FULLY ALIVE. Domande e sfide alla ricerca dell’amore di Dio in ciascuno di noi

Fully alive. Domande e sfide alla ricerca dell'amore di Dio in ciascuno di noi

Fully alive. Domande e sfide alla ricerca dell’amore di Dio in ciascuno di noi

Partecipano: Maria Angela Bertelli, Missionaria saveriana a Bangkok, Thailandia; Timothy Shriver, Chairman of Special Olympics. Introduce Letizia Bardazzi, Presidente Associazione Italiana Centri Culturali.

 

LETIZIA BARDAZZI:
Buonasera a tutti. Benvenuti a questo incontro dal titolo “FULLY ALIVE. Domande e sfide alla ricerca dell’amore di Dio in ciascuno di noi”, che ha per protagonisti due grandi ospiti, due grandi testimoni che vengono da molto lontano e che abbiamo avuto la fortuna di incontrare e portare qua al Meeting. In un mondo ossessionato dall’eccellenza e dal controllo di noi stessi, i nostri ospiti oggi ci racconteranno del valore essenziale della fragilità. La debolezza infatti, il limite, è un dono, è un’opportunità, una forza che porta le persone a dare il meglio di sé. In entrambe queste esperienze, l’amore e l’apprezzamento delle differenze sono un trampolino a partire dal quale possiamo progredire nella conoscenza della nostra umanità e dell’umanità dell’altro. Non si tratta di fare assistenza, perché con la semplice assistenza si verificano pochi cambiamenti dal punto di vista sociale e personale. Si tratta di creare un legame, uno ad uno, che va al cuore, al fondo della relazione e che porta quel potere trasformatore che solo l’amore può dare. Ve li introduco: suor Maria Angela Bertelli, carpigiana, è saveriana, della congregazione delle missionarie di Maria, è in Thailandia dal 2000, responsabile della Casa degli Angeli nella periferia di Bangkok, un centro di riabilitazione voluto e sostenuto dalla Caritas di Venezia per bambini disabili, orfani, abbandonati. In molti casi si tratta di bambini rifiutati, messi negli slam o nelle baraccopoli, perché ancora per un antico retaggio si pensa che creature malformate o ritardate siano una maledizione. È stata missionaria ad Arlem, a New York, in Sierra Leone, dove nel ’95, insieme a sei consorelle, è stata sequestrata dai ribelli per quasi due mesi. È autrice de La casa degli angeli che troverete in libreria, Edizione Itaca. Il nostro secondo ospite è Timothy Shriver, è un grande educatore, un imprenditore e il direttore degli Special Olympic Games, seguiti da più di quattro milioni e mezzo di disabili, con disabilità atletiche, intellettive, in 180 paesi del mondo. L’ultima edizione dei Giochi Speciali Olimpici si è conclusa un mese fa, a Los Angeles. Un mese prima dell’apertura dei giochi olimpici, Timothy ha accompagnato gli Special Games Olympics italiane ad incontrare Papa Francesco per una benedizione speciale. Con lui ci affacciamo nella storia di una grande famiglia, i Kennedy, grandi personaggi della nostra epoca. La madre di Timothy è Eunice Kennedy, la sorella di John, Robert, Ted e gli altri Kennedy ed è lei che fonda gli Special Olympic Game nel ’68 e per decenni incoraggia e crea le condizioni affinché i ragazzi con disabilità intellettive e con bisogni speciali possano competere in tutti gli sport per la fioritura della propria umanità. Il suo motto, il motto che lei ha lanciato in tutto il mondo e che ha reso famose le Special Olympic, è “Che io possa vincere! Ma se io non riuscissi, che io possa essere coraggioso in questo tentativo!”. Tutta la devozione di Eunice Kennedy ai ragazzi meno fortunati è dovuta all’amore ad una sorella, una dei nove Kennedy, Rosemary, nata con disabilità intellettive. Timothy Shriver è autore del libro “Fully Alive. Discovery what matters most”. Do immediatamente la parola ai nostri ospiti e iniziamo da suor Maria Angela Bertelli.

