EDUCAZIONE IN AMERICA

Partecipano: Brad Gregory, Docente di Early Modern-European History at the Notre Dame University; Joseph H. H. Weiler, Director, The Straus Institute for the Advanced Study of Law & Justice, Co-Director, Tikvah Centre for Law & Jewish Civilization New York University. Introduce Chris Bacich, Insegnante.

Il testo dell’incontro è pubblicato nel libro “La conoscenza è sempre un avvenimento”, edizioni Mondadori Università.

 

CHRIS BACICH:
Buon pomeriggio a tutti. Sono Chris Basich, sono insegnante di liceo a New York City negli Stati Uniti e sono molto grato di essere qui con voi questo pomeriggio ed anche con due distintissimi professori Brad Gregory, qui alla mia sinistra, e il professor Joseph Weiler. Come sappiamo tutti quest’anno il titolo del Meeting è “La conoscenza è sempre un avvenimento”. E allora oggi abbiamo pensato di discutere cosa vuol dire venire a conoscere qualcosa e cioè cosa vuol dire essere educato negli Stati Uniti oggi. Ieri ho sentito parlare il governatore Draghi e mi sembrava che, quando parlava, uno dei suoi primi punti fosse l’educazione e certe forme dell’educazione qui in Italia e mi sembrava che parlasse di certe riforme che porterebbero il sistema educativo qui in Italia verso il sistema che abbiamo noi in America. E allora anche pensando a questa cosa qua pensavo che quest’oggi sarebbe interessante pensare cosa vuol dire educare lì in America soprattutto se ci sono voci qui in Italia di un cambiamento verso quello che noi abbiamo già. Allora ascoltiamo prima il professor Gregory. Lui è adesso nel dipartimento di storia a Notre Dame University, è stato professore in Princeton University e in Stanford University per diversi anni. Lui soprattutto si occupa della storia intellettuale dell’Europa del 1600. Attualmente sta studiando a Notre Dame le influenze sul nostro mondo della riforma protestante. Ha scritto tantissimo, pubblicazioni ed anche libri. Lui parlerà per primo. Il professor Joseph Weiler è direttore presso The Straus Institute for the Advanced Study of Law & Justice, è professore di legge e inoltre professore onorario dello University College di Londra e presso il dipartimento di scienze politiche dell’università di Copenaghen. Già professore di diritto allo European University Institute di Firenze e alla Michigan Law School. E’ stato qui al Meeting tante volte. Parlerà dopo.

