GIOVANI, FORMAZIONE E LAVORO

Giovani, formazione e lavoro

Partecipano: Giovanni Anzani, Presidente e Amministratore Delegato di Poliform Spa; Stefano Colli-Lanzi, Amministratore Delegato di Gi Group e Vicepresidente di Assolavoro; Manuela Kron, Direttore Corporate Affairs del Gruppo Nestlé in Italia e Consigliere Conai; Dario Odifreddi, Presidente dell’Associazione Consorzio Scuole Lavoro; Giuliano Poletti, Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali. Introduce Massimo Ferlini, Vicepresidente della Compagnia delle Opere.

 

MASSIMO FERLINI:
Buongiorno a tutti, io direi di dare inizio a questo nostro incontro. Prendo spunto dalla conclusione con cui il Presidente della Compagnia delle Opere ha coordinato i lavori questa mattina sul lavoro in generale dicendo “ma tanto poi alle 15, caro Ministro, c’hai il momento pratico in cui vedere se dal dibattito, dalla discussione generale sui massimi principi, riusciamo a calare anche sulle questioni concrete”. Dico subito che per questioni concrete, noi non siamo estranei al riconoscere in primo luogo molti punti in comune dell’impostazione che oggi culturalmente è stata data al tema del lavoro, della necessità di cambiare prima di tutto quel percorso educativo che faccia riconquistare o redimere, per usare delle vecchie parole ottocentesche, il lavoro, da quello che è la sua condizione di fatica quotidiana, rendendola invece sale della vita di ciascuno di noi. Questo credo che sia il punto principale. Questo riguarda, quando parliamo di giovani, però molte questioni, perché il tema oggi è “giovani, formazione e lavoro”, non semplicemente una questione più in generale. Tocca e parte da una radice che è sicuramente quella della formazione, di percorsi educativi, dell’educazione e della formazione al lavoro che viene data, che c’è nel nostro Paese, dell’offerta possibile, e di quel richiamo che spesso ci viene fatto: “Perché voi che avete in fondo una vecchia tradizione di lavori professionali, di professioni, di manualità, di artigianalità, di ricerca, di capacità, di stile, voi che avete promosso, per larga parte tanto tempo fa, quella che era la formazione professionale legata a queste professioni, ora tutto questo non riuscite a tenerlo in piedi, saldandolo con quei bei percorsi d’inserimento lavorativo dei giovani che si chiamano apprendistato, copiando quel sistema duale, diciamo così, d’ispirazione austroungarica per noi padani del nord, e che potrebbe essere indicativo però di un modello di rapporto fra imprese, settori di impresa, professionalità?” Professioni che talvolta non si riescono più a riprodurre, a trasmettere innanzitutto come conoscenza manuale e educativa per i giovani.
Credo che questo sia un po’ il nodo intorno cui ragionare. Abbiamo con noi oggi a ragionare su questi temi, proprio a partire da quelli che sono gli aspetti culturali ma poi cercando di dare concretezza, Giovanni Anzani, Presidente Amministratore Delegato di PoliforM Spa; Stefano Colli-Lanzi, Amministratore Delegato di Group e Vicepresidente di Assolavoro; Manuela Kron, Direttore Corporate Affairs del Gruppo Nestlé in Italia e Consigliere Conai; Dario Odifreddi, Presidente dell’Associazione Consorzio Scuole Lavoro e il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Giuliano Poletti.
Diciamo prima che se siamo d’accordo sull’impostazione culturale, del passaggio dal concetto di posto di lavoro al lavoro, se siamo d’accordo sul fatto che uno deve ottenere sostegno, contributi, ammortizzatori sociali, dobbiamo anche dire che tutto ciò deve essere dato in cambio della disponibilità a mettersi in moto per cercare una ricollocazione. Questo trova una sostanza oggi, in larga parte delle iniziative che vengono proposte per fare una rete di servizi al lavoro e dare alle imprese che vogliono assumere giovani, gli strumenti contrattuali e attuativi più semplici possibili per dare questo spazio al lavoro giovanile. Sul programma garanzia e giovani, io dico solo una cosa. Ci ho creduto molto, era una bella idea, si trattava di fare una offerta unica ai giovani, quattro mesi dopo l’aver perso un posto di lavoro o l’aver finito un percorso di studi in tutta Europa. Noi siamo riusciti a fare 21 programmi diversi solo qui in Italia. Perché ogni Regione, e qualcuno l’ha moltiplicato per ogni Provincia al suo interno, ha fatto dei programmi diversi. A me non interessa di che colore è il programma che è stato fatto. Dico che dà una tutela di diritti o di acquisizione di tutela che i giovani europei dovevano avere uguali su tutto il continente, noi siamo riusciti a suddividerlo a pezzettini e a fare in modo che il giovane di Pavia sia diverso dal giovane di Piacenza. Li cito perché fra di loro c’è un ponte sul Po, come distanza, non una cosa diversa, ed ho citato due Regioni dove di sicuro non mancano le risorse per sostenere programmi analoghi. Questo è per dire che il quadro mi fa partire con il piede di diffidenza al punto che mi augurerei che il Ministro abbia il potere e la possibilità politica di dire “commissario tutti e faccio quello che pensiamo”, ma non si può. Lo so che non si può, no, no, la sussidiarietà che tocca e lede i diritti, permettimi, so benissimo che noi siamo la punta più avanzata di come si può fare, Assessore, però la sussidiarietà per giustificare chi non arriva nemmeno a fare il minimo dei diritti civili di questo Paese, non va bene. E lo dico perché se no ci prendiamo in giro. Non ce l’ho con te e, infatti, sei stato tu a chiamarmi. Si commissaria a partire dalla condizione migliore per tutti, mica da quella peggiore, perché se no non ci siamo. Ma lo dico invece proprio perché credo che l’esempio e la possibilità c’è. Perché il fatto che la Lombardia dia la possibilità a tutte le strutture, alle imprese di lavorare al meglio e di fare la formazione professionale, che abbia creato un sistema di servizio al lavoro di un certo tipo che può funzionare anche per la garanzia giovani, che abbia indicato alcuni modi su cui la ricollocazione di chi perde il posto di lavoro funzioni, è passato attraverso un meccanismo di voucherizzazione dei servizi, con creazione quindi di un mercato pubblico e privato, è l’indicazione della possibilità per tutti di dare un contributo in più. Ecco io partirei da qui. Qual è allora il punto su cui partire? Io chiederei ai rappresentanti delle imprese, tutti, quelli che si occupano specificamente di servizi al lavoro e chi invece dirige grandi imprese in settori importanti, di partire dal darci esperienze e dall’indicarci modelli ed esperienze che hanno fatto nel rapporto con il lavoro dei giovani. Do la parola per primo a Giovanni Anzani che ha anche un filmato con cui introdurre credo l’intervento.

GIOVANNI ANZANI:
Buongiorno a tutti, parlo anche come Presidente di Assoarredo e Vicepresidente vicario della Federazione e anche del Salone del Mobile di Milano, l’eccellenza del made in Italy. Abbiamo fatto questo filmato per far capire il nostro mondo, questa cultura unica, storica che abbiamo in Italia e che in questo momento è in grande difficoltà.

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Questa è l’Italia che noi abbiamo e che va preservata, purtroppo dobbiamo denunciare uno stato in cui non c’è più questa passione, si sta interrompendo questo passaggio dai vecchi maestri ai giovani. I giovani fanno fatica ad avvicinarsi al mondo del lavoro, a questo tipo di lavoro professionale. In questa direzione noi come Federlegno stiamo aprendo una scuola a Lentate sul Seveso, proprio per poter aver dei giovani che entrano con passione in un ambito formativo che dà a loro un futuro e che rappresenta anche il futuro delle nostre aziende. Se si interrompe questo passaggio fra chi sa fare e il giovane che deve imparare, perdiamo quella differenza che c’è fra l’Italia e gli altri Paesi. Noi non possiamo competere con altri Paesi a livello internazionale con quello che sono la nostra burocrazia, i nostri costi. Ma questa cultura del fare le cose, che è solo del nostro Paese, assolutamente non possiamo permetterci di perderla. Noi in questa direzione dobbiamo avere capacità di attrarre i giovani e capacità di appassionarli in questa direzione.
Nel nostro stand della Federlegno che abbiamo qui, abbiamo un maestro liutaio, che non ha apprendisti italiani. Questo vuol dire che dal momento che questo andrà in pensione, non ci sarà più nessuno capace di insegnare ai giovani a fare violini. E’ questo che denunciamo, una grande perdita di cultura, che è quello che ci può permettere di stare sul mercato internazionale. Questo è un primo passaggio veramente importante, per cui comunicare ai giovani, attrarre, formarli e portarli nel cuore delle aziende, nella progettazione, anche nell’artigianato, è molto importante.
L’altro aspetto invece è quello del comunicare. In Italia noi abbiamo una cultura del fare che come dicevo prima è straordinaria, unica; non siamo altrettanto bravi nel comunicare questa qualità. E’ vero, abbiamo il salone del Mobile di Milano, trecentocinquantamila visite, centocinquanta Paesi che vengono e ci riconoscono questa nostra capacità, però mancano delle professioni che siano in grado di insegnare, educare in molti Paesi che non conoscono la differenza fra il bello fatto bene e le copie e di prodotti fatti male. Allora in questa direzione partiamo quest’anno con l’ITS (Istituto Tecnico Superiore), dove cerchiamo di creare quei tecnici commerciali che vanno nella direzione di creare questi giovani che devono imparare l’inglese, devono sapere… interruzione causa malore.