MARIA ANGELA BERTELLI:
Quando si vedono delle cose belle non si possono tacere. Io non sono una scrittrice, però il libro è saltato fuori perché non potevo più stare zitta vedendo le cose belle che il Signore regalava a me proprio nelle mamme, nei bambini disabili che sto servendo alla Casa degli Angeli. Diamo solo una pennellata: attualmente ne stiamo ospitando quindici; non è una cosa grossa, ma è un piccolo seme in una Thailandia che non ha mai visto delle opere per questi bambini, ma solo orfanotrofi. Di questi, sei bambini sono stati abbandonati, uno di loro è anche orfano, quattro hanno solo la mamma perché abbandonati dal papà, altri cinque hanno ancora il papà, però con gravi problemi famigliari. Quindi bisognerebbe essere un po’ di tutto: assistente sociale, infermiera, suora, ma nessuno ha tutte queste cose insieme e io per prima non ho mai pensato, mai progettato, mai fatto nulla per chiedere neanche un soldo per fare in modo che questa Casa degli Angeli venisse su. Sono state altre persone che hanno spinto per questa cosa, magari mosse dall’impegno che vedevano. E poi ora le mamme stanno portando avanti questo lavoro, questo servizio, questo amore per i bambini in un modo che neppure io avrei potuto anche solo immaginare. Qui so che ci sono alcuni volontari, quindi potrebbero dirlo anche loro per esperienza. Anche non sapendo la lingua thailandese, quando vengono sono colpiti da questo amore che va ben oltre la mamma e il suo bambino. Tant’è che mi chiedono: “Ma chi è la mamma di chi?” Perché tutte prendono in mano tutti come se fossero moltiplicate le mamme. Il mestiere di mamma oggi non è tanto in voga, però è la cosa più essenziale, perché è l’amore più vero e più gratuito, anche umanamente parlando, che si possa sperimentare. Non vi parlerò delle storie, altrimenti dovremmo stare qua fino a stanotte o anche di più. Per chi leggerà le storie nel libro, vorrei dare un outline del background dove lavoriamo. Qui in Italia siamo molto abituati ad avere centri dove vanno i volontari, come le case della carità, gli istituti dove ci sono i bambini. E viene spontaneo per la gente, grazie ad una educazione cristiana, farsi presente, spendere il proprio tempo, spendere il proprio denaro, offrirsi per queste cose. In Thailandia questo praticamente non esiste o è raro, oppure lo si fa per avere un merito: la vera situazione di quella persona non mi interessa più di tanto, l’importante è che io riceva il merito del bene che ho fatto. Per alcuni sarà famigliare, per altri ostica questa cosa, però vorrei dire due cose sul buddhismo therawada, o piccola via, che è tipico dello Sri Lanka, della Cambogia e della Thailandia. Ci aiuterà a capire il contesto. Il Buddha nel primo insegnamento – chi vuole può consultare il libro di Rahula Walpola, L’insegnamento del Buddha – dice: “Dio è invenzione dell’uomo perché l’uomo si scopre debole, mancante, impotente, perciò ha inventato l’idea di Dio”. Sono affermazioni pesantissime come un macigno. Io ho scoperto questo libro dopo dieci anni di Thailandia e mi son sentita venir male. Un’altra cosa dice: “Non c’è il self”, non c’è l’io. La persona è un conglomerato di elementi per cui adesso sei e domani non sei più”. Quindi non vale la pena impegnarsi per le cose di questo mondo, anzi meglio sarebbe distaccarsi, soprattutto dal desiderio, non solo dai desideri cattivi, ma anche dai desideri buoni, dall’amore, perché tutto è passeggero, tutto va a finire in niente. Poi c’è l’idea del karma. Se vedi la sofferenza, il dolore, la morte – dice il Buddha – è così perché devi aver fatto del male, perciò è il castigo meritato per qualcosa che devi aver fatto nella vita precedente. Se uno invece sta bene, è ricco, furbo è perché se lo è meritato, perché ha fatto del bene nella vita precedente. La via di salvezza del Buddha è quella di staccarsi dal tutto, dai desideri, rimanere in un ambito in cui stai bene con te stesso, ti stacchi dal mondo, sei nella pace e nel vuoto. Se pensiamo che Buddha parlava 500 anni prima di Cristo più o meno, guardate quanti legami ci potrebbero essere con il nichilismo moderno. Buddha diceva: “Se Dio è un’invenzione umana, se l’io è un’invenzione umana, anche l’anima immortale è un’altra invenzione, perché l’uomo non vuole finire nel nulla, perciò inventa l’anima immortale, qualcosa che non muore”. E aggiungeva: “Basta credere in queste fandonie, in fondo, tu sei l’unico rifugio a te stesso”. Una salvezza fai da te. Ma ci si può chiedere: è possibile davvero? Quello che noi diciamo amore è proprio tutta un’invenzione? E’ un rifugio? In fondo l’ambizione di salvarsi da sé la sentiamo tutti. “Fai del bene, riceverai il bene; fai del male, riceverai il male”, dice Buddha. Quante volte noi diciamo: “fai del bene così vai in paradiso”. Non è una bestemmia, però è non capire cosa significhi davvero un rapporto. Un rapporto non è una compravendita: io ti do e tu mi dai. Il rapporto è