Chi siamo
Ex Oriente lux
Hanno partecipato: Oliver Clèment, Professore all’Istituto San Sergio di Parigi e alla Scuola Cattedrale di Parigi; Julien Ries, Professore emeritodi storia delle religioni all’Università di Lovanio La Nuova.
Ries: Ex Oriente lux. Simbolica e dinamica della luce nei tre monoteismi abramici.
Con lo sguardo rivolto verso la volta celeste, l’uomo ha cercato Dio per millenni. Nella grotta di Lascaux, l’arcobaleno dipinto sulle rocce della caverna collega la terra al cielo. Verso l’anno 8.000 prima della nostra era, a Mureybet sul medio Eufrate, gli uomini usciti dalle grotte e insediati in villaggi rappresentano per la prima volta la divinità: due simboli, la dea e il toro, simboli della vita e della vigoria, della forza. Nel quarto millennio, i Sumeri inventano la scrittura. Il nome della divinità è preceduto da una stella, in quanto la divinità è luce celeste. Il tema dello splendore divino contraddistingue, segna le religioni della Mesopotamia: splendore della divinità, luminosità della sua statua, pennacchio di luce, colore e splendore dei templi e degli abiti liturgici sono caratteristiche e segni del divino. Ed è in questo contesto che troveremo Abramo.
I. Il Dio di Abramo, di Mosè e dei profeti
All’inizio del secondo millennio, Dio si rivela ad Abramo, gli parla, lo accompagna e lo benedice. E’ con lui, si mostra a lui e per lui diventa il Dio della promessa. La luce è un segno che manifesta la presenza di Dio. La volta celeste su cui riposa il suo trono è scintillante come il cristallo, e il salmo 104 recita che la luce è il vestito in cui Dio si avvolge.
Ma Dio non è mai designato come la luce: è il Dio di Israele, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Il Dio che si rivela al suo popolo che ha fatto uscire dall’Egitto per condurlo verso la terra promessa. E’ il Dio dell’alleanza che diventa il Dio nazionale di Israele, potente salvatore legato alla storia del suo popolo. Tutta la rivelazione infatti è legata alla storia del popolo con cui Jahvè ha concluso un’alleanza allo scopo di santificare questo popolo. Diventerà il Dio di uno stato monarchico in quanto il re sarà l’unto di Jahvè, re consacrato al proprio servizio.
Attraverso i profeti Dio parla al suo popolo e al re, per stabilire la salvezza e la pace: shalom. Isaia inizia una grande svolta, quella della santità. Il Dio di Israele è un Dio santo, che esige la santità dei suoi fedeli. Vuole un clero consacrato e un popolo purificato. La legge di santità assumerà un rilievo molto importante nella vita e nel culto particolarmente dopo l’esilio. Il popolo d’Israele vive al centro delle nazioni e delle culture del Vicino Oriente, i cui saggi hanno riflettuto sulla vita umana. Israele elabora la propria saggezza e nel libro della Sapienza (Sap 7, 27-28) questa è applicata all’essenza divina. Effusione della gloria di Dio, la sapienza è un riflesso della luce eterna superiore a qualsiasi luce creata. Così, nella rivelazione dell’Antico Testamento Dio è il creatore della luce, ammantato di luce, e la sua saggezza è luce. Questa luce è un dono divino, una lampada che guida l’uomo, dà luce agli occhi suoi (Sal 13,4), lo conduce verso la gioia di un giorno luminoso (Is 58,10). Isaia annuncia che il popolo che camminava nelle tenebre vedrà una grande luce (Is 9,1; 42,7): è il Dio vivente che illuminerà i suoi. Il suo servitore sarà la luce delle genti. L’annuncio messianico avviene in un contesto di luce.
Con qualche rapida pennellata, ho tracciato la storia della rivelazione monoteista, da Abramo fino a Gesù. Una ventina di secoli durante i quali il Dio unico si è rivelato attraverso i patriarchi, ha formato il popolo dell’Alleanza, posto sotto l’autorità di Mosè, l’ha portato verso una terra e attraverso i profeti l’ha preparato per la sua missione di popolo testimone incaricato di spianare il cammino all’umanità. Cercando di rispondere all’appello di Dio, Israele ha riflettuto sulla sua fedeltà, ma anche sulla natura degli idoli muti, dei popoli vicini: ha lottato contro i Baal cananei e contro i culti solari e lunari. Questa permanente lotta contro gli idoli è stata alla base della proibizione completa della rappresentazione di Dio sotto forme visive. Questa lotta spiega il poco, lo scarso rilievo della simbolica della luce in Israele. Occorreva evitare la confusione fra Dio e la sua creatura, fra il Creatore e il cosmo, fra Dio e la luce, che è la sua opera nell’atto creatore della Genesi (Gn 1, 38).
II. Allah e la luce secondo il Corano
1. L’orientamento coranico – Il profeta Maometto è tributario della Bibbia e del suo messaggio. Predica un Dio unico, creatore, provvidenza della sua creazione, onnipotente, onniscente, vivente e che manda profeti per ricordare la verità primordiale e apportare una legge. L’Islam non riconosce alcuna forma di potere al di fuori del Dio unico, in quanto dopo questo Dio unico il rango più elevato spetta all’uomo, creatura nobile, ma completamente sottomessa al suo creatore. Come nell’Antico Testamento, l’opposizione a qualsiasi forma di idolatria è radicale. Ebbene, l’Islam è nato in Arabia, là dove i culti lunari erano estremamente popolari: “Nur” in arabo significa luna, ma significa anche luce.
