Chi siamo
Esperienze di life skills e character skills
In diretta su Repubblica TV.
In collaborazione con Fondazione per la Sussidiarietà.
Esperienze di Giovanni Figini, Dirigente Scolastico Cometa Formazione – Scuola Oliver Twist, Como; Cristiana Poggio, Vice presidente di Piazza dei Mestieri, Torino; Diego Sempio, Dirigente Didattico Galdus Formazione, Milano.
Partecipano Roberto Ricci, Presidente Invalsi; Andreas Schleicher, Director for Education and Skills, and Special Advisor on Education Policy to the Secretary-General at the Organization for Economic Co-operation and Development (OECD) in Paris. Introduce Tommaso Agasisti, Politecnico Milano.
La conoscenza non è riducibile alla sola dimensione cognitiva. La scuola e il lavoro dovrebbero permettere di imparare e di crescere, cioè sviluppare la personalità, le doti, le qualità individuali. I character skills sono tratti che influenzano l’abilità di orientarsi verso gli obiettivi scelti, determinano la qualità delle relazioni e incidono sulla capacità di prendere decisioni. Sono quindi parte integrante di un processo di apprendimento.
Con il sostegno della Regione Emilia-Romagna.
ESPERIENZE DI LIFE SKILLS E CHARACTER SKILLS
Tommaso Agasisti: Benvenuti a tutti e a tutte a questo incontro “Esperienze di life skills e character skills” qui al Meeting 2022. L’incontro di oggi tratta un tema particolarmente significativo sia per il mondo educativo che per quello del lavoro. Oggi infatti in questo incontro discutiamo di life skills, competenze per la vita, e character skills, competenze che hanno a che fare con la personalità e il carattere degli individui. Di questo tema si dibatte ormai da alcuni anni tra esperti del settore, pedagogisti, economisti, studiosi di varie discipline, e soprattutto tra persone di scuola, docenti, presidi, e spesso anche genitori. Volendo introdurre il contenuto di ciò che discuteremo oggi, potremmo affermare che la questione delle cosiddette life skills o competenze non cognitive è diventata importante per tre ragioni. La prima è che si è reso evidente un ruolo sempre maggiore di queste competenze nei contesti lavorativi e professionali, in misura pari, se non superiore, al ruolo delle competenze cosiddette cognitive, la matematica, le scienze, la letteratura, e così via. Saper lavorare in gruppo o relazionarsi positivamente con gli altri, essere creativi e proporre soluzioni, sviluppare un proprio pensiero critico, sono diventati elementi essenziali per ottenere posti di lavoro più soddisfacenti e poter realizzare le proprie aspirazioni personali e professionali. La seconda ragione è che a fronte di una crescente importanza di queste competenze è maturata la consapevolezza che le istituzioni educative, le scuole, le università, i centri di formazione, prestano poca attenzione, soprattutto poca professionalità nello sviluppo delle cosiddette soft skills, o non cognitive skills, mantenendo invece un’attenzione prioritaria al sapere disciplinare. Di fatto i programmi scolastici, le materie, i saperi trasmessi a scuola sono rimasti quasi inalterati nel corso del tempo e non è stato dato alcuno spazio a un ripensamento delle competenze più importanti da trasmettere ai giovani. Terza ragione. Nel momento in cui alcune istituzioni educative hanno incominciato a interrogarsi sul miglior modo di sviluppare le competenze non cognitive, ci si è resi conto dell’esistenza di un buco, di un gap tra esperienze e modelli a cui ispirarsi. Sono nate domande molto importanti a cui cercheremo oggi di dare una risposta, ad esempio: è necessario definire delle materie specifiche per queste competenze? Quali attività o modalità didattiche favoriscono lo sviluppo delle competenze non cognitive all’interno di un percorso scolastico più tradizionale? Quali competenze devono acquisire gli insegnanti per poter svolgere il proprio ruolo di educatori nel contesto di questa nuova responsabilità? Il nostro incontro di oggi cerca di dare un contributo in questa direzione, ossia di provare a raccontare esperienze positive e proporre modelli di riferimento per avviare un lavoro concreto nelle scuole e nelle istituzioni educative verso uno sviluppo delle competenze non cognitive. Ci piacerebbe che al termine di questo incontro avessimo le idee più chiare su cosa sono queste competenze non cognitive e su come lavorarci a scuola. Prima di entrare nel merito del dialogo che ha questo obiettivo con i nostri ospiti, è opportuno proporre una definizione che non ha l’obiettivo di essere esaustiva bensì di orientare la nostra discussione. Per questo scopo prendo a prestito una definizione che ho trovato in un volume curato da un amico e collega, il professor Maccarini di Padova, che si riferisce all’apprendimento socio-emotivo in questo modo, leggo: “Il processo attraverso cui i bambini, i ragazzi, adulti acquisiscono e applicano efficacemente la conoscenza, gli atteggiamenti e le competenze necessarie a comprendere e gestire le emozioni, a porsi e conseguire obiettivi positivi, a sentire e manifestare empatia per gli altri, a stabilire e mantenere relazioni positive, e a prendere decisioni responsabili.” Da questa definizione emergono con chiarezza due elementi che vorrei sottolineare per il nostro dialogo di oggi. Primo quello motivazionale, perché penso e faccio determinate cose, e secondo quello capacitante, come riesco a pensare e fare determinate cose. L’insieme delle due, motivazioni e capacità, consente di applicare comportamenti adeguati che possiamo definire moralmente positivi, in senso ampio, in senso nobile, in vari contesti e situazioni, e sviluppare così un percorso educativo più ricco, interessante e profondo. Alla luce di questi elementi, gli interrogativi che animano l’intenzione di questo incontro sono due. Uno: è possibile sviluppare questo tipo di apprendimento nelle scuole? è una responsabilità delle scuole lavorare su questa competenza o queste sono dinamiche da assegnare ad altri contesti, la famiglia, l’oratorio, i circoli ricreativi? E secondo: in che relazione stanno le competenze cognitive con quelle non cognitive, ossia sono in antagonismo o si rafforzano l’un l’altro? Durante l’ascolto delle testimonianze dei contributi di oggi cercheremo di tener vive queste domande e di provare a rispondere. L’incontro è strutturato in due parti, nella prima avremo la testimonianza di tre luoghi che rappresentano esempi in cui è messa al centro un’attenzione esplicita intenzionale allo sviluppo dei ragazzi a 360 gradi. Quindi avremo la testimonianza del Cometa Formazione Scuola Oliver Twist di Como, della Piazza dei Mestieri di Torino e dell’Ente Galdus di Milano. A ciascuno di loro chiederemo in alcuni minuti di presentarci la loro realtà e la loro esperienza nello sviluppo delle non cognitive skills. Poi nella seconda parte daremo la parola a due esperti che stanno lavorando in questo ambito, e in particolare al presidente Invalsi dottor Ricci e al direttore dell’area Education dell’OCSE Andreas Schleicher. Comincerei quindi a entrare nel merito del nostro incontro, darei per primo la parola per raccontarci la sua esperienza a Diego Sempio dirigente didattico di Galdus Formazione Milano. Innanzitutto Diego, grazie di essere qui con noi.