gratuità: lo fai per nulla, per nient’altro che per questa cosa nel cuore, di cui senti la mancanza, ma di cui alla fine sei tutto pieno. Noi non ci sentiamo pieni perché abbiamo denaro, perché abbiamo le cose, ci sentiamo pieni perché Dio è compagno di viaggio. Il nichilismo ci porta in fondo a un pessimismo, a non valutare nulla di buono in quel che si vede, a rifugiarci in uno scetticismo amaro, a considerare niente tutti i piccoli tentativi di bene che vengono fatti. Ai livelli più bassi, in Thailandia – io parlo della società delle baraccopoli, non di quella di facciata, tutta bella, che vedono i turisti – si arriva alla esasperazione del karma: io sono così, povero e reietto, per espiare una colpa commessa, non provateci neanche a mettermi in una situazione migliore, non me la merito, la colpa è mia. Quindi, ogni tentativo di autoriscatto va a finire in niente. Se questo è difficile per una persona sana fisicamente, pensato quanto sia impossibile per un disabile, sia mentale che fisico. Non c’è scampo, i nostri bimbi non parlano, non possono pensare, non si possono muovere. Come si salvano? Come possono trovare la forza di reincarnarsi per essere un po’ meglio di così? Allora Dio gioca a roulette russa con noi? Alcuni sì, altri no? Chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro? Noi veniamo da una grazia enorme. Chi ha conosciuto Cristo, ha conosciuto qualcosa che si chiama amore, ma quello vero. Una delle mie mamme si esprimeva così ed è buddista: “Sister, qui ho conosciuto l’amore vero, perché anche con mio marito, andavamo a letto insieme ma eravamo due corpi vicini. Non c’era niente di condiviso”. Fa pensare questa cosa. La gratuità non esiste, tant’è che nella lingua tailandese bisogna usare una frase intera per poter esprimere questo concetto: per nulla, te lo do solo perché te lo voglio dare, ti voglio bene solo perché ti voglio bene, non voglio nulla da te. Questa cosa qua non immaginate che razza di sospetto faccia sorgere, anche in me suora. Quando fai qualcosa per questi bimbi, loro ti guardano e dicono: “Ma che cosa vorrà quella lì? Perché si prende cura di me? Cosa vuole in cambio? Magari vuole che mi converta alla religione cristiana?” E’ una delle prime cose che dico alle nostre mamme: “Io non vi chiedo di cambiare religione, però vi do un’alternativa che nasce da qualcosa che io ho scoperto che è grande, che dà la pace, che aiuta a vivere tutte le cose che viviamo, soprattutto i momenti più critici e difficili, ed è Gesù”. Quindi le mamme, dal momento in cui vengono, hanno vergogna dei loro bimbi, vanno in ospedale e tornano a casa, il marito non vorrebbe neanche che uscissero, non vorrebbe neanche che venissero alla Casa degli Angeli. Venute lì, cominciano a capire, a vedere qualcosa di diverso: si può voler bene ai loro bimbi. I più di centotrenta volontari che son venuti da quando la casa è stata aperta nel 2008, sono un segno di questo amore. Tant’è che una mamma mi ha detto: “Questo Dio Padre che tu mi hai fatto conoscere, io mi accorgo che è più vicino a me di mio marito, più vicino a me quando piango nel silenzio, quando mio marito mi oltraggia, quando sono in ospedale da sola col mio bimbo. Io prego questo Dio e so che lui mi dà la forza”. E un’altra volta che le ho detto di quanto Dio dica a Maria e al suo Figlio: “Mi compiaccio di te”, la stessa mamma mi ha detto: “Neppure mio marito mi ha mai detto che si compiace di me”. Quindi Dio è la sorgente della dignità, è la sorgente del valore dell’uomo, perché ti dice quel che tu sei, ti apprezza per come Lui ti ha creato. Quante volte siamo tornati al racconto della creazione, perché per loro è incredibile che un Dio, una mano, una mente, un cuore, crei tutto come preparare la stanza di un bimbo che sta per nascere. Per loro era puro caso. Una mamma mi ha detto: “‘Sister, rileggila quella pagina lì. Non sapevo che c’era tanto amore dietro a tutte le cose belle che ci sono intorno”. Allora il punto è: come si fa ad arrivare a vedere la bellezza in questi bimbi? Dio ci sconvolge sempre. Dio ha un metodo che non può assolutamente essere proiezione dei pensieri umani. Non può essere assolutamente un’invenzione dell’uomo. Dio ha scelto di rivelarsi e di venire come uomo in Gesù, si è fatto povero coi poveri, è nato a Betlemme in una stalla, ha per madre Maria e Giuseppe. Tutto ciò è scandaloso. Questa roba qui non può essere invenzione umana. L’uomo non si può immaginare un Dio così. È oltre ogni schema, oltre ogni ragionamento, oltre ogni tattica, strategia per convincere la gente. E Dio si ripresenta ancora oggi. Non cambia metodo. Papa Francesco lo dice a chiare lettere: nelle periferie, non a Gerusalemme, a Betlemme. Non nel palazzo, nella stalla. Non sopra il trono, sulla croce. Gesù diceva: “Venite benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno perché mi avete dato da mangiare quando avevo fame, avevo sete e mi avete dato da bere”. La gente