EDUCAZIONE LIBERA: UN BENE PUBBLICO

Partecipano: Marco Bersanelli, Presidente Fondazione Sacro Cuore; Anthony Joseph D’Agostino, Associate Director, International Special Projects, Alliance for Catholic Education at the University of Notre Dame, USA; Alessandro Mele, Direttore della Fondazione Cometa. Introduce Andrea Simoncini, Docente di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Firenze.

EDUCAZIONE LIBERA: UN BENE PUBBLICO

ANDREA SIMONCINI:
Bene, buonasera. Benvenuti tutti a questo incontro che ha per tema: “Educazione libera: un bene pubblico”. Allora il tema che vogliamo affrontare questo pomeriggio è un tema tra i temi fondanti l’esperienza del Meeting. Uno degli argomenti sui quali il Meeting di Rimini in tutte le sue edizioni ha sempre voluto giocare un suo giudizio originale, non nel senso necessariamente diverso da quello degli altri, ma come sempre richiamando l’origine del fatto che per una società il valore dell’educazione, il valore che si dà all’educazione è sicuramente uno dei segnali più semplici, più efficaci, per capire il grado di sviluppo di quella civiltà, di quella società. Tutti oggi discutono di educazione. Venendo oggi in macchina sentivo alla radio: un euro speso in educazione, vuole dire un euro in meno speso in difesa. Tutti ormai sanno, senza ombra di dubbio, del legame certo, non ipotetico, del nesso di causalità che c’è tra educazione, sviluppo economico e capacità per un Paese di potenziare le risorse che ha. Tutti sanno che l’educazione – l’abbiamo sentito in tanti incontri, penso a quello con l’ambasciatore Staffan de Mistura e con il Direttore del Museo del Bardo – l’investimento in educazione, è un investimento contro il terrorismo, è un investimento contro la violenza. Senza educazione e senza questa spinta noi avremmo società meno libere e meno accessibili. Ma c’è un altro motivo per cui l’educazione è sempre stata al centro e al cuore dei temi del Meeting, ed è un motivo personale, non solo come politica e come azione pubblica. E’ che senza un’educazione adeguata la persona non sviluppa le potenzialità che ha e senza un’educazione all’altezza di queste potenzialità, la persona non è messa in grado di conoscere, e non conoscendo, l’altro rimane eternamente ignoto e dunque ostile. Dunque l’educazione non è soltanto un valore per quello che produce in termini di Paese, ma l’educazione è un fattore connesso alla stessa dignità che ha l’uomo nel suo rapporto con la realtà. C’è un secondo motivo per cui nel Meeting per l’amicizia tra i popoli il tema dell’educazione è sempre stato al centro, perché, proprio per tutte le cose che vi ho illustrato adesso, l’educazione è sempre stato uno dei fondamenti su cui si costruisce lo sviluppo democratico e le libertà civili di un Paese. Fateci caso, tutti i regimi totalitari da dove cominciano? Tutti i regimi totalitari iniziano occupando il sistema educativo, occupando e ponendo sotto il controllo dello Stato il sistema educativo. Non posso che cogliere questa occasione per esprime, come anche mi è accaduto in via personale, con la sindaca Dyarbakir, tutta la preoccupazione per quello che sta succedendo in Turchia, dove decine e decine di insegnanti, direttori, professori in questo momento stanno vivendo una situazione estremamente problematica. Questo proprio perché il discrimine tra libertà, democrazia e violazione della libertà e violazione della democrazia, ha sempre nell’educazione un indicatore. Vogliamo vedere il grado di libertà di un Paese, guardiamo quanto è libera l’educazione in quel Paese. Questo è il motivo per cui tutte le Costituzioni, in tutte le Costituzioni, vengo al campo che mi è un po’ più conosciuto, tutte le Costituzioni si occupano di educazione. La Costituzione italiana è quella che ne parla di più. Parla del diritto e del dovere dei genitori di istruire ed educare i figli. Tra l’altro la nostra Costituzione è bellissima anche dal punto di vista lessicale: pensate a questa distinzione tra istruzione ed educazione. I genitori hanno il diritto e il dovere di istruire ed educare i figli, il che fa suppore che l’educazione sia qualcosa di più della sola istruzione. Ma, e volevo farlo presente, non solo le Costituzioni come quella italiana, riconoscono ai genitori il diritto e il dovere di istruire ed educare i figli, – non scordiamo, dunque, che la scuola è libera e può essere promossa dallo Stato o dai privati – ma ricordo l’articolo 2 della Carta Europea dei Diritti dice: “A nessuna persona può essere negato il diritto all’istruzione”. E continua: “Lo Stato, quando assume funzioni in relazione all’educazione e all’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori a che tale educazione e insegnamento avvengano in conformità alle proprie convinzioni filosofiche e religiose”. Anche la Carta Europea dei diritto dell’uomo riconosce dunque che non ci può essere educazione se non c’è libertà. Perché ci possa essere educazione ci deve essere libertà, perché ci possa essere educazione ci deve essere un sistema educativo libero. E’ un diritto di tutti, è un diritto di ciascuno. Questo fa sì che naturalmente in tutto il mondo il sistema educativo venga affrontato secondo due tipi di istituzioni, entrambe pubbliche: istituzioni educative pubbliche promosse dai privati e istituzioni educative pubbliche promosse dallo Stato. Se osserviamo il panorama del mondo, praticamente in tutti i continenti e in tutte le forme associate noi abbiamo la compresenza di due soggetti, da un lato i privati, associazioni di privati, i soggetti non pubblici dal punto di vista del riconoscimento statale; dall’altro lo stato. Qual è il problema? Il problema è che negli ultimi decenni, così vengo anche al titolo del nostro incontro, si è sempre più affermata un’idea secondo cui, perché l’educazione possa essere un bene pubblico, cioè perché l’educazione possa essere di tutti, occorra necessariamente che sia erogata dallo Stato, ovvero che sia in qualche maniera erogata, gestita, aiutata, finanziata, da organismi che possano essere nazionali o possono essere internazionali, ma dello Stato. Questa ideologia si è affermata moltissimo a livello nazionale e su questo devo per forza citare l’Italia, perché è il caso più emblematico nella storia del mondo. Noi abbiamo, nella nostra Costituzione, la richiesta, anzi il dovere costituzionale di creare un sistema integrato paritario tra Stato e privati nella gestione della scuola. Dal 1948, noi abbiamo avuto la legge sulla parità 52 anni dopo, nel 2000. E l’Italia è l’Italia, è stato inventato in Italia il sistema educativo dalla chiesa e dai soggetti privati. Eppure, per dire quanto è forte l’ideologia, noi abbiamo avuto un ritardo fortissimo, ma questa stessa mentalità, quella per cui l’educazione per essere un bene pubblico debba essere erogata dallo Stato o da enti pubblici, soprattutto a livello internazionale, ha avuto una grande diffusione. A livello internazionale, in particolare se prendiamo in considerazione quelli che un tempo venivano chiamati Paesi in via di sviluppo o i Paesi del cosiddetto terzo mondo, lì il ragionamento è stato ancora più semplice: se vogliamo portare l’educazione a tutti in condizioni così disagiate, non può che intervenire lo Stato o l’organizzazione internazionale. Solo istituzioni statali o solo istituzioni dirette dallo Stato possono realizzare in queste condizioni l’educazione come bene pubblico. Noi vogliamo oggi discutere questa affermazione. La vogliamo discutere nel senso letterale della parola, vogliamo mettere in discussione il fatto che sia vero che un’educazione per essere libera non possa che essere statale. Ma lo vogliamo fare seguendo lo stile che sappiamo fare, secondo lo stile del Meeting. Lo stile del Meeting non è aprire un simposio sulle teorie educative, su cosa sarebbe meglio in astratto. Quello che io vorrei seguire oggi è un dialogo tra tre esempi. Vorrei che osservassimo assieme, e casomai traessimo qualche conclusione da alcuni casi, chiedendoci: per essere un bene pubblico, per essere riconosciuto come un bene pubblico, come deve essere l’educazione? Deve essere solo statale o può esserci un’educazione che nasca da altre forme, da altre fonti, che assuma altre forme? E allora quale deve essere in positivo il ruolo che ha il pubblico, che ha lo Stato, che deve ovviamente avere un luogo in questa situazione? Per fare questa discussione abbiamo tre ospiti che adesso vi introduco nell’ordine con cui parleranno. Il primo è Anthony Joseph D’Agostino, che viene dall’Università di Notre Dame. Anthony Joseph, mi fa un po’ impressione perché per tutti è TJ D’agostino, e viene dall’Università di Notre Dame, e faccio un po’ fatica a presentarlo perché ormai è diventata una presenza stabile dentro il Meeting. Abbiamo tante volte avuto la fortuna di avere ospiti che in qualche maniera venivano o sono stati suggeriti da questa università americana. TJ lavora dal 2006 all’interno di un programma di questa università che si chiama Ace program, Alliance for Catholic education, Alleanza per l’educazione cattolica, che è un programma molto particolare. In maniera specifica, TJ segue i progetti internazionali di questo programma e dal 2015 ha affiancato a questa sua attività di promozione professionale anche un’attività di studio, perché ha cominciato una ricerca che affianca questo suo lavoro operativo sul campo, proprio sulle politiche e l’amministrazione in materia di educazione. Il secondo ospite è Alessandro Mele di Cometa. Chi di voi è stato all’incontro con Luca Doninelli, non credo abbia bisogno di sapere cosa è Cometa, anche perché poi lui ci dirà cos’è Cometa. Alessandro è il direttore generale di Cometa e ha un percorso singolare nella sua attività professionale. Laureato a Siena in scienze economiche e bancarie, ha un master in economia e gestione delle organizzazioni non profit, dottore commercialista, revisore contabile, Price water house Coopers, studio Pirola, poi, ad un certo punto, dal 2004 ha cambiato ed è andato a fare il Direttore generale di Cometa e ci farà vedere cos’è Cometa. Terzo ospite è Marco Bersanelli. Basta così suppongo, che è professore ordinario di fisica e astrofisica e questo penso veramente lo sappiamo tutti, i suoi studi, le sue pubblicazioni, le sue riflessioni sono conosciutissime. Ma lui oggi è qui in una funzione un po’ particolare. Lui è qui non tanto, o non soltanto, o capiremo qual è la sua connessione con la sua attività di ricerca che ben conosciamo, ma perché dal 2012 ha accettato di essere Presidente della Fondazione Sacro Cuore per l’educazione dei giovani, che è una Fondazione che gestisce una scuola a Milano, che ha per nome Sacro Cuore e con Marco chiuderemo questa carrellata di esempi. La domanda è: l’educazione libera, per essere un bene pubblico, deve essere una educazione statale? Qual è il ruolo che possono avere esperienze private?

