Educazione ed innovazione scolastica. Canoni formativi per tempi complessi

In collaborazione con DiSAL, Diesse, Cdo Opere Educative e Associazione Culturale il Rischio Educativo.
Simona Favari, Dirigente Scolastico, Istituto Istruzione Superiore Volta, Castel San Giovanni; Marco Ferrari, Preside Liceo Malpighi di Bologna; Franco Vaccari, Fondatore e Presidente di Rondine Cittadella della Pace. Introduce Carlo Di Michele, Presidente Diesse.

Tempi incerti e complessi quelli che stiamo attraversando. Per tutti. Anche nelle scuole, dove l’incontro tra adulti e ragazzi sembra oggi essere esclusivamente condizionato da emergenze sociali, economiche e sanitarie. Eppure anche e proprio nelle aule molti semi di innovazione e di protagonismo intelligente ed operoso stanno fiorendo avviando nuovi canoni organizzativi e di insegnamento all’altezza delle nuove sfide educative. Come sempre la realtà ci precede e indica dove guardare. Un incontro per documentare alcune di queste esperienze.

Con il sostegno della Regione Emilia-Romagna.

EDUCAZIONE ED INNOVAZIONE SCOLASTICA. CANONI FORMATIVI PER TEMPI COMPLESSI

Carlo Di Michele: Buonasera a tutti e un saluto cordiale a chi è qui presente in sala e a quanti ci ascoltano in diretta o ci ascolteranno nei prossimi giorni. È un po’ un’emozione parlare di fronte a tutte queste persone e -scherzando prima con alcuni amici- dicevamo: è un po’ parlare a un collegio dei docenti allargato. Questo incontro è il primo di un ciclo di incontri sulla scuola e sull’educazione promosso dal Meeting in collaborazione con alcune associazioni professionali: Diesse-Didattica e Innovazione scolastica, DISAL, Compagnia delle Opere Educative e Il Rischio Educativo. Sono associazioni che si occupano di formazione e aggiornamento dei docenti e dei dirigenti, di gestione di opere e, più in generale, dei temi dell’educazione e della scuola. Il tema dell’educazione è sempre stato centrale al Meeting e non poteva esserlo, ancora di più, quest’anno: un anno in cui il tema è appunto “Una passione per l’uomo”. E in fondo che cosa c’è di più importante, cosa esprime maggiormente questa passione per l’uomo se non far crescere i nostri ragazzi per introdurli alla realtà, per aiutarli a scoprire il senso di sé stessi, il senso della vita, il valore della vita e anche il proprio ruolo nella società; insomma, per aiutarli ad essere liberi e protagonisti della propria esistenza. Quindi è un tema importante, un tema centrale di questa edizione del Meeting. Sappiamo che proprio perché è un tema così importante è anche un tema delicato e sappiamo quanto oggi sia difficile affrontare la questione educativa, tanto che si parla di emergenza educativa se non addirittura di catastrofe educativa, e questo riguarda anche la scuola perché tutti siamo consapevoli dell’importanza della scuola; ce ne siamo resi conti conto anche in questo periodo di pandemia. Ma allo stesso tempo la scuola oggi è un po’ sballottata perché è combattuta tra istanze diverse: chi la vorrebbe come un luogo di socializzazione, un luogo per favorire l’inserimento dei ragazzi – soprattutto in mancanza di un ruolo che prima era svolto da altre realtà educative – e chi invece guarda alla scuola del passato, quella in cui si acquisivano saperi solidi, forti per consentire ai ragazzi di inserirsi nel mondo del lavoro. Insomma, tra queste tendenze complesse però ogni giorno insegnanti, dirigenti, educatori devono fare i conti con questi ragazzi, in questi contesti, ed è evidente che non ci si possono aspettare risposte dall’alto, modelli astratti da applicare, soluzioni miracolose, metodologie miracolose. Questo incontro vuole essere… non può dare, non vuole dare, non ha la pretesa di dare la risposta a questa sfida però vuole indicare una strada, vuole tentare di indicare una strada e un metodo. E la strada e il metodo fondamentalmente sono questo: guardare esperienze in atto, guardare fatti, che documentano che l’esperienza educativa è possibile qualunque siano le circostanze, i ragazzi, i contesti. Ma questo è possibile fondamentalmente ad una condizione: se ci sono delle persone, degli uomini, delle donne, che accettano su di sé questo compito, questa sfida, e provano a mettersi in gioco, provano a tentare -anche in modo innovativo- delle risposte. Provano a capire qual è il bisogno con cui si devono confrontare e -ciascuno per il proprio ruolo- individuare la strada per rispondere a questa esigenza che, ripeto, è un’esigenza che accade qui ed ora. Per parlare di tutto questo abbiamo il piacere di avere tre ospiti che presenterò nel dettaglio man mano che interverranno. Comunque ve li presento subito: abbiamo Simona Favari che è una dirigente scolastica dell’Istituto di Istruzione Superiore Volta di Castel San Giovanni in provincia di Piacenza, Marco Ferrari che è un’insegnante e da un anno dirigente scolastico del liceo Malpighi di Bologna, e Franco Vaccari che è fondatore e presidente della Rondine Cittadella per la Pace. Io inizierei questo giro, questo colloquio, questo nostro dialogo, proprio da un’insegnante. Lo chiamo ancora insegnante perché è ancora in prima fila anche se svolge il ruolo di dirigente di una prestigiosa scuola di Bologna, però è ancora in campo come insegnante. Tra l’altro è fondatore e ideatore delle Romanae Disputationes, un concorso di filosofia per studenti, e il responsabile della Bottega dell’Insegnare di Diesse. È una persona che ha ancora le mani in pasta in pasta con i ragazzi. E a lui proverei a porre questa domanda, che poi girerò anche ai nostri ospiti: ma, di fronte al bisogno educativo che lei ha incontrato, in che modo questo bisogno l’ha sfidata, l’ha sfidata a trovare una risposta e anche a pensare risposte nuove e più adeguate, più corrispondenti al bisogno dei ragazzi e al contesto in cui i ragazzi si trovano a vivere?