Diego Sempio: Grazie a voi, sia per poter avere l’occasione di raccontare ma soprattutto di dialogare su una tematica così importante. La scuola professionale Galdus nasce trent’anni fa a Milano per l’educazione professionale superiore, nel tempo è cresciuta, si è diversificata, dalla formazione professionale dei giovani alla formazione degli adulti, nei servizi per il lavoro ai progetti di natura educativa e di sistema, dall’apprendistato all’innovazione didattica. In quanto quindi orientati a formare lavoratori, professionisti, il tema di oggi per noi è essenziale in quanto il mondo del lavoro, ma non solo, richiede sempre più le cosiddette competenze trasversali o non cognitive. Leggo, per iniziare, una delle tante mail che riceviamo dalle aziende come feedback del tirocinio di un nostro allievo appena dopo il lockdown. “Lo stage del vostro allievo sta procedendo bene, anzi direi molto bene, il ragazzo dimostra molta curiosità, interesse, su tutti gli aspetti del nostro lavoro, dalla gestione del cliente per le assistenze, e tutti i servizi a margine del nostro interesse primario. Si impegna molto anche nella cura e pulizia del negozio, è davvero molto appassionato e impegnato, non si ferma davanti a nulla, se non si sente in grado di affrontare un problema si mette a studiare l’argomento fino a quando riesce a gestirlo in autonomia, risolvendolo. È apprezzato molto anche per la solarità che trasmette e l’educazione personale che dimostra. Se pensate di trovare un allievo che abbia le caratteristiche che lui sta mostrando di avere, lo accoglieremo con piacere per il prossimo tirocinio.” Questo l’ho letto perché mi pare un esempio significativo di come un’azienda guarda alle soft skills non cognitive, anche ai fini della selezione del personale. Introdurre nelle aule le soft skills, aiuta, credo che aiuti a trovare un linguaggio comune tra scuola e azienda, e questo non è una cosa scontata. Quando ci dicono ad esempio, è l’importante, è che il nuovo stagista sia educato, è complesso capire di cosa si tratti esattamente e soprattutto poi valutare, valorizzare. Faccio un inciso, nella scuola la valutazione è sempre vista come negativa, io invece ho un’accezione più sulla valorizzazione, tant’è che noi abbiamo scelto una scala di numeri da quattro a dieci, perché ricordo qualche esempio di qualche professoressa che metteva zero meno, questo direi che non è valutare ma è proprio abbassare, comunque scusate l’inciso. E capire, rispetto a quella frase “lo voglio educato” come possa essere valutato insieme scuole e aziende un tirocinio nel suo complesso. Quindi individuare una terminologia comune sulle soft skills mi pare un primo passo necessario. Per inciso, non so se tali competenze possano essere veramente insegnate, è una domanda, ma sicuramente possono essere testimoniate. Così come è possibile creare un ambiente predisposto a coglierle e valorizzarle. Il ragazzo della mail che vi ho letto, ha sicuramente ricevuto i fondamenti della propria educazione in famiglia, nell’ambito sociale in cui ha vissuto, ma la scuola può e deve avere un ruolo importante anche in questo ambito. In Galdus introduciamo le soft skills fin dal primo anno, perché occorre anzitutto che i ragazzi sappiano che esistono, e di cosa si tratta, abbiamo così individuato un set di dieci soft skill chiamate cardine, il cui sviluppo rappresenta un obiettivo-traguardo per gli allievi del triennio. In prima superiore esse vengono descritte puntualmente, le si fa addirittura imparare a memoria, ma soprattutto si cerca di mostrarle in azione attraverso video, testimonianze, puntando a educare i ragazzi proprio all’osservazione e al giudizio che ne può derivare. Più avanti sollecitiamo gli allievi a individuare in loro, in sé stessi le soft skills invitandoli a osservarsi soprattutto durante i lavori di gruppo, le esercitazioni e i laboratori. Ne nascono così dialoghi, confronti e riflessioni in particolare con il proprio tutor scolastico, che per noi è figura professionale fondamentale nell’accompagnare i ragazzi in questo percorso. E alle aziende chiediamo di osservare e valutare dall’esperienza di tirocinio lo stesso medesimo set di soft skills, valutazione che il ragazzo potrà poi far valere nel proprio curriculum. Noi diciamo alle aziende guarda che quello che tu riferisci rispetto alle soft skills, a questo elenco di una decina di soft skills, dì la verità perché poi il ragazzo potrà mettere questa tua valutazione, ovviamente quella positiva, nel suo curriculum. In ogni processo di valutazione è fondamentale sapere da dove si è partiti, per questo va detto che l’allievo di cui sopra nei primissimi anni di scuola non brillava negli studi, anzi fin dalle medie ha spesso avuto problemi di frequenza, e pur essendo un ragazzo tranquillo ed educato, ha mostrato in ambito scolastico diverse fragilità personali. Quando gli si è proposto lo stage presso un negozio di riparazioni di computer e cellulari, ha subito manifestato il suo disagio, ha avuto paura in particolare del rapporto diretto con i clienti, che lui ovviamente non aveva mai affrontato, e dopo pochi giorni ha chiesto, quasi fino a piangere, di cambiare. Anche la famiglia era titubante ma la sua insegnante è riuscita a convincerlo a resistere, a resistere qualche giorno ancora, per una verifica più seria sul campo, sull’esperienza. Il ragazzo ha deciso di fidarsi e di proseguire, dopo un mese la scuola ha ricevuto come feedback la mail che vi ho letto. Dunque l’essere messo alla prova in una situazione di realtà, in questo caso un negozio, in cui è evidente lo scopo, il senso di quello che si è chiamati a fare, ha facilitato l’emergere della sua personalità fino a cambiarlo anche nei confronti dello studio. È fondamentale che la scuola sia sempre più un luogo di senso e in questo la formazione professionale probabilmente è facilitata dal suo metodo che semplicisticamente chiamiamo “imparare facendo”. In Galdus abbiamo introdotto la programmazione e la valutazione per obiettivi traguardo, nel tentativo anche di superare quella logica, questa sì spesso senza senso, della media scolastica inseguita dagli studenti per il raggiungimento della sufficienza. Stiamo investendo molto nel dare la possibilità a un numero sempre più alto di allievi, anche con borse di studio, di frequentare viaggi all’estero, stage, laboratori professionali, laboratori stem, progetti, didattica per obiettivi, ma tutto ciò non sostituisce le lezioni più tradizionali e lo studio delle conoscenze cosiddette teoriche, anzi affiancandosi ad esse ne favorisce l’approccio da parte degli allievi che proprio nel loro fare vi trovano un incentivo ulteriore e ragionevole, pieno di ragioni, rispetto alla propria esigenza di conoscere e approfondire la realtà che li circonda. Anche il ragazzo che ho citato, pronto ormai ad affrontare il mondo del lavoro, dopo il diploma tecnico quadriennale ha deciso di continuare a studiare per conseguire la maturità desideroso di intraprendere gli studi universitari. Quale rapporto può esistere a scuola tra discipline cognitive e soft skills non cognitive. Anche qui cerchiamo di sperimentare, di provare, nella certezza che solo un’educazione integrale della persona sia in grado di dare ai giovani gli strumenti che possano permettergli di trovare il proprio posto nel mondo, che è lo slogan di Galdus. Così abbiamo introdotto la valutazione del cosiddetto comportamento professionale. Il comportamento professionale riguarda l’impegno, compiti, attenzione in aula, la condotta, quella di una volta intesa come comportamento adeguato al contesto, la puntualità, la frequenza a scuola. Si formula così un giudizio sintetico che nella scheda di valutazione intermedia, pagella o pagellino, viene distinto dal voto della materia incidendo su quello che chiamiamo voto di sintesi. Se ad esempio ho sei in italiano ma ho preso gravi note disciplinari con l’insegnante, oppure non svolgo i compiti assegnati o colleziono continui ritardi senza motivi adeguati, avrò insufficiente nel comportamento professionale della materia, di conseguenza cinque nel voto di sintesi di italiano, anche in presenza della sufficienza nella valutazione cognitiva. Il voto del comportamento professionale è invece collegiale nella pagella finale e sarà dirimente per accedere ad esempio alla selezione per i viaggi di studio all’estero, alla partecipazione a progetti extracurricolari particolarmente interessanti, eccetera. Quelli descritti sono tentativi in atto che ci sentiamo la responsabilità di affrontare per cercare di rendere la scuola una proposta educativa ricca di significato e di relazione, una scuola che collegialmente e tentativamente possa rappresentare per i giovani un’avventura affascinante alla scoperta di sé e del mondo. Grazie.