2. Un testo importante – La sura 24 ha come titolo “An Nur”: la luce. Il versetto recita: “Allah è la luce dei cieli e della terra; la sua luce assomiglia ad una nicchia in cui si trova una lampada. Questa si trova nel vetro, il cui splendore assomiglia a quello di una stella. La sua luce è accesa grazie all’albero benedetto, un ulivo che non è né dell’Oriente, né dell’Occidente, il cui olio si infiamma al minimo avvicinarsi del fuoco e produce raggi sempre rinascenti. E’ luce su luce. Per essa Allah conduce chi a lui piace. Allah offre parabole agli uomini per istruirli e la sua scienza è infinita”.
In questo testo, la parola “Nur” significa “colui che illumina”. Allah è quindi considerato il Dio che illumina in primo luogo tutto ciò che esiste nei cieli e sulla terra. E’ la fonte di tutte le luci ed è a partire dalla sua essenza luminosa che tutto è impregnato di luce. Un’importante corrente di filosofia e di teologia musulmane è stata creata sulla base di questa interpretezione della creazione, attraverso un Dio che segna la sua creazione con una impronta luminosa.
In secondo luogo, Allah, nur, luce, è colui che mostra alle creature del cielo e della terra la retta via. Egli illumina le menti, gli spiriti: grazie alla sua luce l’uomo non cammina nelle tenebre. Ci troviamo in una applicazione della simbolica lunare. Grazie alla luce della luna, la notte, gli uomini possono spostarsi e trovare la loro strada.
3. Esegesi dell’allegoria – Esegeti coranici si sono sforzati al fine di spiegare gli elementi dell’allegoria. L’esegesi mistica attribuita ad Ibn Arabi ha applicato questa allegoria al processo dell’illuminazione dell’anima del musulmano. Per taluni commentatori, la nicchia rappresenta Abramo, il vetro sarebbe il simbolo di Ismaele e la lucerna rappresenterebbe Maometto. La lucerna è accesa dall’albero benedetto, che è Abramo, l’amico di Dio, né orientale, né occidentale, vale a dire che non era ebreo – costoro dirigono la loro preghiera rivolti verso Occidente – né cristiano, – questi si rivolgevano verso Oriente per pregare. E così Maometto partecipa alla luce divina, è profeta e discendente da profeta. Ha ereditato la profezia di Abramo, “la lucerna è accesa da un albero benedetto”. L’albero benedetto è l’albero della rivelazione.
III. Gesù, verbo, luce e vita
1. Gesù luce – L’evangelista San Luca presenta Gesù come “la luce che deve illuminare le nazioni” (Lc 2,32). “La luce venuta dall’alto per illuminare coloro che siedono nelle tenebre e nell’ombra della morte” (Lc 1,78). E’ nel Vangelo di San Giovanni che il mistero della luce di Cristo prorompe sin dai primi versetti del prologo: “Il Verbo era la vera luce che illumina ogni uomo” (Gv 1,9).
Questi testi sono da leggere nella prospettiva dell’oracolo di Isaia (Is 9,1) che annunciava il Messia come il sol levante che deve illuminare coloro che si trovano nelle tenebre (Is 42,6; 49,6). Nel Vangelo di Giovanni, al capitolo 9, troviamo la guarigione del cieco nato. Prima di compiere il miracolo attraverso il quale rende al cieco la luce, Gesù si proclama la luce del mondo. Questo capitolo IX, d’altra parte, è contraddistinto da due affermazioni solenni identiche. Al capitolo VIII, Gesù dice: “Chi mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12).
Al capitolo XII, nel discorso annunciatore della passione, Gesù sviluppa a lungo il tema della luce: “Mentre avete la luce, credete nella luce onde diveniate figli della luce” (Gv 12,36), poi, evocando Isaia e gli oracoli messianici, rivendica la fede dei discepoli: “Io sono venuto come luce nel mondo, affinché chi crede in me non rimanga nella tenebra” (Gv 12,46).
L’affermazione è chiara, nitida e forte. Non vi è più traccia della timidezza e del timore dell’idolatria riscontrata nell’Antico Testamento. Non vi è alcun pericolo di confusione con le religioni astrali del Vicino Oriente. Nella sua persona, Gesù assume la simbologia della luce, che era fondamentale per l’homo religiosus del Vicino Oriente. Anche Giovanni non esita a utilizzare i simboli della luce per presentare la sintesi del messaggio evangelico nella sua prima lettera: “Ecco il messaggio che da lui abbiamo inteso e che vi annunciamo: Dio è luce” (I Gv 1,5).
2. La gloria di Jahvè manifestata in Gesù – La gloria di Jahvé è un segno dell’Antica Alleanza. Il Nuovo Testamento proclama che questa gloria di Jahvé è presente nel Messia, figlio di Dio, “irradiazione della sua gloria, impronta della sua sostanza” (Eb 1,3).
All’inizio del suo Vangelo, Luca presenta l’angelo Gabriele, portatore della gloria di Dio, che discende su Maria, seguendo l’esempio della chekina (gloria) di Jahvé che riempie il santuario del tempio. Nella natività la gloria del Signore circonda i pastori; nel battesimo di Gesù la gloria accompagna la voce di Dio. Questo tema della gloria di Dio che si manifesta in Gesù corre in filigrana nei Vangeli e si trova nei testi delle lettere di San Paolo. Per Paolo la gloria di Dio risplende sulla faccia di Gesù (2 Cor 4,6) in quanto è il “Signore della gloria” (1 Cor 2,8). Secondo Paolo tutta l’umanità è protesa verso la manifestazione di questa gloria di Cristo (Tito 2,13).