MASSIMO FERLINI:
Auguriamogli tutto il bene, devo dire che il filmato che ci ha dato è stato uno spunto importante per sottolineare le cose che a voce ci aveva già anticipato e che voleva dire. Colli ti chiedo di riprendere un po’ il tema del lavoro.

STEFANO COLLI-LANZI:
Grazie, spero davvero che sia solo un po’ di emozione, e comunque gli auguriamo tutto il bene, non è facilissimo parlare. Parlando del tema dei giovani, parliamo di un tema di una gravità tale che non possiamo, secondo me, sospendere osservazioni e giudizi su questo aspetto. In particolare a me pare che parliamo sempre della disoccupazione giovanile, che è in crescita, potrebbe essere anche che il tasso di disoccupazione giovanile sia in crescita per motivi positivi, nel senso che ci sono più giovani che cercano lavoro.
Il vero tema drammatico che dobbiamo osservare con attenzione è il tema dei cosiddetti NEET, della quantità considerevole di giovani che in questo momento non stanno facendo nulla, non sono impegnati né in un percorso lavorativo, né in un percorso scolastico o formativo. Questo ha assunto delle dimensioni a mio parere davvero drammatiche. Ho in mente Dario, che sono anni che opera nel campo del disagio, attraverso le sue iniziative formative. Potevamo considerare, per certi aspetti, i NEET come un fattore marginale della società, un tema di disagio di cui occuparci in modo peculiare, focalizzato: oggi è diventato un fatto sociale. Due milioni di ragazzi che non fanno nulla, vuol dire che qui anche dei genitori, delle persone che sono qui al Meeting probabilmente avranno qualcuno nel loro ambito familiare che è in queste condizioni. Questo è un po’ il punto di partenza. Affrontare questo tema oggi è tutt’altro che banale, quindi non è che arriva qua qualcuno a offrire soluzioni facili, perché è un tema che affonda le sue radici su svariate leve, su svariati elementi. C’è da dire una cosa: venendo qua al Meeting, e vedendo tutti questi giovani che lavorano, che lavorano con passione, che lavorano al servizio del cliente, di chi arriva, e che lo fanno pagando per lavorare, fa venire in mente che la situazione di essere non impegnati né in un percorso lavorativo, né in un percorso scolastico non sia una necessità. Questo apre uno squarcio di speranza, perché non è una classe di persone particolare, non c’è bisogno di fattori particolari perché possa succedere quello che sta succedendo qui. Vuol dire che la tematica, pur drammatica, di fronte a cui siamo, può essere affrontata e risolta.
A me pare che ci siano una serie di cause di questa condizione, che definirei in parte oggettive, in parte soggettive. Oggettive: sicuramente la crisi economica è un fattore, perché la crisi economica ha bruciato delle opportunità di lavoro; rispetto a prima ne abbiamo meno. La riforma delle pensioni, si diceva stamattina, ha creato un ulteriore difficoltà a chi deve entrare nel mercato del lavoro rispetto a chi è dentro, che non esce, perché esce più tardi di quanto sarebbe potuto uscire con le regole precedenti. Una certa rigidità delle norme, che fa sì che determinati strumenti, come, secondo me, l’apprendistato, siano poco incentivati, o ancor troppo poco (poi non sono valori assoluti, necessariamente). Noi abbiamo bisogno di incentivare a tutti i costi le imprese ad assumere giovani e a formarli, cioè a giocare la loro capacità di educazione e di formazione, perché oggi le imprese sono tra gli ambiti della società che possono svolgere con più efficacia questo ruolo. Poi ancora una certa vischiosità del mercato: l’altro giorno si faceva riferimento al fatto che in una situazione drammatica di NEET, disoccupati eccetera, ci sono circa 350.000 posizioni aperte non coperte da professionalità o competenze adeguate. Quindi vuol dire che il mercato ancora non sta funzionando al meglio, e allora far funzionare meglio il mercato può voler dire, a parità di condizioni, ridurre lo stock di disoccupati.
Dall’altra parte ci sono fattori anche soggettivi. Per me c’è un problema enorme dal punto di vista dell’educazione, della formazione. Io insegno in Cattolica tra le altre cose, volentieri, e mi trovo ad accettare la sfida dell’insegnamento universitario, al primo anno tra l’altro, con ragazzi che si capisce che quando sono interessati a qualcosa sono attratti. Devo dire che in questi anni in cui ho insegnato, ho sempre visto una risposta interessata, positiva, curiosa da parte dei giovani. Però noto anche che la preparazione di base dei ragazzi che arrivano alla Cattolica di Milano, a fare Economia, che dovrebbe essere già a un livello medio – alto, è sempre più drammatica, ma non dal punto di vista delle nozioni riguardanti l’economia, che ovviamente sono nulle, ma nella capacità di utilizzare un foglio, un ordine numerico, i quadretti e le righe, il linguaggio. Questa è, secondo me, una tematica fondamentale, forte: c’è un difetto di formazione, probabilmente legato a un sistema scolastico tendenzialmente autoreferenziale, in ogni caso questa è una tematica aperta. Una seconda tematica è legata a una rassegnazione latente. C’è stata una recente ricerca dell’Istituto Toniolo che ha rilevato un sempre crescente senso di rassegnazione dei giovani. Giovani che hanno la curiosità, hanno il desiderio; io ho in mente che i giovani sono caratterizzati dalla curiosità, dal desiderio. Quando un giovane arriva al punto di non essere più curioso, desideroso di qualcosa è perché proprio gli è stata tolta tutta la possibilità. Basta una piccola proposta, una piccola fiammella di speranza che i giovani immediatamente si riappassionano. Questa è un po’ una situazione in cui ci troviamo.