BRAD GREGORY:
Vorrei tanto ringraziare Chris, per avermi presentato, e Marco Aluigi, insieme a una serie di altri amici italiani che mi hanno invitato al trentesimo Meeting per l’amicizia fra i popoli. È la prima volta che vengo qui, che partecipo al famoso Meeting di Rimini, ma ne ho sentito tanto parlare in termini davvero elogiativi da più parti. Devo dire onestamente che è ancora meglio di quanto aspettassi. È stata una settimana davvero straordinaria sotto molti punti di vista per me ed è per me un onore essere stato invitato a parlarvi a questa tavola rotonda sull’educazione negli Stati Uniti. Ancor di più sono onorato di condividere questo onore con un professore prestigioso come Joseph Weiler. Mi scuso solo di una cosa: di non poter presentare questa relazione nella vostra bella lingua, in italiano. E l’avrei detto comunque anche prima che il professor George l’avesse detto stamattina. L’italiano è l’unica lingua che conosco in cui veramente si recita una poesia anche solo ordinando un caffè. Negli Stati Uniti vivono più di 300 milioni di persone, sono tante. Il paese dispone di più di 35 mila scuole secondarie e di più di 6 mila istituti di educazione superiore di vario tipo, cioè college, università e quant’altro. Sono tante. Se dovessi parlare dell’educazione in America in senso lato in un tempo limitato finirei per essere estremamente generico, vago e anche noioso. Quindi su suggerimento di colleghi sia italiani che americani, che conoscono bene il Meeting, vorrei invece fare considerazioni personali, in parte autobiografiche, sull’educazione superiore negli Stati Uniti. Da studente ho frequentato sia grandi scuole statali, come l’università dello Yutan, l’università dell’Arizona e anche università private di élite, come Princeton, dove ho conseguito il dottorato e Harvard, dove ho vinto la borsa di studio post dottorale. Oltre ad aver studiato la storia europea ho conseguito anche due lauree in filosofia presso l’università di Lovanio, in Belgio. E quindi ho maturato una esperienza come docente anche in altre università in Europa. Il mio primo contratto l’ho avuto come docente nella facoltà di storia e poi sono andato nell’università di Notre Dame dove insegno dal 2003. Oggi vi vorrei parlare di che cosa è per me l’educazione e del mio percorso di intellettuale cattolico all’interno di un ambiente, quello della ricerca universitaria americana, che è uno degli ambienti più laici di tutta l’America. Il titolo della mia relazione è: Verità, laicismo e educazione superiore in America. Sono molto tradizionale e chiaro quando si parla dell’obiettivo dell’educazione, un po’ come don Giussani o come Papa Benedetto XVI o anche come S. Tommaso d’Aquino o S. Agostino. L’educazione non è altro che la ricerca di tutta la verità sulla realtà. Non si tratta di una formazione tecnica per intraprendere una carriera o l’altra, non si tratta di un atteggiamento scettico, di un pensiero critico in quanto tale, separato dalla ricerca della verità. Educazione non significa formulare proprie idee, formulare ipotesi, inventare. L’educazione non è un tentativo di imporre il nostro punto di vista sugli altri, non prevede di voler cambiare il mondo a nostro piacimento, anzi la radice etimologica della parola ‘educazione’ significa esattamente il contrario. Infatti essere educato vuol dire ‘essere guidato fuori da’, fuori dalle nostre ipotesi formulate a nostro uso e consumo, lontano dai desideri e dalle preferenze cui istintivamente tendiamo. È questo il significato di educazione exducere, ‘condurre fuori’, fuori dall’ignoranza e incomprensione e dentro la conoscenza e la comprensione, per arrivare, si spera, al sapere vero. Il sapere vero, potremmo dire, è l’evento che sta al di là dell’evento che è già la conoscenza e senza umiltà un’educazione vera è impossibile. Se ci accontentiamo di quanto pensiamo di sapere non possiamo imparare nulla di nuovo. La realtà non può apparirmi se continuo a vivere chiuso nel mio mondo. L’educazione, quindi, in quanto tale, non è solo compatibile con la cristianità tradizionale così come previsto dalla Chiesa Cattolica e come altre tradizioni religiose, come, per esempio, l’ebraismo ortodosso, l’educazione di per sé costituisce un imperativo morale, sia per noi che per gli altri. Se non cerchiamo la verità sminuiamo la nostra umanità, come anche riduciamo, sminuiamo l’umanità degli altri se non li aiutiamo a cercare la verità. Inoltre, questo imperativo morale dell’educazione ci attribuisce l’onere della ricerca di ogni conoscenza. Questo progetto di ricerca all’infinito costituisce la premessa coerente di una vita vissuta seriamente con gioia e onestà intellettuale. Comprendere il principio di non contraddizione significa capire che la verità non contraddice la verità e quindi che tutta la conoscenza è in armonia, anche se a noi non sarà dato mai di comprendere tutto ciò che è vero. Adesso vorrei parlare brevemente di un’altra cosa che può sembrare strana e che, viceversa, sembra proprio esser vera. Le università moderne di ricerca, sia negli Stati Uniti che nei paesi europei, sono organizzate in modo tale da evitare questo tipo di ricerca della verità. Le università, infatti, non incoraggiano ma scoraggiano l’educazione. Può sembrare assurdo, dopo tutto stiamo parlando dei migliori istituti per l’educazione al mondo e come è possibile che degli istituti per l’educazione non incoraggino l’educazione stessa? Gran parte delle università oggi in realtà bloccano, proibiscono l’educazione, ponendo dei limiti ai temi della ricerca e scoraggiando l’aggregazione dei risultati conseguiti nei vari ambiti di studio che separatamente ricercano la verità. Si tratta di problemi che sono interconnessi. In primis l’argomento principale, sul quale miliardi di persone si basano per dare un senso alla propria vita e per cercare la verità, cioè, la religione, è bandito in quanto tale da quasi tutte le università. Si parte invece dal presupposto che la ricerca della verità e della conoscenza sia un processo laico, o, detto in altri termini, un elemento della realtà umana e sociale sta nel fatto che miliardi di persone credono, e hanno creduto per millenni, che un Dio trascendente abbia creato l’universo e che di conseguenza il mondo naturale sia opera di Dio. Una nozione che ha tutta una serie di implicazioni per la vita umana e per le scoperte delle scienze sociali e naturali così anche per l’interpretazione della vita umana nelle discipline umanistiche. Se è vero che l’educazione, come suo primo scopo, abbia la ricerca della verità, allora ci si dovrebbe interrogare circa l’effettiva verità di quanto si dice Dio abbia fatto. Nella nostra ricerca della verità possiamo analizzare o rifiutare dei presupposti dei postulati religiosi sulla base di quello che sappiano delle scienze naturali mentre, viceversa, altre verità religiose possono essere confermate da quanto la scienza ci insegna. Alcune verità religiose possono basarsi su qualcosa di diverso che non sia semplicemente sensazione, intuizione o preferenza individuale, perché se questi postulati religiosi sono effettivamente quello che intendono essere, cioè veri, allora sono importanti, importanti per la vita degli esseri umani e quindi sono importanti per l’evento, l’evento rappresentato proprio dall’acquisizione di conoscenza. Ma questo tipo di ricerca non trova posto nelle università laiche. Al contrario, e sempre più dalle fine del XIX al XXIX secolo, con inizio in Germania e poi in altri Paesi