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FAMIGLIA: LUOGO DI SPERANZA
In diretta su Famiglia Cristiana, Icaro Tv
Vincenzo Bassi, presidente Federation of Catholic Family Associations (FAFCE); Fabiola Bianchi, Associazione Papa Giovanni XXIII; Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta; Matteo Fadda, presidente Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII; Jean- Luc Moens, Comunità Emmanuel. Introduce Luca Sommacal, presidente Associazione Famiglie per l’accoglienza
Considerate le contingenze storiche, è fondamentale rappresentare la famiglia come primo luogo di costruzione della pace che scaturisce dal vivere una dimensione di accoglienza della diversità dell’altro, che si manifesta nell’esperienza del perdono. Tale esperienza vissuta in famiglia può incidere allargandosi a contesti sociali e politici e dunque incidere nella storia. I racconti di famiglie innestate in reti di solidarietà testimoniano questa novità.
Con il sostegno di Tracce
FAMIGLIA: LUOGO DI SPERANZA
FAMIGLIA: LUOGO DI SPERANZA
Giovedì 22 Agosto 2024 ore 19:00
Auditorium isybank D3
Partecipano:
Vincenzo Bassi, presidente Federation of Catholic Family Associations (FAFCE); Fabiola Bianchi, Associazione Papa Giovanni XXIII; Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta; Matteo Fadda, presidente Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII; Jean- Luc Moens, Comunità Emmanuel.
Introduce:
Luca Sommacal, presidente Associazione Famiglie per l’accoglienza
Sommacal. Buonasera a tutti e benvenuti. Saluto e ringrazio i nostri ospiti che hanno accettato di partecipare all’incontro di questa sera dal titolo “Famiglia luogo di speranza”. Sono Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta. Vincenzo Bassi, Presidente della Federazione delle Associazioni Familiari Cattoliche Europee (FAFSE), Matteo Fadda, Presidente dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Fabiola Bianchi, Famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII, e Jean-Luc Moens, della comunità dell’Emmanuel. Benvenuti a tutti. Dio ha affidato alla famiglia il progetto di rendere domestico il mondo, affinché tutti giungano a sentire ogni essere umano come un fratello. Con queste parole dell’Amoris Laetitia, Papa Francesco descrive il compito affidato alla famiglia. Uno sguardo attento alla vita quotidiana degli uomini e delle donne di oggi, continua il documento, mostra immediatamente il bisogno che c’è ovunque di una robusta iniezione di spirito familiare. Non solo l’organizzazione della vita comune si incaglia sempre più in una burocrazia del tutto estranea ai legami umani fondamentali, ma addirittura il costume sociale e politico mostra spesso segni di degrado. Ecco, il contesto di questi ultimi tempi, le contingenze storiche che stiamo vivendo, stanno rendendo sempre più incerto lo sguardo sul futuro. In questo contesto, i coniugi cristiani dipingono il grigio dello spazio pubblico riempiendolo con i colori della fraternità, della sensibilità sociale, della difesa delle persone fragili, della fede luminosa, della speranza attiva. La famiglia non deve pensare se stessa come un recinto chiamato a proteggersi dalla società. Non rimane ad aspettare, ma esce da sé. Come, ad esempio, l’esperienza che in queste settimane stanno vivendo decine di famiglie italiane, che si sono coinvolte in un progetto guidato dalla CEI e dalla Caritas Italiana Internazionale nell’ospitalità di bambini ucraini provenienti da Kharkiv per passare con loro le vacanze estive. Iniziativa che è nata su richiesta della viceministro del governo di Zelensky durante l’incontro con il Cardinale Zuppi dello scorso anno. Il Cardinale Zuppi è mandato dal Santo Padre in una missione di pace. Ecco, in quell’occasione il viceministro ha raccontato di essere stato un bambino di Cernobyl, accolto da una famiglia italiana durante il periodo delle vacanze estive, dopo il tragico incidente che tutti ricordiamo. Ecco, ricordandosi di quel bene ricevuto, ha chiesto di riproporre un’esperienza simile per i figli del suo popolo, e si è attivato così un processo che ci auguriamo, e ne siamo certi, contribuirà alla costruzione di una cultura di pace e a generare speranza per il popolo ucraino. Collegandoci al titolo del Meeting, l’incontro di questa sera vuole approfondire e testimoniare l’essenzialità di ciò che si sperimenta in famiglia, in ogni famiglia. E come questo possa originare, in un modo di uscita oltre i propri confini, una socialità nuova, possa generare speranza, essere il luogo dove si possa vivere un’esperienza di bene che renda certo il futuro, contribuire alla costruzione della pace e incidere nella storia, ciascuno vivendo ciò che la vita darà lui da vivere. Di questo vorremmo parlare con i nostri ospiti, che ringrazio ancora per la loro presenza. E cominciamo con Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta. Nella tua lunga esperienza professionale hai avuto modo di incontrare moltissime famiglie e tu stessa vivi un profondo e vivace contesto familiare. Hai studiato e scritto molto sulla famiglia, cito alcune tue pubblicazioni: “La coppia imperfetta”, “Erotica e materna”, “Risposami”, “Alfabeto degli affetti”, “Padri e figli”. Ecco, partendo dal titolo che abbiamo dato al nostro incontro, perché possiamo dire che la famiglia è luogo della speranza e anche della pace? E come questo non resta esperienza limitata all’ambito della cerchia familiare, ma diventa esperienza sociale.
