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Eroi fragili. Noi, le storie e il fascino delle serie tv
Armando Fumagalli, Docente di Semiotica, Università Cattolica di Milano e Direttore del Master Universitario International Screenwriting and Production (MISP); Neil Landau, Associate Professor and Executive Director of the MFA Film, Television and Digital Media Programm, University of Georgia. Introduce Davide Perillo, Giornalista.
Perché le serie ci appassionano in un modo sempre più viscerale? Che cosa troviamo di così interessante nei protagonisti e nelle loro vicende? Perché delle storie specifiche, particolari, diventano così capaci di parlare a tutti, e a volte di interrogarci a fondo? Un grande autore e showrunner americano, tra i massimi esponenti di questo mondo, si confronta con uno dei maggiori studiosi italiani per aiutarci a conoscere un mondo che fa sempre più parte della nostra vita e del nostro immaginario.
Con il sostegno di Università Cattolica, Tracce.
EROI FRAGILI. NOI, LE STORIE E IL FASCINO DELLE SERIE TV
Davide Perillo: Buongiorno a tutti, benvenuti a questo incontro. È un incontro che, come sapete, è la prosecuzione di un lavoro che qui al Meeting abbiamo iniziato l’anno scorso. Qualcuno di voi forse ricorderà la mostra che l’anno scorso abbiamo dedicato alle serie televisive e che ha girato anche l’Italia, quindi magari qualcuno di voi l’avrà vista dopo il Meeting dell’anno scorso e, se vi ricordate, una mostra che non nasceva per fare un’analisi di questo mondo, ma per cercare di capire che cosa ci attira, che cosa ci affascina di questo universo. Le serie televisive sono un linguaggio ormai trasversale, capillare, raccontano il nostro mondo, raccontano noi stessi, ma soprattutto ci scopriamo appassionati alle storie che vogliamo raccontare. E la mostra era esattamente questo tentativo di capire perché, di iniziare a capire, il perché di questa passione, di questa passione per delle storie umane, per dei personaggi. E infatti la proposta era di incontrare alcuni protagonisti di serie televisive. Poi c’era un’altra parte che ci aiutava a capire, a leggere l’incontro con questi personaggi e tra le persone che ci hanno aiutato a farlo c’era uno degli ospiti che quest’anno, grazie a Dio, è qui in carne ed ossa. È Neil Landau che presentiamo e che vi prego di accogliere con un applauso. Neil è uno showrunner, è un produttore, è un autore di serie, ha scritto una serie come Melrose Place, come Undressed, soprattutto è insegnante, è Executive Director dell’MFA Film, Television and Digital Media Program della University of Georgia ed è l’autore di questo libro che è “The TV showrunner’s roadmap” che è, possiamo dirlo, è la bibbia per chi fa, per chi si occupa di queste tematiche perché ha intervistato, seguito, raccontato sostanzialmente gli showrunner, cioè i produttori, gli scrittori, gli autori di tutte le maggiori serie televisive che vediamo prodotte, che arrivano poi anche da noi e, dato che non è roba da tutti i giorni avere a portata di mano l’autore della bibbia sono un po’, come dire… però l’inquietudine raddoppia perché l’altro ospite che abbiamo è altrettanto prestigioso e importante. Accogliamo anche lui, Armando Fumagalli. Credo di poter dire che è il maggiore studioso italiano di questo tema, di questo argomento. Insegna, come sappiamo, semiotica all’Università Cattolica di Milano dove dirige anche il Master in screenwriting production e anche lui, oltre a essere un insegnante, ieri facevamo una mappa informale di quanti tuoi alunni sono sparsi tra le case di produzione di serie televisive, e sono veramente tantissimi, ha piantato tutta una serie di bandierine di suoi allievi, ma anche lui è autore di questa che, se non è la bibbia, insomma è la Treccani dell’argomento “Storia delle serie tv” in due volumi, scritto insieme con Cassandra Albani, Paolo Braga e è un altro grande amico che ci aiuterà a entrare nel tema che abbiamo scelto oggi e nel titolo che abbiamo scelto oggi che non è casuale “Eroi fragili”, perché? Perché uno dei dati che abbiamo scoperto lavorando l’anno scorso sul mondo delle serie è che uno dei tratti comuni che ci affascinano di più, che ci colpiscono di più era uno dei tratti comuni anche ai protagonisti della mostra, quei sei personaggi, sette personaggi tratti da serie diversissime tra loro, ma i cui protagonisti avevano sicuramente un dato in comune: a differenza dei protagonisti del cinema di qualche anno fa, del linguaggio televisivo di qualche anno fa non sono eroi, non sono personaggi perfetti, protagonisti di storie a lieto fine dove c’è un buono che sconfiggerà i cattivi o che è capace di risolvere tutti i problemi, no sono tutti eroi protagonisti che hanno una loro fragilità, hanno domande, hanno lati oscuri, hanno dubbi, inquietudini e questi elementi sono tutti elementi in cui, in qualche modo, ritroviamo qualcosa di noi. Allora abbiamo voluto partire da qui e la prima domanda che vorrei fare a Neil è proprio su questo tema, cioè sulla fragilità, su questa vulnerabilità. Perché è così importante nel raccontare il mondo attraverso la chiave delle serie televisive?
