitalità: Rimini che ospita il Meeting e il Meeting che ospita Rimini. Questa opera, questo straordinario capolavoro di Giovanni Bellini, custodito nel museo della città di Rimini, che il Meeting ha reso protagonista della principale mostra da un punto di vista artistico dell’edizione di quest’anno, dice di questa collaborazione fra la città di Rimini e la Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli. Una collaborazione che già negli anni passati nelle precedenti edizioni ha prodotto significativi risultati e che anche quest’anno produce un significativo risultato di cui i due relatori ci parleranno. La seconda sottolineatura che mi permetto di offrirvi introduttivamente riguarda semplicemente una personale emozione che ho confidato poco fa ai due relatori e riguarda la percezione che ho vissuto guardando l’opera con l’aiuto di loro due – perché io come tanti di voi quest’opera l’avevo già vista – ma guardare un’opera da soli e guardare un’ opera, come un qualunque aspetto della realtà, con gli occhi di un maestro cioè con gli occhi di qualcuno che ha una competenza umana e specificamente professionale, è un’altra cosa. Ti permette, questo sguardo di chi è più autorevole di te, di entrare nelle fibre della realtà come da solo non saresti in grado di entrare. La personale percezione, che ho avuto guardando con il loro aiuto quest’opera ieri mattina, è stata quella di una commozione dovuta innanzitutto alla figura di questi angeli che attorniano Cristo deposto dalla croce in vista della deposizione nel sepolcro, angeli che sono caratterizzati da una serenità – qui loro correggeranno la mia approssimazione dal punto di vista della competenza specifica. Non c’è disperazione per una morte, la morte è un momento tragico che può indurre a disperazione. No, c’è una dolente serenità in vista di un evento che sarà vincitore della morte stessa. Questa certezza, questa fiduciosa certezza che questi angeli infondono è quello che personalmente mi ha colpito, toccato e che mi permetto molto umilmente, senza alcuna pretesa di filologia artistica, di offrirvi come personale confidenza, se si può essere confidenti a una platea piuttosto numerosa. Quindi, detto di questa duplice ospitalità e di questa commozione dovuta alla fiduciosa certezza che gli angeli di Bellini infondono, io cedo la parola all’ assessore Pulini e dopo di lui al professore Marco Bona Castellotti.
MASSIMO PULINI:
Al di là di un ringraziamento onnicomprensivo per il compimento di questa mostra, piccola ma che riteniamo importante, fatto al Meeting in senso generale, dato che il museo, che finora aveva semplicemente ospitato le mostre del Meeting, da quest’anno si incarica di condividerle nell’organizzazione e nella costruzione, credo che questo sia un atteggiamento che va, come diceva chi mi ha preceduto, a consolidare un concetto di ospitalità che deve essere bifronte, reciproco. Con questo in un certo senso spero di aver espletato una componente istituzionale che invece ieri, nei due incontri che abbiamo avuto, ha occupato la maggior parte delle relazioni. Io vorrei invece passare subito a parlare del nocciolo della questione. Il protagonista di questa piccola mostra è la gemma del museo della città, è questo dipinto che vede l’esposizione del Cristo morto in forma pietatis, come dice il primo documento che lo ricorda, e per forma pietatis si intendeva sul finire del ’400 una forma che vedeva un’iconografia che prevedeva la esposizione del busto del Cristo seduto ai bordi del proprio sepolcro e spesso, solitamente e canonicamente, le immagini più ricorrenti mostravano il Cristo in una posizione che viene detta di “Cristo passo”, che prevedeva proprio quasi le braccia a mani conserte oppure l’esposizione delle ferite della croce ma con la figura del Cristo eretta sul bordo del sepolcro. Affrontando questa occasione, io ritengo un privilegio poter scrivere, poter riflettere su un capolavoro di questo tipo, su un’opera di questo rango. Io non sono un politico di professione, svolgo un ruolo politico da un anno a questa parte e ovviamente, come tutti noi, si ha il concetto dei privilegi dei politici. Però è stato questo un privilegio: potermi occupare di cose così importanti e così affascinanti e poter avere un’occasione ufficiale in un certo modo, peraltro vengo da questo campo perché faccio lo storico dell’arte, l’ho ritenuto un privilegio. Il privilegio di trovarsi di fronte a un’opera di questo tipo e riuscire a collocarla nel tempo e nello spazio, perché di tempo e di spazio le opere d’arte sono fatte. Ogni opera d’arte in qualche modo è destinata a segnare una sorta di punto di congiunzione spazio-temporale, perché è sempre, coscientemente o incoscientemente, un punto in cui converge sia l’epoca che l’ha prodotta che il territorio che l’ha vista nascere. Questa mappatura geografica e storica che un’opera d’arte contiene, è un po’ come fissare una rotta o una posizione per una