Migliarese. Buonasera a tutti. Mi spiace perché non vi vedo e per me parlare senza vedervi è una difficoltà enorme. Vi cerco di immaginare. Quando ho visto questo titolo e ho pensato alle tante famiglie che mi capita di incontrare, di vedere nella mia professione, la domanda che mi sono fatta è stata: ma oggi noi, noi famiglie normali, noi famiglie con le nostre difficoltà, in che modo possiamo essere testimoni di speranza? Perché si respira spesso un grande senso di sfiducia e di fatica anche nelle nostre famiglie. Le famiglie cristiane si formano con un’idea alta, con un progetto alto. La coppia cristiana si forma con l’idea di qualcosa di bello che dovrà durare per sempre. Noi ci scegliamo innamorati l’uno dell’altra e immaginiamo cose belle, magari una famiglia numerosa, la possibilità di fare cose belle insieme per gli altri, una vita di affetto, di amore, di condivisione. Poi la realtà spesso si incarica di darci delle delusioni e ci incontriamo con le piccole cose di ogni giorno che sono spesso frustranti: l’altro non è esattamente quello che avevamo immaginato, i figli magari sono arrivati troppo presto e si sono messi in mezzo alla coppia prima che la coppia fosse solida, oppure non arrivano, oppure sono diversi da come avevamo immaginato. Insomma, la vita è spesso fatta in un altro modo e le difficoltà, le incomprensioni di fronte alla bellezza del progetto ci mettono in crisi, quindi ci facciamo delle domande: ma è poi vero che è possibile una vita insieme per sempre che non sia solo di reciproca sopportazione, pazienza, ma che sia davvero la realizzazione di un progetto pensato per la felicità dell’uomo? Tante coppie cristiane in crisi mi dicono: “Ma dottoressa, se Dio mi vuole per la felicità, mi ha creato per la felicità, allora perché mi trovo con questa moglie, con questo marito, con questa situazione? No, forse ho sbagliato, ho sbagliato la mia scelta”. Credo che questo spieghi anche l’aumento delle cause, delle richieste di nullità matrimoniali, perché le persone, davanti alla difficoltà, alla fatica di stare con l’altro, si chiedono se la scelta forse era sbagliata, forse non mi sono sposato ben preparato, forse ero immaturo, forse non ero convinto. Quindi noi, come cristiani, più degli altri ci scontriamo proprio con questa fatica perché c’è una differenza tra il desiderio di fare cose bene e belle e la fatica che incontriamo. Quindi la prima domanda è: perché si fa così fatica? Perché è faticoso volersi bene e volersi bene tutta la vita? E credo che la prima risposta che dobbiamo darci è questa: la fatica nasce dal fatto che la famiglia è un luogo dove dobbiamo avere a che fare con le differenze, con tutte le importanti differenze dell’umano, la differenza fra il maschile e il femminile, che anche se oggi viene negata, è molto profonda, la differenza fra due storie diverse che si incrociano venendo da famiglie diverse e devono trovare qualcosa di inedito per loro, la differenza di età fra genitori e figli. La differenza è fonte di difficoltà e di fatica, e noi non siamo abituati a pensarlo, a saperlo e a vivere la differenza come un’opportunità. Anche quando parliamo del tema della pace, credo che possiamo ripartire solo da ricordare che la differenza è potenzialmente un’occasione, mentre noi viviamo la difficoltà che la differenza comporta come una frustrazione rispetto alla quale al massimo cerchiamo di adattarci. Mentre non si tratta di adattarsi l’uno alla differenza dell’altro, ma si tratta di far fiorire la differenza presente in maniera così ricca nelle relazioni familiari, perché diventi generativa di vita nuova. Allora io credo che quello che dobbiamo fare è rimetterci a pensare che gli ostacoli sono delle sfide. Gli ostacoli non sono delle cose rispetto alle quali adattarsi, ma sono la sfida che la situazione ci pone davanti e che la vita del credente consiste proprio nel cogliere la sua vocazione nelle realtà concrete che incontra, quindi quella moglie, quel marito, quel figlio, quella situazione possono essere l’occasione di quel cambiamento che ci è dato di fare per diventare persone diverse, persone migliori, per sviluppare al meglio ciò che siamo e la felicità umana possibile nasce proprio dal mettere in moto dentro di noi la nostra creatività. Creatività che significa capacità di andare incontro a ciò che ci accade per farne qualcosa di diverso da ciò che appare. Quindi il marito difficile, la moglie difficile, non sono un ostacolo e basta, sono un’opportunità, la nostra creatività per comprendere che cosa davvero noi possiamo fare, che cosa è di diverso e di specifico fare rispetto all’ideale che c’eravamo posti. Che cosa la nostra vita così com’è ci mette davanti come sfida. Quindi una sfida è la creatività. Noi, quando ci sposiamo, ci promettiamo non di renderci felici perché non potremmo farlo, non di provare gli stessi sentimenti uguali tutta la vita, perché il sentimento cambia, a volte migliora, a volte peggiora, certo, continuamente cambia, si rinnova, può rinnovarsi, ha i suoi alti e i suoi bassi. Quello che noi ci promettiamo quando ci sposiamo è che non abbandoneremo mai la mano dell’altro per tutta la vita, che terremo stretta la mano dell’altro anche nella difficoltà, accettando la sfida dei cambiamenti possibili. Quindi noi possiamo essere testimoni di speranza, noi cristiani, penso che possiamo esserlo oggi se diventiamo testimoni di questo fatto incredibile che è possibile, malgrado quello che appare, volersi bene per sempre, è possibile non abbandonare la barca davanti alle difficoltà, è possibile investire la nostra creatività per essere felici profondamente, sempre, malgrado tutto, se noi intendiamo la felicità come questa competenza creativa che mettiamo in atto, è possibile volere bene ai propri figli. Testimoni di speranza vuol dire anche non essere mai dimissionari rispetto ai propri figli in un mondo che tende a non volersi più prendere la responsabilità di guidare o di educare i figli verso qualcosa di bello e di buono, non essere dimissionari ma continuare ad avere la consapevolezza che è legittimo educare, è legittimo trasmettere ai nostri figli quello che della vita ci appassiona, e questo però ci richiede di diventare sempre più consapevoli in maniera positiva, attiva, direi anche un po’ studiando, della bellezza del messaggio di cui siamo portatori, la bellezza dell’antropologia cristiana che abbiamo dato per scontata e che non è scontata proprio per niente, la bellezza della differenza uomo-donna, la bellezza dell’amore per sempre, la bellezza dell’educare, la bellezza del dare fiducia ai propri figli. Io credo che oggi sia veramente il tempo della famiglia e anche il vero tempo della vera laicità, mi viene da dire. Il tempo in cui i laici vivano pienamente la loro vita, la loro professione, il loro essere marito, moglie, il loro essere professionisti, che giocano con passione le proprie competenze nel mondo e nella vita, nella normalità e nella creatività, e imparando a vivere tutto ciò che ci accade sempre come una sfida buona. Io credo che quello che è negativo in una relazione di coppia, quindi in una famiglia, non è il fatto che ha delle difficoltà, non è neanche il fatto che si litiga, non è neanche il fatto che si continua ad avere opinioni diverse anche dopo tanti anni di matrimonio e ci si confronta sempre con quelle stesse difficoltà che abbiamo incontrato all’inizio. Quello che fa male alle relazioni è l’abbandonare la sfida, il vivere ciò che accade dentro un atteggiamento, un’attitudine di pazienza malintesa. La pazienza malintesa che diventa sopportazione e che diventa una brutta immagine delle relazioni familiari. Concludo dicendo che le cose che dico nascono certamente dall’esperienza che ho avuto con le famiglie che ho seguito, ma nascono in primo luogo dall’aver vissuto una lunga esperienza familiare, di coppia, di famiglia, con figli, adesso anche con nipoti, che certamente non rappresenta un ideale relazionale. Io credo che tutto quello che ho scritto nei miei libri, in cui parlo delle difficoltà da affrontare nelle coppie, nelle relazioni, eccetera, l’ho potuto scrivere soprattutto perché molto ci sono passata. Ho conosciuto queste fatiche, queste difficoltà e ho veramente capito sempre più la bellezza di questa sfida che ci è data di vivere e che può davvero durare tutta la vita di una famiglia.
Sommacal. Grazie. È il tempo della famiglia. Vincenzo Bassi, Presidente della Federazione delle Associazioni Familiari Cattoliche. Il FAFSE nasce con una doppia missione: rappresentare la voce delle famiglie a livello internazionale, e in particolar modo presso le istituzioni europee e internazionali, e dall’altra parte incoraggiare il lavoro delle associazioni familiari. Raccoglie 33 associazioni da oltre 20 paesi. Ecco, il tempo della famiglia dal punto di osservazione di una realtà internazionale come il FAFSE: come oggi la famiglia può incidere sulle vicende della storia seminando pace e speranza.