Neil Landau: Grazie per essere qui, è un grande onore poter partecipare a questo incontro e anche visitare Rimini e questo bellissimo evento che è il Meeting, quindi davvero grazie per l’invito e se magari vedete che ho un volto perplesso è perché sentirò anche la traduzione mentre parlo, quindi abbiate pazienza se faccio espressioni strane. La fragilità dei personaggi, che quindi racchiudono punti forti e punti deboli, è un tema su cui ho riflettuto proprio ogni volta che ho cominciato a scrivere una serie. Io ho lavorato professionalmente a Hollywood per 35 anni e devo dire che essere uno sceneggiatore ti spinge a cominciare sempre dai paradossi. Così come i personaggi hanno lati buoni e lati negativi, ebbene, qualsiasi professione in questo settore implica, per essere un grande autore, avere una grande sensibilità innanzitutto, ma bisogna avere anche la pelle dura, per così dire, perché è un business e quindi anch’io a volte mi sono trovato diviso tra vulnerabilità sulle pagine e personaggi vulnerabili, ma poi un’industria che vuole invece personaggi forti e quindi come autori bisogna anche avere il coraggio di trovarsi di fronte a una pagina bianca, è la cosa più difficile. E a volte dico ai miei studenti: “Ebbene non si tratta di fantascienza, è ancora più difficile”, perché bisogna cominciare da zero, da niente e bisogna creare un mondo. In termini di personaggi, il fatto di avere tratti positivi e negativi, ebbene se pensiamo i personaggi che rimangono nel tempo e che sopravvivono nel tempo, magari che vengono dai film o dal mondo della tv, qual è l’obiettivo di qualsiasi autore o sceneggiatore? È quello di creare personaggi a tutto tondo, complessi così come sono le persone nella vita e i personaggi che durano nel tempo diventano icone come Tony Soprano, Olivia Pope. Si tratta di personaggi che apparentemente sono molto forti, tutti d’un pezzo, ma in realtà il pubblico riesce a vedere e percepire la loro vulnerabilità. Il motivo per cui la vulnerabilità è così importante, ma insieme anche alla forza o possiamo dire che sono, diciamo, hanno competenze in qualche settore, ma anche responsabilità. Il Doctor House, ad esempio, è un dottore eccellente bravissimo e sa come guarire le persone, come curarle, ma lui stesso ha tanti problemi interiori, deve camminare usando un bastone, prende farmaci e poi c’è anche un’altra contraddizione che si ricollega al paradosso: che in realtà detesti i pazienti. Quindi li cura, ma è anche un misantropo, odia gli esseri umani. Quindi quando si ha un personaggio contrassegnato da contraddizioni così forti è molto più interessante perché non è bidimensionale, una cosa o l’altra, ma è entrambe le cose allo stesso tempo. Tony Soprano, è un boss che è un assassino senza scrupoli, ma soffre anche di attacchi di panico, va in terapia, prende il Prozac, è un padre, un marito, quindi se uniamo tutti questi elementi, ebbene è questo che è il segreto del successo di questo show, di questa serie e anche di questo personaggio. Ecco, non voglio dilungarmi troppo, ma voglio aggiungere solo una cosa. Noi ci identifichiamo con questi personaggi perché nel corso del tempo vediamo quanto anch’essi siano vulnerabili, pieni di difetti, ma la natura umana in parte fa sì che quando ci si sente vulnerabili inizialmente si cerca di nascondere questa vulnerabilità agli altri e perché lo si fa? Si nasconde questa fragilità perché ci si vergogna di questa vulnerabilità, perché si teme poi di essere tagliati fuori, isolati, non accettati dalla società, dalla famiglia, dai colleghi e in ultima analisi si teme di rimanere soli perché si pensa poi di non essere capiti da nessuno. E le persone, e non solo i personaggi (perché i grandi personaggi sono come noi, è per questo che noi ci identifichiamo in loro) una cosa che ci accomuna tutti è che noi tutti dobbiamo lottare, dobbiamo lottare, ma cerchiamo anche di esprimere forza perché poi riusciamo a superare i problemi. A volte perdiamo, a volte vinciamo, però questo ci riporta al tema dell’empatia e l’empatia è il riconoscimento che noi tutti lottiamo per poi superare i problemi e quando vediamo dei personaggi forti, personaggi che vanno avanti per tante stagioni nelle serie, ebbene riusciamo a capire come si sentono, sappiamo benissimo certe sensazioni. È chiaro che noi non siamo dei boss della mafia come Tony Soprano, però sappiamo cosa vuol dire essere un padre, essere un marito oppure dover lottare nel campo professionale per avere successo, sappiamo cosa vuol dire andare in terapia (io vado in terapia, ad esempio) e al centro dell’empatia c’è il concetto che nessuno è perfetto e trovo che sia rassicurante in un certo qual modo, perché noi tutti dobbiamo affrontare la vita con i suoi problemi, poi vediamo gli eroi delle serie e vediamo che anche loro devono, così, affrontare la fatica della vita e questo ci permette di trascendere le nostre paure e quando trascendiamo e andiamo oltre le nostre paure mostriamo tutto il nostro coraggio e allora si ritorna alla nostra dimensione di artisti, di sceneggiatori e ci vuole coraggio per queste professioni. Bisogna anche avere fede e la fede è qualcosa di invisibile, è qualcosa che in un certo senso esiste, si presenta e poi prende forma nelle azioni. Questo fa sì che poi i personaggi corrispondano a una verità interiore ed evolvano ed esprimano tutto questo.
Davide Perillo: Abbiamo già tracciato, piantato un paletto importante, insomma io ho già capito un po’ di più che cosa, perché ci sentiamo legati appunto a questi personaggi, a questi protagonisti. Volevo chiedere a te Armando, che cosa, che peso ha secondo te l’empatia di cui parlava Neil e perché poi questa empatia… (perché è una domanda che per esempio veniva fuori tante volte quando abbiamo portato la mostra l’anno scorso in giro eccetera) perché tante volte questa empatia questo collegamento, questo nesso lo sentiamo anche con personaggi che sono antieroi, addirittura sono eroi negativi, Tony Soprano non è un modello… no? E allora di che si tratta?
