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FIN DOVE SI ESTENDE LA LIBERTÀ DI RELIGIONE? Moot-Court: un processo simulato al Meeting su un tema di attualità
Presidente: Sabino Cassese, Giudice Emerito della Corte Costituzionale. Giudici a latere: Francesca Martines, Professore Associato di Diritto Internazionale all’Università di Pisa e Andrea Simoncini, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Firenze. Introduce Joseph H.H. Weiler, University Professor at NYU Law School and Senior Fellow at the Center for European Studies at Harvard.
Fin dove si estende la libertà di religione? Moot-court: un processo simulato al Meeting su un tema di attualità
L'io in azione. Sabino Cassese
Ore: 15.00 Sala Tiglio A6
FIN DOVE SI ESTENDE LA LIBERTÀ DI RELIGIONE? Moot-Court: un processo simulato al Meeting su un tema di attualità
Presidente: Sabino Cassese, Giudice Emerito della Corte Costituzionale. Giudici a latere: Francesca Martines, Professore Associato di Diritto Internazionale all’Università di Pisa e Andrea Simoncini, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Firenze. Introduce Joseph H.H. Weiler, University Professor at NYU Law School and Senior Fellow at the Center for European Studies at Harvard.
JOSEPH H.H. WEILER:
Buonasera a tutti. Questo è un esperimento, una novità assoluta per il Meeting. Può essere un successo o un fallimento. Voi sapete, quando c’è un successo ci sono tanti padri, quando c’è un fallimento, un orfano. In questo caso non è un orfano. Se alla fine volete gettare pomodori sono pronto. Ho avuto questa idea di prendere un problema sociale, delicato, reale, che esiste nelle società europee e invece di fare il solito incontro, di presentarlo come un caso che viene portato davanti a una Corte italiana, la Corte Costituzionale italiana. I fatti sono abbastanza semplici. Da una parte c’è una signora che si chiama Fatima Sahid, cittadina francese, musulmana praticante, che ha accettato una posizione lavorativa a Milano con una ditta che si chiama “Ospitalità”, che è un’azienda che opera nel settore dell’ospitalità. Fatima è direttrice delle relazioni con la clientela e parte del lavoro di Fatima Sahid è quello di incontrare nuovi potenziali clienti con l’auspicio di indurli a utilizzare i servizi di ospitalità. Lei si presenta al lavoro in maniera tutta professionale, ma essendo una musulmana praticante, indossa il velo musulmano, il cosiddetto hijab, secondo il suo obbligo religioso. Un giorno questa ditta “Ospitalità”, per ragioni che andrete a sentire durante il processo, decide di adottare una politica di neutralità aziendale e così proibire la manifestazione di qualsiasi simbolo religioso. Niente piccolo crocifisso, niente kippah, niente hijab, e questa signora che, a parte questo, è una lavoratrice eccezionale, deve decidere o il velo o il lavoro. Lei, musulmana praticante, decide per il velo e viene licenziata. Essendo la nostra Fatima Sahid una francese che lavora in Italia, la causa che fingiamo discussa in questa sede c’entra con il diritto dell’Unione europea oltre a quello italiano e allo stesso tempo coinvolge la convenzione dei diritti e della libertà di Strasburgo che riguarda tutti i residenti in Europa. Allora la Corte deve decidere se il licenziamento è lecito o illecito sotto tre sistemi giuridici: quello della convenzione europea a Strasburgo, quello dell’Unione europea e quello del sistema giuridico italiano. Vorrei, prima di iniziare, che si presentino gli avvocati. Per favore in piedi.
MATTEO TAFURO:
Buongiorno a tutti, io sono Matteo Tafuro, ho treant’anni e di lavoro faccio l’avvocato e in questo processo difendo la signora Sahid.
SARA TARANTINI:
Buonasera, io sono Sara Tarantini, ho ventisette anni e di lavoro faccio l’avvocato penalista e difendo la signora Sahid.
MADDALENA SACCAGGI:
Buonasera, io sono Maddalena Saccaggi, ventisette anni, praticante avvocato in diritto del lavoro e difendo la signora Fatima Sahid.
CATERINA CORONEO:
Sono Caterina Coroneo, ho 24 anni, sono studentessa di legge alla Statale di Milano e qui difendo la signora Sahid.
PIETRO GIACOMELLO:
Sono Pietro Giacomello, studente di giurisprudenza e per oggi avvocato della signora Fatima Sahid.
JOSEPH H.H. WEILER:
Nonostante i cinque avvocati, non pensate che la signora Sahid sia tanto ricca, lo fanno tutti pro bono. Ora sentiamo la parte dell’azienda “Ospitalità”, per favore.
ELENA CREMONA:
Noi invece ci facciamo pagare molto bene e siamo solo due per questo. Io mi chiamo Elia Cremona, ho ventisei anni e faccio la pratica in diritto amministrativo.
EDOARDO MAZZANTINI:
Io sono Edoardo Mazzantini, ho trent’anni, sono assegnista di ricerca in diritto penale all’Università di Firenze, avvocato penalista e difendo, insieme a Elia, “Ospitalità”.
JOSEPH H.H. WEILER:
Vi siamo molto grati. Grazie a tutte e due le parti. Siamo molto privilegiati ad avere come Corte, come Tribunale, tre persone d’eccezione: la professoressa Martines dell’Università di Pisa, che è una degli esperti più grandi in Italia del diritto dell’Unione europea, Andrea Simoncini, e soprattutto Sabino Cassese, che conoscete tutti. Chiedo a tutti di mettersi in piedi quando entra la Corte.
SABINO CASSESE:
Discutiamo oggi, come avete sentito, il caso della signora Fatima Sahid e do subito la parola ai rappresentanti della parte attrice.
MATTEO TAFURO:
Buongiorno signori giudici, buongiorno a tutti.