Tommaso Agasisti: Grazie mille Diego, testimonianze come queste valgono più di cento analisi di esperti perché raccontano concretamente come il tentativo di sviluppare e rendere più vere e più vive nei ragazzi, negli studenti, le non cognitive skills passino per scelte anche molto precise. Sono rimasto colpito dall’idea di codificare dieci competenze specifiche e trovare un sistema di misurazione, affidare un tutor per seguire, insomma mi sembrano indicazioni operative importanti. E in questa sala ci sono anche tanti docenti e dirigenti che si aspettano da questo incontro l’ascolto di esperienze concrete a cui ispirarsi, da cui provare a trarre indicazioni operative per il proprio lavoro, quindi testimonianze come queste sono davvero molto preziose. Proseguiamo allora in questa direzione, diamo la parola e lo ringraziamo per essere con noi a Giovanni Figini, Dirigente scolastico di Cometa Formazione Scuola Oliver Twist, grazie di essere con noi.
Giovanni Figini: Grazie a voi per l’invito. Cometa Formazione ha origine dall’esperienza di comunione e accoglienza delle famiglie di Cometa. Da incontro a incontro e nel paragone con don Giussani, che ha voluto con tutta la forza che partisse questa scuola, nel 2003 prendono avvio i primi corsi per alcuni ragazzi che erano accolti al centro diurno di Cometa e che erano in dispersione scolastica, problema oggi sempre più drammatico, come anche Giorgio Vittadini ricorda nel libro, oggi fenomeno che si accompagna anche con un forte disorientamento sempre più crescente e in età sempre più precoce. Siamo andati a prendere i ragazzi lì dove erano, non tentando di aspettare che fossero loro dove noi volevamo, e accogliendo i ragazzi con i loro bisogni abbiamo provato a dar forma alla scuola che oggi offre un percorso dedicato ai dispersi, cosiddetto Liceo del lavoro, abbiamo voluto chiamarlo così per dargli proprio dignità, che ha come scopo il trovare a ciascuno una strada per ripartire nella vita attraverso la scuola e il lavoro. Poi sono nati i corsi di formazione professionale concepiti come scuola-impresa, ovvero un luogo dove si apprende dall’esperienza, come si diceva anche poc’anzi, e poi infine da poco, da settembre, partirà un Liceo artistico imprenditoriale e artigianale del design, che è un progetto di innovazione degli ordinamenti autorizzato dal Ministero dell’istruzione, col desiderio di rispondere al profondo disorientamento che domina al termine delle medie e che ha l’ambizione di coniugare cultura, arte, artigianalità, design e imprenditorialità, tentando, un po’ come si diceva, di attuare l’unità naturale tra pensiero e costruzione, azione, con poi la possibilità, in uscita dopo i cinque anni, di avere una doppia possibilità, ovvero sia di andare all’Università, come naturalmente accade, oppure anche di entrare nel mondo del lavoro. Insomma ci siamo sempre resi conto che non si può proporre una scuola che punti solo su conoscenze o performance accademiche, ma che deve puntare allo sviluppo umano integrale, come si dice. Numerosi in questi anni i tentativi di superare il paradigma trasmissivo e lavorare su Life e character skills. Provo a citare alcuni esempi che abbiamo provato a declinare in queste competenze all’interno dei nostri corsi. Uno: pensiero critico. Dall’anno scorso abbiamo portato la filosofia nella scuola professionale con l’aiuto del professor Petrosino dell’Università Cattolica attraverso un percorso di un anno con gli studenti sulla distinzione tra stupore e fascino. Abbiamo inoltre organizzato lungo tutto l’anno incontri con testimoni che attraverso la loro esperienza potessero suscitare nei ragazzi il desiderio della conoscenza e una speranza per il futuro, aspetto da non dimenticare. Abbiamo avuto la grazia di poter incontrare ad esempio Gemma Calabresi, Daniele Mencarelli, suor Benedetta delle Suore della Carità, Silvia Galbiati dal Kazakistan, Dado Peluso e molti altri. Ad ogni incontro invitavamo i professori a fare un lavoro con i ragazzi, perché questi preziosi contributi potessero sedimentare e diventare esperienza. Due: relazioni e orientamento. Fin dall’inizio abbiamo messo in campo un tutoraggio educativo con personale dedicato e formato per accompagnare i ragazzi nelle relazioni con i pari, anche con la famiglia, l’impresa, e attraverso strumenti professionali per l’orientamento e il riorientamento, il counseling e il coaching a scuola e in stage, e poi l’accompagnamento al lavoro o alla scelta universitaria. Tre: consapevolezza. Molte aziende hanno dato in questi due anni e anche prima la disponibilità non solo per i tirocini ma anche coinvolgendosi nell’insegnamento di veri e propri minicorsi intensivi, che noi chiamiamo cattedre aziendali, per far capire l’ampiezza del profilo professionale, e che genera e muove il desiderio dei ragazzi alla conoscenza di sé e a far scoprire loro che il lavoro non è una condanna ma ha sempre una sua creatività e una sua identità. Quattro: protagonismo, creatività e rapporto con la realtà. Ogni anno ad ogni classe, sia professionale che liceo, affidiamo una commessa per un cliente vero e tentiamo di vivere questo progetto come una sfida comune per docenti e allievi. Ogni studente è chiamato a raccogliere fonti di ispirazione osservando, realizzare un moodboard, e poi un progetto, un preventivo, e presentarlo al cliente. Poi chiaramente il cliente valuta, commenta, decide, poi si passa alla realizzazione e lo si consegna al cliente. È un progetto reale e specifico, però tenta di coinvolgere la trasversalità di tutte le discipline facendo scoprire agli allievi i nessi che ci sono nella realtà di ciò che studiano e vivono. Insomma si fatica per uno scopo, a volte si fallisce per ripartire, ci si deve prendere delle responsabilità, si vede realizzato il proprio pensiero o si è costretti dalla realtà a modificarlo, si partecipa a realizzarlo insieme, e molto altro. Alcuni nostri studenti intervistati per una tesi di dottorato di un nostro docente, hanno parlato della creatività e delle commesse con queste parole, cito: “prima pensavo che la creatività fosse solo una cosa personale, quando disegnavo andavo di pancia, poi ho capito che la creatività si alimenta con la conoscenza, non inizia e finisce con me.” E poi ancora: “ringrazio per le commesse perché essendo da organizzare da zero uno deve metterci del suo, con l’aiuto di professori e compagni si intende, ma centro io, abbiamo imparato ad approfondire un’identità”. Questi esempi ci sono serviti per capire quanto abbia fatto la differenza per i ragazzi puntare su Life e character skills. Ci ha colpito in questi anni osservare quali strade poi hanno intrapreso i nostri ex allievi, da chi fa il medico, a chi ha iniziato una sua attività, a chi è falegname, educatore, insegnante. In aggiunta, per monitorare in modo scientifico questo lavoro di accompagnamento dei ragazzi, da oltre cinque anni facciamo un’analisi in itinere e in conclusione del percorso formativo attraverso una valutazione basata sul modello casel dei social emotional learning sviluppata in collaborazione col Politecnico. La grande domanda che