nave, per una barca, contiene qualcosa che è la coscienza di essere un oggetto significante. Non c’è opera d’arte che non contenga o non abbia trattenuto i pensieri dell’autore e di chi ha voluto l’opera ma anche di una atmosfera culturale che stava attorno al pittore e questo oggetto straordinario diventa il contenitore di una serie di pensieri. Dovremmo percepire questo un po’ come il mondo ortodosso prevede che per la realizzazione delle icone ad ogni pennellata ci sia una preghiera. Ecco, questo atto di coscienza, di immissione del pensiero all’interno dell’oggetto, della materia credo si una delle cose che non vada mai disgiunta dalla lettura di un’opera d’arte. Per cui anche davanti a qualcosa che potrebbe sembrare svagato, casuale bisogna chiedersi il significato di certe libertà, di certe svagatezze, o di certe anomalie rispetto al canone di allora di realizzazione di un’icona, di un’immagine. Per cui la prima cosa che salta agli occhi di questo dipinto è questa apparente discrasia sentimentale, espressiva, tra il dramma del nucleo centrale dell’opera, il Cristo morto, presentato come il corpo ancora fiero e possente di quello che potrebbe sembrare un eroe omerico morto in battaglia, dato che viene esposto in un modo così bello e in una dichiarazione di rapporto fisico di armonia tra la grandezza della figura e la misura del corpo, e tutto il dolore trattenuto che quel corpo morto contiene. Attorno a quel nucleo fondante di questa immagine ci stanno quattro angeli. Uno di questi è quasi completamente nascosto ed è incaricato di far ruotare il corpo inclinato del Cristo in una posizione eretta, mentre gli altri tre hanno temperature sentimentali diverse: non sembrano fare un coro di dolore attorno a questo corpo morto, attorno al mistero e al dramma dell’esposizione di un corpo scempiato dal martirio, ma sembrano essere concentrati ognuno in un rimuginio di pensieri che in ognuno si declina in un sovra pensiero diverso. C’è la figura che sta dietro alle spalle del Cristo, è la più accorata: tiene le mani giunte nel modo che indica l’iconografia della compassione della partecipazione del dolore. Ed è certamente quella la figura più accorata. Gli altri due angeli, visibili nei volti, sono invece concentrati a riflettere, uno sulla ferita della mano, senza un’espressione di dolore ma con un’ impassibilità che introietta la contemplazione; l’altro, all’estrema destra del quadro, ha invece un’espressione e una forma del corpo che sembra quasi svagata, perché ha le braccia conserte, le gambe appoggiate solo sul peso di una gamba e guarda incantato, in maniera quasi un po’ distratta, come se il pensiero avesse iniziato a vagare e a perdere il fuoco di quello che sta osservando. Parlando di questa declinazione di sentimenti ho usato la parola “sembra”, perché il termine dubitativo è d’obbligo in questo caso, perché nulla era dato al caso, soprattutto in artisti geniali come Bellini. Nonostante che l’attività dell’arte fosse, io credo in tutte le epoche, una delle attività più libere e dove un individuo poteva meglio che in altre situazioni, professioni esercitare il proprio pensiero e aggiungere alla norma e al codice le proprie idee, e questo ce lo dimostra la storia dell’arte, però c’era la coscienza che nulla doveva essere messo a caso – per cui il concetto di licenza poetica è un concetto moderno. Soprattutto poi nell’autore di immagini che dovevano andare sugli altari, davanti a cui ci si sarebbe inginocchiati, è chiaro che c’era la perfetta coscienza che dovevano rientrare in un alfabeto di correttezza comunicativa, espressiva. Nella scheda che ho redatto all’interno del catalogo, ho cercato riflettere su quella che era l’iconografia canonica della piètà che non è ricordata nei testi sacri: nei Vangeli non c’è un momento, un passo che abbia permesso la realizzazione di un’iconografia poggiata sui Vangeli, non c’è il momento della pietà, non viene descritto. È un’aggiunta apocrifa, ma ben consolidata nella liturgia e nella ritualità delle immagini cattoliche e anche ortodosse. C’è invece un’iconografia, molto diffusa tra ’400 e ’500, che è quella dell’ “ecce homo”, nella quale il Cristo ancora vivo e prima del martirio sulla croce, viene esposto a mezzo busto davanti a una balaustra, ad una specie di balcone, alla blasfemia della popolazione, del popolo ebraico che deride la sua pretese di essere il re dei giudei. Per cui Cristo viene esposto con una corona di spine anziché una corona d’oro, una canna da fiume anziché uno scettro del potere e viene ammantato da un manto rosso che era il colore del potere. Questa prima esposizione, che era irridente alla persona di Cristo, è in qualche modo una specie di momento iconografico speculare a quello della pietà, che diventa di per sé un secondo momento di esposizione pubblica. In realtà è un’esposizione mistica, intima, segreta, ma allo stesso tempo viene istituita un’immagine che la descrive.