Armando Fumagalli: Sì, no, intanto grazie per l’invito è un vero piacere essere qui anche con Neil che ci conosciamo da diversi anni, abbiamo avuto occasioni anche di collaborare in alcune cose, abbiamo amici comuni eccetera, quindi oltre al piacere in generale di essere qui al Meeting c’è anche questo aspetto ulteriore. Allora io sì, devo dire ho fatto i compiti, cioè ho visto la domanda che c’era sull’incontro, e ci ho riflettuto a lungo. Il tema dell’empatia che fra l’altro Neil tratta molto bene nel suo libro e prima dicevamo che i libri di sceneggiatura alle volte trattano di tanti temi eccetera, ma non toccano un tema che è assolutamente fondamentale che anch’io cerco, quando faccio lezione ai miei allievi, di insistere molto sul tema, cioè una questione fondamentale affinché la serie o il film funzioni è che dobbiamo entrare in risonanza, voler bene, sentirci vicini al personaggio. Questo lo chiamiamo empatia, poi lui dà una definizione anche più tecnica ma, insomma, sostanzialmente è questo. Allora quello che è successo negli ultimi anni è che con lo sviluppo e la anche complessificazione, la sofisticazione sempre maggiore e anche il fatto che in America soprattutto ci sono state molte serie televisive che sono state pensate per i pubblici di nicchia e non mainstream, c’è stato il gusto e la volontà di sceneggiatori di andare a lavorare su personaggi sempre più articolati, sempre più complessi e sempre più problematici. Perché gli vogliamo bene? Mi è venuta in mente una cosa che mi aveva molto colpito: anni fa feci tradurre dalle edizioni Ares in Italia un libro che in originale si chiamava “Behind the screen”, in italiano abbiamo dato un titolo più chiaro perché si chiamava “Cristiani a Hollywood” perché era una serie di testimonianze di sceneggiatori produttori hollywoodiani cristiani, cattolici, protestanti eccetera che parlavano del loro mestiere e c’era un saggio, un breve articolo di Barbara Hall che è una showrunner che ha fatto Joan of Arcadia, Madam Secretary e altre serie e lei diceva: “Io quando scrivo e ho a che fare con i miei personaggi mi trovo in qualche modo dal punto di vista di Dio, cioè li amo anche quando fanno delle cose sbagliate”. Allora il punto è che, io penso che quando si racconta bene in qualche modo si porta lo spettatore a questo punto di vista. Cioè riusciamo ad avere comprensione e direi addirittura (uso una parola che usa molto Papa Francesco, ma mi sembra connessa, vedrete che non è a sproposito) misericordia nei confronti di questi personaggi, anche quando sappiamo che sbagliano. Lui ha fatto l’esempio di Tony Soprano eccetera, ma pensiamo anche a dei film che magari sono più universalmente noti, pensiamo un superclassico come Amadeus: Amadeus, il protagonista Salieri fa tutta una serie di cose sbagliate, ma noi abbiamo capito perché e gli vogliamo bene lo stesso. Allora questa è una capacità, ovviamente una capacità tecnica di scrittura e una capacità anche umana di comprensione, è una capacità che aiuta ovviamente poi chi vede serie televisive e chi vede e chi fruisce in generale narrazioni profonde e sofisticate, a non essere banale e ad avere anche uno sguardo più ricco, più articolato e più complesso sulle questioni umane e sull’umanità. Quindi per esempio chi ha una fruizione di grandi romanzi, di grandi film, di serie televisive fatte bene è più facile che non sia, per esempio, un moralista bacchettone. Quale è però il rischio dall’altra parte? Il rischio dall’altra parte è che, soprattutto se c’è una fruizione diciamo bulimica, questo dobbiamo dirlo, se c’è una fruizione bulimica e se questo lavoro, ovviamente questo lavoro è fatto in modo intelligente, in modo sofisticato, sottolineando sempre degli aspetti piuttosto che degli altri. L’esempio che io faccio sempre, anche qui penso sia molto semplice e chiaro: Il padrino, il nostro Michael, se lo vedessimo da fuori diremmo questo è un… se lo leggessimo sul giornale diremmo: è un pluriassassino, un capo della mafia. Quando abbiamo visto il film, alla fine del film gli vogliamo bene e quasi quasi ci dimentichiamo che sia… che abbia ammazzato un sacco di gente tra cui suo cognato eccetera eccetera. Perché? Perché la narrazione fatta bene ha la capacità di illuminare degli aspetti e farci dimenticare degli altri (qui 30 secondi di filosofia morale, di metafisica, se mi è concesso) perché il male è sempre la scelta di un bene minore, di un bene disordinato, però è sempre un bene. Quindi non è mai un male assoluto e purissimo. Quindi da qui la capacità, se io metto il faretto sulla parte di bene, nel caso del Padrino, il fatto che Michael sta difendendo la sua famiglia, il fatto che Michael vuole proteggere, il fatto che Michael non vuole farsi uccidere dagli altri eccetera eccetera… allora questo lo dico perché il bello delle serie televisive e quello che stanno portando alla nostra cultura è una grande sottigliezza e una grande complessità nel vedere l’essere umano e nel non essere mai banali. Se vogliamo però dire, perché c’è anche il rischio, è quello di avere, se uno non ha comunque dei principi sani e se si fa poi confondere le idee da una sorta di totale marmellata etica, di arrivare alla fine a non sapere più dove andare. Ecco questo direi. Però è vero che c’è questa capacità sempre più sofisticata e sempre più ammirevole, devo dire tante volte si rimane veramente sorpresi, della capacità di farci amare. L’altro esempio famosissimo è Breaking Bad, uno che tendenzialmente ha sbagliato, gli vogliamo bene sin dall’inizio lo capiamo perché i primi 20 minuti del pilota di Breaking Bad gliene succedono talmente tante che noi non possiamo non volergli bene e diciamo: va be’ ok, stai spacciando metanfetamine però ti voglio bene lo stesso. E qui torniamo alla misericordia, al punto di vista di Dio. In questo Breaking Bad secondo me, e qui chiudo, è invece da un punto di vista morale molto sana perché è una storia che ha la struttura di una tragedia. La struttura della tragedia è: noi vediamo uno che sbaglia e vediamo che questo sbaglio lo porta all’autodistruzione. Questo è anche Shakespeare, semplicemente Breaking Bad è uno Shakespeare in cinque stagioni, invece di essere in due ore e mezza o tre ore di tragedia. Diverso sono invece dei racconti in cui, diciamo, il confine fra bene e male viene in qualche modo cancellato o viene molto molto molto sfumato, o viene anche qualche volta, bisogna dirlo, anche confuso. Ecco, questo direi.