Bassi. La famiglia è un’esperienza privata di interesse generale, non voglio essere accademico, però è vero. Parlare di famiglia significa parlare di realtà; è un’esperienza solidale nel rispetto della dignità di ciascuno e senza la famiglia, principi come l’uguaglianza, la libertà, la solidarietà non si comprendono, rimangono delle astrazioni, dei concetti astratti, e questi principi non si spiegano a parole, ma si vivono nell’esperienza. È proprio questo che noi, come FAFSE, cerchiamo di fare, cioè di portare l’esempio della famiglia al centro del dibattito politico e civile, perché, già oggi, parlo da avvocato, il concetto del “buon padre di famiglia” è nei codici civili e non è stata cambiata questa espressione che risale al diritto romano, perché soltanto se si conosce e si vive l’esperienza del buon padre di famiglia, effettivamente noi capiamo cosa significhino la ragionevolezza e il buonsenso. Ma nell’esperienza proprio personale di Presidente della Federazione, ho vissuto tantissime realtà, ne cito alcune. L’ecumenismo della famiglia: noi, viaggiando e conoscendo persone di tanti paesi, ricordo un’esperienza in Romania, parlando con un vescovo, proprio lui mi diceva: “Guarda, l’ecumenismo si vive e si sta vivendo oggi in famiglia, le famiglie già pregano tra ortodossi e cattolici”. Ma se parliamo, per esempio, anche di accoglienza, di integrazione, di emigrazione, se guardiamo all’esperienza delle nostre famiglie italiane, è stata proprio la capacità delle famiglie di accogliere altre famiglie che ha permesso a noi italiani di integrarci nei paesi dove siamo stati ospitati. Ma l’unità della famiglia ha fatto anche cambiare regimi politici: non dimentichiamoci quello che è effettivamente successo in Polonia, con Solidarność, che è stata una protesta civile di persone che vivevano in famiglie; senza l’unità della famiglia, non si sarebbe riuscito a fare qualcosa che venti anni prima sembrava impossibile. La famiglia è espressione di unità e soprattutto è anche, come si diceva prima, espressione di capacità di dialogo, è un dialogo che è un metodo di dialogo che deve evidentemente essere esportato. Su una frase non sempre sono riuscito a capire di che cosa si parlava, quando Madre Teresa di Calcutta riferiva che la pace inizia in famiglia, nelle cose semplici di tutti i giorni. Bene, questa cosa, in rapporto alle difficoltà e ai contesti internazionali, non sempre l’ho capita, eppure, anche in questo caso, l’esperienza di tutti i giorni mi ha aperto un mondo. Lo voglio raccontare, questa esperienza. Io stavo in treno, un viaggio in treno verso Milano. Vicino a me, nello scompartimento, c’era una famiglia di persone più grandi che parlavano una lingua locale, probabilmente erano di Battipaglia, Salerno. Io sono amante delle lingue locali e mi piace ascoltarle per la loro semplicità. A Firenze, ci fermiamo, arriva una ragazza musulmana, probabilmente araba, con un bambino e una valigia. In inglese spiegava a quella coppia, che fino ad allora parlava una lingua salernitana, che aveva bisogno di aiuto perché doveva prendere delle valigie e voleva lasciare il bambino per qualche secondo. Io mi stavo avvicinando per spiegare alla signora cosa stava chiedendo la ragazza araba, ma, senza dire niente, la ragazza araba ha guardato la signora e le ha dato il bambino. Due culture completamente diverse, eppure hanno iniziato un dialogo. Ritornata sopra, la signora con questo bambino, con le valigie, con il marito, è iniziato un dialogo tra una coppia araba e una famiglia probabilmente di Salerno. Entrambi non parlavano la stessa lingua, ma vi posso garantire che hanno comunicato per tutto il viaggio. Cosa voglio dire? Che effettivamente è possibile, senza dubbio, la cosiddetta diplomazia della famiglia, perché le mamme non generano bambini per mandarli in guerra. L’esperienza nostra ci insegna esattamente questo, quindi effettivamente noi dobbiamo capire come quelle due mamme, in quel momento, sono state molto più sagge e molto più pratiche di tantissimi politici che guardano situazioni anche complicate senza il buonsenso e l’esperienza familiare. Queste vicissitudini, queste esperienze concrete di vita quotidiana devono suscitare in noi, come diceva prima Mariolina, una creatività non soltanto in famiglia, ma anche fuori. È giusto cercare di riflettere e capire come l’esperienza delle comunità che si parlano e dialogano può essere generativa di un futuro senza guerra. E devo dire che questa cosa è effettivamente possibile. Noi sappiamo, anche al Meeting, che ci sono associazioni, parent circle, che hanno dimostrato come culture diverse riescano a riconciliarsi. Però, così, dobbiamo provare ad essere ancora più creativi. Chi è esperto di diritto internazionale sa benissimo che in ogni trattato di pace c’è sempre una parte di riconciliazione, che è la più negletta, spesso anche perché è gestita da grandi organismi internazionali. Noi cristiani possiamo aggiungere qualcosa: che oltre alla riconciliazione c’è il perdono. E allora le reti di famiglie, le associazioni di famiglie, le istituzioni che rendono protagoniste le famiglie possono svolgere, in quei contesti così difficili, anche un loro ruolo. Certo, non si possono occupare del cessate il fuoco, però si possono occupare di prevenire le guerre e prevenire il ripetersi di guerre. Qui vicino sappiamo che in Bosnia e Kosovo la situazione è incandescente proprio perché non si è fatta la giusta attenzione ai processi di peacekeeping, cioè di mantenimento della pace. A mio avviso, invece, sta a noi, utilizzando l’esperienza di quelle due donne, che guardandosi negli occhi hanno distrutto tutti i pregiudizi di cui noi siamo consapevoli e tante volte anche protagonisti, semplicemente attraverso il linguaggio del gesto, il linguaggio della maternità, che è uguale per tutti noi e lo si fa nel rispetto dell’identità di ciascuno, senza voler rinunciare alle nostre identità. Soltanto nella consapevolezza che lo stare insieme è una responsabilità che noi dobbiamo rendere gioiosa, perché la famiglia è una responsabilità gioiosa e una responsabilità non è un privilegio, ma è una responsabilità gioiosa. Io sono convinto che, poiché la solitudine è la grande malattia dell’epoca dei nostri giorni, sono le reti di famiglie che aiutano a sconfiggere questa malattia, lo stesso vale nelle situazioni di guerra, perché chiunque, e io ho avuto esperienza di campi profughi, tutte le persone che incontri sanno benissimo che la convivenza pacifica è ciò che a tutti piace, e che l’odio è sempre indotto da chi decide al di fuori della comunità che quelle comunità non devono stare in pace. Noi dobbiamo rendere le nostre comunità forti e non ci dimentichiamo, e concludo, che non sto parlando di un ideale astratto. Sto parlando di un’esperienza concreta. In Europa questo è successo, ed è successo grazie alla capacità di persone uniche che hanno capito che per evitare e prevenire la guerra, la pace la devono fare le comunità e quindi le famiglie, e non gli Stati e i trattati di pace.