si faceva prima però è ma per attuare questo ci siamo chiesti di cosa abbiamo bisogno noi insegnanti e tutor? Per brevità potremmo dire che abbiamo bisogno di partecipare a una comunità educativa e di apprendimento permanente, a tempo pieno, abbiamo bisogno di un lavoro goccia dopo goccia se vogliamo cambiare mentalità, occorre un lavoro di equipe che richiede tempo e sacrifici e una comunità di adulti appassionati che si mette in gioco in questo scardinamento continuo dei propri schemi. Da sei anni i docenti osservano gli uni le lezioni degli altri e i più esperti dedicano una parte del loro tempo, insegnando meno ore, ad accompagnare i più giovani, perché correggersi è sorreggersi. Sono nati dei mini seminari interni di scambio di buone pratiche di insegnamento, oltre che un programma di scambio con scuole in Italia e all’estero che stiamo implementando per paragonarci sempre di più con esperienze didattiche. Mi permetto di citare alcuni stralci di interviste ai docenti sempre tratte da questa tesi.” Quello che funziona è che come docente ti è richiesta una continua ricerca, ti metti in discussione, il tentativo continuo è di provocare il movimento dell’altro, trovare la scintilla che accende l’altro, questo aspetto è all’ennesima potenza perché c’è un intero ambiente che ha scelto un certo modello di approccio”. “Cerchiamo di favorire il pensiero critico e l’attenzione al dettaglio, è come un incubatore, grazie alla commessa che tiene insieme le discipline”. Il nostro tentativo è quello di scommettere sulle persone, adulti e ragazzi, e in questo senso lo sviluppo delle character skills accade lavorando insieme e si tenta di implicarlo nella proposta quotidiana con metodo e scientificità. Tutto è provocazione al senso per cui si sta facendo quel gesto e chiama in causa la totalità dell’io, perché un gesto in cui non ci sia l’io intero non è un gesto umano. Da ultimo e concludo tutti noi abbiamo bisogno di un fondamentale: la bellezza. Chiediamo mensilmente a ogni classe e ai professori di prendersi cura degli spazi della scuola, dal marciapiede fuori dalla scuola fino agli interni, pulendo insieme, passando lo straccio sui vetri gomito a gomito professori e insegnanti, e questa esperienza serve a fare esperienza di che cos’è la corrispondenza della bellezza e della cura, e abbiamo chiamato questa attività “tutto è per me”. Giussani in un dialogo all’inizio di Cometa diceva: “siate semplici nel costruire perché deve apparire la bellezza del mistero”, questo è il compito che ci ha dato lasciar spazio a quella bellezza che fa ripartire il cuore, il cuore forse è la life skill da cui dipendono tutte le altre. Grazie.
Tommaso Agasisti: Giovanni ti ringrazio tantissimo di avere condiviso l’esperienza tua, vostra, e i numerosi esempi di come applicare questo modo di guardare i ragazzi e di educarli. Immagino che in sala tanti si è rimasti colpiti da tanti esempi, a me devo dire che l’idea dell’attività di filosofia all’Istituto professionale è una cosa che mi ha colpito tantissimo, così come l’incontro con tanti testimoni e la possibilità di lavorarci sopra. E poi, se mi consenti, prenderò a prestito, citandola da uno dei tuoi studenti, questa frase “la creatività si alimenta con la conoscenza”, perché credo che sia una perla di metodo rispetto al lavoro che dobbiamo fare insieme. Concludiamo allora il giro delle esperienze con Cristiana Poggio, Vicepresidente di Piazza dei Mestieri, grazie Cristiana di essere qui con noi.
Cristiana Poggio: Buongiorno a tutti. Due parole su Piazza dei Mestieri, nasce a Torino nel 2004 da una sfida educativa, la sfida era quella dove vanno a finire i ragazzi che mollano la scuola tradizionale. Noi, mi ricordo questo gruppo di amici, non riuscivamo a dormire la notte per rispondere a questa domanda e allora ci siamo inventati questo modello in cui abbiamo portato il lavoro all’interno della scuola, per cui i nostri ragazzi imparano a fare i camerieri, gli chef, gli acconciatori, potrei andare avanti, ma contemporaneamente all’interno della scuola sono state aperte delle attività produttive, perché fin da subito abbiamo pensato che l’alternanza fosse un valore straordinario da tener presente, perché è la realtà che educa, e la possibilità di mettere le mani in pasta in attività produttive potesse rendere il ragazzo intanto orgoglioso di far qualcosa, ma potesse veramente implicarlo in una conoscenza e una acquisizione di competenze. Nel 2009 esportiamo il modello a Catania e lo scorso anno a Milano. Complessivamente sono oltre cinquemila i ragazzi minorenni, dai 14 ai 18 anni, che seguiamo nelle nostre tre sedi. Dico complessivamente perché ci sono quelli che fanno i percorsi ordinamentali, quindi i percorsi di scuola professionale triennale o quadriennale, e poi ci sono quelli che vengono mandati dalle scuole perché le scuole non li riescono a tenere, dalle medie alle superiori, più casa dei compiti al pomeriggio, quindi 5000 ragazzi. Questo ci ha portato a un incontro approfondito con le scuole e ci ha portato a fare anche formazione ai docenti delle scuole normali. Perché vorrei che si uscisse subito da un equivoco, le character skill insomma queste cose, che prima o poi dovremmo definire, a me piace chiamarle competenze socio-emozionali non hanno a che fare solo coi ragazzi che vanno nella scuola di formazione professionale, ma hanno a che fare con i ragazzi che frequentano le scuole. Anche noi abbiamo iniziato a lavorare nel 2018-2019 sul tema, esattamente per come diceva Diego. Le aziende ci chiedevano non ci interessa che il ragazzo sappia fare bene il cappuccino, ma deve essere ordinato, saper lavorare in gruppo, affidabile. Questa cosa ci ha interrogato per cui siamo partiti da quel punto lì, ma immediatamente la domanda è stata: ma sono educabili a 14 anni? Allora io d’istinto ho detto sì, perché credo che l’educazione, come ci ha insegnato Papa Francesco, abbia a che fare sempre con la speranza e quindi con la possibilità di introdurre i ragazzi che abbiamo davanti a un’esperienza più profonda, per cui ho detto sì, però non ci bastava, abbiamo iniziato un lavoro con alcuni docenti. Questa è la prima caratteristica che mi permetto di sottolineare, le competenze socio-emozionali devono essere guardate da una comunione, da una comunità educante, non posso farlo da sola, un po’ questo è nella natura dell’educazione, chi educa è sempre un noi non è mai un singolo, però in questo caso è ancora più vero. Allora abbiamo iniziato con un gruppo di docenti a lavorarci sopra e abbiamo provato a definirli, prima esperienza straordinaria. Ci siamo accorti che un educatore le guarda queste competenze socio-emozionali ma molto spesso le guarda in modo solitario e non diventano patrimonio della scuola, ma le guarda a volte anche in modo distorto. Se ci sono dei docenti tra di voi, immagino di sì, credo che possano confermare l’esperienza, uno va al consiglio di classe e normalmente si analizza ragazzo per ragazzo, Giovanni, bravissimo, però certo che il comportamento, certo che non arriva in ritardo. Queste competenze socio-emozionali entrano ma in modo un