Davide Perillo: Questo Armando, questo credo che ci richiami già a un aspetto importante, come dire, della responsabilità che abbiamo in qualche modo quando ci mettiamo davanti a uno schermo no, cioè è un… è qualcosa che ci chiama in causa e quindi sta a noi scegliere se guardarlo in un modo passivo o se dare credito all’interesse che vediamo sorgere e capire che lavoro ci chiede di fare. Però c’era una parola che usavi che mi colpiva molto perché coincide con una parola che abbiamo sentito usare a Neil proprio nel contributo che ci ha mandato per la mostra dell’anno scorso. Tu parlavi di misericordia e lui parlava invece di bisogno di redenzione, di perdono. Che cosa vuol dire e che cosa ci dice di noi stessi che un personaggio o per lo meno, il perno di tanti di questi personaggi è appunto, non genericamente, una difficoltà nell’affrontare i problemi della vita che crea quella tensione drammatica che regge le storie, ma proprio un bisogno profondo acuto di un Altro che ti perdoni?
Neil Landau: Quando ho cominciato a scrivere sull’empatia ho cominciato anche a riflettere sulla sua essenza, su cosa la costituisce e mi ritrovavo sempre a tornare a un’idea. La cosa più difficile che viene chiesta a tutti noi nella vita, e magari ci stavate già pensando prima, è proprio quella di perdonare qualcuno, perché tutti facciamo errori, fa parte della natura umana, e empatia significa anche capire perché magari qualcuno ha fatto una certa cosa, in Breaking Bad, ad esempio. Walter quindi è malato terminale di cancro ai polmoni e ha un figlio che sta arrivando e diciamo che verso di lui l’empatia consiste nel dire… be’, Armando ha detto che è diviso, appunto, fra due situazioni problematiche, se non facesse niente e non cominciasse quindi a spacciare metanfetamine, ebbene una volta morto lascerebbe la sua famiglia in tanti problemi, quindi diciamo che decide di fare delle cose che magari inizialmente non approviamo, ma poi capiamo il perché fa quelle cose e questo è un punto molto importante. Quindi nel primo episodio pilota della serie, alla fine dell’episodio pilota, dico agli studenti che ci deve essere un allineamento proprio con il pubblico, che il pubblico abbia accettato il personaggio e voglia andare avanti con lui, quindi alla fine del primo episodio c’è proprio un’accettazione, quindi c’è proprio questo processo fluido di accettazione. In alcuni episodi magari approviamo di più quello che fa il personaggio, in altri meno, quindi c’è un’oscillazione, però rimaniamo coinvolti, rimaniamo legati e anzi vogliamo vedere quali saranno le scelte fatte dal personaggio perché abbiamo capito il perché le compie a un certo livello. Mi piace anche fare una distinzione tra qualcosa che è molto misterioso sui personaggi rispetto anche allo storytelling e che è questa: separare i fatti dalle emozioni. Se osserviamo i fatti, ad esempio in una serie come Breaking Bad, vediamo che ci sono anche dei fatti che magari non hanno molto senso rispetto poi al legame che il pubblico sviluppa col personaggio (ne parlavamo proprio ieri sera). Walter infrange la legge, compie un sacco di crimini, quindi proprio perde tutta la sua morale la sua etica e Skyler, sua moglie, invece è il personaggio che il pubblico non ama particolarmente. Per quale motivo? Non ha fatto nulla di sbagliato! Perché emotivamente, emozionalmente ci leghiamo molto di più a Walter? Perché dal punto di vista del personaggio… ebbene i personaggi hanno obiettivi consci e inconsci. Possiamo anche dire che i personaggi possono avere anche degli obiettivi più consci e chiari, e poi hanno anche dei bisogni più profondi e di solito questi bisogni sono legati a delle emozioni. Quindi senza emozioni non c’è empatia. La componente principale dell’empatia consiste proprio nel legame emotivo che stabiliamo con i personaggi. Ecco, non so se questa espressione riuscirà a essere tradotta bene, ma c’è appunto l’empatia e, per così dire, la solidarietà, il simpatizzare, la simpatia. Quindi sono due parole diverse. Adesso chiarisco meglio questo concetto. Quando avevo sei anni la mia famiglia viveva nel Queens a New York, in un piccolo appartamento… è un’ottima memoria che mi aiuta tantissimo nel mio lavoro di sceneggiatore. Ricordo una mattina fui svegliato molto presto, il mio fratello più grande e mia madre stavano dormendo, mio padre era sveglio e stava indossando le sue scarpe da basket, era domenica mattina. Lui ogni domenica mattina andava a giocare a basket coi suoi amici e ricordo quella mattina benissimo perché di solito gli saltavo sulle spalle, lo abbracciavo e ricordo il profumo del suo dopo barba… e quindi lui uscì per andare a giocare a basket, come ogni domenica. Circa un’ora e mezza dopo, mia madre stava preparando la colazione per me e mio fratello e suonò il telefono, mia madre si agitò e Loretta poi, la sua migliore amica, arrivò poco dopo per badare a me e mio fratello e mia madre andò all’ospedale da sola e le era stato detto che nostro padre era lì e lo cercava (non c’erano i computer allora) e la persona cominciò a guardare alla reception vari appunti e disse: “Ah, deve andare nella camera mortuaria”. E così mia madre apprese che mio padre all’età di 39 anni era morto, era crollato a causa di un infarto mentre stava giocando a basket e addirittura, purtroppo, mancò già nell’ambulanza, non ce la fece nemmeno ad arrivare vivo in ospedale. Questi sono i fatti della storia. Se osserviamo i fatti, senza tutti i dettagli che vi ho dato, potreste provare solidarietà e vicinanza verso di me. Che peccato, che storia triste e terribile! Ma io vi ho raccontato questa storia e avete provato, non solo solidarietà, ma anche empatia e perché io vi ho fornito il contesto della storia, perché vi ho dato dei dettagli e questi dettagli hanno evocato delle emozioni e questo vi ha fatto provare qualcosa. Quindi l’empatia è molto più complessa. Mia madre mi ha detto che io, appunto avevo solo sei anni, e mia madre mi disse: quando il telefono suonò io dissi così d’impulso “Papà è morto” e non avevo idea, mia madre mi ha detto che io dissi questa frase e io ho detto: “Davvero?!”