Alla luce della ricostruzione dei fatti, è evidente che in questo caso la direttiva aziendale che la ditta “Ospitalità” ha adottato sia illegittima e quindi con essa anche il suo licenziamento. In particolare la direttiva che “Ospitalità” ha adottato, discrimina indirettamente la signora Sahid ai sensi della normativa europea e nazionale. Come possiamo affermare questo? La nostra linea difensiva toccherà, verrà svolta toccando i seguenti punti. Vedremo innanzitutto quali sono i principi e le norme, i principi fondamentali e le norme applicabili, successivamente dimostreremo, anche alla luce di accorgimenti fattuali, la violazione palese di questi principi nel caso che qui ci interessa. Partiamo dunque dai principi. È innanzitutto necessario capire cosa si intenda per libertà religiosa. Nel nostro ordinamento giuridico la libertà religiosa è garantita e resa effettiva in Italia dal principio di laicità e dal principio di uguaglianza. Principi che, a differenza di altri Stati europei, qui in Italia hanno un contenuto positivo, ossia sono volti a garantire il pluralismo culturale e confessionale ai sensi degli articoli 2, 3 e 8 della Costituzione. Quindi quando parliamo di laicità, non si deve intendere come indifferenza dello Stato nei confronti delle varie confessioni religiose o di altre culture o addirittura come eliminazione delle diversità, ma la laicità è volta a garantire lo sviluppo della persona umana in tutte le sue diverse espressioni, tutelandole e valorizzandole. È pacifico che all’interno del contesto normativo europeo e italiano la libertà religiosa sia tra i principi di una società realmente democratica ed implichi tanto la libertà di professare la propria fede, quanto anche di manifestarla sia all’interno che all’esterno della sfera soggettiva. Persino, e questo ce lo dice la Costituzione italiana all’articolo 19, è garantita dall’Italia anche la libertà di farne propaganda e proselitismo. Chiariti questi principi fondamentali, vediamo che, a supporto della signora Sahid, interviene una normativa specifica di dettaglio. Ci riferiamo qui in particolare al decreto legislativo 216 del 2003, emanato in attuazione di una direttiva europea, la 78 del 2000, secondo la quale viene espressamente previsto che cosa vuol dire discriminazione diretta e discriminazione indiretta nel luogo di lavoro. Iniziamo a parlare di discriminazione diretta. L’articolo dice testualmente che si ha discriminazione diretta quando «una persona nel luogo di lavoro è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata e o sarebbe stata trattata un’altra persona in una situazione analoga». Francamente, già solo con questo articolo non vi sono dubbi che nel caso di specie l’azienda abbia discriminato direttamente la signora Sahid. La prova di questo è agevole. Come abbiamo detto la signora Sahid era l’unica musulmana all’interno dell’azienda e dunque era l’unica a indossare il velo islamico. Precisiamo che il velo islamico discende dal Corano e quindi è un obbligo imprescindibile e sacro.
Di conseguenza, se la direttiva aziendale formalmente vieta tutti segni distintivi religiosi visibili e in questo caso solo Fatima nella realtà, per la sua religione è obbligata ad indossare un segno visibile, allora è palese che la disposizione aziendale tratta sfavorevolmente solo lei. Ma vi è di più, potrebbe altresì sostenersi che questa disposizione aziendale discrimini non solo Fatima, ma tutte quelle religioni per le quali è obbligatorio indossare un segno distintivo visibile. Non solo, si potrebbe anche sostenere che ci sia una discriminazione diretta anche in base al sesso, perché per la religione musulmana solo la donna è obbligata ad indossare il velo islamico.
Nel caso in cui la Corte ritenga non sussistere la discriminazione diretta, stentiamo a crederci, riteniamo ci sia comunque la discriminazione indiretta.
Quando si ha discriminazione indiretta? Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, come quella della nostra fattispecie, un criterio o una prassi apparentemente neutri, possano mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione. Già questo dovrebbe essere dirimente nel nostro caso di oggi. La norma prosegue, però, prevedendo che una disparità di trattamento di una presunta disposizione discriminatoria possa essere lecita, alla condizione che la finalità sia legittima e che i mezzi per il raggiungimento di questa finalità siano appropriati e necessari. La normativa poi va oltre e dice che una disparità di trattamento può essere altresì giustificata, qualora questa disparità di trattamento costituisca requisito determinante ed essenziale per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Come vedremo e come dimostreremo, è evidente che in questo caso, oltre alla diretta, sussistono i requisiti per la discriminazione indiretta e che tutti questi elementi che ho appena detto e che sono elementi giustificativi di una disparità di trattamento, come la finalità legittima, in realtà in questo caso non sussistono. Andiamo con ordine per meglio far capire. L’azienda, quanto a discriminazione indiretta, avrebbe emanato questa direttiva in virtù di un asserito principio di neutralità, principio che francamente a nostro avviso in questo caso non sussiste. Infatti perché una policy possa essere genuinamente neutra, deve avere un contenuto positivo, non negativo. Ad esempio, sarebbe stato diverso se l’azienda avesse previsto un regolamento secondo il quale fosse obbligatorio per tutti i lavoratori indossare tutti una divisa. In questo caso avrebbe ovviamente permesso un contemperamento tra la libertà di impresa dell’imprenditore e la libertà religiosa della persona. Se infatti io pongo un divieto assoluto, negativo, nessuno può indossare nulla come in questo caso, non lascio alcun spazio alla libertà religiosa, non c’è alcun contemperamento. Se invece io adotto un provvedimento positivo, come ad esempio tutti devono indossare la divisa dell’azienda, da un lato il datore avrebbe certamente perseguito la sua tanto auspicata politica di neutralità, ma allo stesso tempo la signora Sahid avrebbe indossato la divisa, ma anche avuto la possibilità di poter onorare la sua religione con il velo islamico. Così, si sarebbe certamente realizzato un contemperamento tra la libertà di impresa che, agli occhi dell’azienda, è assoluta e la libertà di religione. Signori giudici, io vorrei sottolineare anche un’altra significativa circostanza che avvalora la nostra tesi, secondo la quale l’azienda non ha in realtà voluto perseguire una politica neutrale. Fatima ha più volte richiesto, dopo che le era stato comunicato di non poter più indossare il velo, di essere ricollocata, di essere messa a svolgere un’altra mansione, anche inferiore. Se davvero l’azienda avesse veramente voluto assegnarle una mansione… “Ospitalità” si è sempre rifiutata, ha detto: «Non c’è la necessità». Se quindi l’azienda avesse voluto davvero perseguire la neutralità, avrebbe potuto assegnarle un’altra mansione. La traccia ci suggerisce che l’azienda era in forte espansione, si era espansa in quattro continenti e stava andando avanti a svilupparsi. Per cui francamente ci sembra bizzarro, singolare e contraddittorio sostenere che non ci fosse la necessità di collocarla in un’altra mansione lavorativa. Quanto al secondo profilo, dicevamo che una disparità di trattamento possa essere legittimata, o meglio, lecita, qualora la finalità sia legittima. In questo caso ben può mettersi la libertà d’impresa quale finalità legittima, ma occorre ovviamente un contemperamento con la libertà religiosa. Per meglio chiarire, il fatto che non ci sia stato alcun contemperamento rende la finalità illegittima, perché sacrifica integralmente una libertà che la nostra Costituzione ritiene inviolabile. Se anche però, per assurdo, ipotizzassimo che la finalità adottata sia legittima, e anche qui stentiamo a crederci, non vi sono dubbi che i mezzi utilizzati per il perseguimento di questa finalità non siano del tutto diciamo appropriati, necessari e proporzionati. Non sono appropriati perché formalmente la direttiva si rivolge a tutti, ma di fatto si rivolge solo a lei perché era l’unica musulmana. Non sono necessari perché dovete sapere che prima, signori giudici, della direttiva, la ricorrente era stata assunta dall’azienda nonostante indossasse il velo. L’azienda lo sapeva. Ha svolto, prima della direttiva, per tre anni il suo lavoro correttamente, con dedizione e con efficacia, quindi, francamente, non c’era motivo per emanare una direttiva di questo genere. E non sono altresì proporzionati i mezzi che “Ospitalità” ha utilizzato perché, come ho già detto e come è evidente, viene integralmente sacrificata la libertà religiosa, per una finalità che comunque l’azienda ha sempre raggiunto, cioè la trasparenza, l’affidamento commerciale, la conclusione di affari. È vero che in un’ottica commerciale il contatto visivo sia un elemento fondamentale, ma è anche vero che questa finalità è sempre stata raggiunta, perché prima di questa direttiva mai nessuno, sia all’interno sia all’esterno dell’azienda, ha mosso alcuna lamentala circa l’abbigliamento in questo caso religioso di Fatima Sahid. Quindi, allo stato signori giudici, non c’è alcun dubbio che “Ospitalità” abbia violato le norme in materia di discriminazione. Ma prima di formulare le nostre conclusioni, vogliamo altresì sottolineare che la policy adottata potrebbe essere giustificata se la disparità di trattamento costituisse un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa. In questo caso però francamente non vediamo come possa costituire un requisito fondamentale. Siamo infatti tutti concordi che una donna che indossa il velo non potrebbe fare la promotrice di prodotti per capelli, perché mostrare i capelli è un requisito essenziale determinante per l’attività lavorativa; ma questo non è il nostro caso! Non ci sono ragioni che inducono a ritenere che l’eliminazione del velo costituisca un requisito per poter lavorare e fare quel lavoro in modo diligente ed efficace. A maggior ragione se consideriamo questo requisito sia esso inteso in senso soggettivo (facendo dipendere l’indossare il velo da un capriccio di un cliente) oppure in senso oggettivo (per cui costituisca effettivamente un ostacolo allo svolgimento dell’attività lavorativa), in questo caso non c’è prova del fatto che alcun cliente abbia fatto alcun capriccio e che la signora Sahid non abbia lavorato diligentemente. Siamo dunque qui a chiedere signori giudici che il licenziamento venga dichiarato illegittimo in quanto discriminatorio ai sensi della normativa europea e nazionale e che venga reintegrata nel posto di lavoro e che venga condannata l’azienda “Ospitalità” al risarcimento del danno da quantificarsi in via equitativa. Grazie.