E in questo caso, nel caso del Bellini, rimane di quegli elementi solo la corona di spine. La lettura, che non vuole necessariamente essere un’interpretazione che istituisce un nuovo codice, un nuovo canone, la lettura che ne ho fatto è una lettura che constata l’opera del Bellini come un momento che precede la composizione dell’icona canonica “della pietà”, cioè è il momento nel quale gli angeli stanno predisponendo il corpo ancora nella posizione… Se vedete, il corpo del Cristo è inclinato in diagonale e quell’angioletto che è quasi interamente nascosto dietro alla schiena del Cristo, non fa che ruotare il corpo del Cristo, facendogli fare perno sul bacino, proprio in un atto di movimento che avrà il suo ideale compimento quando il corpo sarà frontale. In qualche misura, a quel punto, la mano che sta tenendo l’angioletto che è alla sinistra del quadro – non è visibile in quest’immagine, ma la vedrete nel catalogo e poi vi invito ovviamente tutti a vedere la mostra, perché lì si potrà contemplare il dipinto assieme ad altre opere che sono state chiamate al suo cospetto – idealmente sta attendendo la posizione eretta del busto per disporre la mano morta nella posizione o del “Cristo passo” oppure del Cristo che mostra le ferite. L’idea straordinaria che rende straordinario e rendeva anche inedito e primario al tempo in cui venne realizzato questo dipinto, una delle componenti che lo rende importante è anche proprio questo clima, Marco Bona non me lo consentirà, da backstage, che sta dietro a questo momento liturgico che vede gli angeli predisporre il corpo nella posa canonica “della pietà”. Questo dipinto ce lo invidiano tutti i musei del mondo, perché come diceva giustamente Marco Bona ieri, è più conosciuto all’estero di quanto non sia conosciuto a Rimini e viene continuamente richiesto in prestito a delle mostre, perché è un’ opera di una forza e di una potenza e di una veggenza straordinaria. Per capire come si sia potuto arrivare a questo livello di bellezza e di misura aulica e classica nel 1475, siamo tenuti a fare uno sforzo di sottrazione, dobbiamo, nel guardare e nel collocare il dipinto nel tempo, cercare di capire cosa c’era prima e che cosa è stato fatto invece dopo. Questo dipinto è stato realizzato in un momento in cui – nonostante abbia delle forme che richiamano alla nostra mente anche certe cose di Botticelli, oppure sembrano riecheggiare delle forme che poi abbiamo visto in Raffaello o in Dürer – Botticelli non aveva ancora dipinto il suo trattato neoplatonico della “Nascita della Venere” o della “Primavera”, Leonardo era ancora alla bottega del Verrocchio, Raffaello non era neanche nato e Michelangelo nasceva in quell’anno. Tutto questo deve farci capire l’importanza di quel dipinto, perché già in quel quadro sono contenute le chiavi, le sintassi, le forme espressive che saranno proprie del Rinascimento maturo, che saranno proprie delle opere che sono dei primi anni del ’500; qui siamo invece qualcosa che è di una generazione precedente, siamo al terzo quarto decennio del ’400. Ci sono dei quadri che hanno segnato le pietre miliari di uno sviluppo artistico che poi, avendo attinto da quelle, a volte ha inglobato, camuffato, confuso e obliato quelle pietre miliari, proprio perché da quella idea iniziale poi si sono sviluppate e hanno preso forme anche più chiare e più esplicite opere di altro tipo. Facevo riferimento anche ad Albrecht Dürer, che non a caso omaggerà Bellini con un viaggio appositamente fatto per