ANTHONY JOSEPH D’AGOSTINO:
Buonasera, sono veramente felice di essere qui con voi oggi e grato di aver l’opportunità di parlare di questo tema. Vi racconterò alcune storie che vengono dalla mia esperienza e vorrò quindi soffermarmi su tre punti. Primo di tutti, un’educazione libera deve liberare l’anima della persona umana. Le politiche di scuole libere portano a scuole migliori e a migliori risultati sociali. Secondo: le economie emergenti si trovano in un momento davvero critico per quanto riguarda questi aspetti e la Chiesa cattolica deve svolgere un ruolo importante. Quindi innanzitutto un’educazione. Un’educazione che deve essere libera. E comincerò con la storia della mia educazione. L’educazione alla Università di Notre Dame dove ho seguito un corso di scienze umane, si chiamava programma di studi liberi, Pls in breve. Il Pls era un corso di educazione classica, dove si studiava arte e le scienze naturali ed ogni semestre c’era un corso dove noi leggevamo le grandi opera della cultura occidentale, a cominciare dai greci, Omero, Platone, Aristotele, per arrivare infine a Dostoevskij e a Cartesio e in tutte le classi si svolgevano come delle brevi discussioni socratiche. Il mio professore era un rabbino ebreo ortodosso e abbiamo trascorso le prime due ore di lezione a discutere dell’opuscolo che illustrava il corso. Eravamo tutti d’accordo che avremmo imparato come fare le domande giuste e a formulare risposte ragionate e avremmo imparato dalla saggezza degli antichi. A cinque minuti dalla fine della lezione abbiamo chiesto al professore cosa pensasse ed egli disse che pensava che quell’opuscolo non valesse nulla. “Non penso che il programma vi darà delle risposte -disse – ma se avessimo seguito il programma per bene, esso avrebbe creato subbuglio nella nostra mente. Ci disse che non dovevamo leggere ogni libro come se fosse il depositario della verità. Questo ci avrebbe lasciato con molte più domande che risposte. Più tardi, nel corso dell’anno, il professore ci disse che per lui era molto importante insegnare le grandi opere della civiltà occidentale in una Università cattolica, per poter partire quindi da una tradizione di fede e per poter quindi vedere tutto attraverso questa ottica. Per lui era importante non essere chiusi ideologicamente alla totalità dell’esperienza umana e quindi era importante trovarsi in una scuola religiosa. Vi racconto queste storie perché ritengo rivelino due importanti storie su quanto sia importante che l’educazione sia davvero libera. Innanzitutto si tratta di un’impresa morale che è molto importante per la nostra vita. Ci dice che la nostra vita è importante, che ha un significato. La verità, la bellezza, la bontà, possono essere scoperte in questo modo. E’ proprio l’opposto di un approccio scettico o pragmatico che riduce l’umanità a dei fattori economici come ad un lavoro ben pagato. In secondo luogo, ci fa capire che è importante intraprendere questo viaggio partendo da una tradizione, ma rimanendo sempre aperti al dialogo. Credo che questo sia molto vicino a quello che diceva padre Giussani nel Rischio educativo: presentare la tradizione e fornire anche gli strumenti di una critica che rispetta la libertà. Questo è molto più probabile che avvenga in una scuola religiosa, sia al livello universitario che a livello di una scuola elementare o media, dove le persone sono comunque mosse da una visione comune. Nelle scuole religiose, che non sono quindi gestite dallo Stato, si offre qualcosa di unico, non soltanto ai bambini che frequentano quella scuola, ma anche alla società intera. Il secondo punto su cui volevo soffermarmi riguarda il fatto che l’educazione libera ha delle importanti ripercussioni positive sulla società. Per garantire che le scuole private o religiose siano accessibili a tutti, è necessario che ci sia un sostegno da parte dello Stato attraverso assegni o comunque attraverso borse di studio. Se questo non avviene, i poveri non hanno questa libertà religiosa, non avranno quindi il diritto di avere i propri figli istruiti nella fede.
I benestanti hanno questa scelta, possono permettersi scuole private per i propri figli, mentre i meno abbienti sono obbligati a far frequentare ai figli gli istituti statali, non hanno la possibilità di scegliere, magari con risultati ingiusti, ma sicuramente con una mancanza di libertà. Ma al di là di questa argomentazione di giustizia sociale, o di una argomentazione basata sulla libertà, oggi voglio parlarvi del risultato di una politica, di una strategia di educazione libera dal punto di vista sociale. E vi racconterò la storia del mio amico Andrew, preside di una bellissima scuola elementare cattolica della mia città, South Bend, nell’Indiana. Prima però vi darò alcuni dati relativi all’istruzione cattolica negli USA. Le scuole cattoliche hanno una lunga storia negli USA, hanno educato e istruito generazioni e generazioni di immigrati provenienti dall’Europa, come mio padre, figlio di immigrati provenienti dall’Abruzzo e da Roma. Negli ultimi 50 anni le scuole cattoliche hanno registrato un declino. Dopo aver raggiunto un apice di iscrizioni di 5,5 milioni di studenti alla fine degli anni ’60, ora ci sono meno di due milioni di studenti e meno della metà delle scuole cattoliche che c’erano in passato. Questa è un fotografia della mia università, Notre Dame, negli anni ’20. Questi erano gli uomini e le donne religiosi che hanno servito nella scuola per generazioni. Nel 1973 però questa Università ha dovuto abbandonare il campo. Nel 1993 è tornata con un impegno molto specifico, cioè quello di rinnovare l’educazione cattolica e porre fine a questo problema. E questi sono i giovani, gli educatori cattolici che ci sono oggi negli Stati Uniti. E’ stata fondata nella mia Università l’alleanza per l’educazione cattolica, ACE, e invitiamo quindi i neolaureati dell’Università di tutto il Paese a prestare servizio per due anni come insegnanti nelle chiese cattoliche al servizio degli immigrati, dei poveri, delle minoranze. Vivono insieme in una comunità di intenti, condividendo il proprio lavoro di insegnanti e negli ultimi 20 anni, questo è diventato davvero una delle risorse più importanti per sostenere l’istruzione cattolica negli Stati Uniti. Uno di questi insegnanti è Andrew Courrier, per due anni ha insegnato a Los Angeles, in una scuola per bambini che provenivano da famiglie povere, bambini messicani. Ha ottenuto il proprio dottorato di ricerca ed è poi diventato preside di una scuola cattolica di Washington DC. Quattro anni fa Andrew ha deciso di trasferirsi a South Bend ed è diventato il preside di questa scuola che si chiama S. Adalbert, frequentata da figli di immigrati. South Bend è un luogo dove la criminalità è molto diffusa, dove ci sono gangs che si combattono per le strade. Prima dell’arrivo di Andrew la scuola faticava a rimanere aperta e gli ordini accademici non erano buoni e c’erano molti problemi a carattere finanziario. Nonostante ci fosse una parrocchia molto ricca di fedeli messicani, queste famiglie molto probabilmente non potevano permettersi di mandare i propri figli alla scuola cattolica. Poi l’anno prima dell’arrivo di Andrew, lo Stato dell’Indiana vara una nuova politica e crea il più importante sistema di finanziamento statale per le scuole cattoliche di tutti gli Stati Uniti. Dall’oggi al domani la scuola è stata trasformata. Una volta abbattuta la barriera dei costi, della spesa, le famiglie si sono immediatamente rivolte alla scuola e il numero delle iscrizioni è raddoppiato in un anno. La nuova politica dell’Indiana ha consentito alle scuole private di rimanere autonome dal controllo statale, benché lo Stato imponesse comunque una condizione: le scuole che ricevevamo questi studenti con questi assegni di stato dovevano superare un esame alla fine dell’anno e sulla base dei risultati di questo esame ricevevano un voto espresso in lettere. Se gli studenti avevano buoni risultati il voto più alto era una A, se invece i risultati non erano buoni, prendevano invece una D o una F. L’anno prima che arrivasse Andrew come preside, la scuola aveva preso F per quanto riguardava l’insegnamento della matematica, quindi avevano due anni di tempo per migliorare la situazione, altrimenti avrebbero perso i finanziamenti e questo avrebbe portato sicuramente alla chiusura della scuola stessa. Andrew aveva davvero poco tempo per sistemare le cose. Con molto impegno, con un grande sostegno ai nuovi insegnanti e con l’introduzione di un nuovo programma di matematica, le cose sono migliorate molto in fretta. Da allora la scuola ha ricevuto come voto sempre una A negli ultimi quattro anni. Ho intervistato di recente il pastore della parrocchia, quindi il capo di Andrew, che ha detto che gli studenti della S. Adalbert adesso sono gli studenti delle migliori scuole superiori della città. Questo non sarebbe stato possibile prima che arrivasse Andrew. Il parroco disse che queste persone non avrebbero mai pensato che quelle fossero scuole per loro, che erano immigrati, che erano poveri, che non avevano abbastanza fiducia in se stessi e non avrebbero probabilmente avuto nemmeno una sufficiente preparazione accademica. Andrew sta programmando ora di aprire una scuola cattolica chiusa, di creare una nuova scuola superiore. Quindi nello Stato dell’Indiana devo dire che le scuole cattoliche sono in crescita. Ecco questa storia mostra come una politica di educazione libera possa contribuire al bene comune, dove i buoni gestori e amministratori di buone scuole come quelle di S. Adalbert possono migliorare, trasformare la vita dei bambini. Quindi un insieme di responsabilità e di competitività garantisce tutta una serie di benefici e la ricerca in effetti conferma questo tipo di risultato. Ecco qui alcuni dati: un economista di Monaco, Germania, ha fatto uno studio su tutti i paesi della OCSE, per quanto riguarda questi test, questi esami a livello internazionale. Ha considerato diverse variabili per capire cos’è che crea il successo di una scuola. Uno