SABINO CASSESE:
Grazie avvocato, do la parola ai rappresentanti della parte convenuta.
RAPPRESENTANTE DI “OSPITALITÀ”:
Grazie presidente e signori giudici buongiorno. Abbiamo sentito l’argomentazione della difesa della signora Fatima Sahid e questa difesa avverte, alla luce anche di quanto letto nel ricorso di parte attrice, di dover rilevare subito e far notare al collegio come questa argomentazione si sia mostrata nuovamente in qualche modo limitante, perché nella difesa proposta in favore della signora Fatima Sahid scompare completamente un elemento decisivo e fondamentale di questa vicenda, o meglio scompare un soggetto che per l’appunto è il soggetto che noi rappresentiamo e patrociniamo in questa causa che è “Ospitalità”. Perché dico questo, perché innanzitutto ci sembra fondamentale partire proprio dalla direttiva emanata dalla società “Ospitalità”, per vedere come, sia nell’interlocuzione che nella relazione tra i due soggetti, si comprenda quale sia la questione di diritto effettivamente oggetto di questa controversia. La direttiva emanata nel 2017, come hanno dato conto i colleghi di controparte, per altro è stata dovuta al fatto che, per la prima volta, “Ospitalità” aveva registrato una diversificazione tale della clientela, addirittura su quattro continenti e anche in settori particolari come quelli dei meeting religiosi, che aveva determinato la necessità di adottare questa policy di neutralità appunto, della quale hanno parlato i colleghi. E questa policy come è stata adottata? Attraverso una direttiva che recitava in questi termini: «Al fine di mantenere un ambiente di lavoro privo di attriti per i dipendenti e che non contrasti con i clienti anche potenziali, è fatto divieto a tutti i dipendenti di indossare nel luogo di lavoro qualsiasi segno dal quale emerga la religione di appartenenza, ad esempio crocifissi ovvero il credo filosofico o l’opinione politica». Il primo aspetto che nuovamente si sottopone all’attenzione del collegio è che tutti i lavoratori hanno ottemperato all’infuori della signora Fatima Sahid. Questo che scompare ovviamente nell’argomentazione di parte attrice, è d’altra parte un elemento fondamentale dal lato della società, che si è vista invece collaborare gli altri propri dipendenti. Oltretutto, come evidenziato anche dalla stessa parte attrice, la circostanza che la signora Fatima Sahid sia stata assunta con il velo, è tutto fuorché un elemento a carico di parte convenuta, ma semmai a discarico della nostra posizione. Perché dimostra come nessuna preclusione vi fosse all’inizio e nel corso di una durata lavorativa ben lunga, signori giudici, peraltro formalizzata da un contratto a tempo indeterminato con una direzione del settore dell’area della clientela, come ricopriva effettivamente la signora Fatima Sahid. Quindi sicuramente una linea di fiducia ben aperta nei suoi confronti e peraltro è evidente come la stessa portata generale di questa direttiva evidenzi da subito come si trattasse di una misura generale e non rivolta solamente a lei. Ma permettetemi, come dicevo, di andare a focalizzare quella che secondo noi è indubitabilmente la quaestio iuris in termini alti, di principi e di valori, se così si può dire. La difesa della signora Fatima Sahid ha fatto riferimento al principio di laicità. Bene, per quanto ci riguarda, come abbiamo ampiamente sostenuto nella memoria, la questione innanzitutto è una questione di incontro, evidentemente in questo caso di conflitto, tra due interessi, tra due libertà di soggetti privati: persona fisica, la signora Fatima Sahid, e persona giuridica, la società “Ospitalità”. Ma due privati. Quindi libertà religiosa e libertà di iniziativa privata, questo è il tema. E da questo punto di vista ben si comprende come la controparte non abbia speso grandi riflessioni, grandi parole su quelli che sono i fondamenti dell’interesse che effettivamente “Ospitalità” viva, un interesse alto, importante come la libertà di iniziativa privata, la libertà di iniziativa economica d’impresa, tutelata dalla nostra Costituzione ai sensi dell’articolo 41 che il collegio ben conosce, ai sensi dell’articolo 16 della Carta di Nizza, dei diritti dell’uomo dell’Unione Europea, addirittura menzionata tra i principi fondamentali nel Trattato dell’Unione Europea, per rimanere nell’ambito sovranazionale, all’articolo 3. Il punto qual è, signori giudici? Il punto è che la rilevanza di questo interesse, l’interesse di “Ospitalità” a condurre una politica di neutralità che non era fine a se stessa, ma strumentale alla propria iniziativa privata, si comprende pienamente soltanto guardando al contesto in cui questi due interessi privati sono venuti a confliggere. Prima andavano in armonia a un certo punto si sono trovati l’uno contro l’altro. E qual è questo contesto? Non un contesto di spazio pubblico, non un contesto in cui vi è un soggetto individuo che si rivolge a un’istituzione pubblica, e allora, rispetto all’istituzione pubblica, sì che ha una pretesa di laicità, di laicità nel senso di consentirgli l’esplicazione della propria libertà religiosa, quindi una precondizione per così dire all’esercizio del proprio diritto di libertà. Non questo, ma uno spazio governato dall’autonomia dei privati, lo spazio dell’autonomia dei privati, un’autonomia che evidentemente non è assoluta, questo non lo sosteniamo e non lo sosteremmo signori giudici, un’autonomia che ha delle regole, ha dei limiti. Ma questi limiti sono esattamente i limiti individuati dalla normativa citata dalla controparte, che però è una normativa di sintesi, che consente di contemplare interessi e che non vuole che la semplice violazione di uno dei due interessi sia di per sé una patologia. Lo scontro può costituire semplicemente l’ordinario bilanciarsi dei due interessi. Peraltro siamo convinti che questa Corte non ignora come, volendo ancora una volta calcare sulla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, come tra l’altro fatto da parte attrice nel proprio ricorso, la nostra risposta non possa che essere avvenuta in memoria del fatto che la stessa Corte di Strasburgo, addirittura laddove ci si trovi in uno spazio pubblico, che ripeto non è il nostro caso, abbia consentito agli Stati ampie discrezionalità, margini di apprezzamento, nell’implementare politiche di divieto di indossare determinati abbigliamenti, tra i quali possono rientrare anche abbigliamenti religiosamente orientati. Questo è il contesto in cui si svolge la nostra difesa e passo la parola al mio collega per approfondire la normativa europea e il decreto legislativo 216 del 2003.
