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FRONTIERE SOCIALI: IL NONPROFIT COME NON LO AVETE MAI VISTO
Frontiere sociali: riqualificazione di aree urbane, il ruolo delle società sportive
Workshop in collaborazione con Banca Prossima e Fondazione Fits! – Gruppo Intesa Sanpaolo. Partecipano: Francesca Andreozzi, Presidente dell’Associazione Centro Koros; Giuseppe Consales, Regista; Giada Evandri, Responsabile Relazioni Esterne di Esterni; Beppe Musicco, Critico cinematografico e Presidente dell’Associazione "Sentieri del Cinema". Introduce Marco Ratti, Responsabile Knowledge Center di Banca Prossima.
MARCO RATTI:
Buonasera a tutti. Io mi chiamo Marco Ratti e lavoro in Banca Prossima e il mio mestiere è di introdurre brevemente e moderare, spero poco, il dibattito di stasera. Il titolo generale come sapete è “Il non profit come non l’avete mai visto” e qui vi potete chiedere oggettivamente, come lo vediamo stasera? Lo vediamo cominciando con un bel film breve di una decina di minuti che è la prima cosa che facciamo e questo film è una delle cose migliori che sono uscite da un concorso che si chiamava AREYOUSERIES, che è una cosa che stava all’interno della Milano Film Festival e che fondamentalmente era un concorso per web serie che parlassero del mondo non profit e che ne parlassero in maniera meno convenzionale e più artistica, se vogliamo, in maniera da parlarne differentemente. Il film che vediamo parla del lavoro di un’Associazione Koros che lavora con dei ragazzi che hanno avuto dei problemi con la giustizia e per parlarne qua abbiamo la Presidentessa dell’Associazione che è Francesca Andreozzi, abbiamo il regista del film che è Giuseppe Consales, abbiamo un critico di cinema che è Bebbe Musicco e abbiamo un’esperta in comunicazione che lavora nella società che ha organizzato tutto questo pezzo che è Giada Evandri. Io direi che iniziamo con il film.
Video
BEPPE MUSICCO:
Ecco, faccio una piccola premessa. Io ieri ho partecipato ai lavori della giuria del concorso del film festival del Meeting di Rimini e dei tanti cortometraggi che sono arrivati, molti riguardano temi sociali e un’attenzione alla malattia, al disagio, agli anziani… c’è una grande sensibilità, anche tra i giovani film maker a questi temi. Temi che ci toccano bene o male tutti, chi in prima persona, chi per prossimità famigliari o di amici o di conoscenti. Ecco, parlavo con altri giurati e principalmente con Petrosino che, a dispetto del nome è americano e dirige una grande scuola di cinema di New York, forse la più importante. E confrontavamo i nostri criteri e lui mi diceva: “Quali sono i film che ti toccano?” “Quelli che mi fanno dire wow! Quelli davanti ai quali io ho un motto di stupore”. Devo dire che è la stessa cosa che ho pensato guardando il film di Giuseppe Consales, wow! Perché qual è spesso il problema dei film, dei prodotti video legati alle opere di volontariato, le opere sociali? Che pur animati dalle migliori intenzioni, siano meramente descrittivi. Cioè una persona che dice noi facciamo questo, facciamo quest’altro, ci occupiamo di questo, tutte cose bellissime, tutte cose verissime ma raccontare con l’uso delle immagini e della musica è un’altra cosa, è un altro modo di narrare le cose, che ha altre regole. Allora non tutti hanno a disposizione il mare e il cielo di Sicilia per far vedere queste cose, però se avete notato, come introduce i protagonisti Giuseppe? Li fa vedere nel loro ambiente, parlano col loro linguaggio, si pongono con la stessa simpatia o antipatia che proveremmo noi. C’è uno che fuma, c’è uno che fa le impennate in motorino, c’è uno che dice parolacce. Non c’è una persona che spiega e dice noi stiamo lavorando con questi ragazzi, no. Son loro stessi che si presentano per quelli che sono. E lo stacco è la loro presenza di fronte a qualcosa di totalmente nuovo. Trovarsi insieme in una barca, un elemento che non conoscono, il mare nonostante siano di Catania immagino che per molti di loro sia un elemento totalmente nuovo. Ecco, lì c’è la crisi, lì c’è quello che ci interessa. Vedere un personaggio che di fronte a una crisi, di fronte a un ostacolo cambia, vediamo la sua crosta che si crepa e che si spezza. Ecco, questa è la cosa bella secondo me ed è la cosa che è richiesta a tutti quelli che vogliono mostrare la loro attività: far vedere una crepa, far vedere un cambiamento, usare dei mezzi che hanno a disposizione ed è la metafora in fondo, la grande bellezza del film è la metafora, ed è la bellezza della narrazione. Per fare un piccolo esempio visto che siamo al Meeting di Rimini e molti lo coglieranno, un grande scrittore ebreo diceva che il più grande incipit di un libro è l’inizio della parabola del buon samaritano, in cui Gesù non dice: bisogna essere bravi, bisogna aiutare gli altri, ma dice “una notte un viaggiatore andava da Gerusalemme a Gerico, quando d’improvviso un gruppo di delinquenti lo assale, gli dà un sacco di botte e lo deruba di quello che ha e lo lascia mezzo morto sul ciglio della strada”. E lui diceva: questo è un incipit! Questo ti fa venir la voglia di sapere come andrà a finire. Ecco, un film del genere è uno di quelli che ti fanno porre la domanda: come andrà a finire? Ed è quello che sempre più spesso vedo, anche come sforzo perlomeno, nelle opere video che riguardano questi film.