andarlo a trovare: le forme di quest’opera, il giro armonico dei polsi e delle forme del dipinto di Rimini fa ipotizzare una presa di visione diretta da parte di Albrecht Dürer di quest’opera. È difficile sapere se sia passato da Rimini o se abbia potuto vedere una replica o una variante a Venezia, però è anche vero che c’era un dipinto di Dürer a Cotignola, è anche vero che ci sono delle opere a Cesena che lo richiamano espressamente, un capolavoro di Genga, che adesso è a Brera, richiama espressamente delle forme legate ad Albrecht Dürer. Rimane perciò in sospeso e con un punto interrogativo straordinario la possibilità che invece anche questo genio della pittura tedesca sia passato dalle nostre parti e questo molto probabilmente proprio anche grazie a questo dipinto, che vi invito ad andare a visitare, a contemplare. Grazie a tutti
DANIELE CELLI:
Grazie all’assessore Pulini a cui dobbiamo la primissima intuizione di questa mostra. Ora la parola alla competenza del Professor Bona Castellotti che ha dato il suo autorevole contributo alla realizzazione di questo evento. Prego.
MARCO BONA CASTELLOTTI:
Buonasera. Molte facce note di amici! Io sono una ex-colonna del Meeting, non lo sono più, ma non sono neanche una cariatide, ho ancora una certa capacità di portare i pesi, come fanno nelle colonne le cariatidi. Da storico dell’arte conoscevo questo quadro da un decennio, ovviamente perché è un quadro molto celebre di un pittore che ho sempre amato, Giovanni Bellini, ma che forse ha bisogno di una brevissima introduzione, perché non facendo parte della “serie A” dei pittori che sono sulla bocca di tutti, Michelangelo, Leonardo e Raffaello, il suo “ritrattino” rischia di essere un po’ annebbiato. Questo quadro non è datato 1475 ma è databile (non c’è la data scritta sopra, magari!) 1475: una datazione degli storici dell’arte, alla quale chi se ne è occupato è potuto arrivare per ragioni stilistiche, cioè cercando di inserire il dipinto nel percorso di un pittore di cui non si conosce esattamente neanche la data di nascita. Era certamente veneziano, come lo era anche suo padre – grande pittore, come anche suo fratello – però non si sa bene quando sia nato, probabilmente intorno al 1436/37, e invece si sa bene quando morì, nel 1516, a un’età avanzata, avrà avuto probabilmente un’ottantina d’anni. E’ abbastanza frequente nell’arte veneziana che esistano questi “vecchioni” che non mollano mai la preda e anche Giovanni Bellini rimase attaccato al pennello fino all’ultimo, esattamente come uno ancora più vecchio di lui, che è Tiziano, altro genio assoluto. Anche di Tiziano non conosciamo esattamente la data di nascita, bensì quella di morte: 1576. Sapendo che nel 1500 già lavorava, 76 più – almeno- 15 si arriva a 90: anche Tiziano morì con il pennello in mano. Ci fu anche una terribile epidemia di peste, si portò via, ad esempio, uno dei suoi figli, ma lui non morì di peste, morì di vecchiaia, quando stava eseguendo quel quadro meraviglioso, guarda caso, di un tema consimile a quello del dipinto su cui abbiamo fatto la mostra del museo di Rimini: una Pietà, quella stupenda Pietà che è conservata oggi all’Accademia di Venezia. Stava ancora dipingendola, infatti la lasciò incompiuta e l’ultima parte – quella che sta nel registro alto della Pietà di Tiziano – fu fatta dagli allievi dopo la morte. Semplicemente per dire che sono due figure della cultura veneziana che è molto diversa da quella romana, da quella fiorentina, da quella lombarda ecc. ecc.