po’ distorto all’interno della valutazione, allora io entro in crisi, gli dò il voto perché si comporta male o gli dò il voto perché sa bene l’italiano e la matematica, noi docenti entriamo in crisi, sono buono o sono giusto, quindi faccio la media matematica o… Invece ci siamo resi conto che queste competenze potevano essere valutate, uso una parola grossa un po’ sfidante, non per dare un numero, ma valutate perché possono essere messi a valore. E questo è ben lontano dal definire compiutamente la natura del ragazzo che abbiamo davanti, è una foto che io scatto in quel momento, che però io farei comunque, ma lo farei in modo appunto un po’ soggettivo e non accompagnato. Soprattutto è stato interessante guardare i ragazzi che avevamo davanti insieme, perché abbiamo imparato ad osservare, è stato usato già prima questo termine, ad osservare i ragazzi in profondità e a scoprire insieme cose diverse, ciò che non vedevo io lo vedeva la mia collega o ancora l’altro mio collega. Questo ha generato una comunità professionale tra di noi estremamente interessante. Siamo partiti con una classe. Secondo aspetto: gradualità. Non si possono imporre, non si può imporre la valutazione e l’osservazione, e poi lo sviluppo, sullo sviluppo non dirò granché perché mi sembra che l’esperienza di Cometa abbia detto molto, però io dico anche dobbiamo capire se tutte queste cose che facciamo servono, fanno del bene, certamente sì, ma ci aiutano a portare quel ragazzo a un livello diverso? E allora ci siamo accorti di un altro punto i questionari autovalutativi, è pieno che il ragazzo si compila nella sua cameretta funzionano? no non funzionano, lo dico in modo molto deciso perché se io ho avuto una mamma che per tutta la vita mi ha detto sei scemo, presumibilmente io mi racconto scemo, oppure di contrasto mi racconto come super genio, le competenze socio-emozionali vengono fuori davanti a un maestro, un maestro che ti guarda in un modo così profondo per cui tu scopri cose di te che non immaginavi, non escluso ma davanti alla realtà, soprattutto davanti a dei compiti operativi. E poi io credo che sia interessante, e noi l’abbiamo fatto con le scuole che abbiamo seguito in questi anni, che ogni singola scuola definisca quali sono le sue competenze socio-emozionali che vuole affrontare in quel contesto scolastico, ogni scuola ha un’identità, si trova in un luogo, c’è il liceo, c’è l’istituto professionale, ma possono cambiare, anzi devono cambiare, perché le competenze che richiediamo a un ragazzo di prima non sono le stesse che richiediamo un ragazzo di terza o di quarta, a quello che si appresta ad andare in stage. Quindi è qualcosa di estremamente flessibile che deve cambiare. Poi abbiamo la terza sfida, e qui provo a rispondere alla provocazione che ci facevi, bisogna fare delle materie a sé, no, scusate sono un po’ tranchant sempre ma dopo cinque anni di valutazione alcune cose le abbiamo scoperte. Non sono una materia, io devo guardare al ragazzo secondo quel mistero profondo che io lo guardo tutto insieme, e lo guardo mentre lo interrogo di italiano, io trent’anni fa insegnavo italiano, quindi mi considero una prof a tutti gli effetti anche se oramai entro poco in aula, ma io lo guardo complessivamente, guardo le sue competenze. Noi nella formazione professionale siamo già avvantaggiati perché da sempre usiamo l’idea della competenza, che sono già dei saperi agiti, ma mentre guardo la sua competenza tecnico-professionale, guardo come è in quel momento, come si fa a scoprire, non possiamo aggiungere altre cose, i ragazzi sono da scoprire, non da riempire di qualcosa. E quindi abbiamo iniziato a valutare queste competenze, un lavoraccio per i docenti, esplicitando il momento, la prova in cui l’avremmo valutate, mentre interrogavamo e facevamo i compiti in classe di italiano, matematica o mentre erano al bar. All’inizio abbiamo fatto dei fogli Excel enormi, ingestibili, per cui man mano abbiamo sottratto, abbiamo tolto per arrivare all’essenziale. Oggi ad esempio sono tre le competenze socio-emotive che valutiamo, perché c’è dentro tutto, ma siamo arrivati ad assottigliare man mano. Dico l’ultima cosa, questo ha approfondito il patto educativo con i ragazzi perché nel momento in cui io devo dire a un ragazzo ti guardo non solo per come sai fare il cappuccino, ma anche per l’affidabilità al lavoro di gruppo, eccetera, ha approfondito il rapporto con lui, con le famiglie e con tutto il contesto territoriale, perché poi questi ragazzi devono essere accompagnati a scuola, a proseguire gli studi o all’Università. Quindi la Piazza dei Mestieri si è come riappropriata attraverso queste competenze socio-emotive, che non sono solo una moda o perlomeno noi non vogliamo che siano una moda, si è riappropriata di un compito educativo molto più profondo e la possibilità di guardare i ragazzi per quel mistero che sono e poter però sbocciare ed avere un posto nel mondo.
Tommaso Agasisti: Cristiana mi hanno molto colpito due indicazioni di metodo della vostra esperienza, da una parte il tema della collegialità, cioè il fatto che queste competenze non sono il frutto di un’analisi schematica effettuata da singoli, ma il frutto di un lavoro comune tra docenti, e il tema della gradualità, di imparare dall’esperienza, di testare e provare e poi aggiustare il tiro in funzione di come si svolge il lavoro di valutazione di queste competenze. Poi se mi è consentita una sottolineatura laterale rispetto al tema centrale del nostro incontro, mi ha molto colpito la genesi della vostra opera, cioè che di fronte al tema dei cosiddetti Neet, dei ragazzi che non studiano e non lavorano, più che un’analisi o una lamentela politica, ne sia conseguita un’opera, e questo mi pare un aspetto molto importante. Possiamo allora muovere adesso, ricchi delle esperienze che abbiamo ascoltato, ad ascoltare il punto di vista, il punto di osservazione, ma direi anche le indicazioni che provengono da esperti che studiano e lavorano in questo ambito e che si stanno prodigando da tempo nell’analisi e nell’approfondimento di cosa voglia dire integrare le non cognitive skills o le competenze socio-emozionali, prendo il termine di Cristiana che mi piace molto, all’interno della vita delle scuole. Per primo darei la parola, ringraziandolo di essere qui, di essere collegato in realtà, e speriamo che funzioni il collegamento a dovere e lo ringraziamo di aver trovato tempo nella complicata agenda che ben conosco, ad Andreas Schleicher, Direttore della area educazione dell’Ocse. L’Ocse è certamente l’istituzione che più di altri in questi anni ha cominciato a porre l’accento, l’attenzione, sull’importanza di considerare le competenze, vedi anche loro Cristiana le chiamano socio-emozionali. Oltre alle competenze puramente accademiche, c’è un lavoro di anni condotto con la sapiente guida di Andreas all’interno dell’Ocse su questo tema, e quindi ti chiederemmo Andreas di condividere con noi un po’ le evidenze e le esperienze che in questi anni avete raccolto, ringraziandoti davvero di aver trovato tempo per essere qui al nostro incontro con noi, a te la parola.