SECONDO RAPPRESENTANTE DI “OSPITALITÀ”:
E allora la soluzione al problema che oggi stiamo affrontando dipende essenzialmente dalla risposta a una domanda, cioè se un’impresa sia libera o no di decidere quale sia la propria immagine presso il pubblico, presso la propria clientela, sia essa nazionale o internazionale. La risposta a questa domanda deve essere tracciata seguendo le linee individuate correttamente dai ricorrenti ovvero dell’applicazione delle normative euro – unitarie e in particolare la direttiva 2078 CE e la normativa di recepimento nazionale, il decreto legislativo 216 del 2003. Applichiamo dunque queste norme al caso concreto, riprendiamo un attimo la distinzione fra discriminazione diretta e indiretta. I ricorrenti sostengono che la signora Sahid sia stata al contempo oggetto di discriminazione diretta e indiretta, ma la cosa è in contraddizione, giacché la discriminazione diretta e indiretta sono come il buio e la luce, non possono coesistere. Se la direttiva si rivolge puntualmente a un certo soggetto, allora è diretta, perché la definizione di discriminazione diretta prevede che una certa persona sia trattata sfavorevolmente rispetto a un’altra: è un giudizio di relazione. Ma la direttiva aziendale in questo caso si rivolgeva indistintamente, genuinamente a tutti i dipendenti, a prescindere dalla religione e dal sesso. Tanto è vero che, come hanno anche rilevato i ricorrenti, alcuni dipendenti hanno omesso dunque d’indossare i propri simboli, crocifisso e altri di altre religioni che fossero. L’azienda “Ospitalità” è ben oltre il 40% popolata da dipendenti di nazionalità straniera. E anche altresì divertente pensare che “Ospitalità” potesse avere con questa direttiva un obiettivo persecutorio nei confronti della signora Fatima Sahid, che cinque anni prima, quando ella già indossava il velo hijab, era stata assunta con un contratto a tempo indeterminato. La ragione, come si vedrà nel seguito, dipende dal mutamento del target di clientela della società, che nel corso del 2017 si è ritrovata a servire, come ha già detto il mio collega, clienti provenienti da quattro diversi continenti, Europa, Asia, Africa, America, con sensibilità culturali completamente diverse. Ma non voglio perdermi in questo, voglio rimanere sul punto, sul punto specifico della discriminazione. Abbiamo detto discriminazione diretta e indiretta non possono coesistere perché la discriminazione diretta è un trattamento sfavorevole, puntualmente rivolto a una persona. In questo caso la direttiva si rivolgeva a tutti. Sul punto, in un analogo caso, con la sentenza presa dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea il 14 marzo 2017, si è pronunciata la Corte di giustizia esprimendo le seguenti parole: «la direttiva 2078 CE, che è stata integralmente e fedelmente recepita dalla normativa nazionale, deve essere interpretata nel senso che il divieto di indossare il velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata – e sottolineo privata -, che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta, fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi di tale direttiva». Ora questo collegio sa benissimo, e quindi non giova ripetere, che vige nel nostro ordinamento un principio di primazia del diritto comunitario e pertanto non ci si può discostare, se non vi siano elementi di fatto tali da rendere questa controversia sostanzialmente diversa da quella già decisa dalla Corte di giustizia. Quindi in ossequio a questo principio del diritto europeo, mi permetto di muovere verso l’altra censura mossa dai ricorrenti, che è quella in forza della quale la signora Fatima Sahid sarebbe stata oggetto di discriminazione indiretta. Che cos’è la discriminazione indiretta? Lo abbiamo sentito: dietro un atto, un comportamento apparentemente neutro, si cela in realtà una situazione, una finalità che fa in modo che una certa persona si trovi in una situazione di particolare e non giustificato svantaggio. Allora, abbiamo visto prima che la libertà di religione non è un diritto a espansione illimitata, è un diritto che, come tutti i diritti, conosce dei contemperamenti, delle limitazioni; ebbene, è la stessa Convenzione europea dei diritti dell’uomo a riconoscere alla libertà religiosa un’espansione non illimitata, laddove all’articolo 9 si dice che tale diritto appunto può soffrire limitazioni in nome di altri supremi principi, quali la sicurezza, l’ordine pubblico e ultimo, ma non ultimo, quello della tutela dei diritti e delle libertà altrui. E allora, se la libertà altrui è quella della libertà di iniziativa privata, quella diciamo che ha esercitato la nostra società, la società che rappresentiamo, allora occorre muovere a verificare se la finalità perseguita con questa direttiva aziendale dalla società “Ospitalità” sia stata effettivamente legittima, visto che la direttiva europea, la direttiva italiana richiedono che il comportamento posto in essere dalla società sia giustificato da il perseguimento di una finalità legittima e sia raggiunto mediante mezzi necessari e adeguati. Allora, la finalità è legittima, è legittima non soltanto perché lo afferma la Corte di giustizia nell’analogo precedente, è legittima perché la legittimità di una direttiva aziendale deve essere valutata alla stregua di un parametro oggettivo, non può ritenersi, come dire, soggettivamente valutabile se una certa finalità sia legittima o meno. Nel caso del quo, la società “Ospitalità” stava perseguendo una politica di neutralità e la neutralità non contrasta con nessuna legge o con alcun principio sancito in nessuna norma, in nessuna disposizione di per sé. Quindi la finalità è per certo legittima. Il punto è capire se viene raggiunta con modalità adeguata e con dei mezzi necessari allo scopo. Per capire questo la giurisprudenza italiana e internazionale hanno elaborato un criterio, un test di proporzionalità, che valuti l’idoneità, la necessità e l’adeguatezza delle misure adottate. Allora occorre vederlo in concreto e rispondere alle seguenti domande: è idonea la direttiva della società “Ospitalità” a perseguire la finalità legittima di neutralità? E sì, è idonea, giacché se tutti rispettano la direttiva, l’immagine che la società dà, è inevitabilmente quella di una società che non viene connotata da alcun colore politico, religioso, filosofico. È necessaria giacché se qualcuno dei dipendenti eviti di ottemperare alla direttiva, lo scopo è frustrato. Nel caso della signora Fatima Sahid era l’elemento di rappresentanza maggiore dell’azienda all’esterno e quindi certo che era essenziale e determinante il requisito richiesto. E infine è adeguata, la direttiva è adeguata non solo perché è provato per tabulas che tutti i dipendenti l’hanno ossequiata ad eccezione della signora Sahid, ma anche perché, come si vedrà magari più avanti, il precetto di indossare il velo hijab non costituisce un precetto fondamentale e imprescindibile della religione musulmana. E su questo c’è la pronuncia del consiglio di Fatwa del 2017, sul caso Achbita, che appunto dice che può essere oggetto di una valutazione di proporzionalità il fatto di indossare il velo sul luogo di lavoro; se è necessario, è consentito, a patto che in questo caso la signora, ma insomma il dipendente, indossi il velo laddove non sia più necessario ometterlo. Niente ho da aggiungere e concludo. Grazie.