diceva: “Quando ti abbiamo visto così?” Dice Gesù: “Tutte le volte che l’avete fatto ai più piccoli l’avete fatto a me”. Allora tanta gente, anche buddisti senza saperlo, stanno già vivendo il Vangelo, hanno già il regno di Dio nelle loro mani. E quei bambini lì, siccome Gesù si identifica con loro, adesso sono ultimi ma saranno i primi. Io dico alle mamme: “Loro vi prendono per mano, vi hanno fatto conoscere Gesù”. Tant’è che una mamma ha detto: “Questo bimbo che credevo essere una maledizione è diventato per me una grazia, perché senza di lui non avrei mai conosciuto Dio”. Questo è il metodo del Signore. Bisogna andare in Thailandia per vedere questa cosa? No. L’abbiamo alle porte tutti i giorni. Abbiamo i poveri alle porte tutti i giorni, possiamo condividere con loro, possiamo incontrare Gesù in loro. Noi in genere diciamo: “Prima voglio capire e poi crederò”. Dio ci chiede: “Credimi, servi queste persone e mi scoprirai in loro”. Bisogna fidarsi. Questo è un po’ anche il metodo della Casa degli Angeli. Infatti, che cosa cerca il cuore? Come si fa a trovare l’amore di Dio per ciascuno di noi? L’amore di Dio in un Paese come la Thailandia dove Dio è fatto fuori? Non sto criticando il buddismo. 500 anni fa, quando il Buddha parlava vedeva davanti a sé le divinità indiane che sono una mitologia, una proiezione umana. La Grecia e l’Olimpo erano pieni di litigi tra gli dei. Roma è stata lo stesso. E anche nel giudaismo, nel libro di Giobbe, si presentano le stesse domande: “Hai ricevuto una punizione perché devi aver sbagliato qualcosa, devi aver fatto del male”. Giobbe insiste: “No, non ho fatto del male. Vorrei solo sapere cosa sta combinando Dio”. Perché Dio mi tratta così? Perché Dio mi ha dato un figlio handicappato? Perché non sono come gli altri? Perché sono più lento? Perché ho questa malattia? Perché devo morire? Perché mia figlia giovane ha un cancro? Perché, perché, perché. Sono le stesse identiche domande da 2500 anni e anche più. Era in crisi tutto e non si sapeva ancora, non si era certi della risurrezione. Perché anche questa o è un’invenzione umana o c’è una rivelazione, un fatto concreto a cui ti agganci e che ti trascina con sé. Se Giobbe era una finzione letteraria per poter parlare dei problemi dell’uomo, Gesù diventa il personaggio storico che vive la punizione di Dio. Ma non per sé, la vive caricando su di sé la punizione che sarebbe stata meritatamente nostra. La porta con sé per dirci: “Come una mamma carica il suo bimbo disabile sulla schiena e ne porta il peso per farlo andare anche lui nel parco, io ho portato te”. Ora questa realtà c’è. La dobbiamo solo riconoscere. Il mondo c’è. Dobbiamo solo riconoscere chi ce l’ha dato. Questi bimbi sono così. Non abbiamo ancora capito il messaggio di questi bambini. I primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi. Quale semplicità e quale grandezza di questa salvezza offerta a tutti, indistintamente! I bimbi per primi, le loro mamme, non importa a questo punto se buddiste o cristiane. Se sono cristiana, a me spetta non falsificare, né annacquare il messaggio, qualsiasi cosa costi. La mia responsabilità davanti a Dio è tanta, in quanto lui mi ha fatto conoscere la grazia stragrande di conoscere Gesù. La responsabilità delle mamme sarà di andare al fondo di quanto ho fatto loro conoscere. Vedi tu. Poi la loro libertà sceglierà chi amare e a chi credere. Non abbiamo il problema dell’esito, del risultato. Io mi sono stupita quando ogni anno cinque mamme coi loro bimbi, una dopo l’altra, hanno chiesto il battesimo. È una grazia. È quello che Dio opera ben oltre le nostre capacità. Concludo dicendo che l’evangelizzazione passa attraverso la carità concreta, spiccia. Dico alle mamme: “Lavare il culetto dei vostri bambini è la preghiera più bella che potete fare, perché l’amore non è sentimento. L’amore è servizio concreto, fino a sporcarsi le mani, fino a caricarsi pesi. Ma alla fine Gesù dice: il mio carico è leggero”. Quindi la Casa degli Angeli non l’ho mai pensata, ma se c’è la desidero e voglio con tutto il mio cuore che ci sia per evangelizzare, per portare questa notizia in una società che ha fatto fuori Dio, ha fatto fuori l’io, ha fatto fuori l’agire della gente, ha fatto fuori una possibilità di salvezza per i più poveri. È un seme piantato. Dio ce l’ha dato nelle mani, l’abbiamo gettato là, lo innaffiamo tutti i giorni ed è lui che lo fa crescere. Questa evangelizzazione attraverso la carità, di cui anche papa Francesco parla, questa misericordia è come la chiave che apre tutte le porte, anche dei buddisti, anche di chi non crede, perché nel bisogno siamo tutti poveri, sentiamo tutti questa mancanza, questo buco, che può essere riempito davvero dal solo che è l’alternativa a queste cose, da Gesù, Gesù, Gesù. Grazie a tutti, grazie anche ai volontari che sono venuti, a chi ha sostenuto il libro, a chi l’ha corretto. Sarebbe troppo lunga la lista ma grazie.