Allora io vorrei sottolineare l’importanza, in questo contesto, di uno degli aspetti che Massimo prima puntualizzava: il tema delle politiche attive. Perché in questo contesto, in cui tra l’altro la ricerca dell’Istituito Toniolo diceva che la rassegnazione è ancora più forte laddove viene a mancare il contesto familiare ai giovani, o comunque un contesto umano che supporti l’attivazione della persona, diventa fondamentale preoccuparsi di questa presa in carico del giovane, e quindi offrire forme (che non potranno mai essere alternative alla famiglia) di supporto sociale che aiutino la persona a riattivarsi per lo meno riguardo alla curiosità e al desiderio legati al percorso formativo, alla propria professione, alla propria vocazione e allo sviluppo della propria attività lavorativa. In questo senso io leggo l’importanza cruciale delle politiche attive. Per me vuol dire: attività di supporto alla collocazione o alla ricollocazione delle persone, cioè affiancamento della persona, presa in carico della persona, orientamento della persona, attivazione delle energie e della libertà della persona, aiuto e supporto a identificare delle opportunità.
All’interno di questo contesto, in questo momento abbiamo una grandissima opportunità, perché in questo momento così drammatico per nostri giovani riteniamo che sia importante lo sviluppo delle politiche attive, non solo per i giovani, ma in questo contesto stiamo parlando in particolare dei giovani, quindi in particolare per i giovani. Abbiamo appunto questo programma, chiamato “Garanzia Giovani”, che ha proprio questo scopo, lo scopo di destinare delle risorse (che sono abbastanza ingenti tra l’altro), da dedicare a migliorare il funzionamento del mercato del lavoro, attivando, cioè, sostenendo iniziative che si facciano carico delle persone. Il mercato del lavoro è fatto da intermediari che si fanno carico dei bisogni delle imprese, ma è meno invece ricco di soggetti che possano farsi carico della persona, e facendosi carico della persona migliorino ulteriormente l’efficacia del mercato. Questo progetto “Garanzia Giovani”, tra l’altro, ha un esempio davvero vincente nell’attuale progetto “doti” della Regione Lombardia. Com’è che funziona questo progetto? Alcuni principi fondamentali: primo, non si finanziano gli operatori, né pubblici né privati, si finanziano le persone, i giovani in questo caso, le persone che essendo in una certa condizione hanno un voucher, un assegno da spendere per poter essere supportati appunto nella ricerca del lavoro.
E questo è fondamentale, perché toglie di mezzo tutte le gare, le manipolazioni, eccetera, cioè, è la persona che è destinataria della risorsa, e la persona può utilizzare queste risorse spendendole presso un ente pubblico, un ente privato accreditato che sia in grado di rispondere al suo bisogno. Secondo: questi soldi vengono poi pagati all’operatore solo quando e se l’operatore ottiene il risultato, cioè la presa incarico produce o una reimmissione su un percorso formativo o una reimmissione su un percorso lavorativo; quindi il concetto di premialità. Il terzo principio fondamentale, porta a far cadere tutte le discussioni tra “è più bravo il pubblico”, “è più bravo il privato”. Non ci interessa dire a priori chi è più bravo, ci interessa mettere in competizione il pubblico e il privato sul grosso delle attività, facendo in modo che sia il risultato a determinare chi è in grado e quanto sia in grado di operare, di ottenere risultati. Questi sono i principi fondamentali. Ora, la cosa che ci preoccupa parecchio, e penso che preoccupi anche il Ministro, è che questo progetto “Garanzia Giovani” doveva partire a gennaio, e, di fatto, sì, è partito nominalmente, ma se posso dire da operatore, praticamente non è ancora partito, se proprio devo essere sincero. Poi c’è qualche caso particolare, che possiamo dire, eccezionale. Noi oggi abbiamo qui al Meeting anche uno stand, diverse Regioni, il Ministero eccetera stanno facendo anche propaganda per il progetto “Garanzia Giovani”, però notiamo che c’è ancora una non conoscenza, cioè i giovani non sanno, qui c’è una certa concentrazione di giovani, eppure c’è una scarsa conoscenza da parte dei giovani dell’esistenza di questo programma. Terzo, come diceva Massimo prima, è abbastanza impressionante vedere come l’autonomia lasciata alle Regioni abbia prodotto dei modelli differenziati che, se si guarda nel merito, nella modalità con cui sono differenziati, non hanno nessun legame con aspetti di particolarità territoriale piuttosto che di mercato.
Sembrerebbe che alle Regioni non interessi tanto il mercato di riferimento che hanno, quanto affermare per altri tipi di ragioni, un loro modello predefinito, per cui non so, l’accompagnamento al lavoro che a nostro avviso è proprio la parte centrale della vicenda, vede Regioni come la Sicilia che ha 179 milioni di dotazione, investirne 6, 6 sull’accompagnamento; tutto il resto, 40 sui tirocini, 31 sull’autoimpiego, 33 sulla formazione, 33 sull’accoglienza, su attività che intanto non rispondono a questa finalità, e probabilmente sono legate a operatori, immagino pubblici, o non lo so, non ho mai approfondito il tema. Lascio a voi l’interpretazione, insomma. Il Piemonte stesso, che è una Regione diciamo meno centralista, ha destinato 45 milioni su 97 alla formazione, 30 ai tirocini e 12 all’accompagnamento. La Lombardia, 35 all’accompagnamento, ma su 178, però tenendo presente che c’è tutto il progetto Dote Unica, che è una dotazione importantissima di risorse che va ad assommarsi di fatto, e che vale anche per i giovani. Ma anche altre Regioni come il Lazio per esempio, che invece han destinato 35 milioni su 137 all’accompagnamento. L’Emilia Romagna, per esempio, su 74 milioni all’accompagnamento, al lavoro destina un milione. Si vede che lì, a Piacenza, al lavoro si va da soli, è così. Allora, io capisco che sia davvero difficile la questione. Noi ci troviamo di fronte al paradosso che in una situazione drammatica abbiamo un treno che passa una volta di un’importanza enorme dal punto di vista dell’immagine su tutta Italia, sull’Europa eccetera, e noi, nel presente, abbiamo questo treno che stiamo dissipando come opportunità in modo totale, rischiando di creare un’ulteriore effetto negativo pesante, perché oggi, cioè rispetto al clima di sfiducia e di rassegnazione che dicevamo prima, non c’è nulla di peggio che un esempio negativo per rincarare la dose. Ecco, io di fronte a questo mi fermo, perché mi sembra che oggi questo sia una priorità che lega le nostre necessità di sviluppo del mercato di lavoro medio-lungo con la possibilità di ottenere dei risultati nel brevissimo termine, che è qualcosa di cui in questo momento a mio parere abbiamo anche bisogno.