fino agli Stati Uniti, i postulati filosofici delle scienze naturali, cioè il naturalismo metafisico e l’empirismo epistemologico, pongono dei confini alla ricerca intellettuale e quindi all’educazione. La religione, le tradizioni religiose possono essere sì un oggetto di studio, ma non sono viste come fonte di verità. Visto che i postulati di verità sulla realtà trascendente non possono essere dimostrati scientificamente per definizione, in quanto i metodi scientifici si applicano solo a ciò che trascendente non è, di conseguenza se quei postulati sono relegati agli ambiti soggettivi e al credo personale, non possono avere a che fare con la conoscenza. Questa non è una visione neutrale della conoscenza o dell’educazione, non è una visione neutrale della scienza, si tratta piuttosto di scientismo ideologico. Discutere adeguatamente i processi storici che hanno portato alla laicizzazione delle università moderne di ricerca così come le conosciamo noi, richiederebbe molto più tempo di quanto mi è stato messo a disposizione oggi. C’è un intero capitolo del libro che sto scrivendo, che è dedicato a questo argomento, argomento che non può essere compreso senza far riferimento alle divisioni religiose dell’epoca della Riforma, dell’epoca del XVI secolo e agli enormi cambiamenti che tali divisioni hanno comportato fino alla profonda laicizzazione del modo occidentale così come lo conosciamo oggi. Ma escludendo a priori che alcuni postulati religiosi siano effettivamente veri, le università laiche moderne non promuovono l’educazione, hanno, viceversa, istituzionalizzato una limitazione importante della libertà accademica, sottraendosi alla loro ragion d’essere primaria e cioè la ricerca della verità nella realtà. Queste università, come hanno detto anche molti studiosi, come per esempio i miei colleghi di Notre Dame, come McIntyre, non sono più università ma, piuttosto multiversità e cioè, una serie di brillanti studiosi che insegnano la propria ricerca individuale specializzata, adottando i propri metodi di ricerca e le proprie personali ipotesi. In tutte le discipline questo succede sulla base dei presupposti filosofici del naturalismo e dell’empirismo, senza riuscire in alcun modo a vedere o a cercare il collegamento tra le diverse discipline e le osservazioni fatte. Senza rendersi nemmeno conto delle contraddizioni in cui le varie discipline poi arrivano. In altri termini, le università moderne premiano la ricerca specializzata innanzitutto, soprattutto quando i risultati di tale ricerca possono avere delle applicazioni redditizie, tecnologiche e capitalistiche. E quindi, gran parte degli studiosi si occupa esclusivamente di una minima parte della realtà cui dovrebbe, viceversa, aspirare l’educazione in quanto ricerca della verità. Le osservazioni derivanti dalle scienze sociali, dalle scienze naturali, dalle lettere, dovrebbero integrarsi armoniosamente ma questo non interessa a loro. A dire il vero non interessa questo a nessuno nel mondo frammentato e laico delle multiversità. La visione prevalente circa la nascita di queste istituzioni così come le conosciamo oggi e loro legittimizzazione del laicismo quale atteggiamento di neutralità ideologica, è indice dei limiti posti alla libertà accademica e alla ricerca intellettuale rappresentata da dogmi e da personalità religiose. Ci sono senz’altro innumerevoli evidenze storiche a difesa di tale interpretazione. Le università confessionali cattoliche e protestanti dell’Europa moderna vietavano certa ricerca relativa ad aspetti importanti della dottrina cristiana e ci sono molti college religiosi negli Stati Uniti, attualmente, che portano avanti questa tradizione, offrendo un programma di studi appropriato per i propri studenti ma non una vera educazione. In larga misura penso che questa critica laica di questo tipo di istituzioni sia giusta, queste istituzioni, infatti, non permettono quella apertura intellettuale, quella possibilità di mettere in discussione tutto, che è parte essenziale dell’educazione, dell’educazione vera vista come ricerca della verità sulla realtà. Ma, nella situazione in cui ci troviamo oggi, una critica di questo tipo, in realtà, va a vedere il pelo nell’uovo in queste scuole, senza riconoscere la trave nel proprio occhio e cioè l’incapacità delle multiversità laiche di permettere la ricerca della verità religiosa sostanziale in relazione con i postulati delle scienze naturali, sociali e delle discipline umanistiche. In questo senso le multiversità laiche non permettono, quindi, di mettere in discussione i propri presupposti ideologici, fondamentalmente il naturalismo metafisico e il suo corollario, in base al quale ogni conoscenza può essere solo ed esclusivamente laica. Negli Stati Uniti, agli inizi del XXI secolo, le maggiori restrizioni sulle libertà accademiche e sulla ricerca intellettuale sono state poste non dalla religione ma piuttosto dallo scientismo ideologico istituzionalizzato dalle multiversità laiche. Se è vero che l’educazione è la ricerca della verità, di tutta la verità sulla realtà e dato che parte della realtà umana ci dice che miliardi di persone credono in cose che per definizione trascendono il mondo naturale, e nella misura in cui le multiversità di ricerca laiche vietano la ricerca di queste verità, non considerandole fonti di sapere, ne deriva che, se l’educazione ci sta veramente a cuore, dobbiamo cercare l’istituto con una visione più allargata rispetto a quella offerta dalle università tradizionali laiche. La ricerca della verità ha bisogno di un’istituzione che sia aperta non solo a tutti gli ambiti delle discipline, delle scienze naturali, delle scienze sociali ma anche delle tradizioni religiose in quanto tali e, quindi, ha bisogno di poter mettere in discussione il rapporto tra i postulati religiosi ed i risultati di tutte le altre discipline. L’unica disciplina, che io sappia, che potrebbe fornire questo tipo di integrazione, è la teologia, o, forse, una qualche filosofia e l’unica istituzione che potrebbe fornire l’ambito in cui studiarla, è un’università di ricerca vera che sia aperta anche, dunque, ai postulati religiosi. Quindi, per parlare adesso più specificatamente della mia vita, è per questi motivi che ho deciso di lasciare una delle istituzioni accademiche più prestigiose del mondo e cioè l’Università di Stanford a favore dell’università di Notre Dame. La mia esperienza a Stanford è stata ottima, ho intrattenuto rapporti ottimi con i miei colleghi, insegnavo a piccoli gruppi di studenti di altissimo livello, ho ricevuto grossi contributi alla mia ricerca, ho visto dei premi, mi sono state date borse di studio – ho cominciato, appunto, ad insegnare da giovane. Proprio come in Toscana, anche in California il sole splende 300 giorni all’anno, il cibo, il vino nella California settentrionale sono ottimi, anche se non altrettanto buoni come in Italia. Ma Stanford, come le altre università di ricerca americane, limita la libertà accademica in ambiti che per me hanno a che vedere con gli aspetti più importanti della vita umana e cioè l’impegno religioso. C’era sì una facoltà di studi religiosi a Stanford, ma non c’era una facoltà teologica, e coloro che conoscono le facoltà accademiche di studi religiosi sanno che queste tendono ad essere le più ostili rispetto alla teologia, rispetto a qualsiasi altra facoltà accademica. Quindi, anche se è vero che Stanford annoveri tra molti dei suoi docenti dei premi Nobel, tra i maggiori scienziati al mondo, eppure