Sommacal. Grazie, Vincenzo. Una responsabilità gioiosa che incontra l’altro nella propria fragilità, nei propri limiti, in tutto il mondo. Matteo Fadda, Presidente dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, comunità che è nata proprio qui a Rimini con lo scopo di contrastare la povertà secondo il progetto di Don Oreste Benzi: essere famiglia con chi non ce l’ha. La comunità oggi è presente in tutto il mondo attraverso centinaia di realtà di condivisione, come case famiglia, mense per i poveri, centri di accoglienza, comunità terapeutiche. Opera anche attraverso progetti di emergenza umanitaria e di cooperazione allo sviluppo e dal 2006 siede al Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite. Chiedo a Matteo come la comunità Papa Giovanni XXIII contribuisce alla costruzione di una socialità nuova. Da che cosa è originato e che cosa origina il vostro agire?
Fadda. Grazie, Luca. Leggo per non correre il rischio di essere troppo lungo. L’esperienza della comunità Papa Giovanni parte dalla consapevolezza di ciò che il nostro fondatore Don Oreste, che qui a Rimini conoscete bene, ci ha testimoniato più che a parole, con l’esempio, con la sua grande umanità, la sua benevolenza, e cioè che si può voler bene e fare famiglia con tutti, anche con quelli che la famiglia non ce l’hanno, con la povera gente, coi diseredati. La nostra azione e il nostro impegno sono molto concreti. Le nostre famiglie aprono le porte delle proprie case a quella che noi definiamo “condivisione diretta di vita” con gli scartati. Scelgono di vivere la condivisione nella forma dell’accoglienza dell’altro, mettendo la vita con la vita, 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno, da 50 anni ormai. E condividere sotto il proprio tetto, diciamo noi, nella propria famiglia, con persone che il più delle volte sono messe da parte, ci ha insegnato, ci ha condotto a rinforzare le ginocchia, affidandoci alla preghiera, a sostenerci a vicenda in comunione fraterna, a cercare, se possibile, la sobrietà, mettendo in comune le risorse di ognuno, perché ce n’è a sufficienza per tutti, a camminare insieme come unica famiglia spirituale, a collaborare attivamente con le altre associazioni, gli altri movimenti che si adoperano allo stesso modo. A me piace dire, per lo stesso datore di lavoro. Ricordiamoci sempre del nostro datore di lavoro e non dell’altro datore di lavoro. Nella nostra esperienza abbiamo imparato che aprire la nostra famiglia a chi la famiglia non ce l’ha, come diceva Luca, e sostenere che ogni persona ha diritto ad avere una famiglia è un messaggio che non ha bisogno di essere tradotto nelle diverse lingue, nelle diverse culture. È comprensibile immediatamente, come diceva Vincenzo prima. Questa esperienza del treno, Don Oreste la chiamava “trapianto vitale”. Ci ha insegnato Don Oreste che bisogna cercare di non leggere l’altro, la persona nel suo limite, nella sua condizione di disagio, come ci ha detto bene Mariolina. Il disabile, il detenuto, il tossicodipendente, il clandestino, l’immigrato, la prostituta. Qui a Rimini, alla fine degli anni ’90, c’è stata anche una polemica su questo. Cerchiamo di guardare la persona nella sua originalità e potenzialità e siamo convinti che c’è davvero un disegno di salvezza al quale tutti siamo predestinati a partecipare e del quale, come è già stato detto, siamo tutti corresponsabili. Papa Francesco direbbe, siamo fratelli tutti. Da questa intuizione di Don Oreste nasce quella che è la vera intuizione di Don Oreste per noi e che non riguarda soltanto la comunità Papa Giovanni, ma riguarda la società, e cioè una società nuova. È possibile una società nuova, una società che riporta al centro la persona, che va al passo degli ultimi, come diceva Vincenzo, che è inclusiva, rispettosa della diversità, che fa della diversità il suo punto di forza. Don Oreste la chiamava “società del gratuito”, che non è il gratis. Il gratuito è quello che ci permette di considerare che al centro non c’è il profitto, c’è un’economia di condivisione, al centro c’è una persona coi suoi bisogni e anche coi suoi doveri. La famiglia allargata della comunità Papa Giovanni – per famiglie allargate intendo non soltanto le nostre famiglie accoglienti, le realtà di accoglienza, ma anche le cooperative sociali, i progetti di cooperazione internazionale, la presenza nei luoghi di conflitto – abbiamo imparato che è possibile, e cerchiamo di farlo con i nostri limiti. Per cui le case famiglia diventano sì famiglie, vere famiglie, ma anche un’alternativa valida agli istituti per l’accoglienza delle persone disabili, delle persone fragili. Le cooperative sociali sono vere cooperative sociali che includono, che si propongono di offrire la possibilità di lavoro a chi il lavoro non riesce a svolgerlo. Le comunità terapeutiche si propongono con la condivisione di vita come risposta ai giovani che cercano un senso o anche ai meno giovani. I progetti di missione dimostrano che la società può cambiare partendo dal basso. Don Oreste diceva che nella famiglia che accoglie ci si salva insieme. La corresponsabilità si costruisce su due dimensioni: la rimozione delle cause che generano le ingiustizie, per cui dobbiamo sentirci responsabili, e il sentirsi parte di un progetto missionario, che non vuol dire pensare ai paesi lontani, ma vuol dire essere portatori di una testimonianza, come ci ha ricordato Mariolina. A me piace aggiungere un’altra caratteristica che fa parte del nostro DNA, cristiano, e cioè che il nostro modo di lottare è non violento. Cerchiamo di rimuovere le cause e le ingiustizie di questa società malata non in modo violento, non isolando, confinando con l’emarginazione. Sperimentare il dono di avere una famiglia e di essere un’unica famiglia fa crescere il desiderio di dare una famiglia a tutti e a ciascuno, sia nei nostri territori italiani e europei, sia anche in territori lontani, dove le relazioni sono inaridite da un consumismo che ha consumato tutto, anche le coscienze. Con noi viviamo questa esperienza per cui fare famiglia con tutti contribuisce a far crescere un senso di appartenenza reciproca. Concludo citando il nostro Papa Francesco che ci invita proprio a valorizzare questa caratteristica delle nostre famiglie. Qualche mese fa, ai responsabili del Movimento Equipe di Notre Dame, il Papa ha affidato una missione importante, accompagnare i giovani sposi, perché curando il matrimonio si custodisce la famiglia intera. L’abbiamo sentito anche questa sera. Il mese dopo ero in un cortile a Roma, e ha detto alle famiglie di quel condominio, difendere la famiglia significa garantire il nostro futuro, perché la famiglia è ossigeno per crescere i nostri figli. Ecco, non possiamo sottrarci a questa responsabilità che il nostro Pontefice, ma tutti i Pontefici, ci hanno sempre ricondotto. E io penso che sia venuto il tempo per le nostre famiglie di alzare lo sguardo e di provare a essere seminatori di speranza, come ci ha detto a Verona all’Arena di Pace, sempre Papa Francesco. Per cui tutti noi cristiani, in particolare gli sposi, i genitori, dobbiamo annunciare questa buona novella sulla famiglia, aiutare i giovani a riscoprire che è davvero una buona novella. Il bello del matrimonio, la gioia, la convinzione. Quanto è appagante, gratificante. Certo, le fatiche ci sono, le difficoltà lo sappiamo. Ecco, allora colgo l’esortazione del Papa che Luca ci ha anche ricordato, ricordiamoci che aprire la porta del recinto serve a fare entrare, a fare uscire e a farsi incontrare. Scommettendo sulla famiglia, vinceremo. Grazie.