dei parametri è il numero di scuole private presenti nel sistema scolastico. Nelle prime due colonne vedete i sistemi che hanno più scuole private. Essi hanno risultati migliori, mentre le due colonne scure sulla destra rappresentano i sistemi scolastici che forniscono un sostegno dal punto di vista statale alle scuole private ed anche loro ottengono risultati migliori. Ma il sistema che è rappresentato dalla colonna più alta, che contiene sia scuole private, che scuole private con finanziamento statale, è il sistema che funziona meglio. Poi è stata valutata anche la questione dell’autonomia e della libertà delle scuole. Quanto controllo può esercitare lo Stato sulle scuole? In generale è stato dimostrato che una maggiore autonomia porta a una scuola migliore, però ci sono anche delle eccezioni. Prima che Andrew arrivasse nella scuola di cui vi ho parlato, questa scuola aveva preso una F in matematica, ma con il suo arrivo le cose sono cambiate completamente, quindi diciamo che l’autonomia può avere dei pro e dei contro. Le prime due colonne mostrano le scuole con una autonomia sui salari degli inseganti e vediamo quali sono i risultati positivi. Le altre due, la colonna sulla destra, riguardano i sistemi che hanno un esame di stato che indica la qualità delle scuole con una informazione trasparente e questi sistemi hanno un buon sistema di rendicontabilità e quindi il risultato è molto migliore. Ma il risultato migliore è il sistema in cui ci sono sia questi test, questi controlli di stato, che l’autonomia della scuola stessa e questo è il sistema che funziona meglio. Ecco, questa è la formula che utilizza lo Stato dell’Indiana e questo lo hanno copiato, nell’Indiana, dallo Stato della Florida, che utilizza tutte queste diverse caratteristiche. L’Indiana ha cominciato a farlo dal 1998 ed ha migliorato in modo sostanziale i risultati degli studenti negli ultimi 12 anni. In particolare sono le classi più povere che ne hanno tratto beneficio, migliorando quasi del doppio la propria performance accademica. Quindi ci sono alcune caratteristiche della strategia della scuola libera che possono funzionare meglio di quella di Stato. Per finire volevo condividere von voi alcuni pensieri e alcune riflessioni sui lavori che sto svolgendo. Mi occupo dell’istruzione nei Paesi più poveri del mondo. Ho lavorato molto ad Haiti, dove lavoro dal 2006 e dopo il terremoto del 2010 mi sono concentrato sempre più su questo Paese. Il sistema scolastico in Haiti è per il 90% privato e la Chiesa cattolica si occupa dell’istruzione del 20% della popolazione in 2400 scuole. Ma il Governo dà la priorità alle scuole pubbliche, alle scuole statali e quindi ignora il 90% del suo sistema scolastico, proprio per quel tipo di visione di cui parlava Andrea Simoncini, in cui lo Stato sembra essere ritenuto l’unico in grado di istruire i bambini. Questa visione è stata riaffermata da dei leader internazionali, come ad esempio dalla Banca Mondiale, che considerano questo un problema molto grave e che ritengono che la qualità nelle scuole private sia più bassa e che lo Stato non abbia la possibilità di seguirle di controllarle e questo è stato visto come un grosso problema. Dopo il terremoto l’istruzione è diventata una priorità fondamentale ad Haiti e centinaia di migliaia di dollari sono stati stanziati per sostenere l’istruzione. Ed è stato qui che abbiamo formulato la nostra ipotesi, cioè che il sistema scolastico cattolico poteva avere un ruolo molto importante nella ricostruzione del sistema scolastico haitiano. In un Paese in cui sistemi di Governo non funzionano molto bene, la Chiesa cattolica ha invece un sistema che funziona. Si tratta di religiosi impegnati, che lavorano anche nei luoghi più remoti del Paese e la struttura delle diocesi presenta delle somiglianze a quella che è la struttura statale organizzativa. In più la Chiesa fornisce delle stabilità. Negli ultimi venti anni, ad Haiti, ci sono stati venti ministri dell’istruzione, ma c’è stato un solo direttore delle scuole cattoliche a livello nazionale, nello stesso lasso di tempo. Quindi la Chiesa cattolica in un Paese molto difficile rappresenta una scelta sicura. Ma la comunità internazionale non se n’è resa conto, perché è tutto molto lontano dal loro modo di pensare, di vedere l’istruzione. Quando abbiamo cominciato a parlare del fatto che la Chiesa aveva aiutato la ricostruzione del sistema scolastico haitiano, la risposta che abbiamo ottenuto era: se lo Stato non può finanziare le scuole pubbliche, come può pensare di finanziare quelle private? Nonostante gli studi che vi ho appena dimostrato e che sanciscono come le scuole cattoliche siano un bene per la società, tutti sembravano ignorare questo aspetto. Così abbiamo voluto provare cosa si poteva ottenere, cioè che la Chiesa cattolica potesse essere un interlocutore importante nel sistema scolastico. Un anno dopo il terremoto, abbiamo organizzato un censimento delle 2400 scuole cattoliche di Haiti e siamo riusciti a raccogliere tutti i dati di tutte le scuole cattoliche e abbiamo lavorato insieme ai leader cattolici per preparare un piano strategico in termini di scuole di istruzione cattolica. In circa dieci settimane siamo riusciti a coprire il 99% delle Chiese cattoliche e questo era qualcosa che il governo stava cercando di fare ormai da 5 anni e ancora non ci era riuscito. La chiesa è riuscita a farlo in dieci settimane. E questo naturalmente ha attirato l’attenzione di molte persone. Abbiamo cominciato a rivolgerci ai partner del Governo haitiano, della Banca Mondiale, e tutti erano davvero bene impressionati dai risultati che avevamo ottenuto, però non hanno cambiato il loro modo di vedere le cose e non hanno cominciato a dare alcun tipo di aiuto finanziario alla Chiesa. Alcune fondazioni private invece si sono fatte avanti e negli ultimi cinque anni questo ha portato a dei grandi successi. Abbiamo lavorato con la chiesa cattolica, con le organizzazioni non governative e abbiamo formato più di 1000 insegnanti. Abbiamo sostenuto la partecipazione delle associazioni di genitori per più di 400 scuole. Il problema di Haiti è che dopo 2 o 3 anni di scuola, la metà circa dei bambini haitiani non sono ancora in grado di leggere. Abbiamo pensato che questo fosse veramente un problema centrale, che andava immediatamente affrontato, perché se uno studente non sa leggere, non può studiare. Allora, un paio di anni fa, abbiamo portato avanti un programma di alfabetizzazione che è stato avviato in 50 scuole cattoliche, con una formazione specifica per gli insegnanti, con materiale mirato e con un metodo partecipativo che coinvolgeva i bambini. Abbiamo avuto anche un sistema di valutazione molto severo per vedere se questo programma funzionava. Abbiamo rilevato che in queste scuole stavano imparando ad una velocità di una o due volte superiore rispetto a quella dei bambini delle altre scuole. Abbiamo anche visto come le scuole cattoliche stessero ottenendo risultati molto migliori che le altre scuole del sistema. Quindi siamo riusciti ad aiutare queste scuole che erano al servizio dei più poveri e ad aiutare ulteriormente le loro performance, le loro attività. Anche questo era uno degli obiettivi prioritari del Governo haitiano. Perciò, con questi risultati alla mano, ci siamo recati a Washington per rivolgerci alla Banca Mondiale e abbiamo detto: questo sistema funziona, vorremmo che fosse attuato in tutte le 2400 scuole cattoliche, perché in effetti nessun’altra organizzazione aveva mai raggiunto simili risultati ad Haiti. E alla fine, dopo 6 anni in cui avevamo bussato ad ogni singola porta, finalmente c’è stato un cambiamento nella risposta del Governo. Il Governo finalmente ha detto sì. E anche i donatori pubblici hanno detto sì. Finalmente si sono accorti del valore che la Chiesa cattolica può offrire. Adesso abbiamo un problema diverso di cui occuparci, infatti tutti vogliono finanziare e donare alla Chiesa cattolica, e forse è un po’ troppo tutto in una volta, perché noi vogliamo garantire che la Chiesa continui a dare buoni risultati in termini scolastici, di istruzione. Quindi, oltre ad avere un vantaggio enorme per la vita di questi bambini, questo programma dimostra che c’è stato un cambiamento nella politica haitiana. I neozelandesi hanno una metafora per quanto riguarda il ruolo dello Stato. Lo descrivono come una pioggerella leggera che cade su un pascolo verde e consente che crescano tutte le cose migliori. La Florida e l’Indiana hanno questo approccio da pioggerella in termini di istruzione e Haiti ha fatto un importante passo in questa direzione, sostenendo appunto il lavoro della Chiesa in questo modo. Sono veramente lieto del lavoro che stiamo svolgendo, ma sono anche preoccupato per tutto il resto del mondo, perché la storia della Chiesa cattolica ad Haiti è la stessa che possiamo trovare in molti altri posti, in America ma anche in Africa. Ci sono 93 mila scuole elementari sostenute dalla chiesa che hanno avuto un’influenza molto, molto forte in diversi Paesi, ma l’ideologia è tale per cui molto speso lo Stato assorbe in sé le scuole religiose. In questo modo si va ad eliminare questo effetto magico della educazione che avviene attraverso la scuola religiosa. E chiudo con questa citazione da papa Francesco. Il Papa si è recato in visita ad una scuola dove studiano molti bambini figli di immigrati e dopo aver espresso la sua consapevolezza del fatto che è difficile essere figli di immigrati in un Paese nuovo, ha detto quanto segue: “Che bello sentire che la nostra scuola o i luoghi in cui ci ritroviamo sono come una seconda casa. Questo non è importante solo per voi ma anche per le vostre famiglie. La scuola diventa quindi un’unica grande famiglia. Una famiglia dove con le madri, i padri e i nonni e gli insegnanti e gli amici noi impariamo ad aiutarci a vicenda, a condividere le nostre buone qualità, a dare il meglio di noi stessi, a lavorare in squadra, perché questo è molto importante e a inseguire i nostri sogni”. Grazie.