. E come anche voi potrete immaginare, pensate a mia madre che era a malapena andata alla scuola superiore, si precipita in ospedale e scopre che la sua vita è distrutta, perché quell’evento cambiò tutto. Vi racconto questa storia rispetto all’empatia perché per suscitare empatia occorrono dettagli, occorre quindi essere specifici per definire un contesto, uno scenario e suscitare emozioni. E questa storia, in un certo senso, è alla base di tutto quello che ho scritto nella mia vita finora. Io scrivo di perdita, di lutto, di abbandono, cosa significa essere un uomo perché io sono cresciuto senza un papà. Cosa significa anche essere papà perché io ho due figli e per me (e lo vedo anche con gli studenti e anche con tanti amici che sono sceneggiatori e showrunner di successo) vedo che spesso ognuno di noi ha una storia a cui si ritorna nel lavoro di scrittura che spesso è una storia anche personale, e perché si torna sempre a questa storia? Perché è quasi come se dovessimo risolverla, darle un senso. Io ad esempio non ho mai capito perché questa cosa è capitata proprio a me, tutti i miei amici avevano il loro papà, perché questa cosa è successa proprio a me? È stato un caso? E ho provato un senso di abbandono da parte di mio padre, anche se chiaramente non è stata colpa sua. E la lezione di tutta questa storia, quella più importante è che ci sono voluti quasi 50 anni per perdonarlo, perché io ho sempre provato un senso di abbandono, come se ci avesse abbandonato. Lui ha avuto un infarto, è morto per quello, non è stata una sua scelta, ma quel ragazzino sentì che era stato abbandonato e pensò che forse era stata colpa sua, che magari non gli voleva bene e ho sentito questo enorme vuoto nella mia vita e quindi quando poi si va a scrivere a un livello profondo si va a sentire quel vuoto emotivo e lo si prova anche verso i personaggi. Quindi quando si cerca empatia in una storia, non riguarda solo la vulnerabilità o la fragilità del personaggio ma ci può essere un vuoto emotivo che si cerca di colmare per tutta la vita e be’, in una serie tv non c’è mai mancanza di storia perché più grande è il vuoto e più c’è una fonte a cui ispirarsi.
Davide Perillo: Questo desiderio di riempire un vuoto, questo desiderio di colmare il cuore che domanda poi è la molla che spinge i personaggi a cambiare nel corso delle serie. Uno degli effetti per cui le serie televisive ci accompagnano così è il fatto che lì vediamo raccontare fino in fondo questo desiderio di cambiamento, i personaggi si evolvono. Cosa vuol dire che l’evoluzione a cui assistiamo, che ci prende non è soltanto il desiderio di capire cosa succederà dopo al personaggio, ma qualcosa di più profondo, cioè un desiderio di vedere qualcosa che ci riguarda noi, di riempire in qualche modo anche per noi il vuoto di cui parlava Neil.
Armando Fumagalli: Sì, sì assolutamente sì, sì, sì. Allora, vediamo… ho in mente diverse cose, vediamo se le metto ordinatamente. Allora, anzitutto quello che dicevamo prima, cioè la capacità di costruire empatia ci dà, se vogliamo usare questa che non è solo una metafora, il punto di vista di Dio sulle persone, cioè un punto di vista amorevole, anche quando sbagliano. Pensate anche di nuovo un film che magari è: “Le vite degli altri”. “Le vite degli altri”, vediamo dei personaggi che sbagliano, ma gli vogliamo bene comunque, anche se sbagliano e questo non è facile, è una grande capacità e per lo spettatore è una grande illuminazione. Nello stesso tempo vediamo personaggi che hanno bisogno di cambiare, hanno dei vuoti da riempire e qui giustamente Neil nel suo libro, per esempio, dice che non è tanto importante il plot, la trama eccetera, eccetera, ma l’arco del personaggio: nelle storie scritte bene noi capiamo che il personaggio deve risolvere dei problemi, deve raggiungere una pienezza, deve colmare un vuoto. Poi in alcuni casi ci riesce, nelle… (qui ci sono i problemi anche tecnici su cui non abbiamo tempo di entrare), le cosiddette limited series, le serie più lunghe eccetera, normalmente una limited series è come se fosse un film lungo in 6 ore o in 8 ore, tipo The Queen’s Gambit, la Regina degli Scacchi, oppure altre miniserie o Chernobyl (si dovrebbe dire Chernobyl) e serie così. In questo devo dire che proprio a partire da questi formati di serie breve una cosa che, ecco, volevo dire è che ci sono anche (ed è un incoraggiamento) ci sono serie italiane che da questo punto di vista sono molto interessanti. Io so che i giovani e soprattutto i giovani italiani hanno una grossa, come dire, mancanza di fiducia nella serialità italiana, poi succedono delle cose tipo che appunto Mare Fuori che è andato su Rai 2 la mettono su Netflix o una serie della Luz che è la società con cui io collaboro che è Blanca che è andata su Rai 1, la mettono su Netflix e dicono: “Ah, ma che bella eccetera, come è interessante!”. La serialità italiana di solito ha questa caratteristica che tende a.… rispetto alla serialità cable americana, la serialità americana che invece è sui canali generalisti è un po’ diversa ma quella cable di cui si parla di più o quella delle piattaforme, tende ad avere dei personaggi con rilevanti lati negativi, con molto cinismo eccetera. La serialità italiana invece è un pochino più propositiva, un pochino più positiva. E secondo me è interessante anche considerare e valutare queste differenze, perché queste differenze fanno anche sì che alcune cose molto sofisticate vincono tanti premi, però poi rimangono sempre con pubblici che sono dei pubblici tendenzialmente di nicchia, pubblici limitati. Ieri sera si parlava di Succession che è una serie molto sofisticata, molto complessa eccetera, fa più o meno adesso due milioni di spettatori in un Paese di 330 milioni di persone su HBO, che sono numeri relativamente piccoli. Mentre la serialità italiana alle volte raggiunge delle percentuali di spettatori molto molto ampie facendo dei prodotti fatti bene. Voglio citarne due (e qui concludo anche perché so che ci sono qui presenti alcuni che ci hanno lavorato, qui in sala che ci hanno lavorato direttamente) una è “Doc – Nelle tue mani”, che secondo me è una produzione molto bella che porta, che ha portato la serialità italiana a un livello internazionale importante, non a caso la serie è stata venduta in molti Paesi, è stata la più vista in Francia nelle serate in cui andata in onda, e un’altra serie invece più di nicchia, ma fatta molto bene, molto internazionale che è Diavoli, la serie su Sky, (anche qui c’è una persona che ci ha lavorato), quindi sono dei segnali molto interessanti di un’evoluzione e di una crescita anche della serialità italiana perché, diciamo, studiamo le serie americane e, come dire, ne prendiamo la parte migliore, spero, e cerchiamo di andare avanti anche… cerchiamo (le persone che ci lavorano soprattutto) di, come dire, di portare quello che c’è di migliore su un prodotto che poi esprime anche la nostra sensibilità specifica.