Venezia, specialmente nel secolo successivo a quello che riguarda l’esecuzione di questo dipinto che è quattrocentesco, cioè nel XVI secolo (il Cinquecento), diventa la città più laica d’Italia dal punto di vista della cultura e lo è anche un po’ per ragioni politiche, e poi credo un po’ anche per ragioni culturali, per un ceppo culturale che poi nel Cinquecento si matura, rispetto a quanto non era accaduto nei decenni precedenti, in un senso, in una direzione decisamente laica. Infatti quando ci sono alcuni liberi pensatori che non sanno dove fuggire e prendono le distanze dalla politica romana pontificia si rifugiano a Venezia. Uno di questi è il grande Aretino, che era una figura odiosa, ve lo posso garantire, perché ha una capacità di trasformismo, di passaggio da un potere all’altro, da un regime, da una potenza all’altra con una velocità che ho riconosciuto soltanto in alcune persone che conosco ma di cui non faccio il nome. Il grande Aretino, al di là di questo trasformismo camaleontico a dir poco, era certamente la penna più abile del Cinquecento. Si era autobattezzato “il segretario del mondo”, perché il suo epistolario è sterminato e sono lettere scritte negli anni Trenta/Quaranta del Cinquecento che sembrano letteratura fatta nel Novecento, di una limpidezza assoluta, straordinaria. Aretino, grande ammiratore di Tiziano fino a certi anni e suo detrattore negli anni immediatamente successivi per una questione di soldi fra i due, è uno di quelli che ripararono a Venezia. Perché questa breve introduzione? Perché l’eccezionalità di questo dipinto – è vero, siamo prima, 1475 circa, forse anche 1478 o 1480 – sta proprio in quello che è il carattere fondamentale del suo autore, Giovanni Bellini, ed è anche una delle ragioni per cui ho insistito anch’io a dire: “Insomma, se si deve fare una mostra con pochi soldi intorno a un capolavoro – l’assessore Pulini mi aveva invitato a partecipare – cercando anche di valorizzare le opere del Museo, si parta dal “Cristo Morto” di Giovanni Bellini che a Rimini, forse dalla sua nascita o comunque poco dopo, certamente dal 1499, è sempre stato, da quattro secoli e mezzo, non sempre nei musei ovviamente perché i musei sono di fondazione ottocentesca, ma che il Meeting in 33 anni di incastonamento riminese non ha mai valorizzato. Ci sono tante cose da fare, da valorizzare, da citare, ma questo quadro, nella sua forza di richiamo religioso, per il pubblico, per noi, è importante, anche per la gente giovane. Non è un quadro qualunque, è un quadro stupendo, stupendo è poco, è un quadro potentemente religioso, lo è per davvero, infatti Giovanni Bellini e questo è un elemento abbastanza eccezionale all’interno proprio della cultura veneziana (da che la breve giustificazione di quella introduzione che ho fatto) è il portatore di una forte testimonianza cristiana nell’arte. Avete mai sentito nominare un pittore che si chiama Giorgione? Giorgine, quello de “La tempesta”, meraviglioso pittore; di Giorgione le date sono quasi tutte ignote, tranne una, quella della morte (1510), sei anni prima di Giovanni Bellini, che era ancora vivo e operava quando Giorgione era diventato il nuovo astro della cultura veneziana. Avrete in mente qualche quadro, a cominciare da “La tempesta”, che è un altro di quei rompicapi dal punto di vista iconografico. Chissà che cosa vuol dire? I simboli? Allegorie? Ci si sono spaccate il cervello un sacco di grandi firme della storia dell’arte, senza arrivare però a una certezza, anche se con alcune ipotesi molto interessanti… “La tempesta” è un quadro molto profano! Profano non vuol dire niente di male, semplicemente