LETIZIA BARDAZZI:
Timothy Shriver per voi.

TIMOTHY SHRIVER:
Innanzitutto mi scuso perché devo parlare in inglese. In italiano so soltanto dire grazie, grazie mille. Desidero ringraziare suor Maria Angela. Ha detto che non è mai stata costretta a trovare fondi, denaro. Io invece sono sempre in cerca di fondi. La mancanza nel mio cuore di solito corrisponde a una mancanza nel mio portafoglio. Quindi sono un po’ invidioso, sorella, di questo suo carisma, della sua forza. Desidero ringraziare anche Letizia per le sue gentili parole di presentazione. Ha detto che siamo qui per celebrare la forza di trasformazione dell’amore. Mia moglie Linda è venuta con me qui all’incontro da New York e siamo stati immediatamente colpiti dalla bellezza di questa comunità, da questo senso di incontro. Tra l’altro non ho mai avuto una traduzione simultanea in over sound, cercherò di abituarmici. Linda e io siamo davvero grati dell’accoglienza che ci è stata riservata e dell’esempio che questa comunità ci offre, una comunità di incontro dove ci si guarda negli occhi per riconoscere l’uno la bellezza dell’altro. È un dono molto raro che voi potete avere. Sono qui in rappresentanza della Special Olimpics Community, che non riguarda le para olimpiadi, anche se spesso le due cose vengono confuse come è già stato detto, non sono le vere olimpiadi. Noi siamo le olimpiadi speciali. Il nostro movimento, come diceva sorella Maria Angela della sua Casa degli Angeli, è un movimento per le persone diverse, con disabilità intellettive. Ci sono 300 milioni di persone nel mondo che hanno delle disabilità intellettive. Queste cifre possono essere scioccanti. Molti pensano che siano poche le persone con questi problemi. Magari cinque o sei persone a Bangkok, quindici o venti a Rimini. No, la cifra è questa. Il 2-3% della popolazione mondiale soffre di disabilità intellettive e, come ha già detto sorella Maria Angela, essere diversi è difficile. Chiedetelo a tutti i teenager che conoscete. È difficile essere diversi. Chiedete alle persone di fede che vivono nel mondo secolare. È difficile essere diversi. È molto, molto difficile essere etichettato come persona con una disabilità e portarsi dietro quest’etichetta tutta la vita, una parola che caratterizza solo una parte della vostra umanità ma che vi definisce in modo negativo. Si è talmente diversi che si è ‘dis’ abili. Il nostro movimento ha come missione quella di giocare e lavorare insieme, ma la nostra missione principale è il gioco. Vogliamo che i bambini con disabilità e quelli senza disabilità giochino insieme. Lo stesso vale per gli adulti. Che giochino a calcio, che nuotino, che corrano, niente di complicato. Ora vi mostrerò solo un paio di immagini se me lo permettete.
Questa è la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi speciali estive di Los Angeles, che si sono concluse appena tre settimane fa. Questo è il famoso Colosseo di Los Angeles e sul campo vedete ci sono tutti gli atleti che hanno partecipato. Tutti hanno una disabilità intellettiva. Venivano da 170 diversi Paesi. Questo è il momento della conclusione dei giochi olimpici e ci sono anche alcune immagini piuttosto interessanti, divertenti. Atleti di tutto il mondo. Magari qui ci possono essere alcuni australiani che riconosceranno la delegazione australiana in questa foto. Sul palco Marc Robert ha deciso di suonare come canzone conclusiva una canzone di John Lennon. Chi conosce John Lennon? Chi ascolta John Lennon? Avete mai sentito una canzone di John Lennon? La canzone che questo artista ha deciso di suonare si chiama Instant Karma. Non ho intenzione di leggere tutte le parole, ma le conoscerete sicuramente: “Il Karma immediato ti guarderà dritto negli occhi, arriverà dritto a te. Quindi preparati mio caro e partecipa alla grande gara dell’umanità. E non potrai avere grandi possibilità se ridi degli stolti come me. Chi ti credi di essere?”. E mentre ascoltavo questa canzone e quindi ascoltavo le parole ‘chi ti credi di essere’, in quel momento ho pensato: bella domanda. E mi sono chiesto se gli atleti sul campo sarebbero stati in grado di rispondere. Come avrebbero risposto se avessero potuto rispondere? Chi credo di essere? Se la società rispondesse per loro, in modo onesto, la risposta sarebbe molto, molto dolorosa. Risponderebbe con immagini come questa. Questa è l’immagine di un istituto dove migliaia di persone con disabilità intellettive vengono ricoverate. Sicuramente non è un istituto anche lontanamente simile alla Casa degli Angeli. Queste sono persone che sono state respinte, rifiutate, abbandonate. Nella prossima slide vedrete un’altra immagine simile. Le parole in inglese che vengono utilizzate dagli scienziati per rispondere alla domanda ‘chi sono queste persone?’, sono parole terribili. Non è nemmeno il caso di ripeterle in una riunione di persone beneducate, ma le leggete da soli. Queste sono le etichette usate dai tecnici, dagli esperti, per rispondere alla domanda ‘chi ti credi di essere?’: “un idiota, un imbecille, un ritardato”. Nella prossima slide potete vedere l’immagine terribile di questo bambino tenuto al guinzaglio, alla catena. In questa immagine si vede come questo bambino, questo essere umano, venga riconosciuto come qualcosa che deve essere tenuto legato, che deve essere tenuto stretto. Se vogliamo essere onesti, dobbiamo ammettere che queste sono anche le nostre parole. La disabilità è una creazione della società. Non è una vera e propria condizione. Quindi possiamo crederci: chi siamo? Chi siamo noi che abbiamo scelto tutti insieme di rifiutare queste persone? Forse dovremmo chiederci anche qual è la nostra immagine di Dio, che ci ha consentito di creare una classe di persone che riteniamo sia giusto escludere. Sono persone troppo diverse, non possono fare parte del nostro mondo. Cosa abbiamo fatto per nasconderci da questo volto di Dio? Credo che, come diceva sorella Maria Angela, abbiamo creato una sorta di dipendenza, una assuefazione moderna; magari è l’assuefazione alla indipendenza. Il Paese da cui vengo si fonda sull’indipendenza. Noi vogliamo che i nostri figli crescano indipendenti, che siano in grado di guadagnarsi da vivere, che abbiano una famiglia, che vivano autonomamente. Un bambino come questo, in un mondo basato sull’indipendenza, è soltanto la parte di un problema. Come tutte le assuefazioni e le dipendenze, la nostra assuefazione alla indipendenza ci dà qualcosa che è temporaneo, che non soddisfa. Quando si chiede per esempio: “Che cos’è la guerra?” Il Papa ci invita ad essere un luogo di accoglienza. Se la chiesa deve essere un ospedale da campo, chi sono