MARCO RATTI:
Beppe, cioè Giuseppe, tu il film l’hai fatto, e che ne pensi? E poi come pensi di andare avanti? Perché forse la cosa che dobbiamo anche dire è che nel Concorso, i filmati che partecipavano erano pensati come un primo passo di una cosa più ampia. Il filmato dovevano presentarlo, la cosa più ampia dovevano soltanto descriverla, però Giuseppe l’ha descritta, sa che cosa ha in mente per il futuro, forse non è una cosa sola, dicci tutto.
GIUSEPPE CONSALES:
Sì, c’era la necessità di raccontare questa storia. Io ho conosciuto Francesca Andreozzi, Massimo Abbate che è appunto il comandante che vediamo durante le riprese, che vediamo nel filmato. C’era la necessità di raccontare una storia che secondo me già di per sé aveva un contrasto forte, cioè la barca a vela che è per stereotipo qualcosa che ha a che fare con la ricchezza, col benessere e invece la storia di alcuni ragazzi che vivono in periferia, che guardano tutti i giorni il mare ma da una prospettiva diversa. E in più c’è appunto il lavoro di quest’Associazione che si occupa di …
FRANCESCA ANDREOZZI:
Inclusione sociale e recupero di ragazzi che hanno commesso dei reati da minorenni.
GIUSEPPE CONSALES:
Esatto, quindi la cosa più bella era di per sé il contrasto. Allora, si è presentata l’occasione di raccontare questa storia per questo contesto del Milano Film Festival, che era appunto AREYOUSERIES e ci è stato chiesto di raccontare soltanto dieci minuti per una puntata pilota per un possibile seriale. Abbiamo realizzato questo video, anche se, mi rendo conto oggi, è stato montato, è stato realizzato come se fosse l’estratto di un lavoro più grosso, di un lungo oppure di qualcosa che ancora, di fatto, non è stato fatto. E c’è una quantità di girato per certi versi sproporzionata, però la cosa bella è che man mano che lavoravamo con questi personaggi, ci rendevamo conto che si aprivano una serie di dinamiche anche sconosciute a noi. Il bello di fare documentari è anche questo: non c’è nulla di scritto, i personaggi sono reali, ci veniva raccontato quello che appunto a loro veniva in mente. Quelle discussioni sono uscite così spontaneamente e descrivono un contesto che è appunto il contesto del quartiere popolare, di uno dei quartieri popolari di Catania. E ci sono delle dinamiche che sono proprio loro, ad esempio il fatto di dover spacciare per sopravvivere, il fatto che in quei quartieri è normale mangiare frattaglie per strada. E la cosa più bella è rompere quelle dinamiche e far vedere un altro punto di vista e farlo vedere a loro.
MARCO RATTI:
Ma se dovessi effettivamente andare avanti, che fai? Hai già tanto materiale filmato? Hai il dubbio di come organizzarlo?
GIUSEPPE CONSALES:
C’è tanto materiale filmato e con tanti altri personaggi, storie bellissime di molti altri ragazzi ma è ancora poco perché in realtà vogliamo continuare a raccontare questa storia che non è solo la storia di Nino ma di altri ragazzi. Potrei fare anche alcuni nomi: Assan, che è un ragazzo accusato d’immigrazione clandestina che improvvisamente non si è più trovato in Italia, è fuggito; Abramo che ha anche un bel passato ed è un ottimo velista e di tanti altri ragazzi.
MARCO RATTI:
Credo che nella mia modesta esperienza il mare si racconta, il grosso del racconto è in macchina, ma in realtà quando uno è fuori, non è che tutti i momenti succede qualcosa per cui deve prendere la barca e quant’altro, per cui alla fine il mare si racconta tanto e vengono fuori delle cose strane. Francesca, tu lo fai per mestiere questo lavoro qua e un po’ quello che fai con l’Associazione e cosa esattamente ci facevi in barca noi lo sappiamo ma vale la pena di raccontarlo.