non c’era nessuno presso l’università che si dedicasse seriamente all’integrazione tra le varie ricerche e conoscenze. Non c’era un ambito disciplinare che si occupasse di questo e non c’erano prospettive per studiare la religione quale fonte di verità, piuttosto che semplicemente come un fenomeno umano, delimitato dai postulati delle scienze sociali che, a loro volta, come dicevo, si basano sulle scienze naturali. Tutto quello che ho fatto per cercare un nesso tra i postulati della fede cattolica e il mio lavoro quale storico, l’ho fatto per conto mio. A Notre Dame le cose stanno in modo diverso. A Notre Dame sono libero, libero di continuare la mia formazione, la mia educazione, la mia ricerca, la mia attività didattica. Posso fare tutto quello che potevo fare come studioso docente a Stanford e ancor di più. Posso ricercare la verità sulla realtà senza restrizioni laiciste. Posso studiare anche quei postulati della verità che trascendono i limiti imposti dallo scientismo ideologico e sono in un ambiente, a Notre Dame, con una massa critica di intellettuali di primo piano in ambiti diversi, che sono anche credenti, non necessariamente cattolici, anche se la maggioranza è cattolica, e con loro posso discutere, dibattere e da loro posso apprendere molto sui loro postulati religiosi. Notre Dame ha quindi una facoltà importante di teologia e non, quindi, di studi religiosi ma anche coloro che fanno parte del corpo docente di altri ambiti sono comunque incoraggiati a trovare dei nessi, a cercare dei nessi tra quello che insegnano e la teologia. Ovviamente questo può essere diverso per uno studioso di chimica rispetto a un sociologo. Questo non succede mai presso un istituto laico di élite. L’esperienza che ho avuto io a Stanford, mi ha insegnato che pochissimi studiosi, pochissimi studiosi parlano con teologi, con filosofi, con esperti di religione, con gente che studia la Bibbia. E anzi, molti di loro potrebbero anche stupirsi apprendendo che queste scienze continuano ad esistere. E questa in realtà fa parte della realtà umana che gran parte degli studiosi laici ignorano. La loro trascuratezza costituisce un altro sintomo delle connessioni esistenti tra la religione, la conoscenza e la ricerca della verità, che è andato evolvendosi col passare dei secoli sia in Europa che negli Stati Uniti. Oggi ci sono molti intellettuali che sono ben preparati nelle scienze naturali e che sono anche dei credenti e questo, in qualche modo, va contro quel mito autoreferenziale laico, in base al quale la scienza e le religioni si sono per forza opposte. Se non possiamo, quindi, includere questa verità, ed è una verità, allora abbiamo una visione inadeguata ed errata della storia. Dobbiamo quindi essere più educati, modificando la nostra visione della storia, per tenere conto di questa realtà. La realtà è che attualmente esistono credenti religiosi sofisticati intellettualmente. Quindi perseguire l’educazione e l’evento che è la conoscenza nel modo in cui indico qui, costituisce un’impresa molto onerosa. Se si è un professore universitario significa che non solo si è voluto apprendere abbastanza per poter diventare esperti, ma vuol dire che si è voluto apprendere circa altre discipline in modo tale da formarsi qualche idea circa, per esempio, l’ambito di studio dell’antropologia fisica, dell’economia neoclassica, della fisica teoretica, e di quello che fanno quindi tutti gli altri nei loro studi. Conoscere la teologia prevede che si possano porre dei quesiti circa il rapporto tra il proprio ambito di studio e l’osservazione derivante da queste altre discipline e questo è una sfida molto più ardua che diventare semplicemente un esperto in una sotto-specialità all’interno di un campo di studio ben definito. Ma se non cerchiamo di far fronte a questa sfida, ognuno con le nostre competenze, non riusciremo mai a vedere che diversi tipi di ricerca nella realtà sono in realtà interconnessi tra loro e sono in armonia e quindi la nostra esperienza di vita potrebbe essere frammentata così come le università, che abbiamo definito le multiversità, dove si portano avanti, appunto, progetti eterogenei staccati l’uno dall’altro. Secondo me una vita piena è legata a una conoscenza veramente ampia; malgrado la nostra ricchezza, malgrado i miracoli della scienza e della tecnologia, in realtà non possiamo perseguire la felicità. I nostri problemi oggi derivano da un insuccesso dell’educazione, dall’incapacità, cioè, di perseguire e di ricercare la vera verità sulla realtà, di porsi dei quesiti, di cercare delle risposte su temi che non necessariamente rientrano nei postulati della ricerca scientifica. E’ un altro modo, quindi, di dire che ci sono dei problemi, problemi che derivano dalla limitazione della ragione nell’era moderna, che è un tema importante negli scritti di Joseph Ratzinger prima e dopo la sua elezione a Papa Benedetto XVI. Per concludere, cosa devono fare gli studiosi, gli scienziati, gli studenti se a loro interessa veramente l’educazione vera quale ricerca della verità piena sulla realtà? Ebbene, tutti noi, con le nostre possibilità, dovremmo assumerci quella responsabilità morale della ricerca della verità, cercando di aiutare anche gli altri a fare altrettanto. E questo, naturalmente, ha una serie di implicazioni. Significa che coloro che credono che ci sia qualcosa di più nella realtà rispetto a quello che vediamo, verifichiamo, misuriamo e tocchiamo, dovrebbero conoscere bene la propria verità religiosa, in modo tale da poter intrattenere delle conversazioni, dei dibattiti con altri. Non possiamo parlare di religione e scienza, per esempio, se non sappiamo niente di scienza. E lo stesso vale per la religione e la storia. Se non sappiamo niente di storia non possiamo parlare di storia ovviamente. Inoltre, dovremmo essere in grado di mettere in gioco, di mettere in discussione quelli che sono i postulati laicisti delle multiversità moderne, sia che lavoriamo come professori universitari o come studenti all’interno delle nostre classi, durante le lezioni, nella stesura dei nostri testi. Non sappiamo tutto quanto c’è da sapere, siamo finiti in quanto esseri umani e questo è un limite alle nostre capacità individuali già da molti punti di vista. L’educazione quindi prevede sempre un atteggiamento umile, a prestare ascolto agli altri nel dialogo, significa, però, anche avere il coraggio di parlare a voce alta, sempre con rispetto, sempre con carità e sempre con le giuste intenzioni, quando sembra che qualcun altro abbia detto qualche cosa che è falso. L’educazione non può mai essere ridotta a permettere a chiunque di chiedere quello che vuole circa la realtà e di fare quello che vuole solo nell’interesse, nella speranza che tutto vada a posto, perché tutto non andrà a posto da solo. Questo atteggiamento, quindi, relativistico, per quanto diffuso, è in violazione della nostra responsabilità morale di ricercare la verità, perché viola il principio di non contraddizione. Benedetto XVI giustamente ha detto invece che l’obiettivo del dialogo è la scoperta della verità e ha anche detto, giustamente, che l’alternativa all’approccio laicista, che limita l’educazione vera nella multiversità moderna, è quell’alternativa, proposta anche da don Giussani quando parla di rischio educativo, nella ricerca appassionata dell’evento della conoscenza. Dobbiamo aprirci, aprire noi stessi al mondo e permettere a Dio di entrare. Dobbiamo aprirci alla verità, all’amore e a ciò che è buono. Grazie.