All’indomani della resurrezione di Gesù, si manifesta questa gloria. La prima teologia cristiana si costruisce sulla resurrezione di Gesù, il Cristo è esaltato nella radiosa chiarezza della sua gloria celeste, e ormai siede alla destra del Padre. La gloria conquistata attraverso la risurrezione è il fondamento della fede cristiana e diventa altresì il fondamento della cristologia.
3. La trasfigurazione di Gesù, manifestazione della sua gloria – L’episodio della trasfigurazione di Gesù, raccontata da Matteo e Luca, avviene sul monte Tabor, davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni. La scena segue la confessione della divinità di Gesù fatta da Pietro a Cesarea, manifestazione della fede degli Apostoli nella messianicità del loro maestro. Questa scena fa scintillare la luce divina davanti agli Apostoli. Due tratti vengono sottolineati: innanzitutto, gli abiti hanno un candore estremo (Mc 9,3), e poi il viso di Gesù risplendente “brilla come il sole” (Mt 17,3). Luca riprende questi due tratti, come indici significativi della gloria del Messia. La nube luminosa che si manifesta è un’allusione al contempo all’Esodo, durante l’uscita dall’Egitto, e al tempio di Gerusalemme. Nei due casi, la nube luminosa era il segno della presenza di Dio. Mosè ed Elia sono due simboli dell’imminenza dell’età messianica.
La trasfigurazione di Gesù costituisce un apice della sua rivelazione; fa sgorgare la gloria divina di cui è portatore ed illumina il suo mistero. Il Tabor prende il posto del Sinai. Il viso di Mosè era diventato luminoso perché era il riflesso della luce di Dio, invece il viso di Gesù e tutto il suo corpo sono luminosi perché Gesù è manifestazione pura della divinità. E’ la luce della Nuova Alleanza, preludio della Risurrezione, icona del Padre delle luci. “Chi ha visto me – dice Gesù – ha visto il Padre”.
4. Nuovo Testamento e prospettive cristiane – Manifestazione della gloria di Dio, Gesù è il Messia, è luce per gli uomini e rivela Dio luce. Tutta la simbolica delle religioni orientali è assunta, ripresa e superata attraverso una prospettiva unica e trascendente. La trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor annuncia la gloria della risurrezione, che consacrerà la manifestazione gloriosa di Cristo. Il giorno della Pentecoste la manifestazione dello Spirito Santo sotto forma di lingua di fuoco confermerà la rivelazione di un Dio unico in tre persone, luce per gli uomini.
Sin dal primo annuncio del messaggio cristiano, la prospettiva “vita-verità-luce” è chiara. Ai suoi discepoli, Gesù ha chiesto di diventare figli della luce (Gv 12, 35-36). Così, all’alba dell’epoca dei Padri della Chiesa, il battesimo è chiamato “photismos”, illuminazione, perché dà luce all’uomo nuovo e gli consente di ricevere i doni celesti dello Spirito Santo: parola di Dio, partecipazione alla vita divina dispensata dallo Spirito, illuminazione interiore dell’essere attraverso il mistero della salvezza. Sacramento della fede, il battesimo è anche sacramento di luce. Allo stesso modo, il mistero pasquale con la celebrazione del fuoco nuovo fa sgorgare il mistero della luce, che relega in secondo piano tutti i culti antichi del fuoco, perché celebra la presenza di Cristo, luce al centro della sua Chiesa. I primi secoli cristiani hanno sviluppato una simbologia molto ricca della luce nella liturgia pasquale, nel cero pasquale, nella luce del lucernare, “phos ilaron”, luce gioiosa della celebrazione della sera, la processione con il cero in mano durante i funerali. Anche la visione della morte diventa una visione di luce.
Sintesi
La luce sgorga da Oriente. L’homo religiosus del Vicino Oriente e della Mesopotamia era impressionato dalla luce. Non solo attraverso la luce scopriva il mistero della trascendenza divina, ma l’impronta della luce ha segnato le culture. Con Abramo inizia la rivelazione del Dio unico. Dai Patriarchi a Mosé e ai Profeti, la rivelazione biblica presenta il Dio unico come il liberatore e il salvatore del suo popolo, come l’autore e il creatore della luce, ma la Bibbia rifiuta l’adorazione degli astri. Creatura di Dio, la luce impregna le sue vesti e manifesta la sua presenza nella nube dell’Esodo e nel Tempio. E’ un elemento della teofania. Nel libro della Sapienza (7,27) si rivela come riflesso della luce eterna. La rivelazione coranica segue la Bibbia e fornisce pochi dettagli sulla luce divina. Come la Bibbia, il Corano si oppone ai culti lunari e solari. Solo la sura 24, versetto 35, proclama Allah “luce dei cieli e della terra”.
La rivelazione cristiana è immersa nella luce: Gesù è luce, rivela il Dio che è luce; in Lui si manifesta la gloria del Padre e con il Padre, nella Pentecoste, invia lo Spirito, “fuoco e luce”. A partire da questa rivelazione, assistiamo al dispiegarsi straordinario della luce: Gesù luce, attraverso la verità e la vita. Luce degli uomini, simboleggiata dalla guarigione dei ciechi, manifestazione messianica scintillante durante la trasfigurazione, manifestazione definitiva nella risurrezione e nell’ascensione. Il Vangelo diventa luce, il Battesimo è il sacramento dell’illuminazione, la liturgia pasquale sarà al centro dello sviluppo del culto cristiano in cui Cristo via, verità e luce è celebrato al centro della sua Chiesa. La liturgia, le basiliche e più tardi le icone saranno elementi propulsori dell’esperienza cristiana della luce che diventerà una vera e propria dinamica della cultura cristiana.