MASSIMO FERLINI:
Grazie Stefano, hai ripreso un po’ il tema del come oggi rimettere in moto anche quelle forze e quella responsabilità individuale che è stata individuata da più parti come il tema da cui partire per cambiare il modo con cui si affrontano i temi del lavoro. Do adesso la parola a Manuela Kron, Direttore Corporate Affairs del Gruppo Nestlè in Italia. Prego.

MANUELA KRON:
Grazie. Buonasera a tutti. Quello di cui vi volevo parlare oggi è un’applicazione pratica che la nostra azienda ha fatto partendo da quello che è un problema di business, e qual è il problema di business? Il nostro capo Europa – fate conto che Nestlè è un gruppo che è presente in tutti i Paesi pressappoco del mondo, abbiamo circa 400.000 persone in tutto il mondo, circa 80.000 in Europa e circa 5.500 in Italia – il nostro capo Europa, circa due anni fa, guarda i numeri della disoccupazione giovanile in Europa (non solo in Italia) e dice “bene, ho un problema di business. Perché se questi giovani non entrano nel mondo del lavoro, a me il Kit Kat chi me lo compra fra qualche anno?” La sintetizzo molto. E quindi guardando quelle che erano le realtà e non volendo andare a bussare alle autorità, per una volta si è chiesto cosa possiamo fare noi, e la risposta che si è dato è stata “vediamo se riusciamo a mettere in piedi un programma che preveda nei vari Paesi l’assunzione di giovani, non importa quali sono le condizioni politiche e sociali e legali del Paese dal punto di vista del lavoro, facciamo questo tipo di lavoro”. Si è consultato con tutti i suoi colleghi delle risorse umane ed è venuto fuori con un numero: 20.000 giovani fra i 18 e i 29 anni da assumere nell’arco di tre anni, distribuiti (lui è il capo Europa, ma poi chi fa le cose sono i mercati) distribuiti in tutta Europa, quello che noi chiamiamo top down, cioè lo fai, punto. A noi il numero che è arrivato sono 1.100; voi capite che 1.100 opportunità lavorative, vuoi come assunzioni a tempo indeterminato – la metà -, vuoi come opportunità di lavoro a tempo determinato e apprendistato, su una popolazione di 5.500 persone con un’uscita che non c’è, non è un problema banale. E quindi ci siamo messi a lavorare, e anche perché questo numero non è stato dato come dicevo, così, è stato dato dicendo: per te capo mercato ha lo stesso valore che per noi manager dell’azienda gli obbiettivi che io ti do come quota di mercato, come volumi che mi devi dare a fine anno eccetera, cioè è il numero su cu noi siamo valutati dal nostro capo Europa. Per dire, il primo settembre, lunedì facciamo i conti, e vediamo a che numero siamo, con lui che ci ascolta. Quindi noi, dopo il primo smarrimento, tutti quanti dei vari Paesi, ci siamo guardati in faccia e ci siamo messi a fare seriamente la cosa. Abbiamo lanciato questo progetto nel novembre dell’anno scorso e ci sono arrivati ottanta mila curricula, ovviamente una piccola parte li abbiamo usati ma gli altri no, e questo stesso problema ovviamente si è creato negli altri Paesi. Allora a questo punto, sempre il nostro capo europeo ha detto: “Beh ma forse possiamo fare qualcosa in più, noi abbiamo raccolto – perché ne abbiamo le risorse – abbiamo raccolto questi 80.000 curricula, tra l’altro il dottor Colli-Lanzi è lui che li ha raccolti, la sua organizzazione – cosa possiamo fare per declinare ancora e avere dei numeri più grandi?” E abbiamo coinvolto i nostri fornitori, gli abbiamo detto: “Guardate, noi stiamo facendo questo, voi potreste metterci dei numeri a vostra volta? Così creiamo una massa critica che può anche far parlare più dei nostri 20.000”. La risposta è stata straordinariamente positiva, e molte aziende dei nostri fornitori ci hanno detto “noi lo facciamo, ma voi ci potete mettere a disposizione i vostri 80.000 curricula?” “Beh, abbiamo detto, certo, volentieri, li abbiamo”. E quindi un lavoro già fatto da un’azienda che finanziariamente lo può fare, è stato messo a disposizione.
E abbiamo pensato di fare ancora di più, abbiamo inventato il progetto che è quello dei “Maestri di Mestiere”, cioè vogliamo avere gli studenti delle scuole medie superiori tecniche che vengano da noi in stabilimento a vedere come funzionano le fabbriche, cosa si fa, come si lavora. Ovviamente vengono a guardare, non a lavorare, anche perché una buona parte dovete immaginare sono minorenni, e quindi vengono a guardare come si lavora. Quindi come azienda in Europa abbiamo iniziato questo processo, che dà varie opportunità di lavoro e possibilità di imparare un lavoro a vari livelli. Questo fa bene non soltanto perché è un’opportunità di business molto a lungo termine, come potete intuire, ma soprattutto è un qualche cosa che si rivela essere nel breve termine molto motivante per l’intera azienda. E’ vero non sono dei grandi numeri, come ci ha detto una volta, mi ha detto una volta un collega tedesco, in fondo come azienda possiamo sviluppare dei numeri che non sono giganteschi; sì è vero, però basta guardarne in faccia una di queste persone che ha avuto quest’opportunità per farti venire veramente la voglia di andare avanti. Quindi credo che con tutte le difficoltà del caso, se superiamo il famoso quarto d’ora di lamentela – abbiamo tutti il diritto a un quarto d’ora di lamentela – credo che molte cose si possano già cominciare a fare. Con il progetto di “Garanzia Giovani” abbiamo iniziato a lavorare soprattutto in Lombardia, abbiamo presentato i nostri numeri proprio in presenza dell’Assessore a Milano, andremo avanti e vi terremo aggiornati su quelle che saranno gli sviluppi futuri. Grazie.