ANDREA SIMONCINI:
Ringrazio A.J. D’agostino per questo suo racconto. I fatti non hanno bisogno di troppi commenti. I fatti che lui ci ha descritto smontano due dogmi. Il primo, che la scuola pubblica deve temere la scuola privata sui risultati finali, invece non è vero, perché quando ci sono le due allora i risultati complessivi di performance del sistema educativo sono migliori, e soprattutto il secondo, che la scuola non statale è una cosa per ricchi. Qui abbiamo avuto un’enorme dimostrazione di come invece un sistema come quello della Chiesa cattolica abbia prodotto risultati stupefacenti nelle zone più povere del mondo. Dunque abbiamo ricevuto materiale su cui pensare.
La parola adesso ad Alessandro Mele sull’esperienza di Cometa.

ALESSANDRO MELE:
Io cercherò di accelerare un pochino, visto l’orario critico. “Educazione libera: un bene pubblico”. Due parole d’introduzione perché ha detto già tutto Andrea Simoncini prima di me e vorrei raccontare qualche esempio di esperienza di Cometa a partire da questa domanda: quale scuola per il ventunesimo secolo? Perché qualcosa sta succedendo e interpella anche la scuola. Kant diceva che l’educazione è il più grande e difficile problema che ci possa essere proposto, perché l’uomo non può diventare vero uomo che per educazione. Mandela diceva che l’educazione è l’arma più potente che si può usare per cambiare il mondo. Gandhi: l’educazione dovrà rinnovarsi per amore della creazione di un mondo nuovo. Quindi non dobbiamo sottolineare ancora la centralità di questo discorso, come ha già fatto Simoncini. E anche sul tema della libertà di scelta dei genitori credo sia un tema acquisito. Dal 1960 l’Unesco, con la Carta dei Diritti, parla della libertà dei genitori di assicurare un’educazione conforme al loro credo per i propri figli. Teoricamente concetti molto acquisiti. Praticamente l’ideologia dell’universalismo in Italia ha fatto due milioni e 900mila dispersi negli ultimi 15 anni. È una guerra praticamente. Dispersi nella scuola di Stato che sono stati recuperati dal sistema delle VET, che sono le IFP, le scuole professionali regionali, che in alcune regioni d’Italia esistono. E’ l’unico sistema di Charter School oggi in Italia, perché è finanziato dello Stato ed è gratuito per gli allievi. Quindi in Italia c’è un’eccezione per sbaglio, esiste un sistema sovvenzionato dallo Stato che funziona e va a recuperare storicamente una parte di questi ragazzi. Non vorrei parlare neanche delle cifre, però quando questa l’avevo sentita per la prima volta dall’onorevole Toccafondi mi aveva impressionato molto. Se chiudessimo le scuole paritarie in Italia, lo stato dovrebbe investire 6 miliardi di euro all’anno. Questo è il risparmio: 6.800 euro è la spesa pro-capite, 490 euro è il contributo per allievo che da lo Stato oggi alle paritarie. Quindi su un risparmio di 6.300 euro pro capite, il risparmio complessivo sarebbe di 6 miliardi all’anno. Anche questo mi sembra auto evidente. Allora, tralasciando questi argomenti che mi sembrano acquisiti, vorrei fare un’accelerazione però, perché acquisiti questi argomenti, la macchina non si muove, perché comunque il problema ideologico, che è stato introdotto prima di me, rimane un problema attuale. Allora io dico, quale scuola per il ventunesimo secolo? Il cambiamento d’epoca che stiamo attraversando, evidentemente – e credo che anche questo non sia necessario spiegarlo – cosa chiede alla scuola? Io, coi miei amici, ogni tanto ci divertiamo a raccogliere delle storie. L’educazione e l’obsolescenza tecnica e tecnologica, cioè cosa insegniamo ai ragazzi? A Palo alto oggi, quindi in questo momento, sono in circolazione 70 auto senza autista. Nel giro di 2 o 3 anni, non 20 o 30, 2 o 3 anni, l’America sarà piena di auto senza autista, ci dicono. Che faranno i tassisti? Cambia il mercato del lavoro. Pensate che impatto sulla vita quotidiana oltre che sul mercato del lavoro e sulla condizione. Cambia l’industria, cambia completamente il mercato del lavoro. Pensate, dicono, che ogni due anni, la conoscenza tecnica diventa obsoleta. Per cui impariamo delle cose che, quando usciamo dall’Università, sono già vecchie. È un problemino da capire come affrontare. Il robot antropomorfo è quello che sostituisce gli operai. È già presente in tantissime aziende e sostituisce completamente gli operai. Non c’è più la classe operaia, come ha detto Bertinotti di recente, è cambiato il problema della giustizia sociale. Non c’è più la classe operaia. Nel giro di un tempo non lunghissimo, rischiamo di vedere scomparire gli operai. Cambiamento impensabile. Adesso ne dico una. Se vanno avanti gli americani con il transgenico, non c’è più la fame. La produzione alimentare sarà per tutti. E se non ci sono più neanche i poveri, che cosa succede? Ci saranno sempre, perché il problema della povertà non è materiale. Grazie. Allora, stiamo insegnando. Cosa insegniamo? Tutto questo cosa comporta per la scuola? Cosa insegniamo? E che cosa e come insegnare a ragazzi che andranno in pensione dopo il 2065? Che lavoro faranno? Nel 2013, le dieci offerte di lavoro più ricercate non esistevano nel 2004. Stiamo preparando studenti per lavori che non esistono, che useranno tecnologie che non sono ancora state inventate, per risolvere problemi che non sono ancora stati posti. Papa Francesco diceva: “Come insegnare a scuola a imparare ad imparare?”, perché il problema della scuola non è più l’informazione, ma l’acquisizione di un metodo di conoscenza. Sicuramente è un tema forte. Tecnologia e scuola: ecco, questa è una cosa che ho imparato da TJ. Siamo andati coi nostri professori a studiare in America e lui ci ha seguito pazientemente, e ci hanno spiegato che dopo la corsa agli armamenti, c’è la corsa allo sviluppo tecnologico: quindi, dopo la Russia, adesso il nemico da abbattere è la Cina, e per questo stanno investendo fiumi di miliardi di dollari sulle STEM Academy, dei licei scientifici, delle High School, dove hanno dei programmi di scienze integrate che partono da elementi di realtà (quindi, cambiano metodologicamente, nell’approccio induttivo e deduttivo c’è un ribaltamento: noi raccontiamo delle cose, invece loro partono da un elemento di realtà) e in questo sviluppo tecnologico, l’Unione Europea dice che mancano 900 mila persone, c’è un mismatch di competenze: noi non abbiamo competenze sull’information technology, il 90% delle persone sul mercato del lavoro non ha queste competenze e 2/3 di queste persone non si riferiscono al mercato dell’High-Tech, ma a tutti i mercati, perché è una competenza trasversale. Poi vorrei fare un altro piccolo accenno, una provocazione sulla scuola del XXI secolo. Gandhi diceva – questo è un po’ un sasso nello stagno – che “non esiste una scuola pari a una casa decente e nessun insegnante pari a un genitore virtuoso”. Ogni mille matrimoni, 500 si interrompono. E allora, se il fenomeno famiglia (e quindi il contesto educativo) crolla, se la conoscenza è affettiva, come la scuola dovrà aiutare i ragazzi ad apprendere? Perché se c’è un blocco affettivo, c’è sicuramente anche un blocco nell’apprendimento. E non possiamo rimandarlo a casa, non c’è più la famiglia. Lo dobbiamo portare a scuola. Allora forse qualcosa dovrà cambiare. Allora oggi vorrei, in questi pochi minuti rimanenti, raccontarvi alcuni esempi. Tutto quello che vedrete è nato per rispondere a un bisogno. Erasmo, Innocente, Maria Grazia, che hanno iniziato questa storia di Cometa, non avevano un progetto, ma da incontro a incontro, in modo imprevisto e imprevedibile, hanno generato un piccolo