Olivier Clément, professore all’Istituto San Sergio di Parigi e alla Scuola Cattedrale di Parigi
Clément: I Padri della Chiesa tra l’Occidente e gli Orienti.
In uno dei suoi suggestivi, se pur discutibili schemi, scriveva Soloviev: “La cultura orientale si basa sulla sottomissione in ogni cosa ad una forza più che umana. La cultura occidentale invece si basa sull’iniziativa dell’uomo stesso nel suo agire”. Divinismo, potremmo dire, e umanismo, terre ove il sole divino si leva (è il senso del latino oriens), terre ove tramonta e dove muoiono gli dei (è il senso del latino occidens).
Ora, il Cristianesimo professa la fede nel Dio fatto uomo. Il Cristianesimo è dunque rivelazione della verità di Dio e della verità dell’uomo, inseparabilmente. Il Cristianesimo non è dunque d’Oriente né d’Occidente, neanche i Padri del primo millenio sono d’Oriente o d’Occidente. Talvolta, ed è questa una delle ragioni che li rendono così importanti per noi, essi compiono, nello Spirito Santo, la sintesi di queste due impostazioni. Concretamente, si incontrano il genio greco, indo-europeo, il genio bibblico, semitico, e il sincretismo religioso del Medio Oriente. Beninteso, parlerò soprattuttto dei Padri cosiddetti greci, in realtà egiziani, siro-palestinesi e della Cappadocia, nonché dei Padri siriaci. Con il grande Sant’Agostino poi, padre dell’Occidente, come è stato detto, si inaugura un’altra sensibilità spirituale, ma sarebbe tutt’altro argomento.
Come ognuno sa, dal punto di vista spirituale, l’umanità si divide in due ampi emisferi: quello derivato dall’India, ove infine tutto si risolve nel divino, e quello semitico, ove Dio si trova in cielo e l’uomo sulla terra, senza che vi siano vere possibilità di unione, salvo che in certi esoterismi, che finiscono per scivolare vuoi verso la visione indiana, vuoi verso la mistica cristiana. Tanto più che i neoplatonici hanno lasciato una traccia profonda nella spiritualità di queste tre tradizioni abramiche.
Il Cristianesimo unisce cielo e terra, Dio e l’uomo senza separazione e senza confusione. E’ questo, a parer mio, il messaggio dei padri. Costretto alla brevità trascurerò quasi del tutto l’Ebraismo e l’Islam. Per riferirmi all’Oriente parlerò soprattutto dell’India.
Per riferirmi all’Occidente, parlerò soprattutto del Cristianesimo occidentale e della sensibilità culturale che ha evocato. Organizzerò il mio discorso intorno a tre argomenti: il cuore, il simbolo, la luce. Il cuore, e cioè la persona; il simbolo, cioè il cosmo; la luce, cioè l’unione mistica. Dato che si tratta di tradizioni consolidate, che in parte sfidano il tempo, non mi atterrò al rigore cronologico.
1. Il cuore
L’Occidente, compreso nella maggior parte dei casi il Cristianesimo occidentale, interpreta il cuore come il sito – o il segno – ove si trova l’affettività, la sensibilità. Così inteso il cuore si oppone all’intelletto. L’Oriente, o meglio, gli Orienti vedono nel cuore il plesso più centrale dell’uomo, ove debbono armonizzarsi e unificarsi tutte le sue facoltà per accogliere il mistero, per aprirsi alla trascendenza. Il cuore, dopo lunga ascesi purificatrice, diventa un cielo interiore, più ampio ancora degli spazi cosmici, poiché Dio lo colma con la sua presenza. Sant’Isacco il Siriaco, un arabo cristiano del VII secolo, scriveva: “La contrada spirituale dell’uomo dal cuore purificato è dentro di lui”. Egli si sorprende dalla bellezza che vede in sé, cento volte più luminosa dello splendore solare. Si tratta (qui il nostro autore cita il Vangelo), “del regno di Dio nascosto in voi”.
Per i Padri il cuore costituisce l’essenza della vera conoscenza, di cui l’intelligenza è l’energia. La loro dissociazione sta a definire il nostro stato di caduta. E’ necessario unire in Cristo questa energia alla sua essenza, unire intelligenza e cuore, ricostituire l’unità del “cuore-intelligente”, del “cuore-spirito”. “Cosa è la conoscenza?” chiede ancora Isacco il Siriano. Egli risponde: “Il senso della vita immortale”. “Cos’è la vita immortale?” “Sentire tutto in Dio. Per il cuore che la riceve, la vita immortale è dolcezza che si riversa sulla terra, poiché nulla c’é di simile alla dolcezza della conoscenza di Dio”. In una omelia macariana udiamo che lo spirito sta nel cuore dell’uomo santificato come la pupilla nell’occhio, così il cuore contiene l’universo intero. Il cuore dell’uomo santificato diventa un altare cosmico: “Per l’uomo che prega nel suo cuore il mondo intero è Chiesa”.