FRANCESCA ANDREOZZI:
Rispondo subito a questa domanda. Il film è assolutamente realistico, non c’è nulla di finto, di costruito; un po’ perché con questi ragazzi sarebbe stato difficile immaginare di poter costruire qualcosa, di poter avere una scaletta di argomenti. La facilità nel loro raccontare è dovuta al fatto che c’era un rapporto che si era creato prima; come diceva prima Marco, la barca è un contesto particolarissimo. Io sono una psicologa e psicoterapeuta, poi ho imparato ad andare in barca e quando ho imparato mi sono resa conto che è un contesto, che in gergo tecnico noi chiamiamo “setting”, ideale per lavorare con le persone. Lavorare con questi ragazzi in un contesto che li decostruisce, li allontana dai loro schemi, dai loro lavori e dalle loro sicurezza sicuramente gli apre un mondo, li mette nelle condizioni di poter raccontare anche storie diverse su di loro ed è un po’ quello che è avvenuto. Prima, tu dicevi, nel film quello che mi colpisce è quando mi fa dire “wow”, io l’avrò visto decine e decine di volte Radici del vento, ma ogni volta mi fa questo effetto. Penso che quando l’emozione di un’esperienza vissuta passa anche come emozione di un’esperienza che viene raccontata, allora veramente questo prodotto diventa uno strumento potentissimo, a diversi livelli, perché da un lato ha dato moltissima visibilità alla nostra Associazione, ha fatto capire un po’ di cosa ci occupiamo, dall’altro lato diventa anche uno strumento di prevenzione, perché molte persone che l’hanno visto si sono magari identificate in Nino, hanno pensato, immaginato che potesse esserci un’altra strada, diversa da quella dello spaccio e della delinquenza. L’altro livello, che per me da terapeuta è fondamentale, è che questo diventa un documento del loro cambiamento, ed è importante per loro, perché domani Nino ha finito i suoi trenta mesi di messa alla prova; se domani si dovesse trovare in difficoltà, dovesse pensare di nuovo che lo spaccio è l’unica soluzione, avrebbe moltissime persone che gli darebbero una mano. Non solo, ma vedersi anche lui, far vedere una parte della sua storia attraverso questo filmato, ha reso veramente stabile il cambiamento e questa è la cosa secondo me più forte ed emozionante che il lavoro di Giuseppe ha permesso di fare.
MARCO RATTI:
Hai detto adesso e anche quando ci siamo visti prima, che il filmato ha cambiato un po’ la percezione dell’Associazione, però prima cosa pensavate di ottenere con questo mezzo di comunicazione?
FRANCESCA ANDREOZZI:
Allora, io all’inizio ero molto perplessa perché Giuseppe dall’inizio mi aveva raccontato questa sua voglia di raccontare questa storia e ovviamente mi faceva piacere; però non avevo idea, spesso con Massimo, il comandante, ne parlavamo, non avevamo idea di come sarebbe stato il prodotto finito, sia l’estratto di dieci minuti sia il lungo documentario, proprio non sapevamo, e conoscendo i ragazzi non avevamo idea di come avrebbero potuto girare, cosa avremmo dovuto dire e fare.
MARCO RATTI:
Non vi fidavate?
FRANCESCA ANDREOZZI:
Ci siamo fidati perché l’abbiamo permesso, ma non avevamo veramente idea di cosa sarebbe successo e di cosa sarebbe venuto fuori.
MARCO RATTI:
Ma ai ragazzi che effetto fa il film?
FRANCESCA ANDREOZZI:
Allora, Nino è un po’ il primo attore, questo video ha già girato sia a Catania e anche in Italia, l’abbiamo presentato alla conferenza stampa di presentazione del progetto, lo scorso Aprile, e lui ha invitato tantissime persone: sua madre, il giudice onorario, i suoi amici, come se fosse un attore alla prima del suo film, ma in qualche modo poi ci ha chiesto di prendere la parola perché voleva raccontare come il suo percorso di cambiamento oggi è documentato, raccontato, rimane lì. Ha ringraziato Giuseppe per avergli dato questa possibilità. Anche gli altri ragazzi con cui magari abbiamo girato ogni tanto, abbiamo fatto qualche ripresa durante le nostre uscite, sono disposti a raccontarsi, a mettersi in gioco. Secondo me fossimo stati in una stanza da setting terapeutico normale o in un altro contesto meno neutro e meno destabilizzante, magari non sarebbe stato così forte. Lì si percepisce proprio la voglia di cambiamento, in barca.