SABINO CASSSESE:
Grazie. Prima di due brevi repliche, molto brevi, la Corte ha due domande da fare alle parti.
ANDREA SIMONCINI:
Allora, io vorrei che gli avvocati delle due parti si soffermassero un attimo di più, potessero approfondire questo argomento che è stato citato adesso, alla fine dalla parte di “Ospitalità”, cioè: una parte fondamentale nella decisione di questa causa è l’esistenza nella religione musulmana di un obbligo, di un precetto per cui il velo deve essere indossato, come rispetto di una prescrizione religiosa. Ma è stato citato che si è interpellato un consiglio di esperti nella religione musulmana, il quale invece avrebbe suggerito che in casi di necessità, in particolari casi, a questo obbligo si possa contravvenire. Quindi chiederei alle parti di spiegare, espandersi un po’ di più su questo punto.
SABINO CASSESE:
E una seconda domanda è la seguente: ho sentito pocanzi dire che prima erano state in armonia le due parti (il dipendente e l’azienda) e poi è sorto un conflitto, ma dato che il rapporto giuridico era stato costituito nel 2012 ed è nel 2017 che è successo questo, che cosa è accaduto tra il 2012 e il 2017 che ha spinto l’azienda a modificare la propria policy, considerato che l’azienda già prima svolgeva un’attività che riguardava l’ospitalità e che quindi era aperta in generale a tutti i tipi di clienti utilizzatori. Allora io darei brevemente la parola forse prima alla parte convenuta e poi alla parte attrice per replicare reciprocamente e poi per rispondere a queste due domande.
Non più di cinque minuti.
PARTE CONVENUTA, PRIMO AVVOCATO:
Con riferimento alla prima domanda, la fatwa, espressa dal concilio di Fatwa nel 2017, semplicemente serve a segnalare che trattasi di una norma, per quanto è stato in possesso e nelle possibilità della società, di una norma non cogente, non obbligatoria e questo ha valore di argomento, di prova della proporzionalità della misura adottata. La misura ha tenuto in sufficiente considerazione anche il libero esercizio della libertà religiosa della signora Sahid.
SECONDO AVVOCATO:
Sotto il versante della durata quinquennale precedente alla risoluzione della policy di neutralità, riprendendo quanto dicevamo sull’evoluzione, sul trend aziendale di “Ospitalità”, la società ha ritenuto di adottare questa policy per poter meglio, mi passerete il termine, aggredire spazi di mercati che si erano creati per lei, a partire dal fatto che era riuscita ad accedere a continenti, a Paesi, ad espandersi in Paesi nuovi e questo ha portato l’amministrazione della società a ritenere di dover adottare una policy che consentisse di svolgere la propria attività di impresa in maniera, diciamo, coerente con queste nuove possibilità di mercato.
PARTE ATTRICE:
Buonasera, signori giudici. Buonasera a tutti. Allora io volevo fare alcune precisazioni oltre a rispondere alle vostre domande per le quali mi sento abbastanza in imbarazzo a doverlo ribadire. Da un lato mi sembra che a tratti la controparte debba inventarsi dei fatti per sostenere le proprie ragioni, dal momento che non risulta da nessuna parte nella traccia, che nel 2017 l’azienda “Ospitalità” abbia diversificato i suoi affari, organizzato meeting e turismo religioso. Anzi, se proprio vogliamo concedere il fatto che sia vero, sarebbe a maggior ragione discriminatorio il licenziamento della signora Fatima Sahid, perché che problema c’era a ricollocare la nostra assistita in un altro Paese, magari addirittura in un Paese a vocazione musulmana, dove il fatto che indossasse il velo sarebbe stato addirittura apprezzato e motivo di guadagno per l’azienda? In secondo luogo, vorrei dire che noi non ci siamo confusi sui principi. Abbiamo parlato del principio di laicità, non confondendolo con il principio di neutralità. Ne abbiamo voluto parlare perché volevamo ricostruire in modo chiaro qual è il contesto normativo in cui ci stiamo muovendo, che è l’ordinamento nazionale dello Stato italiano, dove il principio di laicità è correlato alla libertà religiosa, perché questa possa essere considerata effettiva. Ed è diverso l’ordinamento nazionale italiano dallo Stato belga, per il quale avete citato il caso Achbita. Infatti il l diritto dell’Unione europea, tra cui le sentenze della Corte di giustizia europea, hanno un primato sulla norma, rispetto alla normativa interna italiana. Rispondo solo alle domande, scusate, rispondo solo alle domande. Semplicemente la fatwa … Volevo solo dire su questo, che il caso Achbita è diverso dal caso di specie, molto diverso, ci sono degli elementi fattuali diversissimi. La signora Fatima Sahid indossava il velo sin da quando era stata assunta; Achbita, no. Quando Achbita è stata assunta, la policy aziendale già prevedeva per prassi non scritta ma per prassi, che non si indossassero dei segni religiosi visibili. Invece questo caso è diverso. Inoltre in questo caso siamo in Italia e là eravamo in Belgio e in questo caso il provvedimento è avvenuto dopo ben cinque anni, mentre in quel caso era così sin dalla sua assunzione. Proprio il fatto che sia intervenuto dopo ben cinque anni va a dimostrare il fatto che indossare il velo non fosse un requisito, indossare il velo non era un problema a svolgere quella attività lavorativa, non lo era perché nessuno si è mai lamentato. Dalla traccia emerge che nessuno dei clienti si è mai lamentato, nessun dipendente si è mai sentito in imbarazzo, addirittura come sostiene la controparte, l’impresa si è espansa nei quattro continenti, ha diversificato i suoi affari, per cui mi sembra che sia proprio il contrario. Per quanto riguarda la fatwa, io in verità mi sento piuttosto in imbarazzo, perché secondo me questa non è la sede per discuterne il valore. Ciò detto la fatwa non è il Corano, è l’opinione di un’autorità religiosa rispetto alla quale, tra l’altro, ci sono pareri discordanti, ci possono essere pareri discordanti, e soprattutto che si applica e ha valore rispetto al caso specifico per cui viene richiesto il parere. Vorrei aggiungere che un esempio di fatwa è non esultare durante un goal allo stadio. Se vogliamo equiparare indossare il velo alla mancata esultanza di un goal allo stadio, fate voi.