MASSIMO FERLINI:
Averne, viene da dire, di imprese così, che si sfidano sul numero dei giovani occupati da portare avanti. Dario Odifreddi, Consorzio Scuola Lavoro, importante iniziativa ed esperienza di eccellenza nella formazione professionale rivolta a chi era stato messo fuori dal ciclo formativo e educativo, con una esperienza più ampia in questo settore.

DARIO ODIFREDDI:
Buongiorno a tutti. Nella convocazione di questo incontro del Meeting, la domanda sintetica era: come contribuire in modo sostanziale alla occupabilità dei giovani? Ora credo che il tema sia necessariamente molto vasto e quindi per scelta io mi soffermerò esclusivamente su un aspetto che è quello legato al ruolo che può avere la formazione professionale. Alcune cose le abbiamo viste stamattina e afferiscono al funzionamento del mercato del lavoro, un altro tema secondo me di straordinario interesse che prima o poi bisognerà affrontare sul serio è invece quello della scuola e la scuola in quanto tale, gli istituti tecnici, gli istituti professionali, ma anche i licei. Cosa che con il decreto 1048B è iniziata con tanta difficoltà.
Però ovviamente per motivi di tempo mi soffermo esclusivamente sul tema formazione professionale perché, come già diceva anche Massimo, è l’oggetto di cui mi occupo ormai da 20 anni. E devo dire che questa domanda, chi si occupa seriamente di formazione professionale, chi seriamente sta con i giovani, questa domanda se la pone in continuazione e negli ultimi anni in particolare c’è stato un grande lavoro comune tra alcune delle realtà che si occupano in Italia di formazione professionale, penso agli amici Salesiani, alle Salesiane, agli amici delle Acli, cioè è cominciato veramente anche un lavoro di riflessione comune e anche un mettere a fattor comune l’esperienza fatta. Ed è un lavoro che abbiamo cercato di portare all’attenzione istituzionale, cosa non facilissima in questo Paese. Questo lavoro ha avuto sostanzialmente due anni di gestazione: è nato sotto il Governo Monti, è stato presentato il 13 novembre sotto il Governo Letta e lo abbiamo presentato sotto il Governo Renzi. Cioè nell’arco praticamente di 18 mesi abbiamo ricominciato questo percorso. Una fortuna non banale, grande soddisfazione: sei ministri anziché due. Questo invece l’ho detto un po’ così scherzando ma questo appunto non è banale, perché la possibilità poi di arrivare operativamente a delle possibilità di costruire è legata anche alla possibilità che permangano nel tempo degli interlocutori credibili. Quando parlo di formazione professionale, mi riferisco in modo esclusivo alla formazione professionale per i giovani nei percorsi di qualifica e nei percorsi di diploma professionale. Non parlo in questo caso della formazione professionale degli adulti per la riqualificazione. Perché questo è interessante, e non è che ce lo diciamo che è interessante, lo dicono ormai in modo clamoroso, dopo 10 anni, i muri. Cioè nelle Regioni, e sono un pugno, poche, pochissime, sostanzialmente al nord, cioè il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, l’Emilia Romagna con un modello diverso e poi pochissime cose nel resto d’Italia, ma dove c’è la dispersione scolastica è sceso l’inserimento lavorativo, è all’ 84% al secondo anno e al 68% al primo anno e coerente nel 64% dei casi con quello per cui si è studiato. Il costo medio della formazione professionale è circa 25-30% in meno di quello che è il costo equivalente di un ora di attività scolastica e sono cose che la CGL, tutti, documentano ogni anno.
Quindi i risultati ci sono. Nasce nel 2003 con la famosa 53 legge Moratti, eravamo qui al Meeting – mi veniva da ridere, saltavamo e ci dicevamo è fatta, ormai dal punto di vista professionale l’Italia decolla ed eravamo al Meeting appunto subito dopo la decretazione – nasce 10 anni fa, in via sperimentale 23000 giovani, oggi i giovani in questi percorsi, in Italia, sono 280000, ma i giovani che chiedono questi percorsi in Italia sono 500000, contando solo quelli delle Regioni dove possono chiedere. I genitori si mettono in coda, fanno la notte, poi non ci riescono a iscriverlo ma in Piemonte, in Lombardia, in Campania non fanno la coda, perché non esiste e non sanno dove mettersi in coda. Quindi sono molti di più ed è una opportunità che viene offerta, perché anche qui il problema è che ognuno ha uno stile di apprendimento, modalità cognitive diverse, cioè alcune persone usano un metodo più deduttivo, alcune altre un altro, insomma, non voglio entrare su questa dinamica, però è evidente che funziona. Poi arriva il Ministro Poletti, è venuto a trovarci a Torino alla Piazza dei Mestieri e dice ai giornali: “La formazione professionale aiuta a creare o a trovare una opportunità, è un formidabile volano per l’occupazione”. Poi, poco dopo, arriva il Ministro Gelmini e dice: “Intendo mettere la formazione professionale al centro delle politiche del mio Ministero, perché la formazione è sempre stata vista come un ripostiglio, mentre è una stanza prioritaria. Ci vuole un sistema duale come quello sperimentato dalla Piazza dei Mestieri”. Uno dice, “ragazzi è fatta! Questa è la volta buona”, e invece chissà… perché si fa fatica, cioè riconosciuta questa cosa, si fa fatica, allora dobbiamo almeno dire, senza troppi infingimenti, perché si fa fatica. Il primo problema si chiama ignoranza, nel senso letterale di ignorare, cioè la stragrande maggioranza della nostra classe politica ignora l’ esistenza di queste cose. C’è poi un secondo problema, che è il pregiudizio. Il pregiudizio permane, permane in un pezzo di sinistra, in un pezzo del mondo sindacale, comunque permane un certo pregiudizio che ha a che fare proprio col tema impresa, lavoro, lavoro manuale. E’ il pregiudizio per cui a suola ci si educa, nella formazione professionale ci si addestra, nell’impresa si va a subire lo sfruttamento in cambio del 27 del mese. Questa, ci verrebbe un po’ da ridere, invece è una cosa ancora estremamente presente e notate che l’accusa che viene fatta da chi pensa così della formazione professionale, è esattamente l’opposto di quello che produce.
Un esempio per tutti: la mobilità sociale. La formazione professionale è il più straordinario strumento di mobilità sociale, ma chi ha questo pregiudizio dice “no! La formazione professionale impedisce la mobilità sociale perché mantiene le classi meno abbienti nell’ignoranza, perché non possono fare il normale percorso scolastico”. Io credo, però, che noi dobbiamo cominciare ad avere il coraggio di andare un po’ nella direzione di valorizzare le cose che funzionano. Credo che valga anche in questo caso che la moneta buona caccerà la moneta cattiva, cioè dove si fa veramente una formazione pensata a livello istituzionale a livello di laboratori seri, la moneta cattiva, un po’ per volta si sgancia. E’ dove non si fa che la moneta cattiva continua ad imperversare e quindi la formazione fasulla, che serve a finanziare formatori, continua ad esistere e ad assorbire risorse. Allora su questo punto vorremmo fare due proposte. La prima proposta è cerchiamo di permettere il più possibile, ai giovani e alle famiglie italiane di poter frequentare i percorsi di formazione professionale. Questo vuol dire, in senso generale, una attenzione da parte del Governo a chiedere che in Italia, quando c’è un ordinamento, questo venga recepito da chi deve recepirlo. Questo è un diritto dovere, dal 2010 non dovrebbe esserci più nessun problema, ma ci sono Regioni italiane che non hanno mai recepito l’ordinamento. E quindi questo ordinamento non è esercitabile. Non si potrà fare legislativamente con un intervento, ma almeno fate un po’ di moral suasion cioè è veramente insopportabile che il tema non sia neanche posto.
Secondo aspetto di questa parte operativa: noi abbiamo un enorme problema, noi tutti lo sappiamo, l’Italia è divisa in due, in tre, quattro; il sud è la situazione in cui anche da questo punto di vista abbiamo i problemi più rilevanti, perché non abbiamo sistemi forti, strutturati di formazione professionale iniziale, ne avevamo uno in Sicilia che in questo momento stava tentando di costruirsi, siamo in mezzo a una situazione molto complessa. Allora noi diciamo: perché non facciamo un progetto dove prendiamo quindici, apriamo quindici centri, quindici, non 5.500, quindici, nelle quattro Regioni del sud, quindici centri partendo dalle eccellenze che in Italia ci sono, che coinvolgono i soggetti che ho detto prima, e iniziamo? Questo avrebbe due vantaggi: il primo, dal punto di vista delle risorse sarebbe assolutamente sostenibile con le risorse ministeriali dei PON, dei progetti operativi nazionali. Ci sono 3.154.000.000 destinabili alle politiche delle Regioni convergenza del Fondo Sociale Europeo; ora il problema è quanti di quei 3.154.000.000 di euro usiamo in un modo piuttosto che in un altro; per fare questa cosa probabilmente ce ne parte il 2%, quindi una cosa assolutamente marginale, ma che diventa emblematica, cioè diventa la cosa su cui poi tu puoi costruire nel tempo un sistema. Faccio solo un accenno perché l’ha già detto colli ma “Garanzia Giovani”, i posti dove funziona sono solo i posti dove c’è già un sistema strutturato, operativo per la formazione professionale o delle agenzie per il lavoro. Da tutte le altre parti non può funzionare, perché non è che tu clicchi nell’etere, nel cloud, nella nuvola, e fanno il match di domanda e offerta di lavoro: non funziona così. Quindi questa è la prima proposta, la seconda è sperimentare nuove forme all’interno dell’apprendistato, nell’ambito sempre della formazione professionale, quindi sul terzo anno di qualifica e sul quarto anno di qualifica una sperimentazione per l’apprendistato per i giovani, perché anche i numeri dicono che l’apprendistato in Italia ha dei numeri ancora molto bassi e, per quanto riguarda i giovani, dei numeri insignificanti, assolutamente risibili – parlo sempre di giovani 16-17 anni all’interno dei percorsi di istruzione. Anche questo si potrebbe fare in modo sperimentale su un numero predeterminato in Italia sulla falsariga, per intenderci, dell’accordo Enel, cioè con tutta quella serie di condizioni che nell’accordo Enel ci sono e che rendono interessante, appetibile per un’impresa poter attivare il contratto di apprendistato. Tra l’altro queste due proposte mi sembra che potrebbero veramente dare vita a un nocciolo duro di sistema duale in Italia.
Adesso tutti parlano di questo sistema duale, come in Germania. Però bisognerebbe tener conto che in Germania la dimensione media delle imprese è diversa che in Italia, le relazioni sindacali si fanno in un altro modo, e di cosette di questo tipo, che però sono rilevanti, bisogna tenerne conto, quindi dobbiamo trovare una possibilità di costruire un sistema dove lavoro e formazione vadano insieme, ma probabilmente con una via che ha degli aspetti originali rispetto al modello duale tedesco. Concludo augurandomi che l’annunciato programma per il rilancio della scuola che io amo chiamare per il rilancio dei sistemi educativi, che ci aspetta per domani 29 agosto e comunque anche il semestre europeo diventino l’occasione per uscire da questo limbo in cui siamo da tanto tempo. Signor Ministro, a lei in particolare affidiamo queste proposte perché siamo consci che senza di questa si priveranno i giovani del Paese di una grande opportunità: lei ha concretezza di origine, ha storia professionale che vanno in questa direzione, i tweet sono simpatici, culturalmente sono importanti, ma non bastano a cambiare verso all’Italia, grazie.

MASSIMO FERLINI:
Grazie Dario, io ripropongo al Ministro quello che dicevo all’inizio: “Vorremmo discutere di cose fattibili, non cambiando le norme, ma perché incominciamo a cambiare il nostro modo di operare quotidianamente”. Credo che sia un punto da cui puoi partire per darci le tue riflessioni conclusive.