borgo che oggi è sicuramente un esempio di educazione libera, che partendo dall’accoglienza, cioè dall’affido, prendendo prima un bambino, poi due, poi cento bambini in affido diurno, poi oggi ne abbiamo più di quattrocento a scuola, arriva a insegnare un mestiere (siamo partiti dai ragazzi che avevano abbandonato la scuola per cercare di dargli un futuro). La prima cosa che vorrei raccontarvi di questa esperienza della scuola di Cometa, che nasce dall’accoglienza è che rimane attaccata a quest’origine, perché quest’origine, come vedrete, ha dato una forma di famiglia, anche alla scuola: rimane una grande famiglia la scuola, senza nessuna ambiguità, ma un luogo di relazioni vere. E anche questa capacità di accogliere quello che c’è, così com’è, ha generato un laboratorio di innovazione. Prima cosa che vorrei dirvi di questo laboratorio d’innovazione è quello che Erasmo ha messo all’ingresso: un grande gorilla (grosso come me) e una mano di due metri, e sopra questa mano c’è scritto “scopriamo l’eccellenza che è in noi: Lui ci ha creato a Sua immagine e somiglianza”. Un’idea di educazione fatta di libertà: in ogni istante dobbiamo decidere (ogni ragazzo, ma ognuno di noi deve decidere) se afferrare la mano di Dio, cioè essere se stesso, o cedere all’istinto, fare il gorilla. Allora, questa idea di educazione, quest’idea è: l’eccellenza è in ognuno di voi, di noi, qui presenti, nessuno escluso. Poiché siamo tutti fatti a immagine e somiglianza di Dio, il problema è diventare se stessi. Lo diceva Kant all’inizio. Abbiamo un programma che si chiama “Tutto è per me”, per aiutare i ragazzi a riconoscere che siamo fatti per la bellezza: i ragazzi con i docenti devono riparare i danni e fare un po’ di pulizie, proprio per far l’esperienza che vivono meglio in un luogo pulito e ordinato, perché la bellezza educa. Questa è la forte idea che c’è al fondo nel nostro tentativo educativo. Poi lo riprendo su due passaggi: uno è questo, cioè, come risvegliare i desideri del cuore di questi ragazzi, che avevano abbandonato la scuola e non avevano più voglia di costruire niente? Erasmo è uno stilista particolarmente bravo, quindi, oltre ad essere un arredatore di interni, ha creato questo posto meraviglioso, ma noi abbiamo visto che questa bellezza, che era nata appunto con la storia, ha una forza educativa straordinaria. Perché è come se i ragazzi dicessero “ma perché dovrei vivere?” e, attraverso la bellezza, è come se riscoprissero la voglia di essere, di diventare se stessi, di fare il sacrificio della strada, di vivere. Allora questi ragazzi, a mano a mano, dalla scuola li abbiamo mandati in aziende; ed Erasmo ha cominciato a dirmi: “Ma perché in azienda sono irriconoscibili questi ragazzi?”. Gli imprenditori dicevano: “Grazie, grazie! Giovanni è un ragazzo straordinario”. Dico “scusa, nel senso, Giovanni che conosco io?” In azienda cambiavano completamente. E allora abbiamo scoperto il valore educativo del lavoro, perché Erasmo prese uno di questi ragazzi e gli disse “ma, scusa un po’, perché a scuola fate tutto un po’ così, mentre in azienda arrivate puntuali, vi togliete questi ferri, non vi comportate come vi comportate a scuola?” e rispondeva “ma lì è per davvero, qua è per finta…”. E allora ha cominciato a dirmi “dovete fare per davvero” e io ho detto “Erasmo, non si può fare per davvero: questa è una scuola non è un’azienda, ecc…”. “No, devi fare per davvero!”. Abbiamo cominciato a lavorare su questa ipotesi e abbiamo costruito una scuola dove i ragazzi fanno per davvero: una scuola-impresa, dove i ragazzi vanno dall’ideazione al prodotto finito e producono. Abbiamo un’azienda tessile, una bottega del gusto, una della natura e una del legno. E fanno dei prodotti veri, con dei clienti veri, ma anche con risultati interessanti. Quindi è nata questa idea di scuola-impresa che oggi è diventata anche menzionata nella “buona scuola”… Una scuola per davvero, in cui non ci sono più le classi, ma ci sono i laboratori, ci sono gli uffici dei professori; i ragazzi, finita un’attività laboratoriale, cambiano, girano. E la didattica è stata ripensata a partire dal processo produttivo: i ragazzi devono realizzare una sedia, un tavolo, una maglietta, i loro prodotti, e in ogni periodo dell’anno c’è ideare, poi progettare, realizzare, ecc…, quindi il piano formativo si è ribaltato un po’: quando gli americani hanno visto questa idea sono rimasti molto colpiti, perché è dentro quel filone delle STEM Academy che dicevamo prima, cioè parte da un elemento di realtà per arrivare alla conoscenza, ma secondo un approccio olistico. Infatti, ci siamo incoraggiati andando in America e abbiamo pensato che potevamo fare un liceo scientifico, ma che fosse artigianale (poi ci arriviamo). E come fare ad aiutare i ragazzi a diventare protagonisti? Ogni ragazzo ha il suo progetto: un progetto formativo, un Project work, ognuno ha la sua velocità, queste sono delle sedie che i ragazzi hanno portato a Parigi, nel più bel negozio di tessuti d’arredo, esposte per tre mesi e poi vendute all’asta a Parigi. Potete immaginare, un ragazzo che non voleva più sentir parlare di scuola che si trova in un progetto così, come immediatamente gli cambia la prospettiva di vita. Abbiamo cominciato a ripensare alla didattica, per cui l’idea che la didattica sia un’attività – questo è un po’ americano, loro su questo sono fortissimi – attività al cui interno la conoscenza diventa strumento. Un’altra cosa, a proposito di bene comune, che ci ha colpito tantissimo, è che i ragazzi che non volevano più andare a scuola hanno ritrovato l’interesse. Qui c’è Paolo Binda, che segue un programma che si chiama Liceo del lavoro. I ragazzi, uno alla volta, portati in un bottega, poi in un’altra e in un’altra, hanno visto degli uomini appassionati (perché l’artigiano è un uomo che vive una passione straordinaria) e andando lì rinascevano e gli tornava la voglia di studiare. In 10 anni abbiamo preso 500 ragazzi dalla strada e rimessi in pista, ma non è che abbiamo fatto niente: li seguiamo, sì, però gli artigiani sono la magia. Ma la cosa interessante, a proposito di bene comune, è che gli artigiani, oltre ad essere diventati protagonisti di un fatto educativo straordinario, hanno trovato degli eredi: perché uno dei dolori grandi di chi ha dato una vita per costruir qualcosa è vedere che tutto finisce, e i figli “devono andare al liceo”, “devono studiare”, “non possono fare questo lavoro” (questo è un problema culturale che non abbiamo il tempo di aprire, ma insomma… contro cui stiamo cercando di combattere). Sempre nel rapporto con le imprese, a proposito di bene comune, è interessante che prospettiva dare ai ragazzi: e allora con le migliori imprese turistiche, del lago e non solo, abbiamo fondato un’accademia post-diploma, un ITS, e credo che questo sia uno degli elementi di un sistema molto innovativo, su cui bisognerà investire molto, onorevole, per cercare di difenderlo e farlo crescere. È un sistema fortemente innovativo perché è una università con dentro le imprese: nel sistema ideologico attuale è una bestemmia. Invece sono delle strutture formative molto interessanti, dove il mondo delle imprese entra in aula, forma i ragazzi – i ragazzi fanno un’alternanza molto spinta anche – e oltre ad acquisire competenze accademiche, imparano attraverso l’esperienza, con risultati occupazionali tra il 90% e il 100% (giusto perché, uno dei problemi su cui abbiamo sorvolato, è che più del 40% dei giovani non ha lavoro in Italia). Allora, una cosa che io ho imparato dopo un po’ che avevo lasciato la