Davide Perillo: La stessa domanda la faccio a te Neil, perché abbiamo così bisogno di vedere che il personaggio cambia, guadagna in qualche modo di più della sua umanità, cioè cambia, diventa migliore, peggiore ma comunque si evolve nel corso di una serie?
Neil Landau: Ma penso che solo il fatto di essere vivi ci fa cambiare continuamente, però c’è una differenza importante. Abbiamo la nostra zona di comfort, quindi abbiamo il nostro modus operandi e poi ci assumiamo dei rischi. Siamo un po’ attratti dal fatto di uscire dalla nostra comfort zone, o uno se ha timore a uscire dalla sua zona di comfort è uno dei motivi per i quali si va al cinema e si guardano i film, perché si può fare esperienza osservando altri che escono dalla loro zona di comfort, ma uno sta lì seduto in poltrona col telecomando, tranquillo: è quello che chiamo l’empatia on demand, non bisogna vivere esattamente queste esperienze estreme di uscita dalla zona di comfort, si guardano le altre persone che lo fanno. Però questa cosa in realtà, come dicevano i greci, è catartica, si può fare una esperienza emotiva come pubblico anche senza fare niente, stando lì a guardare la tv, guardare la tv è la cosa più passiva che si possa fare, eppure a livello neurologico e di chimica, neurochimico se uno guarda una serie di suspense o che riguarda magari second life, una vita parallela e si vedono vite che trascorrono diverse epoche si può avere proprio un rilascio emotivo, una catarsi: si può ridere, si può piangere, ci si può nascondere dallo schermo. Sappiamo anche che non è vero, però questo ci fa scatenare delle emozioni e questo aumenterà i nostri livelli di serotonina quindi la nostra chimica cerebrale reagirà in modo tale che sembra che stia succedendo a noi quella cosa. E l’altro punto di cui volevo parlare è questo: tutti i personaggi cominciano una storia all’interno di un contesto storico e hanno una loro storia. Tutto quello che succede del vuoto emotivo che hanno era successo nel passato, quindi c’è questa specie di dualismo del narratore che pone una domanda centrale, vogliamo scoprire una verità e continuiamo a guardare perché vogliamo vedere quello che succede dopo. Quindi c’è una domanda centrale che riguarda il futuro e continuiamo a guardare la serie per vedere che cosa succederà. Però bisogna anche ricordarsi che allo stesso tempo, cioè su un binario parallelo c’è un mistero centrale che riguarda il passato. Quindi la domanda centrale è: cosa succederà? E poi il mistero centrale è: che cos’è successo, perché il personaggio si comporta in questo modo? E parlando di Succession che è effettivamente una serie di nicchia, quando l’ho visto la prima… Quanti di voi hanno visto Succession? È piuttosto conosciuta in Italia, no? Qualcuno di voi… La nicchia, vediamo che è la nicchia che l’ha visto! Quando ho visto Succession la prima volta ho pensato: ma perché mi dovrebbero interessare queste persone? Sono miliardari, sono avari, sono egoisti… e per me la parte importante è arrivata proprio all’inizio, quando si vede in apertura tutti questi personaggi concentrati su sé stessi da bambini e si vedono poi come si rapportano con i loro genitori, con il loro padre che è sempre distratto, che guarda al telefono, che si allontana da loro e quando si vedono i bambini, per esempio, nel campo da tennis non c’è gioia, sono lì impalati senza espressioni. E parlo di questa cosa perché una parte dell’empatia dell’evoluzione dei personaggi per me e per la mia curiosità è che cos’è che non funziona in questo filmato, è quello che mi fa pensare, che cosa manca in questa scena? Quindi in Succession proprio all’inizio nella sigla iniziale cosa mancano? I sorrisi, le risate, la gioia e il gioco e poi non c’è la madre, non è lì. E poi comincia l’episodio e si vedono da adulti, però sono danneggiati e ho scritto un capitolo del libro “Lifestyles of the rich and damaged”, lo stile di vita dei ricchi e dei danneggiati e questa vulnerabilità per me è presente in maniera estrema in questi personaggi perché hanno dei rapporti familiari che sono solo di tipo transazionale, invece dell’amore, l’amore incondizionato tutto si basa sul denaro, sull’approvazione, sul potere. Questo non sta al centro della famiglia e quindi, come ho pensato io, perché non posso avere un padre e una madre come in una famiglia normale, anche se questi sono multimilionari hanno questo vuoto emotivo e questa è una differenza molto importante. Poi la storia continua e l’evoluzione viene dal passato che continua a tirare, a tirarli da dietro e come spettatore e come narratore della storia voglio sempre essere aperto alla scoperta di nuove dimensioni dei miei personaggi a cui non avevo pensato prima, fa parte degli aspetti misteriosi della creazione. Non sappiamo perché alcune cose succedono, a volte diciamo: wow… c’è qualcosa che viene dal passato una cosa piccola, ma è una cosa trasformativa per i narratori e per gli scrittori, soprattutto per i narratori. Gabriel García Márquez l’autore di Cent’anni di solitudine e L’amore ai tempi del colera, ha questa grande citazione riguardo ai personaggi. Lui dice: conduciamo tutti tre vite: la nostra vita pubblica, la nostra vita privata e la nostra vita segreta. E come narratore, la cosa che mi affascina tantissimo è la parte segreta, è quello che quando scopro quello che è nascosto ecco che quello fa parte dell’evoluzione, quando si aggiungono delle informazioni cambia tutto poi. Anche mio figlio… e mia madre era come pazza perché, lo era un po’, io avevo cominciato a scrivere delle commedie e mia madre non mi diceva quale era il segreto, la passione segreta di mio padre che era quello di essere uno scrittore. non me l’ha detto, me l’ha detto quando ho avuto avevo 40 anni e ho detto: “Ma mamma, non pensavi che quella fosse una cosa importante e da dirmi che avrebbe cambiato le cose per me?”. Comunque… la mia mamma si è risposata quando avevo 9 anni, si è poi risposata con un uomo violento, aveva questo compagno che aveva due regole per me: che non potevo scrivere, quindi mi tolse la macchina da scrivere e poi non mi lasciava guardare la televisione, mi diceva: “Esci, vai a fare sport, vai a giocare a calcio” e io non volevo mai giocare ai giochi di palla, solo a 45 anni ho capito il motivo, perché mio padre era morto giocando a pallacanestro. Quindi facciamo sempre scoperte su di noi, sulle altre persone, ma non ce ne rendiamo sempre conto e questo fa parte della nostra evoluzione, come un’epifania che è un prendere coscienza così, in maniera improvvisa, ma a volte ci vogliono molti anni prima di arrivare a quel punto che ci fa fare clic e capire le cose.