JOSEPH H. H. WEILER:
Buonasera a tutti, sono felice di essere qui. Oggi mi trovo un pochino in difficoltà. Prima, venti ore fa mia moglie ed io abbiamo preso l’aereo a Singapore e siamo arrivati qui dopo venti ore di viaggio, esattamente trenta minuti fa. Allora vi ammonisco: addormentarsi posso soltanto io. Seconda cosa: di solito prima di dare queste conferenze al Meeting, la molto cara Stefania rivede con me il mio italiano. Questa volta non l’ha fatto. Allora tutti gli errori sono proprio miei. Il discorso oggi sarà su un fenomeno molto americano, però spero di convincervi che sia anche molto rilevante per molti di voi. Comincio con questa osservazione di Benedetto XVI, il Papa, che diceva: “in Europa i cristiani sono diventati una minoranza”. Poi ha aggiunto: “una minoranza creativa”. Non parlava della popolazione generale: dopotutto la maggioranza nei nostri paesi europei è sempre cristiana; però il Papa stava parlando di questa minoranza nella maggioranza cristiana, cioè la comunità di fede, i fedeli, quei cristiani per i quali la cristianità significa non un fatto anagrafico banale ma una realtà di valore, il parametro principale della loro identità: quelli sono ormai una minoranza. Poi, ricordiamo, il sempre indimenticabile Giovanni Paolo II in un atto di generosità, sempre caratteristica di lui, ci ha definito – cioè noi ebrei – come nostri fratelli maggiori. Quello che dico oggi è nella qualità di un fratello maggiore. Perché quando si parla di minoranza, penso che noi ebrei prendiamo la medaglia d’oro. Da secoli siamo una minoranza, una minoranza nella maggioranza cristiana nell’ovest e una minoranza in una maggioranza musulmana nell’est. Allora sul fatto di essere minoranza sappiamo qualcosa. Ma, intendiamoci, anche tra di noi – cioè ebrei – i fedeli, quegli ebrei che cercano di osservare più o meno fedelmente l’alleanza abramica e mosaica fra Dio e il suo popolo eletto, sono diventati una minoranza, una minoranza ebrea osservante: non più del 10% di tutta la popolazione ebrea, in una comunità ebrea che è assai laica. Questa è la realtà nostra, anche la realtà nostra, ovunque, a New York, a Tel Aviv, a Roma, a Parigi. Allora anche in questo senso più sottile, profondo, siamo fratelli, perché ci troviamo minoranza nella minoranza. Fratelli nel confrontare una sfida esistenziale: come trasmettere la nostra fede, le nostre pratiche religiose ai nostri figli in un mondo ferocemente laico e secolare. Un mondo nel quale la laicità non è semplicemente una parola descrittiva dello stato religioso e di un individuo (lui è credente, lui è laico). Ma una parola ormai prescrittiva, un concetto sociologico valoriale. Non sempre, ma spesso, la realtà laica, pur professando una tolleranza formale verso l’altro, mostra un disprezzo notevole vero il religioso, soprattutto se la religione e il religioso sono cristiani (all’ovest almeno). Un ricordo personale, un avvenimento della mia vita che non posso dimenticare. Qualche anno fa sono stato intervistato da un settimanale francese molto importante, Nouvelle Observateur, il bastione dei ben pensanti francesi. Fanno queste cose in un modo molto serio: mi hanno invitato, pagando l’aereo da New York a Parigi, per una giornata intera con il giornalista responsabile e con il capo redattore nella sede del Nouvelle Observateur. Un palazzo splendido a Parigi. Il risultato mi è piaciuto parecchio: cinque pagine di intervista con foto bellissime. Per cinque minuti mi son sentito una celebrità. Verso ora di pranzo, il capo redattore mi dice: “stiamo per mangiare, abbiamo qui al Nouvelle Observateur uno dei uno più famosi chef francesi”. Io, che seguo la norma ebrea di mangiare Kasher, ho cominciato a fare delle domande tipo “ma cosa ha preparato, quale cibo, ha usato il burro o lo strutto?”. Insomma c’è tanto da chiedere. All’improvviso quel capo redattore ha capito tutto. Mi guardava e nei suoi occhi non ero più il professore sofisticato di Harvard ma un primitivo, un selvaggio di una giungla sudamericana. Mi disse: “non ci credo che tu segui queste regole stupide, come è possibile che uno come te segua queste regole?”. Naturalmente era un ebreo, se non era un ebreo queste cose le avrebbe pensate, non le avrebbe dette. Ma è in questo mondo che si trovano i nostri figli. Il più grande problema non è però politico ma culturale: le virtù, includendo le virtù religiose. Essi vengono addestrati non scolasticamente in un aula universitaria, ma sono addestrati per imitazione nell’aula che si chiama “la vita”. Quell’aula, oramai, nei tempi moderni si estende anche nelle nostre case, attraverso la TV, internet, Facebook, Twitter. E questa realtà definisce per i nostri figli ciò che è cool. Come si dice in Italiano? Ah sì, figo. Ciò che è cool è da imitare. Allora la nostra sfida è: come possiamo educare i nostri figli ad altre virtù, imitatio Dei? Una strategia potrebbe essere quella di ritirarsi dal mondo contemporaneo. Tutti voi avete visto a Milano, in TV e al cinema, gli ebrei religiosi fondamentalisti che sono vestiti di nero, con i capelli pettinati in una certa maniera eccetera, stile ’700 che di fatto vivono nel ’700. Hanno costruito per se stessi un ghetto dove non è permessa la TV, se non per vedere un loro canale. Non permettono l’utilizzo di internet, se non per accedere ad un messaggio di un loro rabbino, eccetera. C’è molto da ammirare nella loro dedizione, però non posso accettare questa scelta di vita perché per essere un po’ volgare è una vita da parassita. Perché loro per poter vivere questa scelta hanno bisogno di altri, di noi, che non scegliamo questa vita. Perché se qualcuno di loro è malato va subito dal medico, forse da mio fratello che è medico; se loro hanno bisogno di elettricità vanno in un impianto progettato da un ingegnere, uno