Chi siamo
EUROPA: UNA, NESSUNA, CENTOMILA
Europa: una, nessuna, centomila
Partecipano: Mario Mauro, Capo Delegazione del PdL al Parlamento Europeo; Luís Miguel Poiares Maduro, Director of the Global Governance Programme, European University Institute; Antonio Tajani, Vicepresidente della Commissione Europea, Commissario Responsabile per l’Industria e l’Imprenditoria. Introduce Marco Bardazzi, Caporedattore Centrale de La Stampa.
EUROPA: UNA, NESSUNA, CENTOMILA
Ore: 11.15 Salone B7
MARCO BARDAZZI:
Buongiorno. Cominciamo leggendo il messaggio che ha mandato al Meeting il Presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz che non è potuto venire: “E’ con grande rammarico che non sono fra voi per partecipare al dibattito Europa: una, nessuna, centomila organizzato al Meeting. Purtroppo un grave lutto familiare mi obbliga a rinunciare a questo appuntamento importante. L’Europa attraversa una fase turbolenta e per questo la vostra iniziativa a favore della nostra Unione rappresenta un impegno significativo per il quale tengo a ringraziarvi di cuore e testimonia il necessario contributo che tutti noi dobbiamo portare a questo progetto unico nella storia. La mia partecipazione è solo rimandata e ringraziandovi ancora per il vostro invito, per la straordinaria organizzazione, per il vostro lavoro a favore di un’Europa unita e forte, mi auguro vivamente di poter essere fra voi l’anno prossimo”. Siamo vicini al Presidente Schulz in questo momento difficile per lui. L’incontro di stamani mantiene dunque il suo alto profilo, grazie alla disponibilità di un altro grande protagonista della vita istituzionale europea che ha accettato il nostro invito last minute e ci ha raggiunti. Saluto subito e ringrazio il Vicepresidente della Commissione Europea, responsabile dell’Industria, dell’Imprenditoria, del Turismo, Antonio Tajani. Do il benvenuto ad un nuovo amico del Meeting, uno studioso che vive a stretto contatto con il mondo istituzionale europeo, il cui lavoro – lo scoprirete tra breve – offre un gran numero di spunti di riflessione sul cammino dell’Europa, Luis Miguel Poiares Maduro, Direttore del Global Governance Programme all’Istituto Universitario Europeo: buongiorno, professore. E’ ex-avvocato generale presso la Corte di Giustizia europea di Lussemburgo e moltissime altre cose. Io mi sono messo d’accordo con il professore Maduro che non avrei letto tutto il curriculum, se no facciamo ora di pranzo, ma scoprirete da soli che cosa porta qua a Rimini il professore Maduro. Non ha invece bisogno di presentazione, qui al Meeting, l’onorevole Mario Mauro, Presidente della delegazione italiana Pdl al Parlamento Europeo. Ci avviciniamo ad un anniversario importante per l’Europa: nel 2014 saranno cento anni dall’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando, la miccia che innescò la prima guerra mondiale. Nel riflettere sull’Europa di oggi e soprattutto su quella di domani, rischieremmo di sbagliare metodo se non partissimo da uno sguardo a ciò che ci siamo lasciati alle spalle. In un secolo, dopo quegli spari a Sarajevo, siamo passati attraverso due guerre mondiali, gli orrori del nazifascismo e del comunismo, una guerra fredda, lunghissima al punto da aver spinto alcuni storici come il britannico Geoffrey Barack Law a parlare della guerra civile europea del 1914-1989. Nello stesso arco di tempo, nel secolo che ci separa da Sarajevo, siamo anche passati per il più lungo periodo di pace nella storia europea: dura ormai da 70 anni e spesso ce lo dimentichiamo. Troppo spesso si è parlato, specie negli ultimi anni, di Europa in termini di euro, spread, scudo anti-spread, fondo salva-Stati, trascurando il molto di più che l’Europa intesa come Unione Europea ci ha portato in questo secolo. Conviene allora ripartire da qui, da ciò che abbiamo passato insieme nella nostra storia recente, per addentrarci nella pirandelliana crisi di identità suggerita dal titolo di questo incontro che esplora cosa sia oggi questa Europa: una, nessuna, centomila. La Cancelliera tedesca Angela Merkel, in una recente intervista, ha usato una bella espressione per definire questa Europa dai mille volti: “Siamo come un’orchestra” ha detto parlando dei 27 Paesi dell’Unione “e assieme vogliamo che l’Europa faccia sentire la sua voce nel mondo”. “Nella politica” ha aggiunto “ci sono brani in chiave maggiore e minore e ve ne sono anche alcuni armonici e altri disarmonici ma rappresenta già un enorme progresso il poter paragonare l’Unione Europea ad un’orchestra, vista la storia del nostro continente”. Indubbiamente è un enorme progresso, quello di cui parla Angela Merkel. Eppure, come negare che sembra ancora lontano il momento in cui questa orchestra suonerà una grande musica comune veramente europea, come quella di Bach, Mozart, capace cioè di rispondere con l’arma della bellezza alle sfide del presente, che non sono certo solo economiche ma soprattutto antropologiche? E allora, i protagonisti del dibattito di oggi ci daranno spunti importanti per tentare risposte a questi interrogativi. Nel dare loro la parola, provo a mettere sul tavolo due termini che potrebbero essere spunti di riflessione comune da esplorare: la prima è la parola fiducia. Credo che dovremmo riflettere sul livello di fiducia che ciascuno dei Paesi membri dell’Unione o dell’Eurozona è disposto ad accordare agli altri per poter proseguire nel cammino comune. Che si parli di crisi euro o di una maggiore unione politica, la questione fiducia sembra riemergere continuamente. La seconda parola è speranza: in che cosa riporla? L’equivoco che corriamo è che pensiamo di aver bisogno di più Europa per salvare l’euro, mentre questa è solo la conseguenza della risposta alla domanda: perché siamo insieme? Che cosa abbiamo in comune? Il Preambolo del progetto di Costituzione europea, che poi è abortito, forse aveva visto giusto quando definiva l’Europa “spazio privilegiato della speranza umana”. E’ ora quindi di parlare di Europa avendo in mente cose più grandi dello spread: e credo che sarà proprio questo ciò che ci aiuterà a fare il nostro primo ospite il professore Maduro.