GIULIANO POLETTI:
Credo che tutte le sollecitazioni che sono arrivate, effettivamente, ci portino sistematicamente a farci una domanda di una banalità micidiale: come diavolo abbiamo fatto ad arrivar qua? Com’è che è andata a finire così? Perché oggi dobbiamo interrogarci, recriminare, chiedere? Perché se noi prendiamo le tue considerazioni finali, verrebbe da dire, “ma scusami, se ho buone imprese che sono interessate a, se ho buone esperienze sul campo della formazione, se ho tutto ciò, dove diavolo sta l’inghippo, dov’è che si è incagliato il meccanismo, dov’è il problema che ha prodotto l’esito che è la domanda che ci facciamo oggi?” Beh, io credo che da questo punto di vista non è il caso che ci infiliamo in una riflessione troppo storico-sociologica del nostro Paese. Però qui c’è una base di risposta a questa domanda, perché noi veniamo da una situazione nella quale abbiamo sostanzialmente pensato per un lunghissimo tempo che le dinamiche dell’economia, l’evoluzione dell’impresa, l’evoluzione, ecc. avrebbero di per sé garantito la ripresa, se avessimo avuto la capacità di gestire le crisi temporanee cicliche, il sistema sistematicamente si sarebbe ripreso e si sarebbe corretto. Quindi era sufficiente avere dei buoni ammortizzatori, per cui arrivava la crisi, ti davi una sistemata con gli ammortizzatori, tenevi in equilibrio le tensioni sociali, il sistema ripartiva e andavi così in eterno. Questo tipo di meccanismo, siccome non corrisponde alla realtà, un po’ per volta ha lasciato per strada dei problemi non risolti che si sono accumulati. Quindi non avendo impiantato un correttore strutturale, non avendo messo in moto un meccanismo che è quello delle politiche attive del lavoro, che è quello delle politiche attive in generale, siamo arrivati a questo punto.
Questo Paese, facendo una divagazione che non è banale, non si è mai dato strutturalmente delle politiche sociali che avessero come logica la attivazione e la fuoriuscita di un soggetto dalle sue condizioni. Noi abbiamo fondamentalmente gestito questi problemi con “ci pensa la famiglia” oppure con un trasferimento monetario (ti do un po’ di soldi). Ma se io ho una famiglia che è in una situazione di povertà, perché il capofamiglia, la persona adulta ha un problema di dipendenza dall’alcool e io gli giro trecento euro al mese, cosa succederà? Che probabilmente se li beve. Ho risolto il problema? Assolutamente no. Forse mi sono un po’ messo il cuore in pace perché avevo una persona con un problema e io in qualche modo me ne sono fatto carico. Credo che la logica sulla quale dobbiamo lavorare sia esattamente l’opposto. Abbiamo bisogno in tutti i contesti di lavorare per politiche di attivazione, per politiche di responsabilizzazione e per progetti che tendano a corrispondere alla condizione specifica di quella persona e di quell’individuo. Abbiamo bisogno di presa in carico, non abbiamo bisogno di una generica logica che dice: scarico a valle uno strumento, un euro, un meccanismo, un “diritto” perché va in graduatoria. Noi abbiamo questa spettacolare attitudine a scrivere le graduatorie, un sacco di uffici che passano la loro vita a scrivere le graduatorie e io continuo a ripetere: e se voi risolveste i problemi? Non sarebbe meglio? Siamo bravissimi, litighiamo tantissimo, siamo raffinatissimi nello scrivere le graduatorie ma poi non risolviamo il problema. Allora proviamo a smettere di scrivere le graduatorie e proviamo a pensare come diavolo si fa ad affrontare il problema. Per farlo bisogna costruire gli strumenti, questo è il problema. Il problema sta nel voler fare degli investimenti da questo punto di vista.
Bisogna che facciamo un atto di onestà intellettuale tutti quanti. Noi abbiamo una valutazione critica dei servizi per l’impiego di questo Paese. Questa valutazione è del tutto giustificata guardando gli esiti; è del tutto ingiustificata se guardiamo le politiche che sono state fatte perché i servizi per l’impiego in Italia non sono servizi per l’impiego, sono l’anagrafe della disoccupazione, che è una cosa molto diversa. Ai nostri uffici non abbiamo mai chiesto di fare il Matching, ecc. Gli abbiamo detto: fammi l’anagrafe, fammi sapere chi è, dov’è, se gli tocca, non gli tocca, qualche altra cosa. Poi dopo abbiamo, in situazione diverse, costruito altre realtà ma la logica di fondo, di partenza, è stata questa. E con la logica di fondo non è che fai il ricollocamento, il matching, la riqualificazione, non lo fai. Quando uno mi dice “bisogna vedere cosa succede in giro”, io dico “ci ho guardato in giro!”. La Francia, la Germania, l’Inghilterra nei servizi per l’impiego non ha 7500 persone, per capirci, ne ha qualcuna in più. Perché? Perché ha fatto degli investimenti, ha deciso di fare delle cose. Poi i sistemi sono sistemi normalmente dove c’è una presenza pubblica o una presenza privata, o un associazionismo o un privato sociale, ci sono tanti, come dire, tanti soggetti che coagiscono. Credo che il pluralismo dei soggetti sia una ricchezza, non sia una complessità, una complicazione, non sia il segno della sconfitta di qualcuno nei confronti di qualcun altro. E’ che molti strumenti hanno una loro natura, una loro ragione che li muove e li attiva, sono fondati su delle culture, sono fondati su degli obiettivi, sono fondati su dei bisogni e dei sentire. Quindi è bene che ci sia questo pluralismo di strumenti che devono però essere ricondotti ad un disegno, devono essere messi in condizione di competere, di collaborare, di produrre un certo tipo di risultato. Quindi io credo che noi, oggi, questo tema lo dobbiamo guardare provando a declinarlo dalla partenza. Prima grande questione (è stata citata, la cito anch’io solo tra virgolette) il tema scuola, perché noi veniamo da una storia dove il sistema scolastico italiano è stato sistematicamente sbalestrato di qua e di là, abbiamo licealizzato, montato, smontato, abbiamo deciso che la formazione professionale ci voleva, non ci voleva, la formazione tecnica un giorno era un’ottima cosa e il giorno dopo era la farina del diavolo. Credo che bisognerà ricostruire anche qui un disegno che abbia una sua razionalità, che consenta delle opportunità e che consegni delle libertà, perché io credo che questo sia uno dei punti. La libertà è la risultante delle opportunità, cioè la possibilità di scegliere. Ma se io non sono messo nella possibilità di scegliere perché la proposta non c’è, nel mio territorio quella cosa non c’è, o non è praticabile, io non sono libero, sono portato a scegliere secondo una dinamica o una condizione che si è prodotta. Per questo dico che il pluralismo delle opportunità è un dato della libertà e una società che da questo punto di vista è più libera, sceglie ed è più responsabile, perché ha potuto scegliere e potendo scegliere si è assunta di più la responsabilità. Qui c’è un primo tema e credo che questo tema vada riaffrontato, riesaminato. Detto questo, sulla formazione professionale, l’apprendistato ecc, credo che ci sia un tema molto importante che fa riferimento un po’ a quello che ci siamo detti fino ad ora. Anche qui c’è bisogno di fare un tentativo di strutturare una risposta. Vale per questo, cioè per la formazione, come vale per i servizi e le politiche attive per il lavoro. Diciamo così: il rapporto tra lo Stato, le Regioni, le istituzioni locali, le forze sociali, il mondo associativo e avanti di questo passo.
Credo che su questo versante ci sia da cambiare un po’ di cose perché l’esperienza ci dice che ci sono delle cose che funzionano e delle cose che non funzionano. Probabilmente se riusciremo a superare l’idea anche qui un po’ ideologica del primato di A rispetto a B, e riusciremo invece ad affermare l’idea che una buona collaborazione e una buona qualificazione della responsabilità e delle funzioni è anche una capacità di limitare le proprie competenze e responsabilità. Se lo Stato centrale pretende di andare oltre una certa soglia o la Regione pretende di conquistarsi un tasso di autonomia che è rappresentato dal fatto di essere fuori da una cornice comune, quelle cose lì non vanno bene. Dentro quella cornice probabilmente lo Stato può stabilire qual è il livello essenziale delle prestazioni che devono essere garantite, perché esiste il problema delle due, delle tre Italie, perché abbiamo bisogno di fare questa scelta. Dall’altro lato abbiamo bisogno di costruire un meccanismo per cui la relazione con i mercati locali possa essere agevolmente utilizzata. L’esperienza ci dice che chi lo fa in termini positivi produce buoni risultati, chi non lo fa non funziona. Anche qui probabilmente bisogna costruire un nuovo equilibrio. Ci stiamo lavorando, stiamo discutendo, vediamo che cosa fare. Su questo versante ragioniamo un attimo utilizzando “Garanzie Giovani” come, diciamo così, il nostro terreno di lavoro, l’esperienza, il nostro caso sul quale poter costruire le nostre risposte. Cosa posso dire? Non sono convinto che la definizione “stiamo sprecando quest’opportunità” sia giusta. Sia giusta se la posizioniamo nel contesto di questo Paese. Questo Paese non ha mai fatto politiche attive per il lavoro