l’elemento profano è uno dei caratteri fondamentali di un certo Rinascimento. A Venezia non c’è soltanto lui, c’è un altro pittore inferiore a Giorgione che si chiama Carpaccio, il quale anche quando fa il ciclo delle storie di Sant’Orsola, le descrive in un modo molto narrativo, come se stesse raccontando una fiaba; è un altro pittore che, come animus ha una sua vena laica. Giovanni Bellini ha un animus profondamente religioso. Ciò non toglie che abbia fatto anche lui dei soggetti mitologici, ma è una cosa diversa, è che quando interpreta il tema sacro lo fa con una grande partecipazione personale. Questo come si coglie? Davanti ai dipinti! E’ molto difficile che io o lui o chicchessia riesca a descrivere quello che accade, se uno non ha l’opera davanti. Quello di cui io vi prego, perché è un fattore culturale che va molto recuperato – io ce l’ho messa tutta ma francamente non è facile -, è che voi lo andiate a vedere, perché la parola, per quanto efficace sia la mia o quella di Pulini, non è come averlo di fronte. Anche perché, trattandosi di un tema piuttosto complesso, ha certamente delle forti radici di tipo teologico che bisogna anche un po’ riscoprire – perché non è casuale che ci sia un Cristo morto e quattro angeli che sono atteggiati in quel modo e con un tipo di approfondimento psicologico che nello stesso Bellini non accade mai a quei livelli, quindi questo è uno dei suoi sommi capolavori. Ora, tutti questi fattori non sono casuali, ma hanno dietro una cultura che è molto forte, quella del pittore, quella del committente, che non si sa chi sia, quella del luogo dove è stato eseguito, in questo caso quasi certamente Venezia. C’è tutto un tipo di contestualizzazione che è quello che rende veramente affascinante un’opera d’arte e che dovrebbe essere utile al pubblico, anche a quello dei non addetti ai lavori, per un tipo di approfondimento e soprattutto di incuriosimento che vada anche un po’ oltre quello che è l’impressione immediata, per quanto centrata sia questa impressione, che termina nell’esclamazione: “che bello!”. E’ già qualcosa, per carità, è il segno comunque di un certo risveglio, il fatto che uno non dorme, che ha gli occhi e guarda, che è già un’eccezione oggi, perché sono tutti quanti ormai appannanti! Però questo “che bello!” diventa sempre più avvincente se risponde anche ad altre domande: perché è bello? Chi c’è dietro? Che cosa sta sotto un’opera di questo genere? Dove è stata generata? Che cos’ha intorno a sé? Che cosa pensava l’autore nel momento in cui l’ha fatta, anche se è difficile dirlo con certezza? Si riesce a percepire una commozione in quello che ha fatto. Siccome il quadro risponde a tutti quanti questi quesiti, anche semplicemente all’osservazione, diventa difficilissimo riuscire a comunicare un tipo di percezione che invece si riesce a formulare anche in modo grezzo davanti all’opera stessa. Quindi andatelo a vedere! Una cosa soltanto volevo dirvi sul soggetto: è molto frequente nell’arte veneziana che, nei secoli, prima di entrare appunto in questo nuovo processo di laicizzazione cinquecentesco di cui parlavo un po’ prima, in quanto Venezia era repubblica autonoma e libera, la devozione, la sacralità delle opere d’arte sia molto forte. Ciò è dovuto a fattori molteplici: Venezia è una città molto colta, adesso è ridotta a una specie di brutta copia di se stessa, tutta turistica, ma lo era per davvero, c’erano fior di filosofi…ma perché è così colta? Perché era così forte l’osmosi, l’incontro con il pensiero cristiano orientale. San Giovanni Crisostomo, soltanto il nome di questo santo veneziano, era di cultura greca!