professione da commercialista e mi sono ritrovato in questa avventura straordinaria che è Cometa, è che educare è innanzitutto un problema di posizione: come dicevamo del gorilla e della mano. E una delle cose che mi piace ricordare, che diciamo sempre coi miei amici, è che, come diceva Pasolini, il problema dell’educazione non è ciò che fai o ciò che dici, ma ciò che sei. Allora, su questo, la scuola del XXI secolo e il sistema burocratico che abbiamo creato in Italia ha molti punti di domanda: come aiutare i docenti a trasmettere il loro essere (e, innanzitutto, acquisire un essere che sia educativo)? Ci siamo trovati di fronte a questo problema: i ragazzi andavano in azienda, funzionavano, a scuola non riuscivano a stare, allora il problema era come rendere protagonisti i docenti? Cioè, come aiutare i docenti a partire dall’esperienza per arrivare alla conoscenza? E allora abbiamo chiuso la scuola con dentro i docenti per nove settimane, nove ore al giorno, abbiamo fatto un programma di formazione (giugno-luglio, quindi non c’erano i ragazzi), come in un’azienda vera, normale. Quelli con più esperienza dicevano “questo è un po’ impegnativo… preparare una lezione daccapo, reinventare un sistema, non so se l’anno prossimo posso”. Abbiamo perso alcuni docenti, che magari erano meno interessati a questo tipo di proposta, e abbiamo acquisito una serie di giovani, quindi abbiamo perso l’esperienza, una cosa molto importante, siamo entrati in un momento di difficoltà, ma con questi giovani abbiamo avuto un’opportunità straordinaria perché i giovani sono tornati ad essere allievi. Con questa scuola chiusa gli insegnanti dovevano fare il percorso fatto dai ragazzi, cioè dovevano ideare, progettare, realizzare un prodotto del legno, uno del tessile, uno della ristorazione… E abbiamo trovato un’opportunità straordinaria grazie all’Università di Bergamo e abbiamo fatto un contratto a questi ragazzi (il contratto di formazione iniziale per i docenti) in apprendistato: quindi, i ragazzi mentre lavorano, insegnano, devono riflettere sulla loro esperienza e fare una tesi di dottorato sul metodo di apprendimento esperienziale. Poi siamo andati grazie a questo progetto in America, abbiamo conosciuto TJ, si sono aperti dei mondi incredibili. E una delle cose belle che sta nascendo (perché ovviamente questo è un cantiere, io in sintesi faccio vedere questo ma c’è tutto un gran lavoro dietro, è un cantiere aperto), siccome i primi ragazzi han finito il dottorato, hanno cominciato a pubblicare e allora, grazie a Paolo Nardi, per gli amici Quentin, è nata questa idea di un gruppo di ricerca, perché l’esigenza era di dare una dignità alla formazione professionale, un valore scientifico. Era difficile avere lì un professore universitario che stesse con noi, perché fa un altro mestiere, e allora abbiamo chiesto ai nostri di fare un lavoro di approfondimento scientifico. Quindi è nato questo gruppo di ricerca che è un piccolo sito, neonato, aperto ad agosto, e che credo sarà una storia molto interessante da raccontare. Poi stiamo investendo sulla didattica digitale, come si fa in tante scuole italiane, stampanti in 3d, l’Autocad, ma la cosa interessante è il grosso lavoro che le scuole americane stanno facendo sul pensiero computazionale. In questo momento, abbiamo in America uno dei nostri professori – anzi, proprio oggi andava alla Northwestern University – perché una delle idee è diventare dei luoghi di ricerca applicata del loro programma sullo sviluppo delle STEM Academy. Lo racconto non per dire quanto siamo bravi, ma perché ogni scuola libera potrebbe accedere a delle possibilità del genere, a degli investimenti di questo tipo. Abbiamo scoperto le quattro dimensioni costitutive dell’artigianato: la produzione, la commercializzazione, la formazione e la cultura. L’idea è di creare la bellezza: l’Italia è il Paese più bello del mondo, lo dice anche TJ, anche se ha qualche avo italiano, ma è vero, torna sempre volentieri, perché oltre alla cucina, ci sono le auto più amate del mondo, i vestiti più belli del mondo, le piazze più belle del mondo, ecc… un elenco lungo, perché la nostra cultura è diventata il saper fare, capacità di creare bellezza, capacità di rispondere al bisogno dell’altro: l’altro è talmente un bene che la mia preoccupazione è che sia soddisfatto, che diventi se stesso. Questa cultura ha creato la piccola e media impresa, lo sviluppo economico: la nostra storia. Abbiamo avuto una bella discussione col professor Israel che ci diceva che oggi si pensa di poter spiegare tutto con i numeri, ma nelle scienze sociali, dove c’è il fattore della libertà umana, non puoi spiegare, misurare con i numeri tutto. Non ci sono più i professori, come facciamo? Questi pensano di spiegare tutto con i numeri perché hanno ridotto la metafisica di Cartesio. Ma come facciamo adesso a fargliela recuperare? Come facciamo ad avere dei professori che rimparino questo? Girava intorno, ma io simpaticamente gliel’ho richiesto 7-8 volte, giusto per essere un po’ insistente, e alla fine ho detto: “Vede, professore, se noi abbiam fatto questo, abbiamo portato il lavoro a scuola, il problema, è vero, è che hanno ridotto la metafisica di Cartesio, ma è anche vero che a partire da Cartesio si è inserito un equivoco per cui la realtà non è più quello che è, ma è quello che io penso, è il pensiero che la genera. Questo è un bel problema, perché siamo arrivati alla tirannide dell’arbitrio”. Allora, gli ho detto, “noi abbiamo portato a scuola il lavoro, perché se il mio ragazzo fa un caffè freddo, il cliente, anche se lui lo pensa caldo, non glielo paga”. Allora il lavoro – e qui la buona scuola ha fatto un’operazione, secondo me, straordinaria, non so quanto consapevole, ma assolutamente straordinaria da parte di tutti – ha riportato il rapporto con la realtà dentro la scuola. Su questo anche tra di noi, nel popolo del Meeting, c’è polemica sul purismo dell’accademia. Noi abbiamo capito che c’è una strada nuova che dobbiamo tutti percorrere velocemente, perché sta venendo avanti una concezione di scuola non più figlia dell’idealismo, che trasmette delle informazioni; ma una scuola pragmatica, che ti spiega come si fa, ma non ti dice perché (su questo, l’America rischia un po’ lo scivolone del pragmatismo); noi dobbiamo percorrere invece la strada del realismo: una scuola realista, cioè capace di partire dalla realtà e di aiutare i ragazzi a conquistare la conoscenza come esperienza, non come a priori. Allora ultimo passaggio, è nato, parte il 5 Settembre, il primo Liceo Scientifico in apprendistato – cosa divergentissima in Italia -: i ragazzi dal secondo anno in poi, oltre a fare l’alternanza, potranno fare l’apprendistato, avere un contratto di lavoro. I ragazzi avranno un lavoro artigianale e attraverso quello i docenti dovranno ripensare la didattica – un po’ come fanno gli americani – partendo da quello che il ragazzo fa e offrendo la conoscenza come risposta. Uno conosce se ha un problema, se ha una domanda e quello che gli dico diventa una risposta perché lui possa diventare protagonista dell’esistenza. Facciamo il tifo per questo piccolissimo tentativo, è più una provocazione culturale, che nasce molto piccola ma che è molto interessante. Tutto questo per fare un’ultima domanda: è nato un laboratorio d’innovazione sociale. Noi abbiamo tantissime sperimentazioni e tantissimi progetti. Tutto questo ci fa dire: se esempi come questo e come tanti altri costituiscono un bene pubblico, chi fa le politiche può dire “l’educazione libera è un bene per me”. Grazie.