e non ha una dotazione infrastrutturale in grado di farle. Questo Paese ha una separazione secondo cui i dati stanno a casa dell’INPS, che gestisce non solo le pensioni ma anche la cassa integrazione ordinaria, straordinaria, nonché molti altri strumenti di supporto, sostegno, ecc.; le politiche attive stanno da un’altra parte. Intanto lì c’è un primo problema: questi due pezzi possono essere tra loro separati e non dialogare? E’ un errore! Buttiamo via delle risorse e facciamo delle cose che non funzionano. Primo problema. Quindi occorre costruire un sistema unitario da questo punto di vista. Seconda questione: noi quando abbiamo affrontato questo problema – lo dico perché io sono arrivato al Ministero del Lavoro occupandomi di questa vicenda quando una parte di questo lavoro era stato fatto e una cosa che mi ha meravigliato è che nella prima parte del lavoro si era non adeguatamente affrontato il tema della relazione con l’offerta, con le proposte – abbiamo trovato un lavoro sostanzialmente ben fatto, ben costruito sul tema: come dialoghiamo coi giovani, come li sollecitiamo… Poi se lo stiamo facendo bene, questa è un’altra questione. Ma strutturalmente il pensiero c’era. Molte delle cose che avete detto sul tema del privato rivelano un buon impianto. Mancava, ma perché era molto difficile immaginare che ci fosse, il secondo pezzo, il dialogo con i sistemi imprenditoriali, il sistema delle comunicazioni, la scuola, le università, perché, siccome non c’è un sistema unitario da questo punto di vista, era complicato, perché ognuno doveva costruire il suo pezzo e avanti di questo passo.
Allora oggi noi cosa abbiamo fatto? Abbiamo fatto una scelta che io rivendico. Siamo partiti con il programma “Garanzie Giovani” e abbiamo fatto il primo pezzo di comunicazione sulle imprese. Quello sui giovani lo faremo il prossimo mese. Molto spesso le cose si imparano facendo. Allora cominciamo a farle perché siamo partiti in ritardo, ma se io avessi ascoltato da più di un posto d’Italia non saremmo partiti perché tutti i mesi erano buoni per dire “Ascolta, non sono ancora pronto, partiamo il prossimo mese”. Dopo un mese ho detto “Sentite, adesso facciamo una cosa: dal primo di maggio partiamo”. E’ stata la scelta giusta, perché anche quelli che non erano pronti per partire bene o male hanno cominciato a muoversi. Che abbiano recuperato, no! Se avessimo accettato di aspettarli saremmo ancora lì ad aspettarli. Allora io preferisco oggi discutere con qualcuno che si sta faticosamente muovendo, piuttosto che discutere con uno che mi continua a ripetere “partiamo il mese prossimo perché non sono ancora pronto!”. Partendo in questo modo abbiamo prodotto un esito. Oggi abbiamo 162 mila giovani che si sono registrati al portale. È poco e tanto. Se parliamo di 2 milioni di giovani sono pochi, se partiamo dai zero del 25 di Aprile sono una misura fuori di misura, anche perché io ragiono in questa maniera: continuo a pensare che se fai una cosa prima di tutto la fai per una persona e se hai la sensibilità, l’attenzione e la cura per preoccuparti dell’effetto che quella cosa fa nei confronti di quella persona, è certo che sarà fatta bene anche per 10 mila, 20 mila, 50 mila, 100 mila. Se parti dall’idea che se non ne ho 200 mila non ce l’ho fatta, parti già da un’idea che probabilmente, secondo la mia logica, non è quella congrua. Allora 160 mila sono pochi, sono tanti. Se li mettiamo dentro uno stadio ci servono 3 o 4 stadi di San Siro e quindi per me sono tanti. Il prossimo mese faremo un’altra campagna di comunicazione, presumo che il numero si alzerà. La stessa cosa ce l’abbiamo sul versante dell’offerta, dell’opportunità. Qui c’è un lavoro in campo che è figlio del rapporto che abbiamo attivato con le associazioni imprenditoriali, con i gruppi imprenditoriali. Ed è vero l’accordo che dicevi tu.
È chiaro che quelle Regioni che per dono della loro storia, per la loro attitudine, per la loro condizione, avevano costruiti sistemi che nell’arco di 5 anni, 6 anni, 10 anni, 15 anni si erano raffinati, sono in grado di innescare rapidamente questo meccanismo su un sistema funzionale. Chi queste cose non le ha fatte mai, storicamente, cosa fa? Tende a ripetere dalla nuova condizione cioè che storicamente ha fatto. Se storicamente si faceva la formazione fatta in un certo modo, funzionale al fatto che c’era un’organizzazione di formazione in quel territorio fatta in quel modo per gestire le risorse, anche “Garanzie Giovani” finisce per essere attratta dentro quel sistema, non c’è mica dubbio. Quindi oggi quello che noi dobbiamo fare è un dialogo, confronto, discussione, il più robusto possibile, per fare in modo che non accada questa cosa, che anche quelli che non avevano un’infrastruttura, che non avevano una modalità, che non avevano un’organizzazione, pian piano comincino a fare la curva. Non sarà semplice, perché noi oggi lo facciamo fondamentalmente sul piano della nostra capacità di convincere, della nostra capacità di discutere, qualche volta della nostra capacità di usare un incentivo o un disincentivo. Io in questo periodo ho lavorato molto dicendo “cara Regione, hai una difficoltà, se hai bisogno dimmelo, ti aiuto”. A me non interessa scrivere sul giornale, non sei efficiente, non sei efficace, vigliacca la Regione, cosa me ne faccio! Il mio problema è che quella Regione faccia le cose come vanno fatte e se debbo metterci un euro glielo do lì, piuttosto che da un’altra parte, per cercare di dare una mano in questo senso. Questo è quello che stiamo facendo e da questo punto di vista io voglio rivendicare una piccola cosa. Noi da quando siamo partiti il primo di maggio con “Garanzia Giovani”, pubblichiamo un report sull’andamento del progetto. Avrei potuto fare una scelta diversa, non farla, farla in un’altra maniera. Io credo che sia stato per noi una scelta molto importante, perché costringe noi, costringe il Ministro, costringe il Direttore, costringe le Regioni, costringe tutte le Regioni, costringe tutti, tutti i venerdì ad andare a cliccare e vedere che succede.
Quando abbiamo aperto questa cosa, qualcuno mi ha detto: “Poletti ma sei matto e se non si scrivono i giovani e se non funziona e se e se”. La mia risposta è stata: “Guardate che il problema non è che facciamo una figuraccia, è che fallisce il progetto, è che non diamo la risposta ai ragazzi, ai giovani. Quello è il problema vero”. Quindi averci l’obbligo ogni venerdì di ogni settimana di dover andare a vedere quello che è successo, è la garanzia più forte che noi possiamo avere di stare concentrati su questa questione, di stare attenti a quello che succede, di cambiare dove c’è bisogno di cambiare, perché lo sappiamo che su questa cosa dovremmo cambiare delle cose, perché è inevitabile, partiamo non avendole mai fatte, è doveroso cambiare. Quindi su questo versante gli stimoli, come posso dire, le sollecitazioni, i progetti che vengono dall’impresa, sono tutti molto importanti, perché la logica sulla quale noi vorremmo lavorare è quella di usare le infrastrutture che pian piano costruiremo sulla base del progetto “Garanzie Giovani” per le nostre politiche attive. Quindi noi oggi stiamo costruendo la macchina oltre a provare a fare la politiche. Questo è quello che faremo, questo rende ancora più interessante la cosa, perché se la facciamo fatta male, ce la teniamo fatta male, quindi noi abbiamo bisogno di avere una grande cura nel guardare bene quello che stiamo facendo, perché stiamo costruendo una roba che dura nel tempo. L’Italia e il sottoscritto al primo incontro coi Ministri del Lavoro europei ha chiesto di stabilizzare il programma “Garanzie Giovani” come programma stabile in Europa. Oggi questo programma vale 2014/2015, poi i finanziamenti bisogna ritrovarseli. La prima cosa che abbiamo chiesto è che diventi un programma stabile, perché? Perché se facciamo tutta questa fatica a costruire l’investimento, a fare la macchina, a organizzare le robe, a convincerli tutti, succede come succede con gli altri finanziamenti europei. Sei anni a fare i gruppi di azione locale, al sesto anno che ce l’hai fatta, dici “peccato abbiamo finito il settennato e quindi lei ci ha la macchina però è scaduto il tempo, lei non può più partecipare alla gara”. Ho detto no, facciamo una cosa, per il prossimo campionato iscriviamo la macchina vecchia dell’anno passato. Perché c’era già pronto qualcuno che voleva fare già una macchina nuova, così torniamo un’altra volta al sesto anno per scoprire che non si era riusciti a partecipare al campionato.