MARCO RATTI:
Prima dicevate che l’avete fatto vedere anche a qualcuno che non ha partecipato ai filmati, o forse anche alla vita associativa e che aveva colpito la cosa… come è funzionata la cosa?
FRANCESCA ANDREOZZI:
Allora, quasi tutti dicono “wow”, a volte ci hanno detto che è un pugno allo stomaco, altri mi hanno raccontato con i brividi che una storia del genere non l’avevano mai sentita. Sanno che esiste questo contrasto tra una Catania che è una Catania popolare dove si spaccia e una Catania che è quella del porto, della barca a vela e delle uscite. Poter coniugare questi due contesti che, in linea d’aria, sono vicinissimi, 500 metri, un chilometro, ma che invece a livello sociale sono distanti, per tutti è stata una esperienza che fa dire “wow”.
Giuseppe mi ricordava che la Presidente del Tribunale dei Minori, dopo aver visto questo filmato, ha deciso di portarlo a un convegno a Palazzo Chigi sulla devianza minorile, perché ci ha detto che questi dieci minuti valevano molto più dell’intervento che lei aveva preparato per spiegare che cos’è la messa alla prova, nel senso che noi facciamo questo progetto ormai da due anni e altre associazioni in tutt’Italia che fanno parte di Unione Italiana Vela Solidale lo fanno da molto più tempo. La Presidente del Tribunale si è resa conto che un’esperienza del genere veramente decostruisce e destabilizza tutti quei valori che hanno questi ragazzi. Forse la cosa più evidente è nel momento in cui Nino, che è un ragazzo spavaldo, sicuro di sé, che a 14 anni ne aveva 30 come dice lui nel video, a un certo punto in barca si spaventa perché la barca sbanda un poco; quindi mancandogli la terra sotto i piedi scopre che, fuori dalla sua terra, deve ancora crescere, è ancora un ragazzino, può fare tante esperienze che possono cambiare la sua vita. E la Presidente del Tribunale se n’è accorta e ha deciso di divulgarlo il più possibile.
MARCO RATTI:
Sì, anche questa è una metafora no? Una di quella di cui parlava Beppe prima. Giada, nel resto dei filmati di AREYOUSERIES come sono queste cose? Nel senso, almeno in quelli venuti meglio, esiste un potenziale di metafora, di ambiguità, di raccontare le cose lateralmente e non troppo direttamente? E secondo te, raccontare in questa maniera, fa particolarmente bene a chi partecipa, alle associazioni, al mondo non-profit che ha fornito queste cose? Probabilmente fa bene, ma perché?
GIADA EVANDRI:
Buonasera. AREYOUSERIES è stato un progetto abbastanza pioneristico, secondo me, e le difficoltà che abbiamo avuto per farlo capire, per promuoverlo lo dimostrano. Nel senso che AREYOUSERIES è stato un bando di concorso lanciato un anno fa in cui si chiedeva a film maker, creativi o alle stesse associazioni non-profit di raccontare il non-profit attraverso lo strumento della web serie. C’era un focus, cioè non volevamo che si raccontassero le cause del non-profit, ma l’organizzazione, il lavoro, chi fa il non-profit. Questo perché nasce da una riflessione che Milano Film Festival ha fatto negli ultimi 19 anni, cioè da quando esiste, ovvero ha visionato in questi anni migliaia di filmati, corti, lunghi, documentari: la produzione legata al sociale, italiana o all’estero, è veramente ricchissima. Molto spesso appunto, come si diceva anche prima, è o molto legata a un codice molto autoreferenziale, cioè mi racconto, ho l’ansia di raccontarmi ma fondamentalmente non riesco a interessare le persone al di là del mio stretto entourage; oppure altre volte si fanno queste cose anche soltanto perché bisogna raccontare il proprio operato, anche per motivi proprio di rendicontazione. Quindi c’è una produzione video sterminata anche per questi motivi, ma che viene fatta senza un grande pensiero cinematografico, passatemi il termine, quindi cose che non interessano se non agli addetti ai lavori; oppure si cerca lo shock, il pietismo, perché bisogna sconvolgere l’utente, sperando poi di attirare così fondi, di fare sensibilizzazione alla causa e via dicendo. Un po’ il pensiero che ci siamo fatti è che però tutta questa mole di materiale non riusciva a bucare poi in realtà il velo di chi è già sensibilizzato alle cause del sociale rispetto all’ampio pubblico, sapendo che il video, il cinema e il web sono degli strumenti invece che possono veramente arrivare ovunque. Quindi da qui nasceva la riflessione. Il bando è stato molto difficile, perché abbiamo chiesto a delle organizzazioni di mettersi a nudo, di raccontarsi proprio su come lavorano, incontrando la sensibilità di film maker, di