Sommacal. Grazie Matteo. È possibile, hai detto. È possibile questa creatività di cui parlavamo poco fa, che si esprime nelle forme che voi vivete e proponete. Fabiola, Fabiola Bianchi, con il marito Filippo e la sua famiglia condividono l’esperienza della comunità Papa Giovanni XXIII. E da dieci anni vivono ad Atene, dove hanno appunto una casa famiglia.
Bianchi. Esatto, buonasera a tutti. Noi siamo partiti in missione senza scegliere né il luogo né per quanto tempo saremmo rimasti perché il dove e il quando non ci appartengono, quindi ci siamo affidati a Dio e lasciati portare da Lui attraverso la nostra comunità e il carisma con il quale ci ha chiamati. Sappiamo che è il Signore che sceglie per noi e sappiamo anche che dove Lui ci chiama lì è la nostra pienezza. Quindi la scelta di affidarsi devo dire che ci ha dato molta pace anche nei momenti di dubbio, di ripensamento. Noi in Grecia siamo stranieri, noi stessi, quindi facciamo noi per primi esperienza di essere accolti, e accogliamo a nostra volta persone che arrivano da paesi lontani, quindi con lingue diverse, religioni, ma soprattutto storie e traumi che si intrecciano e a partire dal quotidiano, proprio dall’essenziale, plasmano il nostro modo di essere famiglia. Quello che facciamo è cercare di trovare un equilibrio all’interno di questo microcosmo della nostra famiglia per poi metterlo in relazione con il mondo esterno attraverso la scuola, la sanità, i documenti, la ricerca del lavoro, che in Grecia non è semplicissimo, facendo quindi da mediatori con il popolo all’interno del quale stiamo cercando noi stessi di incarnarci. Ecco, la nostra è un’accoglienza di frontiera: arrivano da noi direttamente dai campi profughi o dalla strada e non ci sono filtri, intercessioni, servizi sociali, rette, niente di niente. Quindi siamo noi, il povero che bussa alla nostra porta e Dio nel mezzo, all’interno del discernimento con la nostra comunità. La maggior parte delle volte riusciamo ad apprezzare la diversità e devo dire che in questo i nostri figli sono molto più avanti di noi, più liberi. E cos’è che succede nella condivisione diretta? Semplicemente il proprio limite, perché di quello si tratta, entra in contatto e si fonde con quello degli altri e si impara che la diversità di cultura, di idee, possono anche convivere. Non manca il conflitto e all’inizio, soprattutto, è difficile per le persone che accogliamo capire che ciò che vogliamo offrire non è un posto letto, non è semplicemente un posto in cui stare, ma di diventare parte veramente della famiglia. Spesso sono diffidenti verso la gratuità e sentono purtroppo molto spesso il bisogno di metterci alla prova. Poi molti di loro non hanno neanche mai avuto una famiglia, comunque ne hanno una concezione diversa rispetto a noi, vengono da storie di abbandono, violenze, vittime di tratta, sfruttamento lavorativo, quindi è chiaro che questo li porta a non fidarsi di nessuno. E arrivare a capire perché li accogliamo o semplicemente perché chiediamo loro di condividere i pasti o momenti di svago sono processi lunghi e si stupiscono quando ci preoccupiamo se fanno tardi magari e li chiamiamo per sapere dove sono. Però quando iniziano a fidarsi e ad abbassare le difese e ad aprirsi con noi, ci fanno un dono immenso. E io penso in particolare ai ragazzini partiti da soli a 12 o 13 anni dall’Afghanistan, dall’Africa, che sono abituati a battersi per sopravvivere e assistiamo proprio a un piccolo miracolo quando questi guerrieri, questo sono, mettono giù l’armatura e tornano ad essere bambini e tirano fuori la voglia di giocare, si legano proprio ai bambini più piccoli della casa perché con loro ritrovano un po’ di pace, rivivono quell’infanzia che gli è stata rubata. Per noi è proprio una meraviglia poter respirare nelle piccole cose di ogni giorno, che ognuno di noi diventa qualcuno quando siamo di qualcuno, quando facciamo quindi l’esperienza di essere scelti. È il senso di appartenenza che ci rende persone. Però per tornare con un passo indietro al tema del conflitto, anche io vorrei riprendere le parole di Papa Francesco all’Arena di Pace dello scorso maggio, perché lì ci ha ricordato che il conflitto è fisiologico, e non va temuto. Quindi posizioni diverse non costituiscono un pericolo se rimaniamo in ricerca del dialogo. Ci ha detto proprio, il dialogo è la vera ricchezza della famiglia e della società. E cosa succede? Se io non temo il conflitto sono portato a cercare il dialogo nel perdono reciproco. Ecco, le persone con cui condividiamo la vita ci mostrano il valore del perdono, ce lo fanno proprio sperimentare. Il perdono nel senso del saper guardare avanti, dell’andare oltre. Perché anche di fronte alle ingiustizie che hanno subito e alle difficoltà che devono affrontare anche ora quotidianamente, la reazione nostra, e mia in particolare, perché mio marito è molto più mite di me, grazie al cielo, la mia in particolare è sempre la prima: sdegno, rabbia. Loro ci insegnano invece il perdono, la pazienza, l’arte del saper aspettare, del sacrificio e quindi la speranza. E noi impariamo molto da loro. Loro sono persone spezzate che provano a fare pace con il loro passato. Però l’esperienza del dolore e delle privazioni li aiuta a guardare la vita in prospettiva ridimensionando i problemi. Noi, da parte nostra, proviamo ad accogliere anche le loro ferite, quindi cercare di donare loro fiducia perché possano ricominciare a sognare un futuro di pace dove l’integrazione vera non sia una parola vuota, ma un modo di vivere in una società che, lo si voglia o no, sarà sempre più mescolata. Andiamo in quella direzione. Chi respinge i poveri respinge la pace, ci ha detto Papa Francesco durante la sua ultima visita alle persone nei campi profughi in Grecia. La nostra famiglia era lì, lo abbiamo ascoltato mentre