Andreas Schleicher: Grazie, grazie per avermi invitato è stato davvero interessante ascoltare queste esperienze concrete nello sviluppo delle competenze socio-emotive, spero che riuscite a vedere le mie slide. L’Ocse ha dato sempre maggiore attenzione a queste competenze perché abbiamo visto che le cose più semplici da insegnare e testare, i contenuti, oggi però possono essere digitalizzati, automatizzati. Quello che invece ci rende umano è come noi andiamo ad aggiungere a queste conoscenze le nostre competenze umane e quindi queste skills sono molto importanti, abbiamo una serie dei task previsti che sono anche altamente tecnologici, se mettiamo le due cose insieme vediamo quale sarà il futuro del lavoro che vogliamo svolgere. C’è poi un altro aspetto estremamente importante queste character skills e queste competenze cognitive non si oppongono le une alle altre, come vedete si tratta di due elementi estremamente correlati. Se noi prendiamo per esempio alcuni sistemi di insegnamento che tengono conto di queste due diverse forme di competenze, per esempio in Estonia abbiamo molti buoni risultati nel senso proprio delle competenze che possono essere sviluppate e quindi senza dubbio il modo migliore di vedere quali potrebbero essere i risultati anche accademici di uno studente è comprenderne queste character skills, e nel momento in cui si ottengono buoni risultati in termini di character skills i giovani sono più sicuri di se stessi, sono più ricchi di immaginazione, sono più creativi, sono in grado di far fronte ai rischi, sanno che possono fare degli errori ma questo non costituisce un problema, possono superare gli errori che commettono, e tutto questo è davvero molto potente con le esperienze dei ragazzi. E quindi abbiamo deciso di studiare questo sistema in modo più interrogativo, abbiamo cercato di vedere come questi studenti avevano degli strumenti per far fronte per esempio allo stress, per controllare le proprie emozioni, la loro empatia, la fiducia, la cooperazione, l’apertura mentale, la curiosità, la creatività di questi studenti e anche il loro impegno nel rapporto con gli altri. Noi in un certo senso siamo riusciti a misurare per così dire queste skills, noi chiaramente non possiamo cambiare ciò che non riusciamo a vedere e controllare, quindi rendere questo tipo di competenze socio-emozionali visibili è estremamente importante. Quindi torniamo anche alla relazione, quelli che sono i risultati accademici e queste competenze socio-emozionali, abbiamo studenti che sono magari più persistenti, più curiosi, e che magari hanno risultati migliori in materie scientifiche come la matematica, ci sono invece altri studenti che hanno maggior curiosità per altri ambiti, per esempio nell’ambito artistico, quindi in questo senso le competenze socio-emozionali e quelle accademiche sono due parti, due facce della stessa medaglia. Noi abbiamo tra l’altro notato che i ragazzi e le ragazze hanno punti di forza diversa per quanto riguarda le competenze socio-emozionali, mentre invece dal punto di vista accademico i risultati sono più o meno gli stessi. Se andiamo a vedere i dati per quanto riguarda la motivazione e il senso di responsabilità le ragazze hanno avuto risultati migliori nella nostra valutazione, anche per quanto riguarda l’empatia, la tolleranza, la collaboratività, mentre invece i ragazzi resistono maggiormente allo stress, sono più ottimisti, sanno gestire meglio le proprie emozioni, sono più sicuri di sé e sono più pieni di energia, per così dire. E quindi andiamo a vedere questi dati per i ragazzini di 10 anni e poi andiamo a vedere come si sviluppano in quelli di 15, ecco queste caratteristiche si rafforzano, quindi noi siamo ben consapevoli di queste differenze di genere e possiamo in un certo senso affrontarle dal punto di vista pedagogico ed educativo. C’è stato un esempio che ci ha colpito in modo particolare, vale a dire che in ciascuna regione per la quale abbiamo raccolto dei dati, i ragazzi di 15 anni sono risultati meno creativi di quelli di 10 anni, e questo punto di vista dei ragazzi è stato confermato anche dai loro insegnanti e dalle loro famiglie. Se io vi dicessi che i quindicenni ottengono risultati peggiori in matematica di ragazzini di 10 anni mi direste che c’è qualcosa che non va nel sistema di istruzione, ma questo è quello che avviene invece proprio dal punto di vista delle competenze socio-emotive. Quindi noi in un certo senso ci aspettiamo che i ragazzi riproducano quelle che sono le strutture socio-emotive della nostra società, del nostro tempo. Gli studenti che partecipano per esempio ad attività di carattere artistico hanno un livello di creatività e di curiosità più elevato, quindi ci sono alcune attività scolastiche che sono strettamente legate al senso di creatività e di curiosità di uno studente. Ora se andiamo a vedere l’aspetto legato al successo nella vita, per così dire, nelle mie slide c’è un diagramma non so se lo vedete per quanto riguarda appunto il raffronto tra il fatto che se si studia per esempio ingegneria, si ottengono redditi più elevati piuttosto che ad esempio per coloro che hanno studiato materie di carattere artistico, e quindi anche qui c’è una forma mentis. Nel ventunesimo secolo se noi ci chiediamo chi ha i lavori più innovativi al giorno d’oggi, il modo migliore per arrivare alla vetta è studiare materie legate all’ingegneria e all’informatica, ma che accade invece delle materie legate all’arte…
Tommaso Agasisti: Allora andiamo un po’ avanti, mi pare che il messaggio sintetico che stava uscendo fuori da quello che stava raccontando Andreas sia abbastanza chiaro da un lato l’idea, e credo che questo sia stato un contributo importante di Ocse comunque la si pensi, cioè che per primi hanno integrato la analisi, misurazione e valutazione delle competenze non cognitive all’interno degli obiettivi generali del sistema educativo e questo non era affatto scontato, soprattutto diversi anni fa quando ancora il tema non era così alle luci della ribalta, e secondo il tentativo imperfetto quanto si vuole di definire e misurare queste competenze consente di provare a dare concretezza a quel tentativo di valutazione che nelle esperienze precedenti abbiamo ascoltato. Darei allora la parola a Roberto. Roberto Ricci è Presidente degli Invalsi, se posso permettermi è un amico e siede in una sedia importante, in qualche modo pericolosa perché è nella posizione in cui si tratta di provare a mettere a sistema il tipo di riflessioni che abbiamo maturato fino a qui e che abbiamo cercato brevemente di illustrare. Allora mi pare che ci siano due questioni su cui mi piacerebbe sentire una tua opinione e una tua reazione, la prima è questa. Ieri sera raccontando a un’amica dell’incontro che avremmo fatto oggi e del tema delle non cognitive skills a un certo punto mi ha fatto una domanda molto chiara, ma è proprio necessario misurare queste competenze? Questo lavoro di valorizzazione e di sviluppo, quanto è rilevante il tema della misurazione attraverso le modalità più diverse di queste competenze, che ruolo quindi può avere su questo il sistema educativo Invalsi in particolare. Il secondo tema che ti vorrei porre è questo: abbiamo sentito alcune esperienze estremamente significative, sarebbe bello provare a renderle sistematiche e a renderle in qualche modo patrimonio del sistema educativo nel suo insieme, è possibile farlo? come? che ruolo può giocare su questo un Istituto importante in termini di regolazione, di valutazione del sistema come l’Invalsi? So che non sono due domande semplicissime ma l’interlocutore si presta a risposte complicate, Roberto a te.