registi, di gruppi di lavoro, dove non potevano però più tanto controllare appunto l’autoreferenzialità, cioè dovevano anche un po’ fidarsi del gesto artistico di qualcun altro, della loro interpretazione, quindi molto spesso alcune non-profit erano dubbiose. Che cosa verrà fuori? D’altra parte, altri creativi invece che non si erano mai magari avvicinati a queste tematiche per preconcetto, per confusione rispetto a che cosa vuol dire non-profit e via dicendo, perché non sapevano che il non-profit è ricco di storie incredibili che vanno raccontate, ma avevano uno stereotipo legato ad Africa e poco altro, questi altri creativi non sapevano neanche da dove cominciare. Dicevano: ma ci saranno storie interessanti? Quindi tutto questo, tutte queste complessità ci hanno fatto capire che in realtà era un progetto che valeva la pena che fosse fatto, perché c’erano tanti spunti. Il concorso si è chiuso a Marzo e devo dire che noi abbiamo visionato tutte le opere arrivate. Sicuramente l’idea che mi sono fatta è che appunto ci siano tantissime storie che meritano di essere raccontate e che sono veramente interessanti, che hanno una potenzialità cinematografica perché hanno dei colpi di scena, perché hanno dei momenti comici, perché hanno delle storie molto appassionanti. Considerate che nel non-profit ci lavorano persone che hanno veramente un coinvolgimento enorme; quindi questo vuol dire passione, che è probabilmente il primo elemento per fare una buona trama. E poi ci sono gli imprevisti: chiunque ha esperienza di una qualsiasi organizzazione non-profit sa che le difficoltà, gli imprevisti, il non calcolato è all’ordine del giorno, e anche questo è un altro elemento cinematografico se vogliamo. Tutto questo fa delle trame. E poi sono tante piccole storie; i prodotti più interessanti arrivavano da realtà magari meno famose, più piccole, più locali, dove veramente succedono dei piccoli miracoli. Quindi noi vorremmo che AREYOUSERIES non fosse appunto un’iniziativa fine a se stessa ma che assumesse questo ruolo un po’ di piattaforma di incontro per tutte queste storie, per tutti i creativi che vogliono raccontarle, perché c’è appunto tantissimo materiale. E poi perché fa tanto bene al non-profit, questa riflessione, questo esercizio molto difficile da fare. Lo strumento della web serie è andato proprio in questa direzione, perché è lo strumento in questo momento più diffuso, più condivisibile, che può avere maggiore diffusione, perché può essere condiviso veramente con massima velocità. E il non-profit ha bisogno di arrivare velocemente e con costi molto contenuti ovunque, deve uscire dai propri cerchi di persone già sensibilizzate per sopravvivere. La crisi probabilmente ha acuito tutti questi ragionamenti. Considerate che nel non-profit lavorano persone mediamente molto giovani, che quindi sono anche molto preparati, molto appunto, come dicevo prima, appassionati e che hanno molta dimestichezza con tutte queste dinamiche. Quindi lasciare anche un po’ in mano la creatività, magari anche alle nuove leve, potrebbe dare un nuovo punto di vista, un nuovo racconto di queste realtà. Fa molto bene anche perché, se pensate, qualsiasi ricerca italiana o internazionale, anglosassone in primis, sta dimostrando che i Millenions, quindi coloro che sono nati tra l’80 e il 2000, hanno molta voglia di lavorare in imprese sociali o comunque in associazioni che hanno un senso o in aziende che hanno poi un impegno sociale e via dicendo. Questo vuol dire che ci sono nuove leve, che sono esattamente poi il target web, che sono lì che vogliono essere affascinate, o per lavorarci o per sostenerle o per collaborare. Chiunque può aiutare queste cause. E poi l’idea appunto di raccontare chi ci lavora e non la causa era un bell’espediente. Perché evitavamo fondamentalmente questo effetto abbastanza retorico e dovevamo convincere i creativi a prendere il non-profit da nuovi punti di vista. Spesso grandi registi, anche pro bono, fanno anche degli spot o comunque hanno fatto dei lavori per delle non-profit molto belli, di grandissima qualità, però volevamo fare un esercizio in più, perché crediamo che l’umanità che ci sia dietro a questo mondo sia veramente incredibile. Noi per primi siamo una realtà non-profit che operiamo nella cultura e sappiamo che ogni giorno è un incontro con personaggi incredibili, che si va dal bizzarro, al fantasmagorico, quindi c’è veramente tantissimo materiale e quindi spero veramente che questo sia l’inizio di un processo di riflessione insomma.