LUÍS MIGUEL POIARES MADURO:
Grazie per l’invito. Vorrei cominciare chiedendo scusa per il mio povero italiano ma anche le lingue hanno un’identità, nessuna identità, centomila identità. Allora vi chiedo di accettare l’identità del mio italiano. Credo che abbia avuto un’idea felice chi ha pensato a fare un rapporto fra le crisi dell’Europa e l’opera di Pirandello sull’identità. Quella che vedete, è un’opera d’arte che ho trovato recentemente in una mostra. E’ molto provocante, ma identifica anche, credo, la natura ambigua del sentimento che molti cittadini europei hanno oggi verso l’Europa. L’Europa è stata presentata nel passato soprattutto come fonte di benefici: la pace, lo sviluppo economico, la mobilità dei cittadini. Raramente abbiamo pensato e parlato dell’Europa con i cittadini in termini di dovere. Credo che in buona parte la difficoltà che abbiamo oggi nel rispondere a questa crisi abbia a che vedere con questo: l’ethos europeo non era preparato per questa crisi perché rivolto soltanto ai benefici e alle cose buone che l’Europa può offrire e non anche ai doveri che devono corrispondere a questo progetto europeo. Ma il discorso che voglio fare con voi è più ampio, perché per me questa non è una crisi di identità solo europea: in realtà, la crisi di identità dell’Europa è il prodotto di una crisi di identità delle democrazie nazionali nel contesto della globalizzazione, e delle nuove forme del fare politica dentro e fuori lo Stato. Il rapporto fra questa crisi e la democrazia è all’origine della crisi. Allora, la prima cosa che voglio fare con voi è riflettere di nuovo sulle due narrazioni dominanti della crisi finanziaria che in questo momento tocca l’Europa. Perché credo che, se riflettiamo con un po’ di profondità, possiamo mettere in rapporto queste due narrazioni sulla crisi e sulla democrazia. All’origine della crisi c’è, nella mia opinione, una crisi di democrazia delle democrazie nazionali. Ci sono due narrazioni che troviamo nel discorso pubblico su questa crisi finanziaria, fiscale, in Europa: la prima narrazione dice che la crisi è soprattutto responsabilità del debitore, di alcuni Stati che hanno avuto politiche fiscali e finanziare non responsabili e indisciplinate, che hanno generato un debito pubblico non sostenibile e che questi problemi in alcuni Stati hanno avuto conseguenze negative per altri Stati europei. Ma c’è un’altra narrazione: dice che invece la responsabilità della crisi è in rapporto ai mercati finanziari. E’ una responsabilità che deve essere attribuita piuttosto ai flussi di capitale – ce lo dicono le statistiche – degli Stati e delle banche del nord Europa, che avevano troppa liquidità e che hanno offerto credito troppo facilmente nel sud Europa, e che questo ha portato ad un eccessivo indebitamento di alcuni Stati: ai primi segnali di crisi della libertà di circolazione dei capitali, questi stessi flussi di capitale hanno fatto quello che un economista di Harvard ha chiamato “una corsa al debito sovrano”. E’ li che deve essere rintracciata la responsabilità della crisi.
Probabilmente, entrambe queste due narrazioni hanno qualcosa di vero, entrambe corrispondono alla verità. Ma quello che voglio fare qui non è cercare di difendere una narrazione piuttosto che l’altra. Quello che voglio fare è un rapporto fra queste narrazioni e i problemi democratici: in realtà, sia che siamo convinti della prima narrazione o della seconda, entrambe rappresentano problemi di democrazia. Nella prima, il problema democratico è piuttosto del genere che possiamo chiamare un’esternalità negativa: le politiche economiche irresponsabili di alcuni Stati hanno impatti negativi in altri Stati. Perché questo è un problema democratico? Perché l’interesse di questi altri Stati non è preso in considerazione nei processi democratici degli Stati che hanno avuto queste politiche economiche irresponsabili. Allora, nel contesto della interdipendenza generata dall’euro, la politica fiscale di uno Stato deve anche mettere in conto l’impatto potenziale in un altro Stato. Il fatto che questo non accada è un problema di democrazia. Ma voglio anche dire un’altra cosa: questo problema democratico non è solo un problema di democrazia fra Stati, di impatto negativo in un altro Stato, è anche un problema democratico all’interno dello Stato. Il debito è un problema democratico fra generazioni: anche lì, perché? Perché la generazione che decide un certo bilancio poi non è necessariamente la stessa che dovrà pagare. Questo non vuol dire che necessariamente il deficit sia una cosa negativa: può avere anche grandi vantaggi per una generazione futura. Ma c’è sempre una tensione democratica in questo processo. Perché queste generazioni future non partecipano alle decisioni politiche che creano il debito, che creano il deficit. Anche la seconda narrazione ha uno stretto rapporto con il problema della democrazia: il problema è che la libertà di circolazione di capitale, gli eccessivi flussi di capitale fra Stati, mettono in difficoltà le democrazie nazionali perché rendono difficile l’effettività delle scelte politiche nazionali. Se dei capitali escono da uno Stato, il processo politico di quello Stato non è più efficace nell’adozione di una serie di politiche. Questo può anche essere visto come un problema di democrazia: gli interessi sono associati a questi capitali, ai mercati finanziari, sfuggono al controllo delle democrazie nazionali. In realtà, tutto questo ci dimostra che i due problemi all’origine della crisi finanziaria e fiscale hanno la loro origine in una questione di democrazia.
Ma anche il modo in cui l’Europa ha risposto o non ha risposto alla crisi dimostra che c’è un altro problema di democrazia: in realtà, è lo stesso grande problema che le grandi democrazie nazionali hanno oggi. Noi non possiamo assistere alle riunioni del Consiglio europeo sulla crisi, ma credo che debbano essere qualcosa di simile a questo.
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La questione che ci dobbiamo porre è perché la politica europea renda così difficile decidere in Europa, perché sia stato così difficile all’Europa reagire alla crisi. La ragione è che, in primo luogo, la politica europea è troppo diffusa, cioè non è effettiva, perché dipende da spazi politici nazionali. Oggi, per decidere in Europa, non è necessario solo l’accordo dei 27 Governi, ma anche dei Parlamenti nazionali, spesso anche delle Corti di giustizia. E il problema è che la politica internazionale non ha nazionalizzato le conseguenze dell’interdipendenza europea e globale. Ciò significa che, quando i leader politici arrivano a consiglio, il consenso che i loro cittadini daranno non tiene conto delle conseguenze di questa interdipendenza creata dall’euro. Quando oggi critichiamo la signora Merkel, dobbiamo ricordarci che la signora Merkel è responsabile operante dei cittadini tedeschi e che questi cittadini tedeschi, per esempio, non hanno ancora capito tutte le conseguenze della crisi dell’euro: qui va ricercata la responsabilità, l’origine, la spiegazione di questa difficoltà di agire dell’Unione Europea.
“La nostra crisi di identità o le nostre crisi di identità?”. Quello che sto cercando di dire è che la crisi dell’Europa ha la sua origine in una crisi di identità delle democrazie nazionali, che non sono più in condizione di garantire l’autogoverno dei cittadini perché i fenomeni della globalizzazione, l’interdipendenza che è generata dalla globalizzazione, fa sì che le democrazie nazionali non riescano più a controllare certi processi. L’Europa può contribuire a correggere questo problema, può contribuire a reintegrare, a ristabilire la democrazia per i cittadini, ma perché non ha ancora adottato i meccanismi giusti? Fino ad adesso, sembra piuttosto che rafforzi le proprie fila. Cosa fare allora? Come uscire da questa crisi? Abbiamo sentito parlare di un road map, è stato chiesto al Presidente del Consiglio di presentare per metà ottobre una mappa, una guida per uscire dalla crisi. E credo che lui si senta un po’ come Alice nel paese delle meraviglie.