Ed ora la testimonianza dell’India. Secondo le Upanishads più antiche, il divino dimora nel cuore di tutti gli esseri sotto forma del loro vero sé. E’ sede dell’Atman, cioè, nell’accezione originale, del soffio divino. Questo Atman infinito, che è Saggezza, si trova nell’etere, al centro del cuore. Questo viene concepito come un fiore di loto rovesciato. Il loto in India è simbolo del sole divino, della bellezza divina. L’induista non ha possibilità di consacrare al divino un altare migliore del suo stesso cuore di luce, penetrato di infinito e che risplende dei raggi del sole che si trova oltre il sole.
Leggiamo: “Esiste al centro del corpo un piccolo loto liberato dalla presa del male, è la dimora del Supremo, risplende di una luce aurea”. Tra i Sufi, rappresentanti dell’alta mistica musulmana, spesso lacerato intermediario tra i due universi spirituali di cui parlavo poc’anzi, si sottolinea il cuore “circonciso” dall’ispirazione divina. “La vera circoncisione è quella del cuore” diceva San Paolo e nel Corano vediamo la descrizione del cuore circonciso come torcia infuocata. “Il cuore”, recita il Corano, è il luogo del segreto divino, è così che l’uomo può portare il peso del Segreto dell’Amore, del segreto del disegno divino che persino gli angeli ignorano” (qui potremmo riconoscere un accento di San Paolo). Hallaj, il grande sufi cristico, esclamava: “I nostri cuori nel loro segreto sono un’unica vergine, ove penetra la presenza del Signore per esservi concepita”. E’ nel cuore che “scende lo Spirito”, dice ancora il Corano, perché il cuore è specchio di contemplazione secondo i profeti ai quali Dio ha aperto il petto. Il grande poema di Abdalarim Jili sul profeta comincia con queste parole: “Un cuore ove si è levato il sole dell’amore”.
Nella mistica ebraica è da osservare l’assimilazione del cuore infuocato al “carro di fuoco” nel quale fu elevato Elia. Ci atterremo a questo semplice cenno del cuore come “carro di fuoco” ed infine come “trono” della divinità. Così il cuore – spirito, punto di incontro della presenza divina, trascende e unisce vita affettiva e pensiero logico in una conoscenza-amore cui l’uomo partecipa nella sua interezza, corpo compreso, ma che consuma ogni sentimentalismo. Anche la mistica d’Occidente associa al cuore la più alta forma d’orazione, ma questa non è l’”orazione dello spirito”, bensì l’”orazione affettiva”, in modo tale che l’intelligenza viene come respinta nel cervello, limitata dalla vita spirituale o ridotta al ruolo secondario di “orazione mentale”. La devozione al Sacro Cuore di Gesù – su cui bisognerebbe riflettere – ha assunto una risonanza eminentemente sentimentale.
Se tralasciassimo un problema importante che ci si pone alla fine di queste purtroppo brevi noterelle, correremmo il rischio di cadere nel sincretismo. Il cuore è forse un luogo nuziale ove si incontrano personalmente il Dio vivo e l’uomo sua immagine o è forse il luogo ove la persona si risolve in una immensità anonima? Mentre nell’India arcaica atman, come già dicevamo, significa “soffio”, nell’India passata ormai dalla mitologia dei numi alla metafisica, atman significa il sé e il sé è identico in tutti gli esseri. Il “liberato vivente” non ama se stesso, non ama gli altri, egli è il Sé di se stesso e degli altri: “Io sono lo stesso in tutti gli esseri e non ne amo nessuno e non odio nessuno” dice la Bhagavad Gita, “perché non c’è né me né te, ma solo il Sé unico, e se si ama, o se si crede di amare, è per l’amore del Sé”. Anche il Buddha altro non dice, pur sotto forma negativa, che quanto abbiamo appena asserito, perché secondo il Buddha non esistono esseri, ma solo “insiemi” effimeri.
L’originalità dei Padri è quella di evitare tanto l’impersonalismo degli Orienti lontani quanto l’individualismo che verrà sviluppato nell’Occidente moderno. I Padri hanno sviluppato la nozione di persona, prendendo le mosse dalla nozione di persona divina, del Mistero dell’uni-trinità, unità assoluta che coincide con l’assoluta diversità. La persona è chiamata a realizzare la sua differenza nella comunione integrale del Corpo di Cristo. A immagine della Persona divina, di cui lo stesso essere è comunione, la persona umana, per dirla come Dionigi l’Areopagita, può essere suggerita come Segreto e come amore. “Relatio” dirà, seguendo la stessa linea, San Tommaso d’Aquino, il quale non accettava la definizione di Boezio secondo cui la persona è “sostanza individuale di una natura razionale”.
“Segreto sovraessenziale”, la persona è inconcettualizzabile, non può avere altra definizione che essere indefinibile. Rivelandosi nell’amore, essa tenta di darsi un contenuto infinito, di assumere l’intera umanità, di portare in sé tutte le altre persone. Siamo davanti all’unità del particolare e dell’universale, allo stesso mistero della Trinità, che lo Spirito comunica all’uomo cristificandolo.