ANDREA SIMONCINI:
Dopo questa esposizione di Alessandro si è capito bene che il lavoro che faceva prima era di essere un super-professionista di Pricewaterhouse, abituato in 25 minuti a comunicare in maniera perfetta quel che ti vuole comunicare; e dall’altro, vedendo la bellezza di quel che si è visto, si è capito anche perché ha cambiato lavoro, perché ha deciso di lasciare la City per andare a vedere queste cose, che se uno non le vedesse come capita qui al Meeting, non le penserebbe possibili. E questo mi dà proprio il la per passare la palla a Marco, perché la sfida è proprio questa: venendo dal lavoro del professore universitario, adesso si è trovato a dirigere una di queste istituzioni pubbliche non statali e gli chiederei di darci il senso di questa sua esperienza.

MARCO BERSANELLI:
Come ha detto Andrea, io come mia occupazione, come mio lavoro, sono impegnato nel campo della ricerca scientifica e quindi vivo l’educazione in modo diretto soprattutto a livello universitario, per cui questa esperienza importantissima e affascinante degli ultimi anni al Sacro Cuore mi ha immerso in qualche modo anche nel mondo della scuola. Ma pensando a oggi, mi veniva l’immagine di quello che a me succede tutti gli anni quando inizio il corso di Fisica: Fisica Uno è uno dei due corsi che insegno all’università, dove incontro di fatto ragazzi che escono dal liceo; è il primo corso di fisica che si trovano a fare e quindi sono lì tutti trepidanti e pieni di desiderio di incominciare e allora quello che gli dico è che in questo semestre succederà qualcosa di straordinario, che è veramente un mezzo miracolo, perché in 40 ore distribuite in un semestre, noi ripercorreremo 4 secoli di studi dei più grandi geni della fisica, da Galileo a Newton; non solo, ma potremo arrivare a comprendere quello che loro hanno scoperto più in profondità di quanto loro hanno potuto comprendere, perché oggi la sintesi, la chiarezza, i nessi sono sviluppati e chiari più ancora di allora. Questo mi dà il pensiero di che cosa è la scuola: la scuola è questa cosa che l’umanità, in mille modi diversi nei millenni (non c’è una civiltà che non abbia una forma di educazione di scuola), è questa esigenza di poter tramandare, consegnare alle nuove generazioni il meglio di quello che è stato trovato o prodotto o creato da sempre nella storia dell’umanità. È la formazione delle future generazioni, questo passaggio di consegne, è una formazione quindi della ragione, della libertà, dell’umanità di chi viene dopo di noi, per costruire e continuare il cammino di quella che è la società umana. Allora qual è lo scopo della scuola cattolica? È esattamente lo stesso: lo scopo di una scuola cattolica è di esser scuola, cioè di poter generare personalità, ragazzi, che diventeranno uomini, in grado di ereditare il meglio di quello che l’umanità ha saputo scoprire e quindi formare la ragione e la libertà di persone in modo compiuto, una statura umana che sia in grado di essere all’altezza delle sfide che oggi più che mai sono ignote, ma che la realtà porterà.
E qual è la scommessa per una scuola cattolica, una scuola che nasce da un’esperienza cristiana? La scommessa è che l’esperienza cristiana, come ipotesi di sguardo sulla realtà e sull’uomo, che una fede vissuta autenticamente permetta di compiere questo passaggio in modo più convincente, più pieno, più vero; permetta di far crescere, quindi di tirar fuori, di educare la persona, nella sua libertà, nella sua ragione, chiunque essa sia. Che ci sia un contributo effettivo di questo tipo di strada educativa rispetto ad altre strade educative, che ci sia una proposta competitiva con altro che si trova in giro (se non è competitivo ciò che abbiamo sentito negli interventi precedenti rispetto a quello che il resto del mondo è in grado di offrire!) non è un a priori, ma un desiderio di contribuire al bene del mondo. Se questa formazione della ragione del ragazzo, del senso critico, della personalità, effettivamente accade, sarà anche in grado se incontra qualcosa di grande, di eccezionale nella sua vita, di riconoscerlo, di aderirvi, ma da persona consapevole, non da soldatino. Lo scopo di una scuola che nasce da un’esperienza particolare non può essere quello di indottrinare ideologicamente – sia dal punto di vista religioso che laico – gli studenti secondo una certa idea. Don Giussani – e qui lo cito come colui che ha fondato la scuola di cui ho l’onore di essere Presidente, che è il Sacro Cuore di Milano -, il primo giorno di scuola al Berchet, scuola statale di Milano, come insegnante di religione (non so se è il primo giorno), dice: “Io non sono venuto qui per convincervi delle mie idee, son venuto qui per darvi un metodo per verificare tutto quello che vi dirò e anche quello che vi dicono gli altri”. Ecco, è questo lo scopo di una scuola che voglia veramente essere ambiziosa. Più recentemente, don Julián Carrón ha detto: “L’educazione non è un’operazione che ha lo scopo di convincere l’altro di quello in cui noi crediamo, ma è la libertà di una persona che si rapporta alla libertà di un’altra, perché il cuore dell’uomo è sete di libertà”. L’alternativa a questo approccio è un percorso fondamentalmente moralistico, confessionale, un po’ ideologico, che in molti casi ha fiaccato l’esperienza della scuola cattolica, almeno in Italia. C’è una bella frase di Hannah Arendt: “Una volta stabilita la premessa, il punto di partenza, il pensiero ideologico rifiuta gli insegnamenti della vita”. Anche noi, nelle nostre scuole, dobbiamo guardare a questo come esattamente il contrario di quella che è l’avventura in cui siamo stati messi. Qual è il punto delicato oggi? È venuto già fuori molto bene. Il punto più delicato di tutti non è quello di ottimizzare la quantità di informazioni che passiamo alla prossima generazione per il processo fondamentale di cui dicevo prima, ma è quello di ridestare un vero interesse per la realtà, per la realtà intera. Perché solo così quello che è ereditato e quello che viene dal presente diventa vivo: occorre riguadagnare ciò che è stato conquistato nel passato. E sempre di più – proprio per l’accelerazione di cui Alessandro diceva prima, in cui siamo – ciò che è più decisivo è l’atteggiamento che noi abbiamo nei confronti della realtà, più che neanche la somma di tutto ciò che sappiamo e comprendiamo. E infatti quando Giussani diceva quella battuta fondamentale, quel giudizio fondamentale, che quello che occorre è un metodo: “Che cos’è questo metodo? – continuava dicendo – è paragonare tutto con l’esigenza del proprio cuore”. Sono cose che, io almeno, ho sentito da 40 anni. Paragonare tutto con le esigenze del cuore, questo è l’inizio della possibilità di imparare a imparare, che vuol dire avere un cuore vivo con cui siamo pronti a paragonarci con tutto quello che accade. Anche la tecnologia. La tecnologia, infatti, a quale esigenza veramente corrisponde, a quale tipo di bene viene incontro? Sono sempre passi limitati, mentre la domanda dell’uomo è smisurata. L’efficacia di un’ipotesi educativa deve essere anche verificata, come dicevo prima, non è un a priori. Noi al Sacro Cuore vorremmo che uno studente che frequenta il Sacro Cuore venisse fuori con un uso della sua capacità intellettuale, affettiva, un’apertura alla realtà, con un interesse per l’altro tale da consentirgli di spalancarsi al mondo. Ma questo succede o no? Non è che siccome l’ho detto succede, noi