Viene proiettata una sequenza del film Alice nel paese delle meraviglie
Dove volete andare? E’ la questione che i cittadini europei devono porsi. Ci dicono che la risposta alla crisi passi per più integrazione: io sono d’accordo ma devo dire che c’è qualcosa che mi fa paura nei dibattiti attuali, dove questa scelta di una maggiore integrazione ci è presentata non come scelta ma come necessità: vedo il grave rischio che i passi che l’Europa deve compiere per una maggiore integrazione appaiono agli occhi dei cittadini come una necessità obbligata dalle circostanze e non come una vera scelta. E’ per questo che io credo che la risposta che l’Europa deve dare debba essere presentata come una risposta ai problemi democratici degli Stati. Quali forme deve avere la risposta europea? Ci dicono che abbiamo bisogno di un’unione fiscale che controlli e supervisioni le politiche fiscali di bilancio e la legittimità democratica. In realtà, ci sono diversi modelli possibili per questa proposta di unione fiscale. Il primo è il modello che possiamo trovare nel Trattato europeo sulla Stabilità. Quello di cui l’Europa ha bisogno sono ancora più regole, un’applicazione più precisa, più supervisioni, più poteri di controllo all’istituzione europea: ma questo non basterà, dal punto di vista economico, perché i mercati non saranno mai rassicurati soltanto da più regole, da più meccanismi di controllo. E non basterà dal punto di vista politico, anche se è necessario, dal mio punto di vista, ma non basterà mai dal punto di vista politico perché sarà in una tensione esistenziale permanente con le democrazie nazionali. Un maggiore potere di supervisione, più regole a livello europeo, senza meccanismi di solidarietà finanziaria con forte legittimazione politica, entreranno in conflitto con le democrazie nazionali. A questo modello, a questi poteri aggiunti che dobbiamo conferire all’Europa in materia di disciplina finanziaria e fiscale, si devono aggiungere una legittimità democratica e alcuni meccanismi di mutualizzazione del debito. E questo sembra un po’ il modello che troviamo nel Rapporto che è stato presentato dal presidente Van Rompuy all’ultimo Consiglio Europeo: un’idea di solidarietà finanziaria che sia in rapporto con meccanismi di mutualizzazione del debito fra Stati, con alcuni Stati che garantiscono il debito di un altro Stato, ma legato ad una logica di condizionalità di politiche nazionali. E una legittimità democratica che passi attraverso la politica nazionale, con un ruolo intergovernativo più forte e la partecipazione dei Parlamenti nazionali.
Io non credo che questo modello sia soddisfacente. Non funzionerà per due ragioni: la prima è economica, perché non fornirà la certezza e l’autorità politica necessarie per rassicurare e controllare i mercati. Se le decisioni, per esempio, di mutualizzazione del debito saranno sempre dipendenti dalle decisioni politiche nazionali, che possono essere bloccate in qualsiasi momento anche dalla decisione di una Corte nazionale, come adesso stiamo vedendo con la Corte Costituzionale tedesca, questo significa che i mercati, anche se oggi l’Europa fa quello che è necessario, non potranno mai essere sicuri che lo farà anche domani. Se le decisioni politiche europee continueranno a dipendere da questa autorità politica diffusa, l’Europa non riuscirà mai a fornire la sicurezza che i mercati domandano. Ma questo modello, dal mio punto di vista, non funzionerà neppure sul fronte della democrazia perché, da un lato, quelli che devono garantire i debiti di altri Stati si domanderanno sempre: per quale ragione noi tedeschi dobbiamo garantire il debito italiano, portoghese, spagnolo, senza avere una voce effettiva nei processi di politica nazionale? E, d’altro lato, quelli che avranno il proprio debito assicurato da altri Stati con condizionalità di politica, penseranno che a governare sono altri Stati, ed è il motivo per cui questo modello mi preoccupa anche a livello di tensione con la democrazia.
C’è un alternativa? Io credo che ci sia. L’alternativa è quella che io chiamo la vera unione fiscale e politica. E per questo è necessario in primo luogo che la solidarietà finanziaria in Europa non sia una solidarietà fra Stati ma una solidarietà in rapporto con la ricchezza, con il benessere che è prodotto dal processo di integrazione europea. In secondo luogo, abbiamo bisogno di politica europea per supportare le politiche europee e i poteri dell’Europa. Significa che il rafforzamento del potere dell’Europa che questa crisi comporta, deve essere sostenuto non da spazi politici nazionali ma dalla creazione di un vero spazio politico europeo. Il primo punto, dunque, riguarda l’unione fiscale: la solidarietà finanziaria e il meccanismo di mutualizzazione del debito devono essere appoggiati da un aumento del bilancio dell’Unione Europea. Non vi posso spiegare in dettaglio come possa funzionare, ma vi posso dire che un aumento del bilancio dell’Unione Europea, probabilmente fra il 3 e il 5% del PIL, sarebbe sufficiente per non aver bisogno di eurobonds ed altri strumenti. Questo ha un grande vantaggio: non dobbiamo dire ai cittadini tedeschi e agli altri che devono garantire i debiti degli altri Stati, senza sapere quando e a quali condizioni. Dobbiamo invece contribuire tutti al bilancio dell’Unione Europea: e la nostra condivisione, la nostra responsabilità si esauriscono con l’obbligo di contribuzione a questo bilancio. E per questo è molto importante che l’incremento del bilancio sia messo in rapporto con le risorse che i cittadini possono associare all’attività economica generata dal mercato interno. Le risorse che possono rendere possibile quell’aumento del bilancio dell’Unione Europea devono anche avere insegnare ai cittadini il valore aggiunto dell’Unione Europea. E’ questo il punto. L’attività finanziaria dell’Europa, agli occhi dei cittadini, deve essere messa nuovamente in rapporto con il valore aggiunto dell’Europa, con la ricchezza che crea l’Europa. Anche qui, potrei darvi esempi concreti di risorse che ci permettono questo ma non c’è il tempo. Eventualmente, approfondiremo nel dibattito. Come vi ho detto, c’è anche bisogno di un’unione politica, nel senso che punto di partenza del problema della democrazia in Europa non sono le istituzioni, come spesso diciamo ma la mancanza di uno spazio politico europeo, la mancanza di politiche europee.