L’incontro con l’Oriente Cristiano a Venezia è molto forte. Attraverso quali canali? Qua le cose cominciano a complicarsi. Però quando ho preso in mano, per la prima volta nella mia vita con un certo impegno, cioè in occasione di questa mostra, il dipinto che stiamo commentando, mi sono domandato: ma – visto che come ha detto anche Pulini l’episodio raffigurato qui e in molti altri quadri di altri pittori, cioè il Cristo morto con o senza angeli non corrisponde a nessun episodio canonico della passione – dove nasce? Che tipo di basi di testi, di scritture ha un soggetto del genere? Cristo morto con o senza gli angeli, ma soprattutto con gli angeli…qual è la funzione? Da dove si può attingere una giustificazione della presenza degli angeli accanto a Cristo morto? Perché negli episodi canonici, se ci pensate bene, gli angeli compaiono soltanto nel giorno della resurrezione, quando le pie donne, le Marie, vanno al sepolcro e trovano gli angeli che le accolgono (uno o due, forse arcangeli). Ma prima gli angeli non compaiono mai, né nel momento della morte né nel momento in cui il corpo viene deposto dalla croce né nell’altro momento abbastanza canonico, ma che si legge tra le righe, del trasporto di Cristo morto dalla croce al sepolcro, né nell’ultimo episodio della Passione, cioè nel momento in cui Cristo viene messo nel sepolcro. Nessuno di questi corrisponde a quell’iconografia, che però è una iconografia diffusissima! Soltanto Giovanni Bellini dipinge con delle varianti, due o quattro angeli, almeno cinque. Solo lui! È molto diffusa, tanto in Oriente che in Occidente. Da dove salta fuori? Questa è stata la mia domanda, e qui è cominciata una ricerca affannosissima, perché i tempi erano stretti, perché la letteratura è enorme, poi non riuscivo mai ad avere una convinzione da parte della letteratura critica che potesse in qualche modo soddisfarmi. Infatti le ipotesi che riguardano questo quadro sono due; studi a raffica, ma ipotesi solo due! È difficile arrivare al nocciolo della questione, ma il bello è quello, no? Non è soltanto la bellezza del Cristo e degli angeli intorno, è andare a cercare di capire di più i soggetti di questo genere, che dovrebbero essere interessanti per opere che fanno parte della nostra cultura, della mia sicuramente sì, la cultura della passione di Cristo è per me fortissima e soprattutto quella della Resurrezione. Per questo il gioco valeva la candela, come si suol dire.
DANIELE CELLI:
E che gioco e che candela!
MARCO BONA CASTELLOTTI:
Le ipotesi sono due, purtroppo qui, dalla diapositiva, non capite niente, andate comunque a cercare la foto del quadro intero, ma soprattutto andatelo a vedere. Uno dei tre angeli è nascosto dietro al busto di Cristo, perché lo sta come sostenendo, fa un tale sforzo che addirittura la sua faccia è nascosta dietro e non si vede. Da qui, essendo un particolare, non lo potete cogliere, ma c’è.
E allora è stato interpretato in modo molto serio da uno studioso tedesco, che si chiama Belting, come un angelo che solleva il corpo di Cristo in rapporto ad una liturgia di origine orientale che riguardava l’Eucaristia, cioè sarebbe un Cristo Eucaristico, l’angelo lo solleva esattamente come nell’atto dell’elevazione il sacerdote solleva l’Ostia che rappresenta il corpo di Cristo. Ci arriva per passaggi importanti – io sto facendo un riassunto brevissimo – però, non è brutta l’idea, una idea che ha un certo sostegno. Però questo spiega la funzione di uno dei quattro angeli e gli altri tre? Poi recentissimamente, nel 2011, uno studioso americano, Barcham, in occasione di una mostra fatta a New York, studiò il dipinto, pur non avendolo nella mostra – perché nella mostra non c’è tutto, ma si può scrivere anche di cose che sono assenti, come abbiamo fatto anche noi – e butta là una interpretazione molto bella, che avevo un po’ intuito anch’io prima di incominciare il mio breve approfondimento – breve nel tempo e poi mi sono smazzato tanto di quel materiale che non ne posso più – e dice: gli angeli stanno preparando il corpo di Cristo per la Resurrezione – ma che bello! -, stanno come allestendo il corpo di Cristo per la Resurrezione. Ovvio che una ipotesi così non c’è neanche negli Apocrifi, e allora sulla base di che cosa butti là questa così affascinante idea? Non c’è, è una cosa che è venuta in mente a lui, ma non c’è in nessun testo, specialmente in quelli antichi, soprattutto in quelli della filologia cristiana orientale, che dice una cosa del genere, e non c’è neanche nella liturgia un momento in cui possa essere immaginabile in rapporto a questo concetto. Rimane completamente sospeso fino a quando non c’è qualcosa di più forte, purtroppo e dico purtroppo perché è una bella idea che avrei condiviso anch’io. Purtroppo queste idee rimangono un po’ fluttuanti nell’aria, perché è sempre necessario, trovandosi di fronte a quadri colti come questo, ma anche a quadri più semplici di destinazione popolare, figuriamoci in un dipinto di questo genere, trovare dei riscontri. Se il soggetto è complesso, ci deve essere per forza qualche testo figurativo o letterario o in questo caso teologico-religioso al quale si appoggia. E’ impossibile che sia tutto quanto sgorgato dalla mente dell’artista, anche se un grande artista, né può essere casuale.