Davide Perillo: Allora ti faccio ancora una domanda personale, se c’è qualche personaggio, qualche serie che hai incontrato, magari su cui hai lavorato che ti ha aiutato in qualche modo di più ad affrontare questo vuoto? Lo chiediamo a Neil, poi lo chiederò anche ad Armando.
Neil Landau: Un’ottima domanda. Be’ recentemente, non so quante persone hanno visto questa serie, Wandavision su Disney+, qualcuno l’ha vista? È secondo me fantastica. Wandavision come Schitt’s Creek, Euphoria è una serie che amo, penso sia davvero eccezionale. E al centro di queste serie c’è il tema della perdita e Jac Schaeffer che è stato il capo sceneggiatore di Wandavision ha dichiarato che questa serie limitata è stata strutturata secondo cinque livelli, quindi: la rabbia, la negazione, la contrattazione, la depressione, l’accettazione. Ma questa struttura non è sequenziale, non è che la rabbia poi si esaurisce, si passa alla fase successiva, quindi negazione… quindi il lutto è invece un movimento, per così dire, di fluttuazione. In ognuna di queste serie c’è la perdita e io ero curioso di vedere quando ci sarebbe poi stata, per così dire, la fase di guarigione, perché è quella che volevo vedere. Io sono cresciuto con la tv, la tv mi ha cresciuto in un certo senso, perché mia madre lavorava a tempo pieno, io arrivavo a casa da solo e accendevo la tv, era diventata il mio migliore amico e guardavo sullo schermo chi riusciva a raccogliere le sfide che sembravano impossibili a farcela e quindi, in un certo senso, ho pensato: be’ si può riuscire a vincere le sfide. Ma Wandavision davvero ha avuto un effetto forte su di me perché, appunto, c’è proprio questo tema del dover lasciare andare e rinunciare alla propria visione e mi ha toccato molto.
Davide Perillo: Per te Armando c’è una serie, un personaggio che ti ha fatto fare un passo umano.
Armando Fumagalli: Guarda, ci stavo riflettendo e devo dire che a me personalmente, mi sono accorto che a me piacciono le storie di persone normali. Tutto questo discorso che abbiamo fatto sui cattivi, sulle serie di cattivi non sono serie che mi prendono molto personalmente, almeno, non fino adesso magari in futuro sì. Se dovessi dire nella mia top five eccetera così, io metterei Downton Abbey sicuramente e metterei anche una serie coreana che ho visto recentemente, uscita da poco su Apple TV, che si chiama Pachinko che è bellissima… che bellissima. Perché io penso che qui ci sia una sfida anche interessante che è la sfida che l’autore stesso di Downton Abbey, Julian Fellowes, un po’ ha detto, dice: “Ma io tutto sommato sono convinto che la maggior parte delle persone siano – lui lo diceva in inglese – decent people, ma la vita di queste persone è una vita interessante, una vita che ha conflitti” perché poi tecnicamente il problema è dire, diciamolo con una citazione colta, e fai vedere come ha sbagliato Tolstoj a dire: “Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. In realtà secondo me anche le famiglie felici sono ciascuna felice a modo suo e anche lì ci sono tante cose da raccontare perché la vita normale ha sempre dei conflitti che è quello che tecnicamente poi ha fatto l’autore di Downton Abbey perché, se andiamo a vedere la serie, ha costruito dei personaggi che sono tendenzialmente persone normali (non sono dei criminali, non sono gli psicopatici, non sono degli assassini, eccetera eccetera), però la serie è interessantissima e piena di elementi interessanti perché? Perché ha costruito e ha fatto vedere, qui c’è la capacità di narrazione, una storia come quella di Billy Elliot che sembra una storia banalissima un ragazzino che vuole fare il ballerino è diventato un grandissimo successo mondiale, un film amato da 20 anni, la gente continua a vederlo, perché? Perché chi ha raccontato è riuscito a raccontarlo in modo molto interessante, così come The King’s Speech: lo sceneggiatore, che conosco bene perché è venuto a fare lezioni da noi eccetera, ha vinto l’Oscar eccetera, lui dice: “Va be’, io sono andato a Hollywood a far finanziare questa cosa, mi dicevano: no ma che interesserà alla gente di uno che balbetta e deve imparare a parlare?”. No, il problema non è, diciamo, vedere la posta in gioco da fuori, il problema è come tu riesci a raccontare e far capire che cosa significa questo in profondità. Allora secondo me qui c’è una grande challenge e è una cosa che a me piace molto come sfida: riuscire a raccontare in modo interessante, profondo, coinvolgente e a dire delle cose anche di persone che non sono né psicopatici, né assassini e che sono persone normali. E qui, questo ovviamente poi dipende dalla sensibilità e dal vissuto di ciascuno, perché alla fine della fiera, come ha detto Neil benissimo, ciascuno di noi racconta nei romanzi, nelle serie televisive, nei film in fondo a partire sempre dal suo vissuto e dalla sua esperienza personale. Allora qui io volevo lanciare anche una così, come dire, un’idea alle persone che sono qui. Questo è un settore che sta crescendo, in Italia come in tutto il mondo. Per cui è importante avere tante voci, avere anche voci, diciamo, fra virgolette diverse e che ogni esperienza venga raccontata e ogni punto di vista sulla realtà. E sarebbe bello che anche persone che vivono quest’esperienza come quella del Meeting e di tante altre cose, potessero e poi in futuro essere parte di questo mondo e raccontare il loro vissuto e la loro esperienza di tante cose, di cos’è la vita, quali sono i nostri… i problemi esistenziali, cos’è una famiglia, cos’è l’amore, che cos’è il perdono e tutte queste cose. Questo secondo me è una cosa aperta e in particolare in questo momento perché siamo in una fase che magari sarà una bolla che fra tre anni o fra cinque anni esploderà… secondo me no, secondo me il bisogno di entertainment c’è. Robert McKee in un libro dice (quando parlò con sua madre, mi sembra) disse: “Ma guarda, la gente avrà sempre bisogno di entertainment” nel senso più profondo del termine e cioè di storie che aiutano a esplorare il mondo, a vivere intensamente la sintesi della vita di qualcuno, che poi alla fine è questo che facciamo attraverso le storie.