Per cambiare questa situazione, abbiamo bisogno di due cose: dobbiamo cambiare il rapporto dell’Unione Europea con i cittadini, non tanto con politiche di comunicazione, con grandi campagne pubblicitarie, quanto attraverso la forma con cui un’entità politica comunica in primo luogo con i suoi cittadini: le sue politiche. Devono cambiare le politiche d’Europa. In questo momento, l’Unione Europea appare ai cittadini soprattutto come il bastone, la disciplina, la legislazione. Abbiamo bisogno di un’Europa, e per questo anche il nuovo bilancio è molto importante, che funzioni con il bastone e anche con la carota, che promuova le riforme, per esempio, che chieda agli Stati non soltanto attraverso sanzioni e disciplina ma anche in positivo, con incentivi politici. Per fare questo, bisogna cambiare la struttura delle politiche europee. Il secondo aspetto importante è creare dei meccanismi che promuovano una vera politica europea, una politica fra gruppi di cittadini che si organizzi intorno a idee comuni, anche se diverse, ma non basate sulle entità nazionali. E’ quello che la scienza politica chiama proxy politics: qui vi darò un esempio. Lo strumento migliore sarebbe trasformare le elezioni del Parlamento europeo in una competizione elettorale per la Presidenza della Commissione Europea. Io non sono favorevole ad un’elezione diretta del Presidente della Commissione, del Presidente del Consiglio. L’Europa ha una tradizione soprattutto di parlamentarismo, non abbiamo bisogno di questo. In Italia, quando votate, sapete chi state scegliendo fra diversi candidati a Presidente del Consiglio, anche se le elezioni sono elezioni parlamentari. Lo stesso può accadere in Europa. Il presidente Barroso è stato il primo Presidente della Commissione Europea che si sia presentato prima delle elezioni: se nelle prossime avessimo, invece di un candidato di un gruppo politico, diversi candidati di diversi gruppi politici europei, le elezioni europee sarebbero su questi candidati e sulle loro proposte: i gruppi politici, poi, dovranno presentare programmi elettorali organizzati intorno ai temi comuni con proposte differenziate. Questo farà sì che il Presidente della Commissione Europea abbia un mandato chiaro e anche un capitale politico in Europa che nessun altro leader europeo ha avuto fino adesso.
Un’Europa, nessuna Europa, tante Europa. L’Europa deve offrire la possibilità ai cittadini di avere diverse idee sull’Europa. Il problema dell’Europa, in questo momento, è che la scelta sembra sia fra avere più Europa o meno Europa, tra essere a favore dell’Europa o contro l’Europa, e non una scelta fra diverse idee d’Europa. Voglio concludere citando un poeta italiano, uno della città dove vivo, Firenze. Dante, nella Divina Commedia, è accompagnato nei diversi livelli dell’Inferno, del Purgatorio e fino alla porta del Paradiso, da Virgilio. Ma Virgilio non può entrare in Paradiso perché è dotato soltanto di ragione: chi accoglie Dante in Paradiso è Beatrice, l’amore della sua vita. In questa metafora, Dante ci offre qualcosa sulla vita che è importante anche per la vita di una comunità politica, della democrazia. L’Unione Europea è stata dall’inizio soprattutto un progetto della ragione, per controllare le passioni politiche nazionali. Oggi rischia di diventare un progetto che è vissuto dai cittadini soltanto come la dittatura di una particolare ragione. Per evitare questo, l’Europa deve promuovere la passione dentro di sé, per non essere ridotta alla passione a favore o contro l’Europa. Grazie.
MARCO BARDAZZI:
Ringrazio il prof. Maduro per la ricchezza del suo intervento e anche per la creatività con cui ci ha condotto per mano da Alice nel Paese delle Meraviglie fino a Pirandello e a Dante. E’ stato veramente entusiasmante. Usciamo da qua, tra le altre cose, anche con un progetto Maduro su come risolvere i problemi europei. Adesso vorrei dare la parola ad uno dei suoi committenti, perché il Parlamento Europeo è appunto uno degli interlocutori per cui lui lavora. Onorevole Mauro.
MARIO MAURO:
Grazie di cuore al Meeting per l’invito. Per uniformità coreografica, intervengo anch’io dal podio anche se i tempi presenti suggerirebbero agli uomini politici di non allontanarsi troppo dalla propria sedia. Innanzitutto, la questione della fiducia: è vero che la crisi è finanziaria ed economica, aggravata da una crisi delle istituzioni europee, prigioniere di una impasse che è un misto di mancanza di coraggio e mancanza di visione, ed è quindi essenzialmente una crisi di fiducia. Il riflesso di questa crisi di fiducia ormai è palpabile nelle relazioni tra le persone, nelle relazioni tra le comunità: le bandiere bruciate in piazza Syntagma, le bandiere dell’Unione Europea con al centro la svastica nazista, ci danno la misura di questa mancanza di fiducia. E la mancanza di fiducia è la riproposizione di una logica che è stata ben fotografata da chi ha introdotto l’incontro, la logica che ha portato a scontri epocali e che ci ha detto per lungo tempo che fuori da una visione comune c’è spazio solo per una concezione del potere in cui il potere è tutto e l’uomo non è niente. Allora, attenzione, amici miei, perché mentre i media si attardano in questi giorni a fare l’esegesi delle parole del Presidente del Consiglio italiano, a chiedersi quindi se è vero che vedremo la luce in fondo al tunnel, quella luce che tutti auspichiamo, in mancanza di una presa di coscienza realistica di ciò che ci tocca vivere si identificherà non con la luce delle soluzioni ma con i bagliori del conflitto. Perché un’Europa priva di visione è un’Europa destinata al conflitto, perché la nostra storia non è testimonianza di pace e di sviluppo come condizione continua: nella nostra storia, pace e sviluppo sono stati l’eccezione, la regola sono le cannonate. E l’irritazione che molti popoli vivono, quando appare inevitabile l’espropriazione della sovranità e l’impossibilità di guidare i propri destini, l’irritazione che segue, per esempio, l’immagine di un contesto europeo o comunque internazionale che espropria i Governi, a quell’irritazione seguirà il conflitto, se non si sostituirà invece un di più di visione, che possa consentire a ognuno di sciogliere il nodo cruciale offerto dall’esposizione del professor Maduro, vale a dire: non solo per necessità ma per volontà, per libertà.
Ora, è pur vero che la teologia cattolica dice che si può andare in paradiso per amore di Gesù, ma anche per paura dell’inferno, quindi la necessità non è di per sé un’evocazione negativa. Quali sono i numeri della necessità? I numeri della necessità avremmo dovuto imparare a capirli già da molti anni: siamo una comunità di 500 milioni di persone, e 75 milioni hanno meno di 25 anni. L’Egitto è un Paese di 80 milioni di abitanti, e 60 milioni hanno meno di 25 anni. Questo fonda delle necessità che impongono a noi, quantomeno, di dare un giudizio coerente rispetto alle proposizioni del Governatore della Banca Centrale Europea, che dice che il welfare europeo è morto. Che cosa significa, quali riflessioni impone alla classe dirigente europea questo giudizio? Che cosa impone in termini di necessità? Comprendere, per esempio, che oggi nel nostro Continente il 53% del Prodotto Interno Lordo Aggregato, rispetto a un 42% del 2009, è rappresentato dai derivati che le banche hanno in pancia. Che cosa vuol dire che questo tocca un picco in un Paese come la Svizzera, che è fuori dall’Unione Europea ma che è dentro l’Europa ed è al centro delle vicende europee, dove è del 254%? Nel Regno Unito è il 106%, nella Francia è il 55%, nella Germania il 38%, in Spagna il 15% e in Italia il 10,7%. Che cosa vuol dire, per esempio, che una perdita del 10% sui derivati spazzerebbe via il 55% del patrimonio netto delle banche europee e il 59% di quelle americane? Perché con queste condizioni di necessità dovremo pur fare i conti. E allora, se la domanda iniziale di Bardazzi – perché continuiamo a salvare banche – non si scontra con i termini della necessità e non ci fa capire che, se non facessimo quello, avremmo le file agli sportelli e il conflitto esteso, non solo in termini sociali ma in termini quasi parabellici, nelle strade, noi non abbiamo una visione. E invece una visione siamo obbligati ad averla, o – se preferite – desideriamo averla. Perché la visione non è e non può ridursi oggi a una partecipazione ai tavoli decisionali europei condotti in nome del “batto il pugno sul tavolo a favore del mio Paese”, perché battere il pugno sul tavolo a favore di un Paese come l’Italia, che da tempo – e non solo certamente negli ultimi dodici mesi – è percepito non come un Paese in pericolo, ma come il pericolo, in quanto sovrasta l’Unione europea con un debito di duemila miliardi, non ha senso, se non abbiamo questa percezione che la responsabilità si gioca attraverso il giocare una visione nostra nell’interesse dell’Europa, una visione dell’Europa che finalmente ci spogli dalla tentazione di nazionalismi e populismi.