guardava nei volti queste persone e questi bambini e gli diceva: chi ha paura di voi non vi ha guardato negli occhi. Ecco, io credo che accogliere queste persone significhi accogliere fondamentalmente il loro desiderio di pace. È questo che ci portano in dono. Perché accogliere quel ragazzo solo, quella donna incinta, in fuga da una guerra, magari che ha perso anche tutti lungo la strada, significa accogliere il suo bisogno estremo di pace. Noi, per vivere la non violenza, impariamo da chi la violenza l’ha sperimentata. Paradossalmente impariamo il valore delle cose da chi non le ha e le brama. Impariamo quindi il valore della libertà da chi non ce l’ha, la pace da chi non ce l’ha. Allora, un ragazzo afgano mi ha detto una frase proprio disarmante nella sua semplicità, mi ha detto: essere buona non è abbastanza, tu devi essere felice, ok? Lui apprezza ciò che facciamo per lui, però ci vuole nella gioia, lui ha bisogno di questo. È detto da un ragazzino che ha perso tutto e ha tentato il suicidio in un campo profughi in Grecia all’età di 16 anni, credo che vada preso sul serio. Mi ha confidato che nei momenti di tristezza più cupa anche semplicemente sentirmi parlare dalla sua stanza, magari ridere con qualcuno, gli dà speranza. Quindi io da lui, che è gravemente depresso, imparo il valore della gioia. Ecco, i bambini e i ragazzi migranti che accogliamo in casa famiglia, crescono insieme ai nostri figli naturali condividendo tutto e crediamo che anche per i nostri figli sia un dono la consapevolezza che le persone sono più simili a noi di quanto pensiamo e non importa da dove vengono. Il cuore umano, sappiamo, se non gli mettiamo barriere, sa riconoscere ciò che ci unisce prima di ciò che ci separa e può dilatarsi per fare spazio all’altro con l’empatia che aiuta ad apprezzare ciò che spesso siamo portati a dare per scontato, come un documento in tasca e quindi la possibilità di spostarsi da un paese all’altro, non è così scontato. E ci stupisce anche la resilienza di tante persone che vivono con noi, il loro desiderio di riscatto, di non rimanere intrappolati in un passato svantaggiato ma piuttosto riuscire a cogliere le possibilità che gli vengono offerte. Io su questo mi avvio alla conclusione e vorrei raccontare velocemente la storia di un ragazzino africano che, quando lo abbiamo incontrato, aveva 15 anni e dormiva su una panchina ad Atene. Aveva trascorso un anno di schiavitù in Turchia, era partito con la sorella gemella e un amico d’infanzia. La sorella è stata rapita durante il tragitto, l’amico d’infanzia è annegato, il padre era stato ucciso e la madre lo aveva abbandonato alla nascita ed è in Francia. Quindi una storia, ecco. Ha vissuto in casa famiglia con noi e poi ha ottenuto il ricollocamento in Francia. Finalmente ha ritrovato la madre, che però si è rivelata solo una grandissima delusione, un nuovo abbandono ancora più traumatico. Lui per noi è un figlio e quindi è stato doloroso vedere naufragare così tutte le sue speranze. Fondamentalmente voleva studiare, l’aveva promesso al padre prima che morisse. Allora ne abbiamo parlato con alcuni amici di Comunione e Liberazione che l’hanno preso a cuore ed è nata intorno a lui una rete di persone del movimento da vari paesi europei che lo stanno finanziando per gli studi ma lo aiutano in vari modi, lo ospitano spesso nel fine settimana persone vicine a lui. Lui vuole studiare, sta studiando meccanica aeronautica e ci sono gli amici che lo sostengono in questo. Ecco, è bello raccontarvelo perché è un po’ il segno. Noi lo viviamo come il segno che i poveri ci uniscono e molti di loro ci hanno aperto strade di unità anche con altre comunità, come per la collaborazione per i corridoi umanitari della comunità di Sant’Egidio, grazie ai quali siamo riusciti a mandare in Italia, accolti dalla nostra comunità, tante persone che non riuscivano ad avere un futuro in Grecia. Dico solo che il primo ragazzino che è partito ci ha insegnato che anche il dolore può portare buoni frutti, perché lui aveva una situazione veramente difficile in Grecia, però dopo di lui, lui ci ha fatto aprire gli occhi sulla realtà dei campi profughi sull’isola in Grecia e dopo di lui sono partiti tanti con i corridoi ed è nata anche una presenza fissa di un gruppo di volontari della comunità per sostenere i migranti in Grecia. Nella condivisione diretta noi ci leghiamo a quelle persone che il Signore tramite acrobazie tutte sue ci ha fatto incontrare e ci ha voluto affidare, ma cosa succede a quel punto? Quella persona entra nel tuo cuore e nella tua vita, ma anche tu entri nella sua, ci si salva insieme. E nell’accoglierci a vicenda ci si fa carico di quella determinata situazione che l’altro vive e finché quella situazione di dolore, di ingiustizia continua, noi siamo lì. Ecco, questo è stato l’insegnamento di Don Oreste Benzi per noi. Grazie.
Sommacal. Grazie Fabiola, perché ci hai raccontato, ci hai testimoniato cosa vuol dire saper guardare negli occhi chi incontri e non avere paura di loro. Jean-Luc Moens. La Comunità Emmanuel nasce negli anni ’70 a Parigi, fondata da Pierre Goursat. Ha avuto inizio con un gruppo di preghiera che poi rapidamente è cresciuto e si è diffuso in Francia e in tutto il mondo. La comunità oggi è presente in 60 paesi, conta circa 12.000 membri, tra cui centinaia di sacerdoti e di uomini e donne consacrati nel celibato. La comunità è anche molto presente in Ruanda, di cui quest’anno si celebra il trentesimo anniversario del feroce genocidio che ha travolto il paese tra aprile e luglio 1994. In quel contesto le figure di Cyprien e Daphrose Rugumba, come amici personali e famiglia per cui è in atto un processo di beatificazione, sono state molto significative e hanno generato frutti di pace e di speranza che continuano tuttora. Raccontaci di loro.