Assistiamo dunque forse alla irriducibile opposizione fra l’impostazione indiana e quella del cristianesimo? Non credo. Il Cristo ingloba, approfondisce, trasfigura. Le negazioni dell’India strappano maschere, mutano pelli, consumano personaggi nevrotici. Ma infine, cosa, o meglio chi ritroviamo? Il nulla, forse, della non dualità del Nirvana, il nulla, se così vogliamo chiamarlo, del mistero della persona in una fusione senza confusione? Di questa dualità amante, che è il gioiello del Cristianesimo, il Bhakti Indù che è la via dell’amore, o ancora l’aneidismo giapponese, che è una sorta di fede e di grazia, sembrano avere il chiaro presentimento. Nelle sue Memorie, pubblicate nel 1917 a Mosca e tradotte poi in molte lingue occidentali, il “Missionario in Siberia” narra come egli avesse imparato in alta Asia a conoscere, amare ed ammirare i buddisti, fino al punto che, egli dice, esitava a battezzarli. Il ruolo dei cristiani, egli afferma, è quello quello di condurre i saggi buddisti, sprofondati a occhi chiusi in una interiorità pura, ad aprire gli occhi per vedere l’altro, il prossimo, pur rimanendo profondamente radicati nell’Uno, nell’Unità”.
II. Simboli
Il cristianesimo, occidentale o orientale, sottolinea la realtà propria dell’universo creato. L’universo sorge come nuovo dalla volontà divina, “armonia musicale”, inno meravigliosamente composto, diceva San Gregorio di Nissa. I Padri greci e siriaci, tuttavia, con un orientamento più orientale, rifiutano di ammettere qualsiasi opacità del mondo sensibile. Per essi la “gloria di Dio”, la sua “grazia increata”, le sue “energie”, sono alla radice delle cose. Ogni essere è suscitato, è condotto da una parola del Verbo, da un logos del Logos. Il Logos è come un sole di cui ogni raggio penetra e anima un essere o una cosa e l’uomo è chiamato a decifrare questi logoi per offrirli al Verbo e per ripristinare tra cielo e terra la grande circolazione della Gloria.
Si impongono qui alcuni confronti: con la Cabala, tradizione mistica dell’ebraismo, che nella profondità delle parole ebraiche riscontra le radici spirituali degli esseri e chiede all’uomo pio di liberare le scintille della Shekirah, della Presenza, esiliate nella apparente sufficienza del mondo; con la ricerca delle “tracce” di Dio nell’Islam; con la filosofia del linguaggio che si fa in India, distinguendo le parole-germe che strutturano l’universo dalle parole che si riducono invece a suoni di utilità superficiale; con la sorpresa, il buddismo giapponese e anche cinese (come prova l’arte), che è una specie di illuminazione, davanti allo “ah delle cose!” (Claudel, quando era ambasciatore in Giappone, traduceva questo “ah! delle cose” con “Aità”).
Tra i Padri greci e siriaci, la contemplazione comporta una fase detta della contemplazione della natura, visione “della gloria di Dio che si nasconde negli esseri”. Si tratta, secondo Massimo il Confessore, di “accogliere le epifanie (cioè le manifestazioni), del divino”, potremmo dire la transapparizione del divino.
Ed ecco che quindi il mondo, secondo l’espressione di Sant’Efrem di Siria, appare come “un oceano di simboli”. Originalmente, simbolo significa anello; nell’antichità due amici al momento di separarsi spezzavano un’anello per prenderne ognuno la metà. Queste due metà, una volta riavvicinate, avrebbero poi potuto servire come segno di riconoscimento. Il simbolo è dunque un segno di riconoscimento tra il cielo e la terra, tra Dio e l’uomo attraverso il cosmo. Per citare uno dei nostri Padri: “Ecco il non differenziato nelle cose differenziate, il non composto nelle cose composte, ciò che è senza inizio fra le cose sottoposte all’inizio, l’invisibile tra le cose visibili. Così egli ci riunisce in sé, partendo da ogni cosa”.
La conoscenza simbolica svela come verticalmente il mistero nelle cose, la gloria di Dio che non può essere compresa, ma che alla comprensione sorpresa si rivela (ricordiamo l’importanza che assume nella Bibbia il verbo éloah = ammirare). Conoscenza di luce e di bellezza, evidente in una “emozione” di tutto l’essere, semplice come una “sensazione”, pertanto sensazione di Dio, dicono i Padri. Il cuore-spirito diventa un “occhio di fuoco”, una dimora di luce che raggiunge la luce segreta delle cose, “questo fuoco ineffabile e prodigioso nascosto nelle cose, come nel roveto ardente”. In questa luce l’uomo comunica con le cose, con il mondo, o meglio, grazie alla loro mediazione, comunica col Verbo che vi si esprime.
Questa esperienza, nonché quella dell’arte poetica induista o del sorriso del Buddha che contempla un fiore, si ritrova, in modo non certo sistematico, più sporadico, nel Cristianesimo occidentale. Il pensiero vola immediatamente a San Francesco d’Assisi, anche se, bisogna ammetterlo, San Tommaso d’Aquino più aristotelicamente, in modo più sostanzialista ha avuto la meglio nella chiesa latina su San Bonaventura, il quale tentava di teorizzare le intuizioni di San Francesco (almeno fino al grande libro di De Lubac Surnaturel). Quasi dovunque, in questi nostri tempi che con la bestemmia e la derisione cercano nuovi nomi per il mistero, poeti, pittori, musicisti, scienziati, hanno sbozzato questa conoscenza simbolica. Un grande pittore come Klee disse che bisogna “procedere fintantoché si rivelerà il mistero”. Il simbolismo della lingua uccelli è universale, da Francesco d’Assisi alla mistica iraniana e ai “concili di uccelli”, di cui parla il poema tibetano intitolato La preziosa ghirlanda della legge degli uccelli; ai nostri giorni esso si ritrova nella musica di Olivier Messiaen. L’uccello ricorda l’angelo e l’angelo è al servizio della conoscenza “verticale”, conoscenza simbolica degli esseri, della loro apertura al “celeste”. Il canto degli uccelli e le risa dei bimbi sono tutto ciò che ci resta del paradiso, diceva Dostojevskij.