Regola numero uno: ci iscriviamo al campionato con la macchina dell’anno passato, così quantomeno tutto il tempo per costruirla ce lo siamo già giocato. Quindi noi oggi abbiamo questo tipo di impianto che vogliamo mettere a regime. Io credo che questo sia davvero una scommessa, sia davvero un impegno importante. Noi su questo lavoreremo, lavoriamo con molta intensità con questo spirito, con lo spirito di chi costruisce e corregge quindi analizza in maniera critica quello che sta facendo ed è pronto a correggerlo laddove dovesse verificare che ci sono dei pezzi che non vanno. Quindi questo è quello che facciamo, quindi io non faccio una difesa del programma “Garanzia Giovani” così com’è. Siamo tutti convinti che questo processo “Garanzia Giovani” ci serva a costruire la macchina, ci serva a portare tutte le Regioni italiane lungo una pista che, ad esempio, dice “abbandoniamo l’idea, che se chiediamo ad un’agenzia di lavorare con il pubblico, stiamo bestemmiando”, perché stiamo facendo una cosa normale, lo fanno un certo numero di Regioni, lo possono fare tutte quante. Non succede niente di male. Ma io la dico anche così: se quella Regione lì che dice che lei con le agenzie non ci vuole parlare è la più brava al mondo e fa il record mondiale, io le mando una lettera di felicitazioni; ma se quella lì arriva penultima, io mi innervosisco leggermente, perché se tu mi dici “faccio come mi pare” e sei il più bravo, ti mando una lettera di complimenti, ma se dici “faccio come mi pare” e arrivi ultimo, vuol dire che ci abbiamo un problema tecnico da qualche parte, perché vuol dire che ti sei giocato l’opportunità di fare come ti pare, perché da un certo punto in là smetti di fare come ti pare, perché il problema non è il come ti pare ma è l’effetto che questo provoca sui cittadini del tuo territorio, perché alla fine tu puoi far quel che ti pare se i tuoi cittadini hanno riconosciuti i loro diritti e le loro opportunità, ma se per fare come ti pare succede che un giovane A ha tre opportunità e il giovane B ne ha zero, io non credo che sia legittimo che tu possa fare quella cosa lì, quindi per un po’ giochi la tua partita, da un certo punto in avanti, fine della tua partita, rientri nel campionato di tutti e ti metti in fila.
Quindi io non trovo in termini ideologici una scelta che dice meglio A di B. Io guardo quello che succede, se i risultati sono buoni, gli strumenti per ottenere quel risultato sono apprezzabili, ma se i risultati non vengono, non può essere che sull’altare dell’autonomia e della responsabilità tu puoi danneggiare i tuoi cittadini, questo non può accadere per nessuna istituzione e quindi bisogna trovare dei meccanismi, delle contromisure che correggano questa situazione. Detto questo, l’ultima considerazione la voglio fare più in generale sulla formazione professionale, perché qui abbiamo una questione che dobbiamo riprendere e riconsiderare. Proprio perché nella dinamica storica delle vicende della scuola, dell’istruzione e della formazione di questo Paese, questa vicenda ha caracollato un po’ da molte parti, bisogna che gli troviamo una significativa collocazione. Poi se ne parliamo nei termini in cui ne parlava e cioè dei giovani, di questa fascia di giovani che ad esempio abbandonano gli studi e pensiamo di recuperare quella situazione con delle modalità ordinarie, siamo fuori da ogni ragionevole probabilità.
Se un ragazzo ha deciso di non proseguire su un percorso di studi, evidentemente una qualche problematicità da qualche parte c’è, una qualche difficoltà, una qualche condizione soggettiva, personale, familiare. Non possiamo pensare che questo si risolva con gli appelli o con le circolari che dicono che tu devi andare a fare questo o quello, perché questa roba non risolve un fico. Noi abbiamo bisogno di programmi individualizzati, noi abbiamo bisogno di costruire delle condizioni nelle quali intorno a quella situazione costruiamo una comunità che si occupa di quella situazione. Noi non possiamo pensare che il problema lo risolviamo con i dieci euro ma neanche con la classifica, qualifica comunale. Noi la risolviamo se intorno a quel nucleo familiare, a quel gruppo di giovani, a quel giovane c’è una comunità che si prende in carico quella situazione, allora noi possiamo con le risorse pubbliche dare una mano a quella comunità perché produca l’esito che quella persona o quella famiglia, quel nucleo familiare esca da quella condizione, ma solo se questo sta dentro un progetto che ha una sua complessità, che ha una sua natura di comunità, che ha una sua capacità di fare i conti con tutti gli elementi che hanno prodotto quell’effetto, perché altrimenti noi semplifichiamo un dato che ha un elemento di complessità particolarmente rilevante. Quindi io credo che questo tema noi dobbiamo riprenderlo perché ha questo dato. Poi l’ultima considerazione è quella che veniva fatta in apertura sul tema dei mestieri, sul tema del lavoro manuale, ma anche qui un giorno dovremmo fare cinque minuti di riflessione. C’è qualcuno che è in grado di sostenere la tesi che essere abilissimo con il martello, con lo scalpello denoti meno cultura, meno sapere, meno azione cerebrale di un altro tipo di mestiere? C’è qualcuno che ha il fisico per sostenerla una cosa come questa? No, perché io vorrei vederlo e facciamo un bel dibattito. Io lo so che non è bello monetizzare il disagio, la fatica e il resto, però se sto davanti ad un forno di una ceramica a tirar fuori i carrelli di piastrelle, 270 gradi, o sto con l’aria condizionata di là, a fare un’altra cosa, forse da punto di vista di quanto debba avere io come reddito per la mia ora di lavoro, forse un dibattito bisognerà farlo, perché noi veniamo da una storia dove questa classificazione storica di separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale non è stata abbandonata. Io un giorno vorrei aprirla una riflessione su questo punto, perché altrimenti facciamo delle riflessioni in via di principio molto belle, ma poi quando pratichiamo concretamente l’atto, succede che l’impiegato di concetto va in un modo, l’operaio saldatore va in un altro.
Poi dopo abbiamo 350 mila posti di lavoro che non trovano copertura, dove c’è un disossamento tra competenze e domanda ma delle volte c’è anche disossamento perché uno dice “ascolta, se debbo fare il saldatore con una maschera davanti agli occhi, otto ore al giorno, fammi capire l’effetto che fa”, perché se uno lo proponesse a te, forse ci penseresti due volte prima di andare a decidere di fare quella cosa lì. Allora è chiaro che lo stipendio non cambia l’effetto, ma se lo stipendio si assomma alla maschera e alla saldatrice, non sono sicurissimo che l’effetto sia quello di dire che adesso troviamo la gente che va a fare quei mestieri. Quindi da questo punto di vista abbiamo anche questo problemino che è quello certo di ridefinire le qualifiche, di fare molte cose, di fare operazioni di semplificazione che sono indispensabili altrimenti noi complichiamo terrificantemente troppe cose ma insieme a queste abbiamo anche un altro dato che dovrebbe essere ripreso in considerazione, perché questa idea del mestiere, della capacità di fare oggi, su molti versanti, ha trovato una risposta.
Oggi ci sono mestieri che si sono nel tempo rivalutati, che hanno oggi una loro capacità anche di produrre reddito in maniera rilevante. Dobbiamo lavorare a ricostruire queste filiere, perché oggi il cuoco è il cuoco e il saldatore è il saldatore e allora bisogna che ragioniamo su cosa succede da questo punto di vista. Lo dico proprio perché mentre noi ragioniamo sul versante in ingresso, la formazione, le competenze, il sapere ecc., abbiamo bisogno di lavorare anche sull’altro versante, che è “ok tu scegli di costruirti una tua capacità professionale, un tuo sapere, una tua conoscenza, una tua abilità, dall’altro lato hai una buona opportunità di collocarti sul mercato del lavoro avendone un reddito congruo”. Se teniamo insieme le due cose probabilmente superiamo l’ ignoranza, superiamo le resistenze ideologiche e produciamo le condizioni di fatto perché la cosa accada. Io concludo questo mio ragionamento con una mia, come posso dire, con una valutazione in termini positivi, proprio a partire da dove siamo partiti. Tutti quegli elementi che abbiamo già ci dicono ok sia sul versante della formazione sia sul versante delle imprese sia sul versante degli strumenti che possiamo mettere in campo, compresa “Garanzia Giovani”. Abbiamo una potenziale particolarmente interessante. Se saremo capaci di far coagire questi strumenti e di metterli a regime il più rapidamente possibile, non mettendoci i dieci anni che abbiamo alle spalle, io credo che potremo fare passi molto importanti.
Quindi posso dire da Ministro che il mio impegno e l’impegno del Governo è quello di avere questa grande attenzione con questa idea di fondo che, in una pluralità di soggetti, in una grande apertura, in una gran dinamismo delle opportunità, facciamo aumentare la libertà dei soggetti, facciamo crescere le opportunità e quindi potenzialmente diamo una risposta almeno per una parte a questa grande domanda che abbiamo e che davvero è l’emergenza essenziale del nostro Paese e che ha bisogno di una risposta sia a breve sia di medio periodo. Quindi dobbiamo fare queste due cose insieme, perché solo in questa maniera prendiamo la direzione giusta e cominciamo a camminare. Quindi sono le due cose che io credo sia necessario fare. Grazie a tutti per la vostra attenzione.

MASSIMO FERLINI:
Grazie al Ministro Poletti, grazie per i vari passaggi operativi, buon lavoro e grazie a tutti per la partecipazione!

Data

28 Agosto 2014

Ora

15:00

Edizione

2014

Luogo

Sala Tiglio A6
Categoria
Focus