MARCO RATTI:
Lo spero anch’io. Tra l’altro, stiamo andando anche benino coi tempi, per cui stavo pensando che se ci sono domande dal pubblico per una volta si ammettono. Però noi continuiamo per non avere tempi morti e quant’altro. Però se qualcuno ha una domanda, questa volta è ammesso. Intanto ne faccio io almeno una, perché la cosa che mi interessa è come va a finire, come diceva Beppe prima, come va a finire nella realtà, nel lavoro dell’Associazione. Probabilmente non saranno tutte rose e fiore, probabilmente non tutti finiscono il loro processo, però la gran parte sì. Come va a finire?
FRANCESCA ANDREOZZI:
Allora devo dire che ancora lavoriamo in questo settore da troppo poco tempo per dire come va a finire. Sappiamo certamente che alcuni ragazzi decidono di partecipare al progetto e continuano; ci sono ragazzi che decidono di non farlo, perché vedono solamente l’impegno e sanno che in qualche modo io sono comunque una terapeuta che scriverà una relazione su di loro. Ci sono ragazzi che si appassionano tanto ma che poi seguono il loro progetto, come il caso di Assan che citava prima Giuseppe, che è un ragazzo che è arrivato in Italia, ha fatto sei mesi e mezzo di carcere, poi è stato messo in comunità e ha iniziato subito questo progetto. A un certo punto, appena ha avuto la possibilità, è scappato. Sicuramente era venuto in Italia per un altro progetto e l’ha seguito. Forse l’Italia era solo un Paese di passaggio. Poi abbiamo però i ragazzi che veramente cambiano qualcosa, cambiano un po’ il modo di parlare, cambiano le scelte che fanno. Magari tra 10 anni ti potrò dire sì funziona, il cambiamento è realmente avvenuto, è stabile. Oggi sappiamo che Nino si è messo alla prova, lavora in una pasticceria ma ogni settimana mi chiama e m chiede quando ricomincia il corso; Abramo, che è da un mese in prova e ne avrà per un altro anno e mezzo, ha deciso di prendere prima la patente nautica rispetto alla patente di guida, “perché tanto non posso uscire né in macchina né in barca”, e ha deciso di riprendere a studiare e per me questo è veramente un successo incredibile. Poi vediamo se a settembre veramente inizierà a studiare, però vuol dire che qualcosa succede. Quello su cui punto io, anche per la mia formazione, è attivare un processo di consapevolezza, una possibilità di guardare la propria vita da un’altra prospettiva. Nel momento in cui questo avviene, noi rimaniamo lì e siamo disponibili per loro, anche al di là del progetto dell’uscita che facciamo in barca. Vogliamo essere figure di riferimento laddove loro lo accettino.
MARCO RATTI:
Ok, spero che vada tutto bene, ma io sono ottimista, anche perché l’esperienza del non-profit in generale, per come lo vediamo da Banca Prossima, è che, fammela dire retorica, mettere la bellezza di fianco agli ultimi funziona. E funziona sia che li porti in barca, sia che li metti in un progetto di acqua terapia, si che gli fai fare del teatro. Tra l’altro conosco un regista e un attore: il regista è quello che ha prodotto Cesare deve morire, quello dei fratelli Taviani, si chiama Flavio Cavalli, lavora con i carcerati a Rebibbia. Lui lavora con gente che ha sentenze lunghe, perché sennò gli scappano prima di quando cominciano a muoversi sensatamente sul palco, e funziona questa cosa per quanto si può capire, perché appunto richiede dei tempi lunghi di valutazione, ma funziona fondamentalmente. Tra l’altro, onestamente, anche il fatto di funzionare con gli ultimi, il fatto che la bellezza funzioni bene con gli ultimi è anche una delle cose che parlano a favore dell’utilità sociale, se vogliamo, del settore culturale in generale, perché la cultura fa bene a tutti, perché ci amplia gli orizzonti e quant’altro, ma, messa di fianco a gente che ha dei problemi seri, probabilmente li migliora molto più radicalmente, li fa andare oltre una soglia che probabilmente all’inizio non avevano.
FRANCESCA ANDREOZZI:
Sì, sicuramente mette in luce delle risorse che spesso loro non sanno neanche di avere. Per cui la differenza si vede immediatamente.