Che cosa significa la tentazione dei populismi? Non è un rimando a discorsi futuristici ma ad una condizione di fatto: su 27 Paesi membri, 18 hanno grandi partiti populisti e, a partire dalle elezioni olandesi, questi partiti possono prendere la leadership di Paesi che non sono in crisi economica, che hanno la tripla A, e decidere di chiamarsi fuori dalla gestione comune del nostro futuro, facendo precipitare nell’abisso dell’incertezza e dell’ingestibilità i rapporti tra i popoli del nostro continente.
Amici miei, ho ascoltato un discorso in Parlamento, di recente, fatto da due bravi colleghi che dicevano: “Dobbiamo combattere l’atteggiamento spocchioso dei Paesi del nord dell’Europa contro i Paesi del sud”. Tutto bene, quasi condivisibile, se non fosse per il fatto che i colleghi erano Borghezio e Salvini, espressioni della Lega Nord, il che mi dà veramente la misura del fatto che si è sempre meridionali rispetto a qualcuno. E la proporzione stabilita in quell’intervento, pur giusto, significava che oggi, drammaticamente, viviamo la richiesta di molti Paesi a garanzia tripla A, o lì vicino, che i Paesi del sud dell’Europa, e anche altri, facciano riforme profonde per tornare competitivi. D’altra parte, viviamo la necessità e la richiesta, da parte di molti dei nostri Paesi, di avere tempo e solidarietà perché questo passaggio epocale si possa fare. Come conciliare questi interessi? Come mettere insieme e come generare fiducia perché ci si ritrovi con una speranza concreta tra le mani? Questo credo che sia il vero dilemma che siamo chiamati ad affrontare, rispetto al quale dobbiamo giocare la solidità di ben altri numeri, che molto più di quelli che ho elencato finora possano darci una prospettiva di bene. Innanzitutto, vorrei rovesciare l’impostazione del problema: proviamo per una attimo a ragionare come se già fossimo un’entità federale, come se già fossimo una realtà politica compiuta, come se già fossimo il progetto che era il sogno dei padri fondatori: saremmo, intanto, la più grande economia del mondo, con una possibilità di gestire le nostre contraddizioni in modo molto più veloce e molto più comprensivo dei bisogni di ognuno, perché – lo ricordo, con buona pace di tutti – saremmo una realtà economicamente molto più solida di quella statunitense e, avendo le stesse opportunità che pone lo strumento di un Governo federale, riusciremmo prima e meglio a risolvere le nostre contraddizioni. E faccio una domanda più provocatoria: se fossimo stati, e da tempo, una realtà federale, sarebbe stato consentito a uno dei Paesi partecipante a quella federazione di accumulare 2.000 miliardi di debito pubblico? E ancora: perché non entriamo nel particolare di che cosa possa significare per la stabilità nel mondo il pensiero di un’Unione Europea che esprime una forza di fuoco o un deterrente rispetto ai conflitti, dato del mettere in comune il proprio esercito? E ancora: che cosa vuol dire che si muove con una logica politica comune un conglomerato di Paesi che da molti anni ha abolito, per esempio, la pena di morte, mentre da un lato la Cina e dall’altro gli Stati Uniti sono invischiati in una congestione di messaggi legati all’incapacità di aver risolto forse la più elementare delle battaglie per i diritti umani? Quindi, attenzione, amici miei: il problema, per capire veramente come si possa amare l’Europa possibile, è partire da che cosa vogliamo che sia l’Europa possibile. Un’Europa possibile che possa essere una prospettiva in cui superiamo le contraddizioni dei nazionalismi è un’Europa che anche il più fragile, il più emarginato dei cittadini europei può amare. Un’Europa possibile, che sia magari una sorta di parodia di una Unione delle Repubbliche Socialiste Europee, dove la tendenza ad omologare e quindi a fornire soluzioni preconfezionate sulla base di decisioni gestite da centrali burocratiche, è un’Europa che non solo ci terrà sempre più lontani da questa passione, ma nel tempo finirà per fare implodere gli elementi di una costruzione che oggi è più che mai indispensabile. Sono ripresi in questi giorni i viaggi verso Lampedusa, che non è la frontiera dell’Italia, è la frontiera dell’Unione Europea: e se non c’è la percezione di questa dimensione, nel tempo non sarà possibile più mettere in comune le ragioni che ci hanno fatto sembrare possibile Schengen, e che ci hanno fatto sembrare possibile togliere barriere doganali e barriere che costituivano le frontiere tra gli Stati. E’ questo tipo di lucidità che siamo chiamati a chiederci, ed è questo tipo di coraggio politico che siamo chiamati a chiedere alle leadership dei singoli Paesi, che hanno enormi responsabilità rispetto al freno che è stato posto negli ultimi trent’anni al prosieguo del progetto europeo. Perché dico negli ultimi trent’anni? Le opportunità che c’erano derivate da circostanze della storia, quale l’implosione del blocco comunista e l’enorme sviluppo di carattere economico a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, erano lo premesse indispensabili perché noi facessimo quel che dovevamo fare, vale a dire consentissimo al nostro Paese di lasciarsi alle spalle la stagione degli statalismi a senso unico, fatto e voluto perché l’Italia non poteva avere altra storia che non fosse quella all’interno del blocco occidentale, e quindi aver creato le dimensioni di uno Stato che provvedeva tutto a tutti perché era impedita l’alternanza democratica. Questo accadeva da noi, altri avevano contraddizioni forse ancora più gravi. Non è forse vero che la Germania vent’anni fa stava peggio di noi? E allora, perché abbiamo perso tutto questo tempo? E perché alla vigilia di una tornata elettorale chiave non per il nostro Paese, o non solo per il nostro Paese, ma per tutta l’Europa, ci attardiamo in uno schema che rischia di portarci nelle condizioni del dopo primo round della Grecia, un primo round elettorale dove tutti hanno votato di tutto e, conferendo ai neonazisti fino all’8% hanno reso ingovernabile un Paese che, reso più umile da quello schiaffo, si è dovuto approcciare al problema della propria governabilità con una grande coalizione? Allora, io mi chiedo e vi chiedo: sono coscienti i principali partiti di questo Paese, che oggi si trincerano dietro alle foglie di fico dei governi tecnici, che spetta alla loro responsabilità, nell’interesse di famiglie e imprese, evitarci un bagno di sangue di un conflitto che si protragga senza fare riforme indispensabili per la nostra condizione? Sono coscienti questi partiti, che pure hanno mostrato senso di responsabilità aprendosi nel momento della difficoltà a condividere la condizione cosiddetta di “strana maggioranza”, che oggi ci divideremo sul concetto dell’Europa alle elezioni e che giocoforza, quindi, le alleanze potrebbero non essere quelle che tutti si immaginano? Perché è il processo di integrazione voluto per libertà e voluto per amore del destino di una generazione, che farà la differenza, perché dovremo dire con chiarezza se vogliamo mutualizzare il debito, perché dovremo dire con chiarezza se vogliamo che il fiscal compact diventi non lo spauracchio della perdita di sovranità ma la condizione attraverso la quale anche la Germania può essere agevolata a prendersi la responsabilità di mutualizzare il debito, perché tutto questo viene fatto per aprire la strada a una stagione di maggiore condivisione in termini politici, che vuol dire effettivamente perdita di sovranità. Ma questa perdita di sovranità viene compensata dal fatto di poter fare le cose giuste e buone al momento giusto. Poche cose indispensabili: il governo dell’economia, il governo della politica estera, l’assicurazione a ogni singolo cittadino e impresa europea che tutti verremo trattati in un sistema di giustizia che garantisce a ognuno il suo. Questo è quel che deve fare l’Europa, e perché l’Europa possa fare questo, ci vuole non tanto cessione di sovranità ma generosità, in una innovazione di mentalità, anch’essa richiamata dal Presidente della Banca Centrale, che ha detto con chiarezza che senza una innovazione istituzionale, senza cioè la capacità di pensare il nostro futuro in termini nuovi, ben difficilmente potremo continuare in questo stallo. Non solo, ma nel tempo questo stallo ci riobbligherà ai conflitti.