dei miei cugini ingegneri, e così via. Questa scelta è un problema. Come si può scegliere una vita religiosa, quella di ritirarsi dalla vita moderna, che per definizione deve essere giusta, se per vivere questa vita è necessario che altri scelgano la strada non giusta? Non funziona, è una scelta, una strategia che non posso accettare. Io vorrei vivere come religioso nella vita moderna. In questo senso sono troppo don Giussani. La soluzione non è allora ritirare i nostri figli dalla vita reale. Ma la vera sfida è quella di educare in nostri figli in maniera del tutto moderna e cioè includendo lettere, storia e matematica. Acquisire una professione nella vita moderna come medici, operai, ingegneri, tecnici, commercianti eccetera. E allo stesso tempo mantenere la loro fedeltà sacramentale, la loro sensibilità, la presenza di Dio nella vita. Voi e noi vorremmo figli, che conoscano la scienza, la fisica, l’astronomia, la biologia eppur capiscano dal punto di vista della conoscenza scientifica che non c’è contrasto o conflitto tra scienza e fede. Che possano sognare di fare l’avvocato, l’avvocatessa, il medico, il giardiniere o l’estetista, senza pensare che questo è in qualche modo in conflitto con la loro religione. Questa è la sfida! Molto più dura, molto più rischiosa della soluzione di ritirarsi dal mondo, come fanno i fondamentalisti. Tra parentesi dico nuovamente che a mio avviso non c’è una persona che ha capito questa sfida quanto il vostro, il nostro. don Giussani. Domani faccio qui a Rimini 2 brevi lezioni, in omaggio a don Giussani, sulla Bibbia. In una di queste lezioni prendo come spunto la figura di Giacobbe, storico patriarca, che piaceva molto a don Giussani, come modello dell’uomo religioso moderno nel mondo contemporaneo. Sarà interessante. Anche qui noi siamo fratelli perché condividiamo la scelta di metterci proprio dentro la vita generale, pur mantenendo la nostra differente identità religiosa. Si capisce anche un’altra cosa e cioè che quando Benedetto XVI parlava di una minoranza creativa, non era soltanto descrittivo ma prescrittivo. Una minoranza deve essere creativa se vuole sopravvivere. C’è chi pensa che noi ebrei siamo creativi, senz’altro siamo campioni del mondo per la capacità che abbiamo di sopravvivere! Ma voglio aggiungere una cosa seria, quando dico sopravvivere non mi riferisco solo ad una realtà fisica, anche se questo è importante, ma sopravvivere in una civilizzazione di 3500 anni. Abramo ha circonciso i suoi figli, io ho circonciso mio figlio e spero che i miei figli e i figli dei loro figli faranno questo per sempre. Uso questo esempio che è il primo segno dell’alleanza fra Dio e gli ebrei. Alcune osservazioni. Come affrontiamo noi questa sfida educativa? Mi riferisco in particolare ad una realtà newyorkese che somiglia molto, secondo quello che so, alla vostra, per cui la sfida principale è l’educazione. Questa è una questione cruciale nella cultura ebrea, e nella Bibbia stessa è un comandamento, cioè studiare di giorno e di notte. Ma anche un imperativo esistenziale. Educazione vuol dire capire l’alleanza. Capendo l’importanza della cosa, vedendo la forza enorme della società, è veramente la scuola il luogo principale della vita sociale dei nostri figli, la scuola diventa il fatto cruciale. Nella comunità ortodossa ebrea moderna, la scuola diventa l’istituto principale. Ora cambio voce, divento molto pragmatico, non più concettuale. E devo fare una piccola confessione con una certa fierezza. Perché sono veramente fiero di quello che siamo riusciti a costruire, visto che non prendiamo una lira dallo stato. Perché gli Stati uniti d’America, pur essendo una società religiosa, costituzionalmente pongono una separazione netta e dura tra stato e Chiesa. E nel momento in cui una scuola è definita religiosa, non ha più accesso ad una lira di denaro pubblico. Tutto quello che costruiamo lo dobbiamo costruire con mezzi nostri. Non c’è neanche una Chiesa che può aiutarci. Ogni scuola, comunità ebrea o ente autonomo deve sostenersi da sé. Queste scuole somigliano molto l’una all’altra, perché sono fatte con la stessa sensibilità, tradizione e la stessa esperienza dei genitori. Se uno va in una certa scuola ne costruisce una simile quando si sposta in un nuovo paese. E’ un movimento vivo e come tale sa come riprodursi. Poi queste scuole non possono essere “scuolacce”, si può dire? Niente romanticismo del tipo: se anche entra la pioggia bisogna andare a scuola lo stesso. Noi siamo troppo ambiziosi, ci aspettiamo il meglio per i nostri figli, gli insegnanti più bravi, l’attrezzatura più moderna, laboratori, computer. Dopo tutto ogni genitore ebreo si aspetta che suo figlio sia almeno un nuovo Einstein. Poi non si può adottare il modello classico della scuola privata americana, che è molto di élite, molto selettiva, dove la tassa di iscrizione è incredibilmente alta. Sono scuole selezionate per i ricchi. Per due motivi. Primo, noi abbiamo l’obbligo morale di accettare ogni studente ebreo che vuole studiare nelle nostre scuole, non possiamo dire ad una persona: “tu non sei abbastanza bravo e quindi non puoi venire”. E secondo, contrariamente al mito, non siamo tutti ricchi. Magari fosse così! Non ridete, non mi credete vero? Purtroppo non è così. Per essere più volgari, qual è il punto cruciale per sviluppare queste scuole, la fede, l’impegno, la serietà? No, la cosa cruciale sono i soldi. Senza i soldi non si può costruire una buona scuola. Anzi il Talmud ci insegna: “ricordate voi tutti, niente farina, niente Torà, cioè niente studio. Come si fa allora se dallo stato non ci viene una lira? Ci sono alcuni elementi di questa realtà. Primo elemento. Una tradizione millenaria di filantropia. Qualche benestante c’è in ogni comunità, nostre e vostre. E