SABINO CASSESE:
Grazie, la Corte si ritira in camera di consiglio per la decisione.
JOSEPH H.H. WEILER:
Quando la Corte si ritira per deliberare io ho ascoltato tutte e due le parti e non so che lingua hanno parlato, italiano sicuramente no, allora vorrei tradurre quello che abbiamo sentito in italiano.
Dice la ditta: «Noi vorremmo garantire un luogo di lavoro pacifico, tranquillo, dove tutti possano sentirsi a loro agio. Immaginate che uno arrivi un giorno con un cappello “W Trump!”, ci sarà qualche discussione, o “Juventus ladri!” ci sarà discussione, e purtroppo nella nostra società il problema della religione crea anche lei contrasti. Allora per assicurare un luogo di lavoro pacifico e tranquillo, in cui tutti sono a loro agio, abbiamo deciso una politica che comporti niente simboli religiosi, niente simboli politici di qualsiasi parte. E dove è la discriminazione? Anche una persona cristiana che vuole mettere il crocefisso non può farlo, un ebreo che vuole la kippah non può farlo, dove c’è la discriminazione? Uno che vuole venire con “Trump” non può farlo, dov’è la discriminazione? C’è un obiettivo legittimo per assicurare un luogo di lavoro pacifico tranquillo e dove tutti si sentano a loro agio. La parte di Fatima Sahid è un pochino più complicata, perché il cristiano può voler mostrare la sua fede mostrando il crocifisso, ma non è un’obbligazione religiosa, tranquillamente quando viene a lavoro può mettere il crocifisso sotto la camicia, invece per Fatima Sahid o per un ebreo praticante con il kippah aderire alle politiche delle aziende significa violare la loro religione. Questa è la discriminazione, loro devono decidere o il lavoro o la religione. E essere licenziato vuol dire che sono discriminati, sono forzati a violare la religione e se sono praticanti seri a dire che la religione è più importate del lavoro.
Queste sono le due parti tradotte in italiano. Ora voglio fare una cosa: dimenticate i problemi giuridici, discriminazione diretta o indiretta, parlate come cittadini italiani: quale pensate voi debba essere la risposta della Corte, non dal punto di vista giuridico ma dal punto di vista della vostra coscienza? E qui non permetto astensione.
Allora chi pensa che deve vincere la ditta alzi la mano.
Chi pensa che deve vincere Fatima Sahid alzi la mano.
Non direi fitfy fifty ma interessante. Ora aspettiamo la Corte e sentiamo cosa queste persone autorevoli vanno a dire. Questo caso che c’era in Inghilterra, che c’era in Belgio, che c’era in Francia, non è mai emerso in Italia, allora sarà molto interessante sentire cosa dicono i giudici e soprattutto il presidente del tribunale Sabino Cassese. Abbiamo qualche minuto, potete fare domande ma non speach.
DOMANDA:
Ci sono varie mansioni del lavoro, uno è fuori dall’ufficio, uno è in ufficio, il lavoro è diversificato nell’arco della giornata, il lavoro che svolge questa signora può essere suddiviso in certe mansioni e le si potrebbe dire che quando si fanno queste cose è meglio togliere i distintivi, quando invece non è cosa pregiudizievole per il suo lavoro si possono tenere.
JOSEPH H.H. WEILER:
Domanda delicata, ma dico una cosa. Se devo al lavoro mostrare un nuovo shampoo, chiaramente mi possono dire che i capelli devono essere scoperti, perché non si può mostrare l’effetto dello shampoo nascondendo i capelli, giusto? Ci sono anche alcuni lavori che richiedono un ambiente sterile, in ospedale o nella costruzione di micro chip, allora anche lì si può richiedere un vestito di tipo particolare, ma qui, nel settore dell’ospitalità, è un po’ diverso. Facciamo un’ipotesi: se non fosse una mussulmana ma fosse una nera, e alcuni clienti non amassero le persone nere, sarebbe giustificato che dicessero «non prendiamo una nera, o mettiamola in ufficio dietro così che i clienti non la vedono?». No. C’è stato un caso americano molto interessante anni fa: tra gli addetti all’aereo, gli uomini potevano lavorare fino a 65 anni e le donne solo fino a 45. La ditta ha spiegato, «non abbiamo nulla contro le donne, ma i nostri clienti amano belle donne giovani». Accettabile o non accettabile. La domanda per la nostra società è se vorremmo una società multiculturale che permettesse, nel settore della religione, che la gente mostrasse la sua religiosità. Allora puoi mettere la divisa ma con il velo mussulmano. Quella è la domanda: che società vorremmo avere in questo settore? E come abbiamo visto la percentuale del voto che abbiamo fatto non era 90% per Fatima Sahid e 10% per la ditta, ma abbastanza equilibrato. Sappiamo che ci sono divisioni su questa questione e perciò è interessante sentire cosa vanno a dire i nostri giudici.
DOMANDA:
Vorrei dire che avendo studiato l’arabo diversi anni, non mi risulta che l’islam imponga il velo alle donne, è una cosa volontaria.
JOSEPH H.H. WEILER:
L’ islam è diverso come la cristianità e il giudaismo, ci sono vari stili diversi. Sapete che un cattolico si comporta in maniera un pochino differente dai protestanti e fra i protestanti ci sono mille settori diversi. Allora anche nel giudaismo c’è l’ebreo che mette la kippah si dice all’età di otto giorni, si toglie una parte sapete dove e si mette invece la kippah. Allora c’è l’ebreo che mai toglie la kippah e c’è uno che la mette a casa e alla sinagoga, ma al lavoro no, dipende. Allora ci sono mussulmani che accettano la libertà di togliere il hijab e ci sono altri che non lo accettano. Il problema è chi siamo noi per giudicare la signora Sahid. Dobbiamo prendere in buona fede che lei si senta obbligata religiosamente a portare il hijab. Non sarà facile per una Corte di uno Stato di decidere sui problemi religiosi. Sono sicuro che si poteva anche avere un testimone esperto che avrebbe detto no, è obbligatorio. Secondo me la Corte deve essere molto prudente.
DOMANDA:
La libertà religiosa è un diritto fondamentale, sono i diritti fondamentali per la volontà delle parti, dei privati?