Non è la Corte di Karlsruhe che viola qualcuno dei trattati europei facendo quello che fa: è il popolo tedesco, il Governo tedesco che, come ognuno dei nostri popoli e dei nostri governi, è chiamato a un salto di maturità mettendo in comune la determinazione a voler fare il pezzo di strada che ci resta in maniera realmente comune. E perché dovremmo farlo? Ritorna la domanda. Allora ve lo chiedo ancora: pensate veramente che uno solo dei Paesi dell’Unione Europea possa da solo risolvere uno dei problemi, anche il più piccolo, che affligge l’Unione Europea? Parliamo di quelli grandi, di quelli importanti: la Germania, grandissima; la Gran Bretagna, luogo principe della finanza; la Francia, forse il più solido in termini di meccanismi istituzionali, con una legge che garantisce un Governo semipresidenziale; l’Italia, origine e motore di straordinaria creatività, opportunità per tutta l’Europa, un Paese che ha tutti i record del mondo. Perché non bisogna solo chiedersi che cosa abbia reso possibile che l’Italia sia la seconda potenza manifatturiera d’Europa. Bisogna chiedersi come fa, in presenza di condizioni di politica così disarmata e disarmante, che la rendono fragilissima dal punto di vista delle relazioni istituzionali. Allora, che cosa accadrà di questi che sono i quattro protagonisti del G8? Che da qui a quindici anni non saranno più nel G8. Per cui, che cosa vuol dire necessità e scelta? Che cosa vuol dire se non mettere a fuoco quella che è la nostra condizione, e mettere insieme sulla stessa mattonella tutto il peso di cui siamo capaci, nell’interesse del più fragile tra i nostri imprenditori e della più debole delle nostre famiglie? Perché, se perdiamo questo livello della nostra visione rispetto al futuro, sarà il nazionalismo, trascinato da un vento populista che oggi è forte e sul quale vorrei dire parole di buonsenso, perché viene evocato, soprattutto da certa stampa, come fosse un conglomerato di visioni e di determinazioni politiche fatto da gente che odia il mondo e vuole scatenare la guerra.
No, amici: i partiti populisti hanno visioni diverse dalle mie ma hanno gli stessi elettori, perché le persone che non riescono nel tempo a maturare un rapporto di fiducia con chi è chiamato a governare il cambiamento, proponendo decisioni coraggiose, si rivolgono a chi, piuttosto che proporre decisioni determinate dal coraggio, propone decisioni determinate dalla paura. E allora, se la paura ci spinge allo scontro, il coraggio ci spinge a un’azione che nel tempo genera la speranza, e la speranza reale per il mondo intero è la presenza di quell’Europa di cui parlava Maduro, cioè di un’Europa che abbia la forza di scommettere nelle relazioni internazionali sulle convinzioni che le hanno garantito la condizione eccezionale di cui parlavo all’inizio. L’Europa eccezionale, quella cioè non determinata dalle cannonate ma dalla capacità di risolvere giocoforza in ogni circostanza le proprie contraddizioni, è l’Europa che ritorna protagonista nel mondo e non rimane comprimaria. Dopo sessanta vertici falliti, che spazio c’è ancora per un’Europa di questo genere? E’ questo il concetto più forte che vorrei trasmettere in questo intervento, vale a dire: il tempo è breve. Il tempo è breve, e questo tempo breve deve essere colto nella sua drammaticità da chi è ha responsabilità nelle istituzioni, perché si abbia la forza di lasciarci alle spalle quelle che sono le vestigia di un modo di pensare stantio, per rilanciare su quello che è la chiave di tutta la riflessione, di tutto il pensiero che ha generato il progetto europeo. Ciò che ci unisce è più forte di ciò che ci divide. Vi ringrazio.
MARCO BARDAZZI:
Ringraziamo l’onorevole Mauro per la passione con cui ha rimesso in primo piano i termini della questione, per come ha riportato il sogno degli Stati Uniti d’Europa al centro della nostra discussione, per come anche ci ha richiamato a quel senso di responsabilità che tutti noi, dai Governi ai singoli cittadini, dovremmo avere più chiaro e più presente in questo momento che lui ha descritto come drammatico: il tempo è breve. Anche il nostro tempo è breve per il dibattito: non faremo domande dopo, ma vorrei dare al Vicepresidente della Commissione Europea Antonio Tajani la possibilità di concludere la discussione di stamani, traendo un po’ anche le fila dei tanti spunti che mi sembra siano emersi. Grazie.