sempre, senza ogni eccezione, l’oggetto principale della filantropia ebrea è la scuola locale. Sempre è stato così e sempre sarà così. E non danno solo soldi, ma danno qualcosa di più importante, danno le garanzie. Cioè, rischiano tutto quello che hanno per far sì che la comunità possa prendere enormi prestiti dalle banche per costruire una scuola. Il benestante dà un po’ di soldi, ma soprattutto dà la garanzia alla banca per permettere il mutuo. Quelli sono i veri eroi della educazione ebrea. Secondo, responsabilità intergenerazionale. Perché in ogni comunità in cui si crea una scuola, anche se è la prima generazione che paga, una volta aperta, ci vanno tutti in questa scuola. Così i genitori vanno nella scuola costruita dai loro nonni senza la responsabilità di crearne una nuova per i figli e i figli dei figli. Poi la solidarietà. Io ho mandato e sto mandando cinque figli nelle nostre scuole. Pago un malloppo, una cifra spaventosa. Perché? Perché grazie a Dio posso permettermelo. Ma so che il fatto che io ed altri come me paghiamo tanti soldi, permette alla scuola di accettare tutti, anche i più poveri. La differenza tra la tassa di iscrizione più alta e quella più bassa può essere anche di cinque volte. Se io pago ventimila dollari, c’è qualcuno che ne paga quattro. Io pago venti per permettere a lui di pagare solo quattro. E’ il sistema biblico quando hanno costruito il Tabernacolo. Hanno detto: ognuno dia mezzo shekel e poi ognuno darà ancora secondo i mezzi. Non c’è nessuno nella nostra scuola ebrea moderna che non paga nulla. E’ importante che tutti paghino, anche se poco, è importante per sentire di contribuire e anche per poter urlare ai loro figli nel pomeriggio: “io pago così tanto per mandarti a questa scuola e tu invece di fare i compiti….”. Sul curriculum noi diciamo: “pietà sui nostri figli, abbiate pietà! La loro giornata è tre ore più lunga dei loro amici laici”, vanno a scuola alle otto per la preghiera della mattina e finiscono alle sei di sera. Perché, a volte penso, perché Dio mio? Perché ogni giorno devono fare due curriculum, il curriculum secolare laico normale, inglese, letteratura, matematica, storia, scienze, ed anche un curriculum cosiddetto sacro, ebraico, aramaico, Bibbia, Profeti, Talmud e poi ancora più Talmud? Questi figli sono eredi di due grandi civiltà, quella occidentale generale che noi condividiamo, la tradizione giudea cristiana, e quella ebrea. E la scuola ha il compito di fare sì che loro abbiano padronanza di tutte e due civiltà. Perciò ogni giorno si comincia alle 8 e si finisce alle 6. E poi c’è anche lo sport, l’attività extra curriculum, insomma una vita dura. Gli insegnanti sono molto dediti al lavoro, ma vorrei dire che molti tra di loro non sono ebrei, perché la selezione degli insegnanti la si fa in base al merito, alla capacità di insegnamento. Sia che il migliore insegnante di matematica sia cristiano, musulmano o laico, lo si prende comunque. L’esperienza non finisce alla fine dell’anno scolastico, perché, ricordate, abbiamo parlato di imparare nell’aula della vita. In estate c’è una rete enorme di campi estivi che seguono la stessa filosofia: la vita moderna nell’impegno con una alleanza millenaria. Noi ogni anno mandiamo i nostri figli in Israele in un campo bellissimo. E poi non finisce con la scuola perché prima di lasciare andare i nostri figli nel mondo, li mandiamo tutti ad un seminario per un anno. I ragazzi vanno ad un seminario maschile, le ragazze vanno ad un seminario femminile. E per un anno fanno studi sacri intensivi. E’ una cosa importantissima, perché per la prima volta sono fuori, lontani da casa, e possono concentrarsi e stare con gli insegnanti fantastici di questa civilizzazione prima di andare alle varie università laiche di Columbia, Princeton, eccetera. Un altro episodio personale. Quando mio figlio maggiore è andato a questo seminario, mi ricordo che abbiamo telefonato alle 9 di sera e lui rispose: “scusa babbo, sto studiando”. Quando io tengo il Seminario all’Università di New York, racconto questa storia perché studiare in seminario è una cosa bellissima, visto che alla fine non percepisci né titolo né voti. E’ veramente studio per il valore di studiare. Ora, per finire, voi pensate nel vostro cuore: “poveri bimbi, che vita gli riservano i loro genitori”. Vorrei farvi vedere qualche foto di questi poveri bimbi. Partiamo con un breve filmato registrato ad un campo estivo, il famoso YouTube, vedete siamo nel mondo! Poverini, ancora poverini, vedete come soffrono… li fanno dormire per terra. Poi vediamo qualche foto del seminario che vi ho appena descritto. Questi sono ragazzi che hanno finito la scuola e vanno per un anno in seminario. Vedete, nelle foto qui sopra come è bello sulle montagne di Gilboa. Ricordate la storia di Davide e Saulo? I “poveri ragazzi” sono andati lì. Mentre qui vedete i poverini in seminario. Fanno pietà, sembra che soffrano anche loro. Adesso vediamo la scuola, così finisco. Quella è la nostra scuola, tutta fatta da noi. La prima foto è quella del Kinder Garten, questa è la scuola elementare, mentre quest’altra è la High School. Ma la cosa che voglio farvi vedere è il sito web della scuola. Un sito normale fatto per la scuola. Vedete, qui fa vedere come contattare la scuola, alunni, genitori, calendario, novità, e qui c’è “Give-in”, la possibilità di aiutare finanziariamente la scuola, scholarship funds, capital campain, memorial funds, plan give-in, day learning sponsorship, una marea di creatività su come sostenerci senza l’aiuto dei mezzi pubblici. Capite perché ne sono fiero! Qual è il nostro sogno? Che i nostri figli si sposino, che facciano tanti figli come noi e che loro continuino la catena di tradizione intatta per 3500 anni e che noi speriamo duri per sempre. Grazie.