Moens. Grazie, mi dispiace se parlerò più lentamente degli altri, perché sono meravigliato dalla maniera in cui hai parlato, per esempio, non posso, perché lo sentite, non parlo l’italiano, sono di lingua francese. Il 7 aprile 1994 a Kigali, il giorno dopo la morte del presidente Habyarimana, la Guardia Presidenziale arriva a casa di Cyprien Rugumba. Prima di entrare, il caposquadra grida: “Allora, Cyprien, sei sempre cristiano?” “Sì”, risponde Cyprien senza esitare. I soldati entrano e pochi minuti dopo sparano a Cyprien, sua moglie Daphrose, e sei dei loro dieci figli, quelli che erano a casa. Oggi è in corso un processo di beatificazione per l’intera famiglia che ha un’immensa influenza sulla pace e la riconciliazione in Ruanda attraverso la Comunità Emmanuel, da loro fondata nel paese. Cyprien Rugamba nasce intorno al 1932 nel sud del Ruanda. È un ragazzo intelligente che va molto bene a scuola. Frequenta il seminario minore e poi il seminario maggiore. E lì, purtroppo, perde la fede leggendo filosofi esistenzialisti. All’università studia la storia e conosce una ragazza di cui si innamora perdutamente, Xaverine. Ma Xaverine viene uccisa durante i disordini etnici del 1963. Cyprien è disperato. Daphrose Mukasanga nasce nel 1944 nella stessa regione di Cyprien. È una cristiana convinta, è parente di Xaverine. Cyprien la incontra e si innamora. Si sposano nel 1965, ma Cyprien rimane legato alla sua prima fidanzata deceduta. In seguito a false accuse contro Daphrose, Cyprien la ripudia per otto mesi. Quando si rende conto che si tratta di una messinscena, riaccoglie Daphrose nella casa coniugale, ma la coppia rimane ferita. Cyprien è un grande intellettuale, è nominato direttore dell’Istituto Nazionale di Ricerca Scientifica in Ruanda. Diventa un grande specialista della lingua del paese, il Kinyarwanda. Si convince che non esistono Hutu o Tutsi, ma solo Ruandesi che condividono la stessa cultura e la stessa lingua. Compone poesie e le mette in musica per diffondere le sue idee. Le sue canzoni hanno un enorme successo, diventa famoso in tutto il Ruanda. Cyprien e Daphrose hanno dieci figli, ma la coppia è in difficoltà. Cyprien si sente colpevole, ma non riesce a chiedere perdono a Daphrose. Un giorno le porta una bambina che ha avuto con un’altra donna, e Daphrose la accoglie come una figlia. Prega per la conversione del marito. Tra il 1980 e 1981, Cyprien si ammala gravemente. Si tratta di una malattia misteriosa: violenti mal di testa, acufeni, disturbi della vista e dell’equilibrio, perde l’appetito, pensa addirittura di morire. Daphrose gli presta cure amorevoli e il cuore di Cyprien comincia ad aprirsi. La situazione è così grave che Cyprien viene inviato in Europa per un trattamento medico. Sull’aereo una canzone sorge in lui: “Questo cielo bianco, bianco come la neve, dove il Re mi aspetta. Se mai sarò chiamato, vi prego di non angosciarvi. Risponderò alla chiamata con gioia ed entrerò in cielo, danzando”. È la prima volta che una canzone sul cielo sorge nel suo cuore. È una guarigione, è una conversione istantanea. Cyprien non è più lo stesso, è di nuovo cristiano, chiede a Daphrose di perdonarlo per tutte le sofferenze che le ha causato. Daphrose lo perdona, la coppia è risorta, d’ora in poi nulla li separerà, il loro amore di coppia risplenderà. Nel 1990, Cyprien e Daphrose danno vita alla comunità dell’Emmanuele in Ruanda. Cyprien diventa più che mai un profeta della pace e della riconciliazione. Ora dice: “Non ci sono Hutu o Tutsi, ci sono solo figli di Dio”. Con Daphrose perdonò gli assassini della loro famiglia durante gli eventi degli anni Sessanta. Nel 1993 l’arcivescovo di Kigali concede alla famiglia Rugamba il permesso di avere il Santissimo Sacramento a casa. La cappella domestica diventa il centro della vita familiare e anche il luogo in cui vengono accolti i numerosi visitatori. Con la giovane Comunità Emmanuel, evangelizzano ovunque: nelle parrocchie e nelle strade. Cyprien e Daphrose testimoniano il perdono come coppia, ascoltandoli molte coppie si riconciliano. È chiaro che il messaggio di pace e riconciliazione di Cyprien Rugamba non piace al governo dell’epoca. Il suo nome è probabilmente su una lista di persone da eliminare. Così, il 7 aprile, i soldati arrivano a casa della famiglia, sparano nel tabernacolo, spargendo le ostie consacrate sul pavimento. Poi uccidono Cyprien, Daphrose e i loro figli. Ma il messaggio di pace e riconciliazione che avevano portato non si esaurì con la loro morte. L’impatto della testimonianza della famiglia Rugamba è immenso in Ruanda. Il loro lavoro viene portato avanti dalla Comunità Emmanuel, che sta facendo un grande lavoro per la pace in un paese che non ha dimenticato gli orrori del genocidio. Ci sono innumerevoli testimonianze di perdono e riconciliazione legate al loro apostolato. Ecco un esempio. Eugenia, che non è il suo vero nome, è Tutsi. E lei odia gli Hutu. Un giorno ha la possibilità di fare una falsa testimonianza contro un Hutu, Deo, e lo invia in prigione. Dopo entra nella Comunità Emmanuel, un giorno davanti al Santissimo fa una preghiera e dice al Signore: “Signore tu sai che voglio confessare tutti i miei peccati, allora se c’è un peccato che ho dimenticato, fammelo sapere”. E immediatamente sente una voce che dice “Deo” e si ricorda. Allora va nella prigione in cui Deo era prigioniero, ma Deo è già liberato. Ma a tutti i prigionieri dice: “Ho fatto una falsa accusa e vengo a chiedere perdono nel nome di tutti i Tutsi che hanno fatto lo stesso di me”. E i prigionieri piangono, ma deve ancora andare dalla famiglia di Deo, e lo fa. E lì, quando ha spiegato la storia, Deo si mette a parlare e dice: “Quando ero in prigione ho pregato davanti al Santissimo e ho chiesto che almeno una persona che ha testimoniato contro di me venga a chiedere perdono, e tu sei venuta e tu hai ricevuto questa cosa davanti al Santissimo come io. Vieni, baciami”. Allora, ci sono tante altre testimonianze. Il processo di canonizzazione di Rugamba si è aperto nel dicembre 2015 e si è chiuso nel settembre 2021. La testimonianza di questa famiglia continua a ispirare molte persone, soprattutto in Ruanda, nel loro impegno per la pace e la riconciliazione. Grazie.
Sommacal. Grazie Jean-Luc per la straordinaria storia che ci hai raccontato di questi tuoi grandi amici. Così come straordinarie sono state anche le testimonianze che abbiamo ascoltato dagli altri nostri ospiti. Ecco, io chiedo a Mariolina e a Vincenzo cosa suggeriscono e cosa indicano come strada le testimonianze che abbiamo ascoltato.
Migliarese. Io pensavo questo mentre ascoltavo, che ognuno di noi ha una sua chiamata, noi la chiamiamo la vocazione, nel senso proprio di una chiamata alla vita per qualche compito, per qualche cosa, che in fondo è quella che è la chiamata per tutti alla Santità, che altro non è che la pienezza dell’umano in ciascuno di noi, la completezza del nostro umano, questa è la Santità. Allora, questa chiamata è diversa per ciascuno, e può passare attraverso vie molto diverse. Per qualcuno è una chiamata a una situazione, per esempio come quella che ci hanno raccontato con le loro testimonianze, o una chiamata così particolare fino al martirio come la famiglia degli amici di cui ci ha parlato. Altre volte la chiamata che noi riceviamo è una chiamata nella normalità del quotidiano che passa attraverso battaglie che magari non hanno modo di essere viste, la battaglia della fedeltà, la battaglia del quotidiano, dell’educazione dei nostri figli, che sembra non avere niente di così eroico, mentre è la nostra personale chiamata se quella incontriamo. Credo che l’importante sia osservare bene le tracce del cammino, quello che ciascuno di noi incontra, quindi non è migliore una vocazione di un’altra. Ho pensato alla bellezza di tutte queste vocazioni, ho pensato alla bellezza di altre vocazioni che incontro nel segreto di famiglie che con fatica mantengono il loro compito giorno dopo giorno, cercando di perdonare, di ripartire, di trovare nel cuore la creatività per rendere la vita degna e bella di essere vissuta, dando una grande testimonianza in un nascondimento che è più difficile vedere. Ho pensato alla bellezza e alla varietà delle vocazioni che la vita offre a noi come famiglie e al fatto che è molto importante condividerle in modo da non fare delle nostre storie delle vocazioni di serie A o di serie B, ma delle vocazioni autenticamente alla santità nella forma che la vita di ciascuno prende nella concretezza di ciò che gli accade. Ecco, questo penso.
Sommacal. Grazie, grazie. Vincenzo.