dobbiamo sottomettere la ragione all’esperienza anche nel momento del giudizio. Io vorrei che un professore che è al Sacro Cuore potesse – insegnando la sua disciplina – ridestare l’interesse per tutta la realtà, partendo dall’angolo della sua disciplina, rimanendo lui steso continuamente aperto e interessato a ciò che insegna. Ma questo succede o no tra i nostri insegnanti? Dobbiamo continuamente guardare questo, avere il gusto di guardare questo, perché solo così è un cammino, altrimenti è il discorso su un cammino, che è poco interessante, anzi alla fine contribuisce al decadimento invece che alla rinascita. Questa apertura è ciò di cui i ragazzi hanno più bisogno. Papa Francesco, fra le tante perle che ci ha dato proprio sul tema dell’educazione, mi ha colpito molto quando ha detto: “I ragazzi hanno fiuto per gli insegnanti e sono attratti dai professori che hanno un pensiero aperto, incompiuto, che cercano un di più e così contagiano questo atteggiamento agli studenti”. Se un insegnante non è in questo cammino, non fa camminare nessuno. Ecco allora, a mio avviso, il punto di vista da cui guardare il tema, cioè il rapporto, cioè il valore pubblico di una scuola non statale, che parte da un’identità precisa: il nostro caso non è solo una scuola cattolica, è una scuola che nasce da una storia precisa, da un carisma identificato con una persona che è don Giussani e noi siamo la scuola che don Giussani ha voluto. E questo non lo diciamo sottovoce, siamo fieri e tremanti della responsabilità che ci è data, ma è ciò da cui vogliamo continuamente imparare noi – appunto in questo cammino – e quindi è ciò che ci identifica, è un punto preciso, una fisionomia precisa, ma è un percorso per chiunque, è una proposta per chiunque, anzi questo fa parte della verifica. E questo tipo di esperienza – che nasce da un’ipotesi educativa definita, che può essere la scuola cattolica, può essere una scuola addirittura che nasce da un carisma – ha dei vantaggi, ha in sé per come si pone delle possibilità che io vedo molto bene nell’esperienza che faccio lì: c’è uno scopo educativo esplicitamente condiviso tra chi lo fa, c’è questa tensione a un cammino che è il cammino degli insegnanti, dei presidi, di chi fa l’amministrazione e quindi c’è un’unità che raramente, molto difficilmente, uno trova in una scuola statale. Lo dico perché faccio questa esperienza. Io, in questi quattro anni al Sacro Cuore, sono intenerito dal livello di rapporti, di amicizia, che questa avventura rende possibile, tra coloro che sono nel consiglio di amministrazione, coi presidi, con certi insegnanti, con tutti. Il livello di condivisione di un ideale, di uno sguardo alla realtà che si genera quando c’è questa immedesimazione e questa passione educativa è una cosa dell’altro mondo e io capisco di essere privilegiato. Ma non è un merito, è un bene che esista una cosa buona, non può non essere un bene. E questo si traduce anche in aspetti particolarmente precisi, per esempio c’è una unità tra quello che è il livello amministrativo e il livello educativo in senso stretto – quindi la didattica – che porta a delle condizioni che ottimizzano la possibilità di nuove idee. Ad esempio quest’anno è venuta l’idea di stanziare quel poco che possiamo stanziare proprio per qualcosa di analogo a quello che veniva detto prima, cioè rendere protagonisti i formatori, dare la possibilità che nuove idee possano usare di risorse per migliorare non il dopo scuola, ma la didattica, quello che si fa tutti i giorni (perché la scuola è quello che si fa a scuola). E fra l’altro questo tipo di situazione ottimizza veramente l’uso delle risorse: un ragazzo che frequenta una scuola libera costa meno in assoluto di un ragazzo che fa una scuola statale, perché – un po’ come qui al Meeting – ognuno ci tiene allo scopo e questo migliora l’organizzazione, ottimizza. L’altra cosa che vedo importante è che una scuola così diventa un centro di rapporti che è come una spirale che coinvolge le famiglie di questi ragazzi in modo molto più continuativo di altre situazioni e quindi, indirettamente, diventa un fattore educativo più ampio. Per non parlare del mondo del lavoro: ci sono delle opportunità che la legge ci dà che sono interessanti, questa alternanza scuola-lavoro è un’opportunità che noi abbiamo accolto con molto piacere e genera rapporti tra scuole, ad esempio anche con Cometa. Ultima cosa, in questo senso credo che sia superata, che dobbiamo superare, una visione del rapporto tra scuola statale e non statale che ci ha caratterizzato per tanto tempo: credo che qui bisogna cogliere la sfida che è finito il tempo di una contrapposizione, è superato il tempo di un gioco in difesa, si tratta di cogliere le opportunità che ci sono in un sistema misto – come ha dimostrato uno studio che ci è stato presentato prima a livello degli Stati Uniti ma che sicuramente sarebbe interessante riproiettare anche in Italia -, che è quello che sembra dare le migliori opportunità. E ha senso, da un punto di vista intuitivo: in una scuola libera è più facile portare avanti delle idee un po’ matte perché è in piccolo e perché c’è questa sintonia tra chi la guida e chi ci lavora, ma questo non è in contrapposizione, è per contribuire al bene di tutta la scuola, italiana e del mondo, perché questo è lo scopo. Lo scopo è quello che ho detto all’inizio, non è difendere la scuola cattolica, è dare testimonianza di come la fede diventa intelligenza nella realtà, contribuendo alla cosa più preziosa che l’uomo è capace di fare, cioè comunicare se stesso, educare. Noi siamo perciò compagni di chiunque abbia una seria passione educativa, vogliamo imparare da chiunque. Se c’era qualcuno che aveva questo dono di imparare da chiunque era don Giussani e noi lo vediamo in Julián Carrón in questo tempo. È proprio Julián Carrón con cui concludo. C’è una bellissima intervista che è uscita sul Corriere della Sera di oggi e che vi suggerisco di leggere. Chiede l’intervistatore: “Come vede lei il futuro del movimento di Comunione e Liberazione fra 10 anni?” e lui risponde: “Saprà essere ancora uno strumento per contribuire al bene di tutti; l’esistenza del Movimento è un mezzo, non un fine”. Se l’esistenza del Movimento è un mezzo e non un fine, allora anche il Sacro Cuore è un mezzo e non un fine, allora ogni scuola cattolica – in questa visione – è un mezzo e non un fine e il fine è contribuire al bene di tutti. Grazie.

ANDREA SIMONCINI:
Il tempo è fuggito velocemente perché gli argomenti erano veramente molto interessanti. Io non aggiungo letteralmente nulla alla conclusione ora di Marco Bersanelli. Questo incontro è stato decisivo per sfatare un mito: il problema non è più se la scuola è statale o non statale, se il professore è un dipendente pubblico o un dipendente privato, il problema non è più chi gestisce, il problema è che cosa vuol dire educare oggi, la sfida è su chi educa, è su cosa educa, su cosa riguadagna l’interesse per lo studio. Qui non c’è struttura che possa far la differenza, fa la differenza l’esperienza, la realtà, perciò solo questo noi chiediamo allo Stato: non un privilegio, non una quota riservata per definizione, ma di aprire gli occhi sulla realtà e di premiare ciò che veramente educa, di favorire ciò che veramente educa. Solo questo, nessun privilegio. Grazie a tutti, buona prosecuzione del Meeting.

Data

22 Agosto 2016

Ora

15:00

Edizione

2016
Categoria
Incontri