Da tutto ciò deriva una convergenza fondamentale tra la spiritualità dell’età patristica e quella degli “orienti”. Si tratta del tema, così ben valorizzato da Mircea Eliade, del ritorno al Paradiso.
Il monaco dell’Oriente cristiano, così come gli spirituali del Tibet, dell’India, dell’Estremo Oriente, cerca di ritrovare la condizione originaria dell’uomo, quando cielo e terra comunicavano tra loro, quando la violenza e il divorarsi reciproco, dovuti all’esteriorità e alla paura, non esistevano. Il monaco induista passa senza timore vicino alle tigri, il monaco siriano-ciriaco dice che le belve più assassine si quietano al suo fianco, “perché sentono provenire da lui lo stesso profumo che aveva Adamo prima della caduta”.
Ecco perché nei padri siriaci troviamo una carità cosmica “che ricorda la compassione buddista”. “Il cuore che compatisce”, dice Isacco di Siria, “arde per tutta la creazione, per gli uomini, per le belve del cielo e della terra, per i demoni, per tutte le creature (…). La sua compassione è così forte e così intensa che il suo cuore si spezza nell’assistere al male e alla sofferenza (…). Egli prega anche per i serpenti nell’immensa compassione che sorge dal suo cuore senza misura ad immagine di Dio”.
Ciò detto, e andava detto, balzano agli occhi differenze o sfasamenti rilevanti.
Per gli orienti, infatti, come per le religioni arcaiche, l’uomo riassume l’universo, egli è un piccolo universo, un microcosmo, e ottiene la salvezza, facendosi cosmo. Grazie alla mediazione del cosmo sacro, immensa matrice, Magna Mater, egli confluisce nel divino, di cui il mondo non è altro che una manifestazione illusoria quanto ludica, un “gioco divino”, lilâ, come si dice in India. Per i Padri l’uomo, persona unica, irriducibile, a immagine di Dio e per la sua somiglianza, supera il cosmo non per allontanarsene, ma per decifrarvi la saggezza divina, per salvarlo (è l’uomo a salvare il mondo, l’uomo in Cristo, e non viceversa) e per comunicargli la grazia “personalizzandolo”, assumendolo nella comunione degli uomini tra gli uomini e nella loro comunione con Dio.
Microcosmo, certamente, ma soprattutto macrocosmo, grande universo, maggiore dell’universo. Anche San Massimo il Confessore parla del mondo come di “un gioco divino”, ma questo gioco è una liturgia, liturgia cosmica ove l’uomo fa del suo corpo una navata, della sua anima il santuario entro cui offrire a Dio i logoi dell’universo. Il tutto, qui, viene salvato ad opera del tu. Dirò di più: se gli Orienti insistono nell’affermare l’unità, il tutto appunto, il mondo come condensazione del divino chiamata a dissolversi in esso, un Dionigi l’Areopagita può affermare che non solo l’unità ma anche la differenza proviene da Dio, e il nome, perché l’Incarnazione del Verbo diffonde nel mondo l’antinomia trinitaria dell’Unità-Alterità. La Risurrezione, dice Dionigi, preserva in eterno la figura unica di ogni creatura: “il loro essere per intero sarà salvato e vivrà appieno per sempre”. Ci troviamo ben lungi qui dagli “aggregati non permanenti” del Buddismo. Ecco perché i Padri attribuiscono una grande importanza alla ragione e alla storia.
III. La luce
Desidero concludere con ciò che ci ha portato a cominciare: la luce. Per i Padri, come del resto per gli orienti (in India mi riferisco soprattutto al Vedanta), ci si accosta al mistero per passi negativi, non si dice ciò che è, ma ciò che non è, e ciò che viene chiamato l’elevazione. Dio, secondo Dionigi l’Areopagita, è oltre tutto ciò che è. Dio è anche oltre l’essere e la nozione stessa di divinità. Se ci si vuole elevare verso Dio bisogna liberarsi da ogni immagine, da ogni nozione del mondo ove si è visti e si vede. Neti, neti si legge nel Vedanta, “non è questo, non è quello”, e nel Buddismo originale l’accostarsi al nirvana è anch’esso totalmente negativo. Questa elevazione, queste negazioni non costituiscono un gioco dell’intelletto, esse pretendono invece un combattimento interiore, una ascesi di spogliazione e di concentrazione.
Nella vita monastica, che è portatrice e nutrimento del pensiero patristico, troviamo “l’arte delle arti e la scienza delle scienze” della tradizione detta “esicasta” (parola di origine greca: hésychia significa silenzio, pace, dolcezza dell’unione con Dio). Questa tradizione si avvale di tecniche psicosomatiche, un metodo che si può accostare a certi aspetti dello yoga, soprattutto lo japa–yoga o il dhikr musulmano. Vorrei insistere soprattutto sulle convergenze che si riconoscono tra il metodo esicasta e lo yoga (yoga inteso come ricerca spirituale e non ginnastica rappacificante, come lo si pratica maggiormente oggi in Occidente). Da ambo le parti vengono raccomandate alcune posizioni, le asanas dello yoga di ripiegamento e di concentrazione, o la posizione arrotolata dell’esicasmo. Così come da ambo le parti ci si avvale di una invocazione breve ripetuta senza sosta, il mantra degli induisti che deve contenere il nome di una divinità, o il nome di Gesù nell’esicasmo. In entrambe le parti si utilizzano i grandi ritmi del corpo: il respiro o il battito cardiaco. Lo yoga cerca di controllare il respiro, l’esicasmo invece lo offre e entrambi sanno come rallentarlo e come trattenerlo. Da entrambe le parti ci si concentra mentalmente sulla zona del cuore e si cerca di metamorfizzare l’energia psichica bloccata nelle passioni, si cerca soprattutto di eliminare ogni immagine e ogni pensiero, buoni o cattivi che siano, per arrivare ad una “nudità” completa e ad una totale trasparenza dell’intelletto, unito al cuore. Ovunque troviamo che questa interiorizzazione metodica porta ad una esperienza di luce. Evagro ci parla della luce interiore che rende d’un tratto l’intelletto trasparente, luce colore di zaffiro, vero cielo interiore. “Luce senza forma”, avvertono i siriaci, e ci parlano dell’ingresso nella regione della limpidezza. “Ecco la gioia che colma il cuore purificato, scrive Gregorio di Nissa, egli osserva la sua stessa trasparenza”.