BEPPE MUSICCO:
Se posso aggiungere una cosa, il caso di Cesare deve morire è molto interessante, anche dal punto di vista cinematografico. Cesare deve morire ha vinto il Festival di Berlino, cioè è una cosa che per uno spettatore normale non sta né in cielo né in terra, per un critico ancora meno. I primi a essere stupiti della cosa erano i critici italiani, perché com’è possibile che degli attori, non soltanto degli attori dilettanti, ma dei galeotti che non sapevano neanche di cosa si stesse parlando probabilmente quando gli è stato proposto, siano stati capaci di portare in scena non solo il dramma di Shakespeare ma il loro dramma fuso insieme nelle parole di Shakespeare, che si sono rivelate come sempre di una grandissima attualità?Per cui è proprio la riconferma di quello che ci siamo detti, che non importa tanto chi è e quanto sia preparato il soggetto che deve parlare, ma ci dev’essere una sensibilità artistica che permetta di colpire lo spettatore con una bellezza, con una bellezza che è una potenzialità dell’uomo, non importa in che situazione, se è un ragazzo scappato di casa che si ritrova su una barca o se è un galeotto magari con 20 anni da scontare. E questa bellezza è possibile trasmetterla, anche con un film in bianco e nero, recitato in dialetto, per cui spesso servono i sottotitoli perché altrimenti non si capisce che cosa dicono. Ciononostante, figuratevi una giuria internazionale in un festival tedesco, l’ha colto molto più di tanti che magari in Italia avrebbero dovuto essere attenti a questa cosa.
GIUSEPPE CONSALES:
Vorrei dire una cosa riguardo a quello che è stato detto ora. Secondo me ognuno, anche Nino e Michael, ha una sua cultura, una storia, una formazione, da cui io stesso ho appreso qualcosa, cioè le dinamiche. Il problema è soltanto il punto di vista e anche lì: guardare dal mare o guardare dal quartiere in mare. Poi volevo dire una cosa a proposito di questo primo episodio che poi è l’unico al momento: parla di Nino e di Michael, che sono comunque amici, ormai tutti quanti abbiamo fatto amicizia fra di noi. Ma allo stesso tempo io ho visto un po’ Michael come l’antitesi di Nino, la parte un po’ ancora quartierota. Nino si è impegnato in pasticceria, altri tipo Abramo vuole prendere la patente nautica, Michael la settimana dopo in cui sono finito le riprese si è rotto un braccio. Però allo stesso tempo va incontro a determinate dinamiche che sono poi le stesse di chi ad esempio delinque e va a finire dentro.
MARCO RATTI:
Ci sono domande?
DOMANDA:
Sono Mariagrazia D’agostino e volevo chiedere alla dottoressa se può brevemente spiegare di che cosa si occupa l’Associazione e anche se può dettagliare un po’ meglio il progetto di cui ha parlato prima. Grazie.
FRANCESCA ANDREOZZI:
Il Centro Koros è un’Associazione di promozione sociale che rivolge particolare attenzione alla famiglia dei minori. Si occupa un po’ a 360 gradi di quella che è la tutela, il benessere della persona. E’ un’Associazione composta da psicologi, da avvocati e anche da istruttori di vela. Nello specifico il progetto che abbiamo chiamato “Velegalmente”, proprio per avere questa doppia valenza delle parole, è un progetto di accompagnamento e di inclusione sociale durante il periodo di messa alla prova. Noi non abbiamo dei fondi con cui realizziamo questo progetto. Lo facciamo come attività di volontariato, Massimo ha messo a disposizione la sua imbarcazione. Per cui facciamo delle uscite giornaliere con loro. Lavoriamo sul far diventare il gruppo un equipaggio, quindi sulla collaborazione e sulla cooperazione dal punto di vista strettamente velistico. Dall’altro lato, sia io come psicologa ma anche l’avvocato, attivano in qualche modo un momento, uno spazio di confronto. Per cui si parla di legalità, si parla di mafia, chiediamo il loro punto di vista, chiediamo il loro parere, non vogliamo indottrinarli o insegnargli qualcosa perché non sono stati a scuola, vogliamo semplicemente fargli vedere la differenza e renderli più consapevoli. Ovviamente il processo di consapevolezza per noi è fondamentale, perché è vero che se in acqua sono messi alla prova, sono tenuti a comportarsi bene, gli conviene. Nel momento in cui questa finisce, noi continuiamo a essere un punto di riferimento per loro. Faccio un esempio banalissimo: quando io devo fare il volantinaggio per la mia Associazione, chiamo Nino. Chiamo Nino, lui è bravissimo ormai perché ha lavorato anche con altre aziende e mi spiega perfettamente che cosa fa. Non dico che mi chiama a ogni incrocio di strada, però si sente utile per l’Associazione e in qualche modo ne fa parte. L’Associazione è un gruppo di persone. E’ ovvio, noi abbiamo diverse categorie, ci sono i soci fondatori, ci sono i soci effettivi, ci sono i soci beneficiari. Ma in qualche modo tutti ne fanno parte, è una famiglia, e quando dei ragazzi che vengono inseriti perché sono obbligati, perché c’è il giudice, l’assistente sociale che li invia a un percorso del genere, poi decidono di restare, poi ti chiamano per sapere come stai, vuol dire che sta funzionando.