ANTONIO TAJANI:
Grazie innanzitutto a Mario, con il quale abbiamo condiviso tanti anni di impegno europeo ed europeista. Sarebbe stato un eccellente Presidente del Parlamento, per senso di responsabilità si è rivelato all’inizio di questa legislatura, ma come avete ascoltato aveva tutti i requisiti per farlo e per farlo bene, avendo delle idee. Per cercare di tirare un po’ le somme, mi pare che dai due interventi che abbiamo ascoltato si possa arrivare ad aggiungere un numero ai tre che sono il titolo di questa giornata: Europa una, nessuna, centomila. Io aggiungerei il numero 500 milioni che sono i cittadini dell’Unione Europea per i quali noi tutti che siamo nelle istituzioni abbiamo il dovere di lavorare e di cercare di metterli nelle migliori condizioni di vivere in questa epoca. A queste persone noi possiamo rispondere che è meglio scegliere nessuna Europa? Soltanto una scelta negativa per dire no a quello che si vede, a quello che accade, ci porterebbe a indicare questa come la soluzione migliore. Però, come ricordava anche Mario nel corso del suo intervento, oggi, se delle istituzioni vogliono garantire a dei cittadini regole giuste, condizioni di vita equa, rispetto di determinate regole, quando la competizione si fa a livello globale, le istituzioni non possono cercare di ridurre lo spazio del loro agire ma devono fare in modo che le 100mila diversità si riconducano verso una scelta unica. La competizione globale oggi non può permetterci di giocare una partita da soli, noi italiani: cosa sarebbe l’Italia se dovesse veramente competere da sola con la Cina, cosa sarebbe la Germania se dovesse competere da sola con l’India, cosa sarebbe la Francia se dovesse competere da sola con gli Stati Uniti, cosa sarebbe la Polonia, cosa sarebbe la Spagna, se dovessero competere con l’Africa, un Paese emergente, e il Sudamerica, e il Canada…? Vedete, sono macro-aree che vedono crescere il benessere dei loro cittadini, perché questa è la sfida del futuro. Ecco perché noi abbiamo il dovere di scegliere un’Europa politica, certo non possiamo scegliere l’Europa della burocrazia che non serve a granché, che non entusiasma i cittadini, che non crea, come diceva il professore, dal di dentro, un entusiasmo per andare avanti. Però queste 100mila Europa sono il nostro punto di forza, rappresentano la nostra identità, non rappresentano e non devono rappresentare un elemento di divisione. La storia della Grecia non è ufficialmente la nostra storia, però le nostre radici affondano là; cosa saremmo stati se alle Termopili, a Salamina, a Platea, i greci non avessero difeso il loro territorio da chi veniva da Oriente, e cosa saremmo noi se non ci fosse stato un pensatore come Socrate, un altro come Platone, che hanno cominciato a riflettere su come era l’uomo, non soltanto con i muscoli che aveva mostrato per impedire ai barbari di invadere quella parte di territorio, ma sapendo che c’era anche un’anima, dentro quell’uomo? E cosa saremmo noi, se non ci fosse stato l’Impero romano, che ha dato leggi, infrastrutture, idee, ideali? Roma era soprattutto un ideale, non era soltanto la capitale dell’Impero, e se non ci fosse stata Roma, come si sarebbe diffuso il cristianesimo? E se non ci fossero stati i monaci benedettini a trasmettere le radici della nostra cultura, come l’avversario culturale dei monaci benedettini, Voltaire, avrebbe potuto pensare in maniera diversa dai monaci benedettini? E se non ci fossero stati tanti musicisti tedeschi, se non ci fossero stati anche tanti giuristi tedeschi, come si sarebbe tramandato il diritto romano?
Vedete, man mano che parliamo si potrebbero fare 100mila esempi per dire che poi, alla fine, sono tutti elementi di forza, anche le lingue! Io non credo sia giusto avere un’unica lingua europea, non è quello l’elemento di unione, c’è qualcosa di più. Ricordava Mario Mauro, siamo l’unica realtà al mondo dove la tutela della vita umana ha portato tutti gli Stati membri ad abolire la pena di morte. E mi sembra un grande passo di civiltà, un grande risultato di civiltà. Vedete, questa Europa della quale stiamo discutendo, certo, non dobbiamo dire: “Europa sì, Europa no”, piuttosto, quale Europa vogliamo, perché se non apriamo un dibattito su quale Europa vogliamo, rischiamo di far condurre ad altri il dibattito su “Europa sì, Europa no”. Perché se non c’è la voglia di raggiungere l’altra riva del fiume, perché oggi siamo in mezzo al guado, rischiamo di dare manforte a chi dice: “Allora torniamo indietro”. Allora, questa Europa deve essere capace di rispondere alle esigenze dei cittadini. Sono assolutamente d’accordo sulla necessità di andare avanti, di dare più democrazia alle istituzioni europee, non abbiamo concluso il percorso, non è sufficiente il Parlamento europeo, non è sufficiente neanche una visione comunitaria, che è incarnata dalla Commissione europea, che privilegia l’interesse generale rispetto all’interesse nazionale. Troppo spesso vediamo la riunione del Consiglio dove un Paese cerca di tutelare i propri interessi, come se fosse disgiunto dall’interesse dell’altro. Certo, può fare effetto alla pancia del popolo tedesco dire: “Non vogliamo pagare i debiti di qualche Paese che è stato meno virtuoso di noi”. Ma è soltanto una parte del ragionamento: se non ci fossero stati quei Paesi, fossero anche i meno virtuosi, la Germania e gli altri Paesi che stanno meglio di altri, sarebbero oggi in queste condizioni? Se non ci fosse un grande mercato interno, con quel mezzo miliardo di persone che possono acquistare anche i prodotti che la Germania esporta, e se non ci fosse stato l’euro, la situazione della Germania sarebbe la stessa o sarebbe diversa? Ecco, vedete, andando a riflettere, anche chi in qualche modo è costretto a fare dei sacrifici si deve rendere conto che qualche vantaggio lo ha avuto, dal far parte di questa famiglia. Ma la soluzione non è quella del tornare indietro, la soluzione è quella dell’andare avanti. L’obiettivo finale deve essere quello degli Stati Uniti d’Europa, certamente è un percorso lungo, difficile, ma non possiamo restare in mezzo al guado. Ha ragione Mario quando dice: “Dobbiamo fare in fretta!”. Le proposte fatte da Barroso, Van Rompuy, Draghi, in occasione dell’ultimo Consiglio, sono proposte che dicono di andare verso una direzione che è quella di un’Europa più politica, in grado di fare anche delle scelte, di risolvere i problemi meglio di come sta facendo oggi. E’ questa la risposta più politica, che può disinnescare la miccia di chi dice: “No, nessuna Europa”. Davanti ai nazisti o ai comunisti greci, al partito dei pirati ma anche ai partiti del malcontento che cominciano a spuntare in Italia, come il Movimento Cinque Stelle, non dobbiamo far finta di nulla. Dobbiamo capire perché nascono queste forze che raccolgono consensi in tutta l’Unione Europea, e anche il modo di reagire alla crisi. Io non credo che sia sufficiente risanare i conti pubblici per far tornare il benessere e rimettere le cose a posto. Non è una questione di contabilità di Stato. Se vogliamo risanare l’economia, certamente dobbiamo mettere a posto i conti pubblici ma dobbiamo, come sta facendo la Commissione europea, insistere molto sull’economia reale, sulla politica della crescita, che significa sviluppo del mercato interno, sviluppo della politica industriale, sviluppo delle piccole e medie imprese. Per troppi anni abbiamo puntato in Europa soltanto sulla finanza, che è uno strumento che fa circolare denaro e spesso finisce per aiutare i più ricchi, invece di aiutare chi vuole produrre ricchezza, non soltanto ridistribuirla come fa la politica legata solo alla finanza. Errori di questo tipo, mettere in un angolo la politica industriale, mettere in un angolo 23 milioni di piccole e medie imprese che rappresentano l’unica possibilità di uscire dalla crisi, vera possibilità di uscire dalla crisi, è stato un errore. E allora dobbiamo cominciare a cambiare anche il nostro atteggiamento nei confronti di questa realtà. Non basta dire “serve”, bisogna agire. Pensiamo alla vergogna morale del ritardo dei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni degli Stati nei confronti delle piccole e medie imprese. Non è soltanto un’offesa all’imprenditore, è un’offesa, un colpo mortale al lavoro di milioni di persone che lavorano in quelle imprese, che vengono strangolate se non vengono pagate in tempi utili, prima di morire. La Commissione europea lo ha fatto, una risposta l’ha data, mi auguro che l’Italia recepisca la direttiva comunitaria prima del termine ultimo.