Bassi. Si è detto prima che la famiglia è un’esperienza privata di interesse generale, è un’espressione questa, a mio avviso, importante perché troppo spesso si ritiene che la famiglia sia solo il luogo degli affetti, la famiglia è molto di più e per dare forza a questa esperienza dobbiamo condividerla. Ripetiamo qual è la malattia della nostra epoca: la solitudine. La solitudine deriva anche da un’illusione di autosufficienza, il consumismo, la voglia di essere indipendenti. Ecco, per riuscire a comunicare all’esterno queste esperienze, noi dobbiamo essere il più possibile in rete. Perché se siamo in rete, riusciamo sicuramente a condividere non solo i problemi, ma anche a essere attrattivi nella bellezza. La bellezza della famiglia è compresa soltanto nel concreto. Quando parlavo prima di lingue locali, nella mia lingua locale, il vastese, non esiste la parola “bellezza”, esiste il “bello”, perché è un’esperienza concreta e questa bellezza la si deve vivere insieme. Penso molto che la riconciliazione e il perdono, così come deve avvenire all’interno delle nostre famiglie, deve poter essere spiegata fuori dalle nostre famiglie e in contesti di guerra addirittura diventa uno strumento per il mantenimento della pace. L’Europa è l’esempio. Noi abbiamo tutti visto, se non l’avete fatto vi invito a farlo, la mostra di De Gasperi. De Gasperi aveva molto ben chiara questa esperienza, l’esperienza di comunità che vivono insieme sulla base di un unico obiettivo. L’idea di De Gasperi era la civitas e non certamente la polis fondata sul 1:15:10 ghenus, ma la civitas intesa come obiettivo comune. Questo è possibile se abbiamo il coraggio di metterci in rete per sconfiggere la solitudine, ma anche per contaminare gli altri. Così si fanno le conversioni. Abbiamo esperienze in tanti paesi, come FAFCE abbiamo visto, dove nel silenzio, come voi della comunità Papa Giovanni XXIII, convertite persone di religioni diverse ma che sono attratte da un’esperienza bella di responsabilità gioiosa.
Sommacal. Grazie, Vincenzo. Vorrei chiedere a Matteo, Fabiola, Jean-Luc, che messaggio finale vi sentite di dare a chi è venuto qui stasera ad ascoltarci?
Fadda. Stavo pensando, soprattutto pensando alla Grecia e al Ruanda, ma quanto davvero queste famiglie cambiano la società, ma le nostre famiglie cambiano la società. Allora io dico, alziamo lo sguardo, ci facciamo una bella iniezione di speranza, e ci diciamo che la famiglia pensata da Dio è la base sicura di questa società, è proprio la base sicura nel senso che i nostri terapeuti psicologi dicono nella costruzione della nostra società. E allora testimoniamola questa base sicura, cioè raccontiamocela, viviamola, ci gioiamo, lo scambiamo anche come esperienza. Io penso con molta semplicità, sono d’accordissimo, senza gare di olimpiadi per l’oro del carisma più bello, che non ci interessa, non dovrebbe interessarci, ma proprio nel sentirci popolo di Dio e quindi anche sapendo che qualcuno si scioglierà come sale. Grazie.
Sommacal. Grazie. Grazie. Fabiola.
Bianchi. Noi stiamo sperimentando, ne parliamo come marito e moglie, su quanto a volte per noi sia più facile accogliere il povero piuttosto che il povero che è dentro di noi e quindi la nostra fragilità e la paura di non essere all’altezza, di non farcela, le fatiche e tutto. A volte veramente è più facile riversarlo verso l’esterno. E quindi è un augurio che faccio a partire da noi, da tutti. C’è una frase di Don Giussani che, grazie agli amici in Grecia di CL, abbiamo avuto modo di conoscere, sulla quale abbiamo avuto modo di riflettere, che dice che non bisogna coltivare progetti di perfezione ma guardare in faccia Cristo. Ecco, in quel momento in cui noi ci stavamo proprio ponendo queste questioni ci ha un po’ aiutato, anche perché l’abbiamo ricollegata con una frase che abbiamo appesa sulla targhetta all’ingresso della nostra casa famiglia, c’è la cappellina, all’ingresso della cappellina della casa famiglia, che dice: “La libertà è alla fine dare mano libera a Dio dentro di noi”. Ecco, in semplicità però nel quotidiano e nell’essenziale, insomma, come ci stiamo facendo.
Sommacal. Jean-Luc
Moens. Direi due cose. La prima cosa è che la famiglia è una scuola di perdono e non c’è pace senza perdono. Ciascuno di noi ha imparato a perdonare in famiglia, con i fratelli, anche con i genitori, perché i genitori non sono perfetti. Dunque è la prima cosa. E dunque così la famiglia costruisce la pace. La seconda cosa è che la famiglia è una scuola di santità. E penso che la santità è la chiave della pace. Se tutti noi fossimo santi, il mondo sarebbe diverso. Penso che dobbiamo credere che le nostre famiglie sono un terreno di santità. Il sacramento del matrimonio è un sacramento per fare santi il marito, la moglie e i figli. Non so se avete pensato che questo sacramento è per la santità di tutti. E ciò che mi ha toccato nella storia dei Rugamba, anche se avete visto che è abbastanza difficile, alla fine il sacramento del matrimonio, attraverso la fedeltà di Daphrose, ha vinto. E ha dato, lo spero che la Chiesa lo riconoscerà, ha dato una vera famiglia santa. E questo è straordinario, è la nostra vocazione. Siamo tutti chiamati alla santità.
Sommacal. Grazie. Io ringrazio di cuore i relatori che ci hanno aiutato a comprendere ancora di più quale sia la sfida della famiglia oggi, che speranza possiamo vivere e portare nel mondo rispondendo semplicemente alle circostanze a cui ciascuno è chiamato a vivere. Attraverso i racconti e le parole che ci avete proposto abbiamo potuto ascoltare di un bene già presente, in qualche modo già vissuto, che si sta vivendo, che rende certo lo sguardo sul futuro e che può essere una promessa per tutti perché, come ci ha ricordato Papa Francesco nella bolla d’indizione per il prossimo giubileo, “tutti sperano, nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene”. Ecco, un bene è una promessa che indicano un cammino affascinante e che noi vogliamo percorrere con amici come voi. Quindi grazie ancora. Vi chiedo ancora qualche minuto di pazienza, leggo qualche avviso. Ognuno di noi può dare un contributo decisivo al Meeting e partecipare attivamente a questa grande avventura umana, la ricerca dell’essenziale. Lungo tutta la Fiera si trovano le postazioni “Dona Ora”, caratterizzate dal cuore rosso. Le donazioni dovranno avvenire unicamente ai desk dedicati, dove i volontari indossano la maglietta rossa “Dona Ora”. C’è un’altra comunicazione importante. In questo particolare momento storico, dove sempre più incognite ci fanno chiedere come è possibile costruire dialogo e pace, non potevamo non sentirci provocati e riaccesi da quanto ci ha detto il Cardinale Pizzaballa nel suo intervento all’incontro inaugurale. Per questa ragione, il Meeting devolverà parte delle donazioni raccolte nel corso di questa settimana per l’emergenza in Terra Santa. Quindi vi chiediamo di donare generosamente. Grazie a tutti e buona serata.