Davide Perillo: Il mercato è aperto, buttatevi! Appunto, io avrei qualche altra decina di domande, ma purtroppo quello che sta chiudendo è il tempo che abbiamo a disposizione, però volevo fare un’ultima domanda molto breve, ahimè con una risposta anche breve a Neil, perché un’altra delle cose che ci hanno colpito tantissimo l’anno scorso e che tu hai usato anche parlando di serie televisive: la parola speranza. Cioè tu hai detto: “Guardare le serie mi dà speranza”. Ci spieghi rapidamente perché.
Neil Landau: Ok, so che il tempo sta finendo quindi sarò a breve. Quindi per favore non arrabbiatevi. Perché l’industria televisiva e del cinema sono industrie globali oggi e questo fa sì che ci siano anche adattamenti in inglese di serie ambientate altrove, ma ci sono anche serie locali in lingue locali che sono disponibili anche per noi, ad esempio: La casa di carta, L’amica geniale, Squid Game. E vediamo come le persone vivono in altre parti del mondo e questo cosa ci mostra? Ci mostra che in realtà siamo tutti accomunati e quello che ci accomuna è molto più grande di quello che ci divide. Quindi vediamo che i semini dell’empatia si diffondono. Guardiamo cosa sta succedendo adesso in Ucraina, in Russia. Se si guardano delle serie ambientate in Africa, in altre parti del mondo e magari ci si lega a quei personaggi si capisce che questi personaggi vivono come me, perché devo odiare qualcuno e questo mi dà speranza. Ho amici in tutto il mondo, grazie a queste serie che sono ambientate in tutto il mondo e quindi non c’è più un’unica prospettiva, perché è solo avere una prospettiva che è pericoloso e invece vedere tante prospettive è molto diverso. C’è qualcuno che è qui in sala e che viene dall’Ucraina o dalla Russia? Io ho parlato molti anni fa a una conferenza tipo questa in Russia e ho detto: sono un cittadino del mondo e come cittadino del mondo provo speranza pensando che tutti saremo uniti, perché la posso vedere solo così, nient’altro che così, è l’unico modo per salvare noi e il mondo. Quindi, storie vere e una storia alla volta.
Davide Perillo: Grazie. Grazie Neil, grazie Armando. Io credo stasera non abbiamo parlato tantissimo dei protagonisti, abbiamo parlato però di quello che li rende umani. Avete capito che travaso di umanità c’è nel produrre, nel generare, nello scrivere, nel realizzare le storie che poi ci appassionano. Forse oggi abbiamo capito un po’ di più perché ci appassionano, che cosa troviamo di nostro lì dentro. Troviamo di nostro quello che l’umanità dei nostri ospiti ci ha fatto vedere e ci ha regalato, perché hanno parlato di sé anche. Io credo che questo sia un altro passo di un lavoro, è un lavoro che chiama ognuno di noi perché dipende da noi che atteggiamento abbiamo quando stiamo davanti allo schermo con il telecomando in mano, è un lavoro affascinante, è un lavoro che ci permette di arricchire la nostra umanità e di arricchire il nostro sguardo sul mondo come credo che dai contributi dei nostri amici oggi sia venuto fuori con molta chiarezza ed evidenza. E, dato che appunto le domande sarebbero tantissime, purtroppo Armando dopo deve scappare perché deve tornare a Lisbona da cui è arrivato planando di corsa e lo ringraziamo ulteriormente per la generosità con cui ci ha regalato il suo intervento. Invece il volo di Neil sarà domani, quindi lui sarà ancora con noi un po’ di tempo e oggi pomeriggio alle quattro, per chi volesse, si può continuare il dialogo con lui alle 16 in sala Tiglio e al piano terra nel padiglione A6 e sarà un dialogo informale per chi vuole per proseguire l’incontro, soprattutto, con una persona che ci ha regalato qualcosa, ci sta regalando qualcosa di sé, non solo la sua competenza enorme sulla materia. Quindi per chi vuole l’incontro continua dopo in sala Tiglio alle 16 e per tutti quanti invece l’invito caldissimo è di renderci conto insieme che una possibilità di fare incontri come questo, di incontrare persone così e di arricchirci nell’incontro con queste persone esiste solo perché esiste il Meeting. E il Meeting esiste se lo aiutiamo vivere. Quindi ricordo a tutti l’opportunità e la necessità, se potete, di fare una donazione, perché questo posto possa continuare a esistere, ai punti dona ora, li trovate perché sono contrassegnati da un cuore rosso. Tenete conto che da quest’anno il Meeting è anche un ente del terzo settore, la Fondazione Meeting è diventata ente di terzo settore, quindi chi fa una donazione può anche avere degli sgravi, dei benefici fiscali, ma soprattutto aiuta la possibilità di continuare a fare incontri così. Grazie e buon Meeting.