Le upanishads parlano di una luce nel cuore e il Buddismo del Grande Veicolo della “chiara luce detta Vuoto Universale”. Tchouang-Tseu, il grande spirituale taoista cinese, rileva che “quando si è raggiunta la tranquillità estrema, si irradia luce celeste. Chi ha sviluppato questa Luce celeste, vede l’Uomo interiore. Questa luce penetra l’essere intero, compreso il corpo, e si irradia. Si può qui ricordare l’episodio prodigioso della trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor, trasfigurazione che si ritrova anche in certi santi, come Serafino di Sarov. Possiamo accostare questo episodio anche all’XI capitolo della Bhagavad–Gitâ dove Krishna si rivela in forma ignea, “brillando” come il chiarore della fiamma e del sole, immenso. La Vita di S. Simeone, il nuovo teologo, mistico bizantino dell’inizio dell’XI secolo, ci parla di una luce che diventava simile a quella del sole nello splendore del mezzogiorno. Simeone s’accorse di trovarsi al centro di questa luce, la vide unirsi incredibilmente alle sue carni ed invadere a poco a poco tutto il suo corpo, il suo cuore, le sue viscere, trasformandolo in fuoco e luce. L’aureola, che non è un semplice segno di santità, una semplice indicazione, ma una sezione nella sfera di luce che avvolge la testa dell’uomo deificato, si ritrova tanto sulle icone, quanto nell’arte buddista. In Asia centrale, il Buddha e i suoi santi sono stati rappresentati avvolti di fiamme, e nelle regioni vicine, le miniature musulmane hanno raffigurato allo stesso modo il profeta.
L’interpretazione della luce, tuttavia, differisce profondamente nella tradizione patristica e nella tradizione dell’Asia mistica. Per queste, si finisce per sparire nella luce, si confluisce in essa senza lasciare traccia. Per i Padri “l’oceano della luce” (espressione siriaca) “si irradia da un Volto, quello di Cristo”. Penso che la Trasfigurazione ci trasmetta il senso profondo (che noi cristiani dovremo testimoniare) di tutte queste esperienze di luce. In questa prospettiva che il Sé, che si identifica con la luce interiore, deve passare attraverso la morte, affinché l’Altro, il Tu, vi prenda dimora. Il Sé non è il tutto, o meglio non lo è se non in rapporto con il Tu.
“L’intelletto, dice Massimo il Confessore, muore all’apice della preghiera perché se non morisse di questa morte, non potrebbe mai vivere in Dio”. L’intelletto, rinunciando al suo splendore cristallino, passa per la tomba nuziale del “santo” per rinascere nella luce pasquale. Si trova creato, ricreato nella chiamata e nell’incontro. La conoscenza qui diventa amore, seguendo un percorso inverso a quello stabilito dal Vedanta. Entra negli spazi trinitari, e quanto più si colma di luce, tanto più tende alla fonte stessa della luce, sempre raggiunta e mai raggiunta.
Secondo la formula famosa di Gregorio di Nissa, va “di inizio in inizio attraverso inizi senza fine”. E’ la legge della conoscenza cristiana: più conosco, più ci sono cose sconosciute; più conosco Dio, più conosco l’altro, più sono meravigliosamente a me sconosciuti.
Ciò che i Padri hanno fatto nell’ambito del mondo mediterraneo e medio orientale, a noi spetta, penetrandoci del loro spirito, compierlo oggi su scala planetaria. Il confronto di un’Islam e di un Occidente entrambi spiritualmente indeboliti, cioè di un Dio pensato contro l’uomo, e di un uomo pensato contro Dio, ma questo dio e questo uomo sono delle caricature; la penetrazione, discreta ma intensa, del buddhismo nella intellighenzia europea, che confonde la persona e l’individuo e crede che il Dio vive in ogni specie di individuo nel cielo, e preferisce le immagini oceaniche del divino; la moltiplicazione, sotto il segno di una “nuova età”, di sincretismi che confusamente e narcisisticamente, senza saperli articolare, mescolano brandelli di umanismo e brandelli di divinismo e viceversa; l’esigenza sempre maggiore di una poetica delle cose e di una poetica dei volti; tutti questi segni e molti altri ancora richiamano al divinoumanesimo di un cristianesimo integrale. Sito dello Spirito e della libertà creatrice. Ovunque il sole tramonta e ovunque si leva, non c’è più né Oriente né Occidente, ma solamente il Dio che si fa uomo affinché l’uomo possa diventare Dio, e cioè pienamente uomo.