coloro che dobbiamo guarire e per che cosa stanno combattendo in questa guerra? Potremmo riconoscere alcune di queste nostre parole nelle nostre Scritture: Isaia, migliaia di anni fa, ci ha avvisato dicendo che avremmo disprezzato e rifiutato il volto di Dio, che avremmo nascosto il nostro viso da questa immagine di Dio, che l’avremmo disprezzata. San Paolo ci porta ad un altro livello e ci dice che questa debolezza che noi rifiutiamo, è, in qualche modo a noi sconosciuto, una forza. Dio ha scelto le cose che non sono per ridurre al nulla le cose che credono di essere. Chi sono le persone che credono di essere e non lo sono? Quali sono le cose che credono di esistere e non esistono? Come dice Richard Rohr, la grande verità del Cristianesimo, in un certo senso, è la stessa: noi possiamo essere completi soltanto se siamo parte del cerchio dell’inclusione, se andiamo, perciò al di là di ciò che è strettamente accettabile, se andiamo ad includere anche l’ultimo anello di questa catena. Questi bambini vengono alle Special Olimpics, ma non voglio dilungarmi su questo. Noi siamo sempre pronti ad accogliervi qui in Italia, in Australia, in Tailandia, in Francia, in Germania, negli Stati Uniti. Più di 4 milioni di atleti partecipano tutti gli anni alle olimpiadi speciali, più di 70 mila gare. Forse il mio amico che ha la maglietta che riprende questo logo, questa immagine, si può far vedere. Si può girare? Così tutti quanti possano vedere questa maglietta. Quindi siamo pronti ad accogliervi, se vi piace nuotare, se vi piace correre, se vi piace giocare a calcio o a bocce, se vi piace sciare o fare snowboard, abbiamo tutte queste possibilità. Quando verrete a trovarci, questo è quello che vedrete, volti come questo, espressioni come questa che vedete nell’immagine proiettata.
Questa è probabilmente una bimba di otto anni. Nella prossima immagine vedrete un bambino in Libano. In questi sorrisi non potete non riconoscere una sorta di ricordo di dolore, di sofferenza. Quando i nostri atleti arrivano da noi, prima di diventare atleti, ricevono questo tipo di assistenza. Lo vedete qui. Ci sono moltissimi dottori che offrono il loro tempo e le loro conoscenze. Quest’uomo di 48 anni è venuto da noi. La prima immagine parla da sola, potrei fermarmi qui, potrei non aggiungere altro. È un’immagine di paura, di rifiuto. La seconda, invece, è un’immagine di incontro, di rapporto. Molti delle nostre gare sono così, come vedete nella prossima immagine. Ma invece di parlarvi nel dettaglio di questi nostri giochi, delle nostre gare, di queste nostre competizioni, vi chiedo di partecipare insieme a me, proprio ora e qui, ad una specie di gioco. Immaginate una gara. Facciamo finta che questo palcoscenico sia un circuito di gara. Se avete capito, fate cenno di sì con la testa. Ho bisogno di un feedback, sono americano. Immaginate di trovarvi in un campo sportivo qui a Rimini. Invece di venire al Meeting, siete andati a farvi una passeggiata e vi siete seduti ai bordi di una pista di atletica e all’improvviso vi siete accorti che c’era una gara di olimpiadi speciali in corso. Voi siete seduti sulle gradinate e state guardando la gara. Da questa parte c’è la linea di partenza e dietro di me c’è il percorso dei 100 metri. Provate ad immaginare, di individuare, fissare lo sguardo su uno degli atleti che vi guarda a sua volta. Quando i vostri sguardi si incontrano, la vostra anima si risveglia. In quel momento sapete che quando quel ragazzino, magari di 12 anni o quella ragazzina quando è nata, i dottori hanno detto alla madre: “Ci dispiace, sua figlia ha la sindrome di Down”. Ora, nel vostro cuore, capite che per lei è stato difficile camminare, e parlare. Forse nessuna scuola la voleva. Forse ancora non sa leggere. Forse non è mai stata invitata ad una festa di compleanno. Adesso vi chiedo, quando la gara inizierà, di fare il tifo per lei o per lui, se siete uomini. Darò il via alla gara e voglio che vi immaginiate di essere ad una partita Inter-Milan, quindi con un tifo forte e vigoroso. Cantate, alzate le braccia. Gli italiani sono bravi a fare il tifo e a fare rumore. Quindi voglio un tifo molto rumoroso, quando farò partire la gara. Avete capito? Ho sempre bisogno di un cenno con il capo. Un’ultima cosa, voglio che facciate il tifo per questo atleta che avete individuato, chiamandolo per nome e voglio che usiate il vostro nome. Vorrei quindi che faceste il tifo per questo atleta chiamandolo con il vostro nome, come se portasse il vostro nome. D’accordo? Avete capito ora. Andrò laggiù, non avrò il microfono e dirò: ‘Via!’. Voglio a quel punto sentire le vostre voci, il vostro tifo. Per tutti i 100 metri io correrò sul palco e voi dovrete incoraggiarmi fino alla linea d’arrivo. Ci sono domande?
Bene. Avete fatto il tifo per voi stessi? Avete fatto il tifo per Giuseppe, per Paolo. Beh, spero che abbiate sentito una sorta di cambiamento, perché io credo che il messaggio spirituale del servizio, della compassione, della cura, sia anche un invito a scoprire sé stessi. Ciò che noi rifiutiamo siamo noi stessi. E facendo il tifo per voi stessi, per il vostro nome, spero che sappiate che anche se siete arrivati terzi, potete comunque sollevare in aria le braccia, e se siete arrivati sesti o ultimi non facevate il tifo per un ordine di arrivo, voi facevate il tifo perché partecipavate alla gara.
Quest’altra è l’immagine di un gruppo di atleti speciali dall’Irlanda. Devo ammettere che questa è una lezione difficile: accogliere il bambino che è in voi, che è vulnerabile, dipendente, nudo, così come coloro che erano qui questa mattina hanno visto. Il Dio in croce che è nudo, vulnerabile, dipendente. È difficile ricordare che dobbiamo pregare questo Dio, il Dio nudo. Quando ci sono state le Olimpiadi Speciali in Irlanda, nel 2003, ero veramente emozionato, perché dopo che Bono cantò alla cerimonia di apertura (c’era anche Mohamed Alì, c’erano 80.000 persone allo stadio), il Presidente dell’Irlanda, due giorni dopo, mi chiamò e disse che voleva seguire le gare e io gli ho detto: “Benissimo, la accompagnerò al campo di gara”. Avevamo questi atleti che davvero correvano e gareggiavano come atleti delle olimpiadi. La Presidente dell’Irlanda voleva andare a vedere gli sport legati alle attività motorie, vale a dire quelle attività a cui partecipano le persone che hanno delle disabilità molto gravi: coloro che non sanno parlare, che magari non sanno camminare, che non possono usare le braccia. E io ho detto: “No”. Voglio che la Presidente veda i grandi risultati dei nostri atleti. Ma lei ha detto: “No, no; l’aspetto nell’area attività motorie”. Siamo