JOSEPH H.H. WEILER:
Certo, c’è una libertà di dirigere l’azienda, una libertà fondamentale garantita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e c’è dall’altra parte la libertà religiosa ed è per questa ragione che questo caso è così interessante, perché non è come sempre da una parte il potere dello stato e dall’altra parte la libertà individuale, c’è la libertà aziendale da una parte e la libertà religiosa dall’altra parte e la Corte deve decidere come bilanciare tra le due e tutte e due sono diritti fondamentali. Però non ci sono diritti fondamentali assoluti. Anche la libertà religiosa non è assoluta. Non permettiamo per esempio la circoncisione femminile, anche se è un obbligo religioso per alcuni. Il famoso caso di Abramo. Dio gli dice: «Vai a uccidere tuo figlio!» Oggi come oggi uno sarebbe venuto a dire: «Dio mi ha detto di prendere mio figlio e di andare tre giorni sulla autostrada del sole, trovare una collina e ucciderlo». Avete voglia a dire «libertà di religione». Se tu fai un passo in questa direzione ti mettono in galera per omicidio. Allora la libertà religiosa non è assoluta, ma anche la libertà aziendale non è assoluta. Se un’azienda dice «io voglio che i miei operai lavorino sessanta ore alla settimana». «No, signore, ci sono i diritti di lavoro». Perciò è così interessante. Una libertà aziendale, una libertà religiosa, dove andiamo a mettere il punto di equilibrio fra l’uno e l’altro?
DOMANDA:
In questi giorni c’è un caso in Italia. Una giornalista televisiva della televisione pubblica indossa la corona del rosario. Ci sono state tutta una serie di persone che si sono lamentate dicendo che questa non può indossare il crocifisso, essendo una tv di Stato. Siamo in Italia, è un caso che probabilmente ancora non è stato portato davanti ai tribunali. Questa non è stata ancora licenziata, però in Inghilterra è successo.
JOSEPH H.H. WEILER:
Io vi racconto su questo una storia personale. Quattro anni fa, prima dell’elezione al Parlamento europeo del 2014, per la prima volta venne instaurato il sistema chiamato “Spitzenkanditaten”, dove c’erano i candidati per la presidenza della Commissione della Unione europea. C’era un dibattito pubblico tra i vari candidati: Juncker, Schulz … Ce n’erano cinque. E uno di questi dibattiti pubblici era a Firenze, al Palazzo Vecchio. Io a quell’epoca ero presidente dell’Università europea, allora mi hanno chiesto di fare una delle tre persone che dovevano tenere il dibattito: intervistare questi candidati per la presidenza della Commissione. E la Rai l’ha mandato in onda. Due giorni prima della trasmissione, la Rai ha scritto: «Non si deve vedere nessun simbolo religioso nella trasmissione di questo dibattito». Ragazzi, questo è Palazzo Vecchio! C’era dietro questa bellissima statua di un papa, non mi ricordo quale. Allora hanno messo un gran poster neutrale per nasconderlo. Però il direttore della comunicazione dell’Università europea ha detto: «Ma Weiler in tutte le apparizioni pubbliche indossa la kippah, che è un simbolo religioso». Allora la Rai ha risposto che in questo caso non dovevo portare la kippah. Allora Weiler ha pensato qualche ora e poi ha detto: «Se non posso portare la kippah non mi presento a questa intervista, ma vi consiglio di leggere il New York Times di domani». E dopo venti minuti è arrivata una mail «tutto è un errore, è tutto un errore… tranquillamente può portare la kippah».
DOMANDA:
Si è parlato dell’obbligo del velo ma non si è parlato dell’obbligo della preghiera, cinque volte al giorno. Quindi durante il lavoro c’è anche questo obbligo. Non so se crea un problema nelle aziende.
JOSPEH H.H. WEILER:
Posso immaginare che ci saranno dei tipi di lavoro per i quali veramente non sarà praticabile che la persona faccia la preghiera cinque volte al giorno. L’ebreo deve farla solo tre. Però nella praticità di tanti posti di lavoro… Prendiamo quello che conosco meglio, il professore universitario. Quando mio padre poi mia madre sono morti ero molto assiduo a pregare tre volte al giorno durante l’anno successivo alla loro morte. Perché è un obbligo molto forte. Non era un grande problema trovare i minuti per fare questa preghiera. Se vogliamo accomodare le persone, invece che insistere sui principi, io penso che nel 90% dei casi si possa fare un accomodamento per permettere al religioso di fare il suo e agli altri di fare il loro. L’importante qui è la buona volontà di accomodare, di capire, viviamo in una società in cui ci sono laici, ci sono religiosi, bisognerebbe trovare soluzioni che permettano di vivere a tutti. È molto grave impedire ad una persona religiosa di praticare la sua religione.
Mi dicono che la Corte è pronta, vi chiedo di mettervi in piedi quando la Corte entra.
SABINO CASSESE:
Prego, accomodatevi, la Corte ha raggiunto una decisione, che sarà adesso letta dal giudice relatore, omettendo però due pagine iniziali per brevità, che vi riassumo brevemente. La prima pagina riassume il fatto, che a questo punto immagino sia noto alle parti e al pubblico; e anche il diritto, perché mi pare abbastanza chiaro che la decisione deve essere raggiunta sulla base di fonti che riguardano tre ordini giuridici diversi: quello costituzionale italiano, quello dell’Unione europea e quello della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo. Norme che sono convergenti sia per quanto riguarda l’un diritto che è in gioco, cioè la libertà di religione, sia l’altro diritto e cioè la libertà di impresa. Quindi le prime due pagine verranno omesse e vi leggiamo adesso le altre parti della decisione.