Non c’è nessuna casualità, sono quadri troppo importanti, è per quello che impongono un certo tipo di affronto e di attenzione. Così, per documentarmi, mi sono riferito ad un prete abbastanza giovane, ha 37 anni, non è più giovanissimo, che si chiama don Paolo Prosperi, che oggi, dopo essere stato ordinato alcuni anni fa a Roma, Fraternità San Carlo, eccetera eccetera, e aver preso la laurea in teologia orientale, è a Washington all’Università Cattolica. Siccome è una persona che ha qualche marcia in più di quelli che normalmente si incontrano, gli ho mandato l’immagine di questo quadro e gli ho detto: guarda, non potrebbe essere un momento precedente la Resurrezione o, come dice il Barcham, un Cristo Eucaristico con l’angelo che lo solleva che potrebbe essere l’evocazione del gesto dell’Elevazione? E lui mi ha scritto subito dopo un parere per mail, purtroppo non l’ho portata con me, se no l’avrei letta integralmente, perché ricorda nelle sue prime righe il Meeting. Lui, quando non era ancora entrato in seminario, aveva fatto qua tre mostre, una delle quali dedicata a San Paolo ed io l’avevo seguita un po’ da vicino, o forse era già in seminario, non ricordo – qualcuno se la ricorda? – era nata in un modo talmente unitario e comunionale, ma per davvero comunionale, non usando questi termini così importanti come se fossero aria fritta, così comunionale, uscita da un lavoro insieme, devo dire che questo lavoro riportato ad oggi, insomma…, e allora mi ha scritto questo lungo parere, in gran parte citato nel catalogo. Dice: ma si vede che non è possibile – c’è tutta una preparazione perché questo qua è uno di quelli che ha un metodo tedesco -, forse il significato di questi angeli, da quello che guarda la piaga della mano di Cristo – lo ha citato Pulini, ma qua non lo vedete, sta nel settore di destra e lì questo angelo guarda la mano di Cristo con una severità assoluta, sembra quasi lo sguardo di un piccolo scienziato, non c’è niente di patetico, è tutto razionale, ma è profondissimo – a quello che tiene il chiodo – quello lì dietro, che ha gli occhi imperlati di lacrime, ma non sta piangendo, è pieno di lacrime che sono ferme, non c’è nessun sentimentalismo, c’è una commozione vera -, a quello che contempla il Salvatore – quello lì che sembra così svagato e invece è un modo di contemplare estremamente compunto, questo è l’aggettivo: compunto non svagato, in un trepidante silenzio – consiste nel fatto che esprimono la tradizione occidentale, non orientale, una cultura che passa dall’Oriente all’Occidente, attraverso il filtro dell’armonizzazione dell’Occidente, il Cristianesimo occidentale, il cattolicesimo in tutta la concretezza del tema dello stupore angelico, che diviene qui una quasi infantile curiosità fra il timoroso e l’attratto, la curiosità aristotelica di colui che chiede il senso di ciò che vede per la prima volta nella Aprosdoketon, l’imprevisto senza precedenti né analogie.
Voi capite che avendo anche il privilegio così raro di poter attingere a pareri altrui di così alto spessore, il senso di portare a termine, attraverso indicibili fatiche, certe opere di cultura aumenta al diapason.
DANIELE CELLI:
Questo applauso insistito credo che sia la documentazione, la testimonianza della gratitudine per la lezione, intesa non in senso astrattamente accademico, ma intesa in senso di una comunicazione di una esperienza colta, e da parte di Bona Castellotti e da parte di Pulini. Io mi limito a chiudere rilanciando l’invito che loro hanno ripetutamente riproposto: “Andate a vedere questa mostra, andate a vedere questa opera e il contorno che offre la possibilità di un confronto”, questi angeli della pietà, laddove pietà, evidentemente, non significa commiserazione, ma forse ha più riferimento alla pietas antica, cioè alla consapevolezza della dipendenza strutturale dell’uomo dal Divino, per cui anche il momento contingente e tragico della morte, nella relazione col Divino, è un momento che acquista un significato e un valore positivo, come i dotti commenti e nello stesso tempo appassionate testimonianze di chi ha parlato ci hanno documentato.
Grazie a Bona Castellotti e Pulini e buon Meeting a tutti.
Trascrizione non rivista dai relatori