arrivati e questo giovane, nell’angolo in basso a destr, si è trovato in una sala piena di gente, proprio come questa. Io sedevo di fianco alla Presidente, mia moglie e Barbara sedevano in prima fila. C’era un tavolo di fronte a questo ragazzo, Donald, che doveva alzare un sacco di fagioli e portarlo da una parte del tavolo all’altra. Non ero a mio agio. Mi sono detto: “Cosa penserà la Presidente? Abbiamo qui 150 Paesi rappresentati, abbiamo atleti che vengono da tutto il mondo e siamo qua a guardare Donald che solleva un sacco di fagioli”. Allora l’annunciatore dice: “Iniziamo!” Donald si guarda intorno nella sala. Poi ho saputo qual era stata la sua storia: era nato sano e a due anni aveva contratto una terribile infezione molto grave. Aveva ricevuto addirittura l’estrema unzione il Venerdì Santo e di nuovo la domenica di Pasqua, perché la febbre era arrivata a livelli altissimi. La madre lo teneva in braccio, preparandosi a vederlo morire, ma è sopravvissuto. Tornato a casa dall’ospedale, però, non ha più potuto né parlare, né camminare, né vivere in modo indipendente. I dieci figli di Peig e Mery, di cui Donald è il più giovane, sono seguiti dalla mamma che fa la casalinga e dal padre che ha un’azienda agricola. Quindi si trovava in quel momento a Dublino di fronte a migliaia di persone, seduto sulla sua sedia a rotelle, come vedete nella foto, col compito di sollevare questo sacco di fagioli e non ce l’ha fatta. Ha provato a muovere il braccio, ha provato a sollevare la mano, ma non c’è riuscito. E questo per oltre un minuto e mezzo. Vi lascio dieci secondi per pensare a come ci si deve sentire guardando qualcuno che sta cercando disperatamente di fare qualcosa, ma non ci riesce. Stare lì, a guardarlo in silenzio [dieci secondi di silenzio]. Ero veramente agitato, non riuscivo a stare fermo sulla sedia. Poi le dita di Donald si sono mosse appena un po’ per tre minuti, i la sua mano si è posata finalmente su questo sacco di fagioli e la sala ha applaudito. Tutti i suoi fan irlandesi hanno applaudito e alla fine è riuscito a stringere le dita intorno al sacchetto e poi ha trascorso i successivi diciotto minuti a sollevare lentamente il sacchetto di fagioli. Successivamente ho parlato con suo padre che mi ha detto: “Sa, i dottori mi ripetono in continuazione che Donald non può fare questo, non può fare altro, non può fare tante cose”. E quello che io rispondo è sempre: “Dategli un po’ di tempo”. E quindi il padre di Donald ha detto: “Se le persone, i medici a Dublino gli danno un po’ di tempo, ce la farà” e lo stesso vale per questo movimento. Quando è arrivato a circa a metà del tavolo con il sacco di fagioli, la sala si è alzata in piedi in una standing ovation, applaudendolo. Quando ha posato il sacco di fagioli, si è sentito un tifo che nemmeno in Italia si sente. Donald si è guardato intorno e mi ha visto in piedi, in lacrime. La Presidente dell’Irlanda era anche lei in piedi, in lacrime. E lì mi sono reso conto che mi ero sbagliato ancora una volta. Avevo avuto paura che non avrebbe fatto buona impressione. Avevo avuto paura che questo straordinario essere umano non avrebbe commosso la gente, non avrebbe dimostrato nulla. Avevo avuto paura, ma ancora una volta mi ero reso conto che avevo sbagliato. Quando qualcuno mi chiede se vado veramente alle vere olimpiadi, io devo sempre rispondere sì, perché ci sono tanti grandissimi atleti olimpici, ma non ci sono atleti più grandi, o migliori, di Donald Peig. Penso quindi che movimenti come questo ci invitino a sperimentare una sorta di “lasciare andare” la nostra vulnerabilità; non dobbiamo soltanto servire chi è vulnerabile, prenderci cura di chi è vulnerabile, ma dobbiamo trovare anche la cura alla nostra paura, della vulnerabilità. A volte noi parliamo di rinuncia, ma penso sia meglio non rinunciare a sé stessi ma piuttosto offrirsi a Dio, non soltanto nella preghiera ma soprattutto nella partecipazione in Cristo. Non soltanto quindi guardando il figlio di Dio e la sua coscienza, ma cercando di adottare, di essere, di diventare la coscienza di Dio, perché sia nella bellezza che nella debolezza c’è la presenza di Dio. Per concludere, spero che potrete aiutarmi a pensare al futuro come ad un momento in cui potremo educare e la prossima slide vi mostra quelle che sono le mie speranze: insegnare ai bambini non separatamente – quelli intelligenti da una parte e quelli meno intelligenti dall’altra, i cristiani da una parte e gli ebrei dall’altra, le persone di colore da una parte e i bianchi dall’altra, i ricchi da una parte e i poveri dall’altra – ma tutti insieme. Ecco, un movimento di questo tipo ci può aiutare a insegnare, a dare questo insegnamento ai bambini. Perché non possiamo avere un programma olimpico unificato in tutte le scuole del mondo? Perché non possiamo avere delle situazioni come questa, in cui i bambini indossano una maglietta che dice “mi impegno a rispettare tutti”? Questo per noi è possibile. I giovani con o senza differenze, se chiamati a giocare insieme, creano questi messaggi, questi segnali molto semplici. Per fare eco al vangelo di San Giovanni: “tutti saranno uniti, diverranno uniti. L’unità”. Vi ho citato prima alcuni versi della canzone di John Lennon Chi ti credi di essere. Sapete quali sono i versi successivi? Li conoscete? Il verso successivo dice: “Una super star! Una super star, e questo è quello che sei”. Poi le parole continuano “noi splendiamo tutti come la luna, il sole e le stelle”. Quando Linda ed io siamo partiti da Los Angeles, abbiamo incontrato il giovane atleta dell’Isola di Man, all’aeroporto, un uomo grande e grosso con una medaglia al collo. Gli ho stretto la mano e lui mi ha guardato negli occhi senza dire nessuna parola e gli ho detto: “Congratulazioni!” E lui non ha detto niente. E poi mi ha sorriso e mi ha detto: “Io sono la luna”. Io ho ascoltato e ho detto: “Forse non ho capito bene”. Quello che voleva dire era: “Mi sento come se fossi sulla luna, sono talmente felice che mi sento come sulla luna. Ma credo che comunque non si fosse sbagliato, forse aveva ascoltato questa canzone. Quindi l’ultimo esercizio per voi oggi è questo: cantate insieme a me. Ascolteremo la canzone; dovete soltanto imparare il ritornello: We all shine one like the moon and the star and the sun. We all shine on; everyone come on! (Risplendiamo tutti come la luna, le stelle e il sole. Risplendiamo tutti; tutti insieme!). Bene io non canto perché sono stonato; sarà John Lennon a cantare, ma concluderemo con questa canzone. Quindi la canzone la sentiamo tutta, ma cantate soltanto il ritornello. Possiamo mettere la musica?
Grazie!