CHRIS BACICH:
Ora vorrei fare una breve notazione visto che già abbiamo superato l’ora di incontro. Prima cosa. Abbiamo sentito oggi che l’educazione è per un bisogno dell’io. Entrambi i relatori parlavano della necessità di cercare la verità. E soprattutto il professor Gregory parlava della necessità di cercare la verità ultima della realtà. E parlava di questo come di una cosa umana, cioè non cercare la verità vuol dire diminuire la nostra umanità. Poi il professore Weiler diceva che adesso nei nostri tempi negli Stati Uniti, ma anche in tutto il resto del mondo occidentale, l’educazione è una sfida. E’ una grande sfida cercare la verità, e cercare di comunicare la verità. Soprattutto è una grande sfida risvegliare nell’altro il bisogno, la sete della verità. E questo problema non si risolve con un sistema. Non è che abbiamo bisogno di una riforma del sistema. Anzi il professor Weiler ha parlato di una sfida culturale, cioè una sfida di come noi pensiamo alla vita adesso, con Internet, Twitter, YouTube eccetera. La sfida è grande, una cultura laicistica, tantissimi mezzi di comunicazione, tantissimi soldi, la mancanza di soldi. Da noi negli Stati Uniti c’è un sistema educativo pubblico in cui la stragrande degli americani si trovano e poi un sistema di basso livello. Cioè ci sono tantissime sfide. Allora, dov’è la speranza? C’è speranza per i nostri giovani? La speranza, per quello che io ho visto nella mia esperienza di educatore, c’è se c’è un avvenimento che non può essere distrutto da nessun mezzo di potere. Come si spiega il fatto che noi, con questo nostro grande fratello nella fede, questo amico americano, siamo qui a parlare con voi? Come si spiega? Questo è un fatto che accade adesso. Io, insegnante di New York, lui professore ebreo, lui professore di Notre Dame, come si spiega che siamo qui? Certo siamo stai invitati, certo c’è tutta una storia che ci ha portato qui. Ma dov’è l’origine di questa storia? L’origine è 2000 anni fa. Questo fatto non può essere distrutto. Questa è la nostra speranza. Noi sappiamo per la nostra esperienza che la conoscenza è sempre un avvenimento. E visto che l’avvenimento c’è sempre, la speranza consiste semplicemente nell’aiutarci a guardarlo. Guardarlo, come stiamo guardando in questi giorni questo grandissimo avvenimento del Meeting di Rimini. Allora ringrazio ancora il professor Weiler, ringrazio il professor Gregory e voi per la vostra pazienza.

(|Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

27 Agosto 2009

Ora

15:00

Edizione

2009

Luogo

Sala A1
Categoria
Incontri