FRANCESCA MARTINES:
Grazie, presidente. Ci troviamo dinanzi a un caso in cui vengono in conflitto due libertà: quella di religione e quella di impresa, entrambe riconosciute, sia a livello costituzionale, sia a livello europeo. E si chiede quindi a questa Corte di stabilire se nel caso concreto il licenziamento abbia rispettato questi due principi. Il collegio ritiene innanzitutto che il caso Achbita, Corte di giustizia dell’Unione Europea, sentenza del 14 marzo 2017, causa C-157/15, Samira Achbita contro G4S Secure Solutions, presenti elementi differenziali tali da non poter essere considerato un precedente applicabile. Una delle differenze principali con il caso in esame è che la signora Achbita, al momento dell’assunzione e per i tre anni consecutivi alla stessa, non aveva indossato il velo islamico. Inoltre la signora Achbita non esercitava, a differenza della signora Sahid, funzioni direttive all’interno dell’azienda, benché ambedue si trovassero, se pur con mansioni diverse, a stretto contatto con la clientela. Infine la politica di cosiddetta neutralità dell’azienda, che impiegava la signora Achbita, consisteva inizialmente in una regola non scritta, solo in seguito il regolamento interno della società è stato modificato. D’altra parte, anche se si ritenesse che i casi Achbita e Sahid presentino analogie, questa Corte dovrebbe comunque valutare se in concreto i mezzi impiegati per il conseguimento di una politica di cosiddetta neutralità da parte di “Ospitalità” siano stati appropriati e corretti, così da giustificare il provvedimento assunto. I difensori della signora Sahid invocano erroneamente il principio di laicità. Tale principio, nella giurisprudenza costituzionale italiana, Corte Costituzionale e sentenze 20/1989, 235/1997, implica non l’indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma la garanzia della sua imparzialità nel trattamento di tutte le confessioni religiose. Esso dunque si esplica innanzitutto nella dimensione verticale del rapporto tra Stato e cittadini e non in quella orizzontale dei rapporti tra i privati. Quanto poi al principio di cosiddetta neutralità invocato dall’azienda come caratterizzante la nuova policy della stessa, e fondato sulla libertà di impresa, non si nega che esso possa costituire un principio dell’azienda nei confronti della clientela e che quindi sia un obiettivo legittimo di un’impresa. Nel caso della signora Sahid la politica di cosiddetta neutralità dell’azienda si fonda sulla volontà, alla luce del nuovo orientamento commerciale dell’impresa, meeting religiosi e turismo, di evitare eventuali conflitti con i clienti e i dipendenti. Tuttavia non risulta dagli atti che vi siano state tensioni tra i lavoratori e con la clientela a causa dell’utilizzo di simboli religiosi da parte di altri impiegati e in particolare da parte della signora Sahid, che risulta essere l’unica musulmana in azienda. Inoltre la cosiddetta neutralità perseguita dalla direttiva aziendale, divieto di indossare qualsiasi simbolo religioso, non costituisce una garanzia contro ogni discriminazione. In questo caso, infatti, una regola apparentemente neutrale può in realtà comportare uno svantaggio particolare per coloro che professano una certa religione. La richiesta di rimuovere alcuni simboli religiosi, come una croce cristiana, una stella di David, una spilla o una riproduzione della mezza luna musulmana, non può essere comparata alla richiesta di rimuovere il velo per una praticante musulmana, dal momento che il hijab, a differenza di altri simboli, rappresenta per il musulmano l’adempimento di un precetto religioso, così come la kippah per gli ebrei o il turbante per i Sikh. Per questo motivo la regola che vieta di indossare simboli religiosi ha un effetto diverso sugli impiegati a seconda delle religioni che professano e comporta nei fatti una discriminazione indiretta nei confronti di alcuni di essi. In via preliminare, si esclude che possa ritenersi valido motivo lo scopo di evitare conflitti tra i dipendenti. Infatti la signora Sahid aveva dal 2012 al 2017 indossato il velo simbolo religioso, senza che ciò avesse provocato problemi all’interno dell’azienda. Quindi va considerata soltanto l’altra ipotesi, quella che con l’allargamento dell’attività dell’azienda anche all’organizzazione di riunioni religiose, la circostanza che un dipendente indossi un oggetto che è simbolo di una religione, possa danneggiare il perseguimento delle attività di impresa. Si tratta in conclusione di stabilire se il licenziamento della signora Sahid, in attuazione della politica aziendale di cosiddetta neutralità, rappresenti un provvedimento proporzionato allo scopo perseguito, tenendo conto del diritto di ognuno ad esercitare la propria libertà di religione. Occorre perciò effettuare un test di proporzionalità del provvedimento. Questo test si articola in due passaggi. Innanzitutto si deve accertare se la finalità perseguita dalla direttiva aziendale sia legittima, in secondo luogo si deve verificare se i mezzi applicati per la realizzazione di tale finalità siano necessari e appropriati e cioè se il provvedimento adottato non abbia conseguenze sproporzionate rispetto all’obiettivo perseguito e non sacrifichi eccessivamente la libertà religiosa. Si tratta in altre parole di verificare se il bilanciamento tra libertà di organizzazione dell’impresa e libertà religiosa sia avvenuto in maniera corretta. La finalità perseguita dalla direttiva di “Ospitalità” appare legittima. È una scelta che rientra nella libertà organizzativa dell’azienda quella di assicurarsi che non vi siano conflitti o tensioni dovuti al pluralismo religioso. Stabilito che la finalità non appare contraria alla legge, occorre ora accertare se il provvedimento del licenziamento in attuazione di tale finalità sia necessario e appropriato. Per effettuare tale valutazione occorre verificare se l’azienda, per realizzare il suo obiettivo, poteva adottare misure meno restrittive per la libertà religiosa, rispetto al licenziamento. Da questo punto di vista, ad avviso della Corte nel caso specifico, il licenziamento non può essere considerato una misura proporzionata, e per questa ragione va annullato. Come risulta dai fatti emersi nella causa, il divieto di indossare simboli religiosi aveva come scopo di promuovere un’immagine neutrale e non discriminatoria dell’azienda e quindi di scongiurare preventivamente i conflitti con i clienti interessati ai servizi offerti dalla stessa, che avrebbero potuto essere a disagio dinanzi all’esibizione di simboli di natura religiosa, ovvero ritenere di essere discriminati a motivo della propria diversa posizione a riguardo della religione. Ebbene, per realizzare tale finalità, una misura alternativa poteva consistere nel prevedere il divieto, solo per i dipendenti che hanno relazioni con il pubblico, riservando e provvedendo per la ricorrente, come per gli altri lavoratori, in situazioni analoghe, impieghi che non comportassero contatti diretti con i clienti. Questa misura avrebbe permesso alla signora Sahid di non violare il precetto religioso, mantenendo il suo impiego e all’azienda di non alterare l’immagine di neutralità che essa intendeva comunicare all’esterno. La direttiva è stata invece formulata in maniera generale, senza tener conto delle mansioni e senza prevedere che il dipendente potesse chiedere l’assegnazione anche temporanea ad altre mansioni. In secondo luogo la direttiva aziendale pone sullo stesso piano un’esigenza potenziale ed eventuale, il disagio di un cliente dinanzi all’esibizione di un simbolo religioso, con un diritto presente e attuale, quale le libertà religiosa della ricorrente. Per tutelare in maniera equilibrata i due diritti, “Ospitalità” avrebbe potuto rendere pubblica presso la propria clientela la propria policy, invitando i clienti che avessero difficoltà o impedimenti nella relazione con personale recante simboli religiosi, a farlo presente in via preventiva all’azienda, in modo da consentire l’adozione di misure opportune per ovviare a tali problemi. In conclusione, in una società pluralista e aperta alla diversità di scelte religiose, filosofiche e politiche, su un’azienda come su ogni altro soggetto pubblico o privato, incombe l’onere di cercare le soluzioni che riescano a realizzare un bilanciamento proporzionato tra la propria libertà di impresa e l’altrui libertà di religione. Visti i motivi esposti, la Corte dispone l’accoglimento del ricorso della signora Fatima Sahid, dichiara l’annullamento della direttiva aziendale che vieta a tutti i dipendenti di indossare simboli religiosi, filosofici o politici in quanto atto di discriminazione indiretta, dichiara l’annullamento del licenziamento conseguente e pertanto dispone l’immediato reintegro nel posto di lavoro della signora Fatima Sahid e il risarcimento del danno da lei subito.
SABINO CASSESE:
La seduta della Corte è tolta, ma se avete delle domande per il professor Weiler lui è pronto a rispondere.
Trascrizione non rivista dai relatori