LETIZIA BARDAZZI:
Che dirvi, non riesco a concludere! E’ proprio tanta la bellezza a cui abbiamo partecipato oggi pomeriggio, ascoltando i nostri ospiti equeste testimonianze. Abbiamo visto che coloro che li incontrano, le madri, gli atleti, i bambini della Casa degli Angeli, i giovani, tutti vivono una trasformazione radicale della loro visione del mondo, in seguito all’esperienza che fanno incontrando l’esperienza dei nostri amici, il loro spirito, la loro umanità, la loro dignità. La dignità che hanno di se stessi rinasce, si risveglia e il loro limite diventa il modo con cui fare esperienza di una gioia, di un appagamento totale che nasce solo dal sentirsi amati. E il regalo che fanno a noi, apparentemente normali, è quello di donarsi, di donare a noi una diversa percezione di noi stessi, del nostro bisogno. E l’unico compito che ci rimane è quello di riconoscere Chi abita la realtà e di partecipare a Lui, di dare il nostro sì a Lui. Ecco, prima di ringraziare ancora i nostri ospiti e di salutarvi, permettetemi di dare un avviso proprio perché la bellezza a cui abbiamo partecipato oggi e questa amicizia, questi trentasei anni di Meeting di Rimini che abbiamo vissuto insieme possano continuare, possa continuare ad esserci questo luogo che testimonia e racconta una cultura dell’incontro, una cultura dell’amicizia: continua la nostra campagna di fundraising. Con la nostra donazione entriamo a far parte della Community Meeting. Si può donare in vari punti della Fiera: Hall Sud, padiglione C1, padiglione A1, padiglione A3, nel padiglione C5 oppure sul sito del Meeting di Rimini. Con la propria donazione si riceverà la card della Community Meeting che ci permette di avere delle agevolazioni e degli sconti se noleggiamo le mostre itineranti del Meeting. Grazie ancora ai nostri ospiti per questa straordinaria testimonianza e vi auguro buona continuazione.

Data

23 Agosto 2015

Ora

15:00

Edizione

2015

Luogo

Salone Intesa Sanpaolo B3
Categoria
Incontri