Roberto Ricci: Grazie, grazie per questo invito. Alla sera stai a casa che è meglio così non verranno domande così complesse, però non mi sottraggo alle sollecitazioni che poi derivavano anche dall’ascolto delle esperienze che sono state rappresentate prima, poco tempo fa. La risposta è sì, io credo assolutamente che sia necessario trovare delle misure garbate ed appropriate di misurazione. E la ragione credo che la possiamo trovare anche nel fatto, se ci guardiamo in questo momento anche proprio qui davanti a tutti voi e io, dal mio punto di vista, vedo alcuni aspetti sui quali vorrei chiacchierare un attimo con voi e vorrei richiamare il fatto, a mio giudizio non casuale, della collocazione territoriale di questa esperienza, e allora tutto il resto del paese? L’autonomia, l’iniziativa è fondamentale, e promuoverla, sostenerla, incoraggiarla, aiutarla, ma un sistema, un sistema nazionale ha bisogno di intervenire anche laddove queste iniziative non ci sono. Io credo per esempio, e poi sicuramente Andreas ci porterà degli altri dati, delle altre riflessioni, io credo che sia importante trovare, e ripeto misure adeguate e garbate, anche di queste competenze, con questo anch’io non penso che sia necessaria o sia opportuno avere una materia, perché altrimenti non faremo che riprodurre degli schemi superati, però abbiamo bisogno anche di indicazioni da fornire laddove non sorgono spontaneamente queste iniziative così importanti. E vorrei condividere con voi alcune riflessioni. Noi parliamo dell’Italia ovviamente perché a noi interessa l’Italia, però in realtà questo problema è molto più vasto del nostro paese, tutti i paesi cosiddetti avanzati non hanno ottenuto dei risultati molto incoraggianti o molto soddisfacenti circa la loro capacità di superare il peso del contesto socio-culturale ed economico degli studenti rispetto ai risultati che gli studenti ottengono. Ma allora forse non è perché non siamo riusciti a far leva su questa dimensione, cioè proprio quegli aspetti di competenze socio e soft skills, caratteriali, come volete, ma forse è proprio qui il punto l’impossibilità, l’incapacità di forzare quello svantaggio perché non siamo intervenuti su questo. Io credo che questo potrebbe essere un punto di riflessione molto importante, però dobbiamo essere anche molto, molto concreti, perché io credo che la concretezza sia la forma maggiore di rispetto che possiamo riservare alla scuola oggi come oggi, altrimenti nella migliore delle ipotesi siamo inutili, nella migliore delle ipotesi. Ed è necessario discutere, trovare le soluzioni, ma proporre una visione verso la quale vogliamo portare la scuola concretamente, facendoci portatori di valori condivisi. Perché non ci nascondiamo che il concentrarci così tanto sulle competenze disciplinari, chiamiamoli come volete, è anche poi più semplice perché ci permette di eludere temi fondamentali che anche solo sei mesi fa, e non uso questo termine temporale a caso visto che oggi è il 23 di agosto, quindi per quello che ci succede da sei mesi a questa parte probabilmente non ci saremmo mai chiesti con questa forza. Cioè avere una visione, un quadro condiviso, e su questo L’Ocse ci sta aiutando tantissimo e mi permetto di dire, creandomi magari qualche problema, non dobbiamo avere paura di queste cose, perché quando Ocse ci ha proposto di misurare o provare a misurare queste competenze, qui dichiaro anche una mia incapacità di coinvolgimento, di convincimento, alla fine il nostro paese ha deciso di non partecipare, proprio perché abbiamo forse visto più gli aspetti negativi, non abbiamo avuto il coraggio di guardare quelli positivi. Io credo che questo sia una delle sfide. E poi un’altra cosa che mi permetto di sottolineare per quello che ho sentito nell’esperienze, la lettura dei documenti Ocse, anche della migliore letteratura, ci dicono molto chiaramente attenzione. Io vedo un pericolo, un pericolo che non ci deve portare ad arretrare, anzi tutt’altro, ma ad andare avanti con consapevolezza e con l’opportuna prudenza, a non porre le cosiddette competenze, soft, eccetera, io da statistico userei un codice quasi per uscire dall’imbarazzo di un’etichetta, sto scherzando sto ovviamente scherzando, e al di là di questo a non vederle in alternativa alle competenze fondamentali che sono la pietra angolare sulla quale dobbiamo continuare a lavorare, viceversa rischiamo di ripetere degli errori che negli ultimi trent’anni abbiamo commesso in altri settori, proprio perché non ci siamo detti le cose in modo chiaro. Sviluppare questo tipo di competenze è estremamente complesso, ineludibile, necessario, ma richiede di farsi carico di un quadro di riferimento condiviso, ritorno a questo punto, e che deve chiamare tutte le risorse, quelle scientifiche, quelle tecniche, ad esercitarsi sul lato positivo della storia e non sul lato negativo o non solo sul lato negativo. Per chi fa il mio mestiere e quindi che leggiamo, cerchiamo di leggere la letteratura, a studiare, io trovo elenchi dettagliatissimi dei pericoli o di ciò che non dobbiamo fare, trovo elenchi molto più sintetici, a volte non li trovo proprio ma forse sono io che non cerco nei luoghi giusti, su cosa dobbiamo fare. Dobbiamo avere il coraggio di rivisitare quello che abbiamo sempre percorso che ovviamente è confortante, però dobbiamo trovare gli spazi necessari per andare in questa direzione e non avere la paura, cosa che mi sembra molto chiara nelle esperienze che abbiamo ascoltato, anche di accoglierle concretamente le differenze che ci sono nella popolazione. Bellissima l’idea della filosofia negli istituti professionali ma, non so se abbiamo ascoltato bene, che esempio di filosofia c’è stato. L’esperienza dei decenni passati lo dice, chi è un po’ vecchietto come me ha pensato abbiamo conosciuto delle esperienze che è una riduzione della storia della filosofia che si faceva nel triennio liceale e riproposto negli istituti professionali. Non è questo che dobbiamo cercare, ovviamente dovremo trovare anche gli spazi per chi ha quel tipo di inclinazione, interesse, per sviluppare le competenze accademiche. Io credo che sia questo, e vedere le grandissime possibilità che abbiamo e che ci permettono anche di capitalizzare quello che abbiamo imparato in questi decenni, ma non dobbiamo avere paura di interpretare con categorie appropriate ad un fenomeno di massa, qual è la scuola nei paesi avanzati, anche alla luce di queste nuove frontiere, anzi mi verrebbe da dire sono frontiere che finalmente sono entrate nel radar, ma sono quelle che hanno fatto la differenza fino adesso, col solo cambiamento di prospettiva, che prima risolvevamo il problema mediante l’espulsione dal sistema di tutti coloro che non riuscivamo a intercettare semplicemente riversando su di loro mediante la loro espulsione. Oggi questo non ce lo possiamo permettere altrimenti la nostra società non tiene e quindi abbiamo bisogno di sviluppare queste competenze, e quindi anche di valutarle.