MARCO RATTI:
Ci sono altri? Io ho una mia curiosità che chiedo a Beppe, che è questa. Prima che organizzassimo questa cosa in Banca Prossima, ci siamo fatti un gruppettino, ci siamo guardati il film, ho dei colleghi che si occupano di cinema nel tempo libero, perché un po’ tutti i colleghi di Banca Prossima hanno a che fare con qualche prezzo di non-profit nella vita personale, e abbiamo cercato di tirar fuori delle cose e alcune le abbiamo tirate fuori forse anche sensate, no, le metafore che ci sono, di cui una, magari la cito: il fatto che per andare in mare, e cioè, in qualche maniera, nella vita, può anche darsi che ci sia bisogno di una mano e quindi quando si esce, si esce a motore con qualcuno davanti e poi si da vela dopo. E questa era una delle cose che sono venute fuori. Un’altra delle cose che erano venute fuori che mi intriga e volevo sentire la tua opinione su questa, è questa: non io, ma uno degli altri ha detto che questo è un film poco italiano, perché ha uno sguardo amorale, non nel senso di immorale, ma distante dai valori, da quello che sta succedendo. Racconta quello che c’è e non ne da un giudizio. E’ vero, non è vero?
BEPPE MUSICCO:
Allora, bisogna vedere caso per caso, secondo me. E’ vero che a volte chi fa un film ha una sua tesi, per cui la sua preoccupazione è dimostrare la sua idea e questo secondo me appesantisce obiettivamente il film. Se c’è una cosa da raccontare, racconta quella cosa, poi dopo lo spettatore tirerà da lui le sue conseguenze. E’ quello che succede nel film. Noi vediamo dei ragazzi che non si preoccupano di risultarci simpatici, anzi, certi loro atteggiamenti sono, così, a pelle, fastidiosi, anche il modo con cui si esprimono, come fanno certe cose, non c’è un tentativo di abbellire e in anteposto non c’è neanche un intento predicatorio. Come dire: ah ecco, loro hanno sbagliato, invece noi li cambieremo. Semplicemente c’è un’esposizione e l’esposizione dei fatti tiene in quanto tale, perché fa vedere (“mi sono limitato a raccontare”, voce in sottofondo). Infatti, cos’è che c’è da raccontare? C’è da raccontare una storia e la storia è interessante perché fa vedere uno che è sicuro di sé, che è convinto a 14 anni di averne 30, e scopre che non è così. E’ questa la cosa interessante. Vi faccio un altro esempio cinematografico, che tutti pensano sia un film per bambini, che è Nemo, della Pixar. I film della Pixar sono, secondo me, una delle più alte dimostrazioni di come si possa raccontare una storia, facendola passare per una storia per bambini, che in realtà va bene per tutti, perché ci sono livelli che accontentano ognuno, anche lo spettatore più smaliziato. A un certo punto il papà di Nemo parla con Dori, che è la più stordita di tutti i personaggi, è una che ha un deficit della memoria breve, non si ricorda che cosa ha detto cinque secondi prima, e gli dice – perché Nemo ha un handicap, se vi ricordate, una pinna atrofizzata, ed è la prima volta che in un film così si parla di handicap, in molti si sono rivisti, mi hanno confessato, in quel film lì, perché riesce a parlare di un handicap senza essere né ricattatorio né moralista. Comunque insomma, a un certo punto il papà di Nemo dice: perché io gli avevo promesso che non gli sarebbe mai successo niente. E Dori lo guarda e gli dice: è una promessa un po’ bizzarra. Come si fa a promettere, pur essendo il padre, che non gli succederà mai niente? Ecco, è questo il livello secondo me di far vedere come la vita sia imprevedibile, come a uno che abbia magari pianificato e sappia che la sua vita sarà determinata dallo spaccio, da certe compagnie, eccetera, in realtà possa succedere altro. Allora se si fa vedere questa cosa qua, si tocca lo spettatore. Se invece uno dice “voglio far vedere come si può sconfiggere la cosa”, può darsi che riesca comunque a fare un bel film, ma non è detto. A volte la realtà è molto più sorprendente, anche delle nostre idee e dei nostri progetti, per quanto buoni possano essere.
MARCO RATTI:
Allora, sono le otto. Se non ci sono altre domande, direi che siamo contenti così. Grazie mille a voi che siete stati a sentire, a voi che avete fatto il film, a Giada che ha organizzato tutto l’ambaradan. Cerchiamo di andare avanti tutti quanti…
GIUSEPPE CONSALES:
Io lo dico, speriamo di poter continuare a raccontare, quindi, chissà…
MARCO RATTI:
Grazie, buonasera.