E ritengo che si debba guardare alla politica della concorrenza con occhio più moderno. Abbiamo una politica della concorrenza legata molto agli anni ’50, ’60, forse dovremmo guardare a una politica della concorrenza che non guardi solo all’Europa ma anche alla competizione globale, su un tema del quale, credo, dovremmo discutere. Come non possiamo pensare di crescere con una Banca Centrale che si preoccupi soltanto dell’inflazione e della stabilità della moneta, non è sufficiente. Una Banca Centrale, per essere tale, deve veramente poter agire a favore della crescita. Quando dicevamo queste cose, sembravamo quasi nemici delle istituzioni o sostenitori di un pensiero azzardato. Poi ci stiamo rendendo conto che oggi, se tanti risultati positivi sono stati ottenuti durante la crisi, è stato grazie ad un’azione sapiente, sia pur rispettosa delle regole, di Mario Draghi, che ha dato alla Banca Centrale Europea un ruolo importante. e non lo possiamo nascondere. Ecco perché bisogna compiere questi passi in avanti. Concordo pienamente quando si parla di una politica di difesa comune, come corollario della politica estera comune: potrebbe aiutare l’Europa a svolgere, certamente, un ruolo più forte come operatrice di pace nel mondo, ma permetterebbe anche ai nostri bilanci di ridurre miliardi e miliardi di spese per la politica della difesa, che è frutto di tanti segmenti che non riescono a trovare unità. Io ricordo il caso della guerra di Bosnia, quando carri armati identici di diversi paesi dell’Unione Europea non riuscirono a lavorare assieme, perché la catena di comando e il controllo del sistema informatico era diverso: lo stesso carro non riusciva ad interagire con l’altro. Anche qui, quindi, si può guardare all’interesse economico e finanziario: la risposta europea anche questo può e deve garantire. Certo, serve coraggio politico, servono scelte politiche, non si può soltanto pensare all’elezione in questa città o in quell’altra, se si vuole essere uomini di Stato: dobbiamo guardare a un interesse generale. Bisogna far compiere al’Europa un salto di qualità. E’ vero che c’è un deficit democratico, il dibattito è aperto sul ruolo del Presidente della Commissione europea, Barroso è stato eletto Presidente della Commissione europea per ben due volte, perché il Partito Popolare Europeo, per ben due volte, ha vinto le elezioni europee: quindi, c’è un avvio di processo democratico all’interno delle istituzioni comunitarie, ma non è sufficiente. Si può discutere sull’elezione diretta del Presidente della Commissione o sulla elezione come frutto di una scelta da parte del Parlamento europeo, un po’ come accade in Italia per l’elezione del Presidente del Consiglio: è un dibattito, e ben venga il confronto su questo tema che, comunque, va in una direzione più democratica, che faccia sentire al cittadino l’istituzione più sua. Si parla troppo poco, nei nostri dibattiti politici, di questi argomenti. Meno male che c’è il Meeting, dove si può discutere anche di questi temi, che interessano la vita di ciascuno di voi e di ciascuno di noi.
Ora, quindi, un ritorno alla politica è quello che serve per uscire dalla crisi. Non è sufficiente un intervento soltanto contabile, serve più coraggio, serve andare fino all’altra riva del fiume, perché chi resta in mezzo al guado è destinato ad essere travolto dalla piena, chi rimane in mezzo al guado è destinato a soccombere e noi non vogliamo soccombere. La politica deve fare questo. Oggi abbiamo sentito, sia da parte della politica, il Parlamento, sia da parte di chi interpreta la politica e comunque esprime una cultura europeista, che il percorso da seguire è questo, ma dobbiamo fare modo che i cittadini ne siano anche loro convinti, quei 500 milioni: senza quel numero, non si fa l’Europa una, che è quella che serve, quella di cui abbiamo bisogno come individui, come cittadini. E se permettete, concludendo, questa Europa una non può essere un’Europa solo dove si parla di economia, dove si parla di finanza, dove si parla di politica estera, ma deve essere anche un’Europa dove ci sono i valori, dove ci sono le idee, perché non si può pensare, non ci si può illudere di riscaldare gli animi parlando solo di spread o di percentuali del PIL o del debito di questo o di quello Stato. Gli animi si scaldano quando donne e uomini sono chiamati a battersi. L’Europa si è battuta contro le grandi dittature del secolo passato e ha vinto. Oggi deve battersi contro un nemico più subdolo, che si vede di meno, una sorta di termite che rischia di far cadere l’albero, perché lo comincia a corrodere dal basso. Ecco la politica che sia anche politica dei valori: non posso non sottolineare quanto siano importanti per noi europei, indipendentemente dal credo politico, le radici cristiane, che sono quel minimo comun denominatore che permette a un portoghese di sentirsi a casa sua a Vilnius, anche se non è cristiano. La stessa chiesa che vede a Oporto la vede là, come un maltese a Valletta vede la stessa chiesa che magari incontra nel Galles o in qualche altra parte più lontana d’Europa. Questo significa sentirsi a casa, questo significa poter avere una speranza perché, come diceva Tony Blair in questa Assemblea, e permettetemi in questo momento di parlare più da cristiano che da Vicepresidente della Commissione europea, “quando si entra in una chiesa, in qualsiasi parte del mondo, ci si sente sempre a casa, e quando si entra in una chiesa in Europa, in qualsiasi parte d’Europa, ogni europeo si sente a casa sua, anche se non è credente”. Vedete? E’ questa la forza della nostra tradizione, la forza della nostra storia. E se sapremo puntare su queste nostre radici, credo che l’obiettivo di quell’Europa una, di quegli Stati Uniti d’Europa, lo potremo raggiungere assieme. Grazie.
MARCO BARDAZZI:
Ringraziamo il Vicepresidente della Commissione europea per avere esteso il titolo anche ai 500 milioni di abitanti, come abbiamo allargato Pirandello: lo ringraziamo di nuovo per la sua disponibilità. Ringrazio l’onorevole Mauro e il professor Maduro, grazie a voi tutti e buon Meeting.