Tommaso Agasisti: Grazie mille Roberto, anzitutto per non esserti sottratto all’entrare nel merito delle due difficili domande che ci eravamo poste ma anche direi soprattutto per averci richiamato alla responsabilità che hanno i soggetti che stanno sperimentando positivamente esperienze in questo ambito, di provare a renderle esperienze di sistema, di provare a renderle occasione per tutti. Riproverei a dare la parola ad Andreas, ti chiederei grazie tanto, scusa l’inconveniente tecnico, ti chiederei di concludere la riflessione che avevi iniziato soprattutto con riferimento al tema della relazione tra le skills socio-emozionali e le competenze disciplinari, anche secondo le indicazioni che Roberto ha in qualche modo introdotto come tema provocatorio. Quindi se dal tuo punto di osservazione ci puoi concludere la tua riflessione su questo tema te ne saremmo estremamente grati.
Andreas Schleicher: In realtà avevo già parlato di questa relazione tra le competenze socio- emozionali e le competenze disciplinari accademiche, è molto importante vedere come ci sia un nesso tra le due e dovremmo tener conto anche del benessere dello studente. Per esempio se pensiamo al benessere psicologico dei ragazzini di dieci anni normalmente questi ragazzini sono a proprio agio con se stessi, invece un adolescente e un quindicenne vedete nel grafico la situazione diversa, i ragazzi di queste età non si sentono più a proprio agio a scuola, non si sentono più attivi, non si sentono più pieni di energie, questo è un dato di cui noi dobbiamo tenere conto, dobbiamo chiederci quali sono i motivi che stanno alla base del benessere degli studenti, e i nostri dati ci mostrano che questo è legato alle competenze socio-emozionali, e in effetti l’ottimismo, l’energia, tutto questo è legato a queste competenze. Roberto ha parlato della relazione tra le competenze socio-emozionali e le competenze disciplinari, ecco qui potete vedere aspetti legati per esempio all’energia, all’ottimismo, alla resistenza allo stress, sono dimensioni fondamentali del benessere dello studente, e quindi come possiamo sviluppare queste competenze socio-emozionali. Lo abbiamo studiato con grande attenzione ed abbiamo concluso che l’elemento di previsione maggiore, migliore per quanto riguarda il controllo emotivo, l’ottimismo degli studenti, era proprio la qualità del rapporto tra studente e insegnante. Lo studente che ha di fronte un insegnante che è pronto ad accompagnarli, a sostenerli, che comprende chi sono e dove vogliono andare, questi sono studenti che sono più ottimisti, che sanno far fronte allo stress. Non so fino a che punto ci siano relazioni di causa-effetto però davvero questo evidenzia come le competenze socio-emozionali sono ben più di quello che noi insegniamo, ma piuttosto si basano sul rapporto con gli studenti. Questo riguarda tutta una serie di aspetti delle caratteristiche personali degli studenti la loro persistenza, la loro empatia, la loro fiducia, la capacità di collaborare, curiosità, creatività, socievolezza, energia, motivazione, e tanti altri aspetti. Quindi credo sia davvero un aspetto molto importante di cui tenere conto, cioè le competenze socio-emozionali e le competenze disciplinari non si oppongono le une alle altre, se riusciamo a svilupparle contemporaneamente. Anch’io non amo molto la parola soft skills perché mi fa pensare che ci sia qualche cosa di soft, di debole, di qualcosa che non sia misurabile, e invece molte delle hard skills del ventesimo secolo, l’accumulo di queste nozioni, eccetera, sono diventate qualcosa di meno importante perché ora c’è stato l’intervento della tecnologia, quindi quelle che erano in passato le soft skills del passato appunto, ora sono le hard skills del ventesimo secolo. Grazie.
Tommaso Agasisti: Grazie mille Andreas, sono solo per quest’ultima suggestione del fatto che le soft skills sono le nuove hard skills ma anche per aver sottolineato, tra i vari, uno degli aspetti importanti che è quello della relazione tra studenti e docenti nello sviluppo di questo tipo di competenze, il che rilancia ovviamente il grande tema di come aiutare i docenti a sviluppare le proprie competenze per poi poter essere soggetti protagonisti dell’educazione dei ragazzi che sono loro affidati. Concludere questo incontro è molto difficile e quindi cercherò di farlo nel modo più sintetico possibile. Lo faccio anzitutto rilevando un fattore che mi ha sorpreso, lo confesso, del numero di persone che hanno partecipato a questo nostro dialogo, perché testimonia il fatto che il tema è un tema che comincia ad assumere una rilevanza e una importanza che raccoglie assieme tante persone che hanno domanda su come sviluppare al meglio questa dimensione dell’avventura educativa. Io dico solo due punti, il primo è questo: questo lavoro di sviluppo delle competenze socio-emozionali è un lavoro che, come si è visto dall’incontro di oggi, è fatto di riflessioni, ma è fatto molto di esperienze. Allora sarebbe bello provare a rincontrarsi alla prossima edizione del Meeting avendo un patrimonio di esperienze ampio e ricco, raccogliere suggerimenti e indicazioni non solo di natura metodologica ma anche di esperienze concrete sul campo che possano essere assieme poi confrontate. Da questo punto di vista sono in atto ricerche in questo ambito, ma chiunque di noi avesse esperienze da raccontare e da proporre sarebbe bello provare a raccoglierle e provare poi a metterle in un lavoro comune. Quindi poi cercheremo una forma il più possibile operativa per provare a raccogliere esperienze dal campo e provare poi insieme a sistematizzarle. E il secondo punto che devo dire, essendomi occupato un po’ dal punto di vista della ricerca di questo tema da qualche anno, che fino a qualche anno fa era impensabile. E cioè oggi il tema del ruolo che queste competenze socio-emozionali hanno nello sviluppo e nell’attività delle scuole, è un tema non più controverso. È passato finalmente, dico io, il tempo in cui un po’ l’idea era che le scuole avevano il compito di insegnare a leggere e a far di conto e a tutto quello che poi ne è conseguito, e che poi invece questa dimensione più integrale dei ragazzi, delle ragazze, fosse sviluppata da un’altra parte, oggi c’è una consapevolezza molto più forte da una parte sul fatto che queste competenze si sviluppano certamente anche in altri ambiti, ma secondo che la scuola ha un ruolo decisivo in questo compito. Mi ha molto colpito tra le tante cose che abbiamo sentito oggi, questa suggestione di Roberto sul fatto che i gap tra studenti che vengono da contesti familiari e sociali differenti persistano anche per l’incapacità delle scuole di saper lavorare su questa dimensione non puramente cognitiva e disciplinare sui propri ragazzi. Il fatto che questa sfida sia colta oggi come una sfida a tutti gli effetti ordinaria del nostro sistema educativo, mi pare un risultato importante su cui costruire una nuova consapevolezza del ruolo delle scuole. Ringrazio davvero tutti e tutte di avere partecipato a questo incontro, e consentitemi solo di ricordare, proprio perché il Meeting è un luogo dove è possibile condurre questi dialoghi e lavorare su questi temi in modo non scontato, sostenerlo è importante, spetta a ciascuno di noi. Come avete visto lungo tutta la fiera ci sono spazi chiamati “dona ora” in cui è possibile contribuire allo sviluppo del Meeting, sentiamola come una responsabilità di ciascuno di noi. Grazie mille a tutti e a tutte.