 

Marco Ferrari: Grazie dell’invito. Provo a rispondere alla domanda del professor Di Michele. Allora, la prima cosa che ho pensato venendo qui a questo incontro era che da tempo mi accorgo, come docente e da un anno come Preside del liceo Malpighi di Bologna, che c’è un iato, un gap, tra chi nella scuola lavora – e tra questi persone che come me o come il professor Di Michele si sono formati in una scuola che abitava in un tempo diverso: dieci, quindici, trenta, quarant’anni fa – e questo è il primo punto che vorrei attenzionare per guardare a quello che sta accadendo nella scuola e che tanti di noi qui vivono in prima persona. La cosa che mi stupisce è che il contesto è così mutato che spesso non riusciamo a vederlo e c’è una distanza tra le azioni che compiamo, la progettazione didattica, il modo con cui pensiamo il tempo che abbiamo a scuola, una direzione, e un mondo che ci è cambiato attorno in modo strabiliante. Ho provato a raccogliere un po’ di idee su come questo mondo è cambiato e ho trovato in Byung-Chul Han – che è un filosofo coreano – delle osservazioni che tanti oggi fanno, ma in modo molto puntuale e in lui ho trovato una grande chiarezza sul fatto che la società in cui viviamo ha come perno, come indicazioni, come orientamento di fondo, quello di pensare e, di fatto, ridurre l’uomo a soggetto di prestazione. Questo accade all’interno di un mondo in cui – come tutti sappiamo – il digitale ha modificato il modo che abbiamo di fare esperienza dei rapporti, delle cose, e in un mondo in cui il dolore, la negatività, la contraddizione, sono messe al bando sempre di più. Perché partono da queste considerazioni? Perché da insegnante e adesso da dirigente, incontrando tanti genitori, mi accorgo che la grande questione è riappropriarci di tutti questi elementi che Byung-Chul Han sottolinea in negativo e quindi riappropriarsi del fatto che noi non siamo soggetti di prestazione ma siamo tutti – docenti, genitori e studenti – persone che hanno un qualcosa di immisurabile con il quale fare i conti; non siamo ridotti alle nostre pratiche digitali – e l’abbiamo visto tutti con la DAD nel lockdown – ma possiamo e dobbiamo riconquistare il rapporto in presenza come centrale nell’azione didattica educativa, senza buttare via tutto ciò che il digitale ci può offrire. L’altra questione per me, per le sfide che ho davanti nel mio lavoro quotidiano, è ricomprendere – appunto – la centralità della relazione, reazione intesa non come un buonismo paternalistico ma come avere la stima totale, assoluta, perché l’altro che ho davanti possa dare il meglio di sé: sia colleghi, sia studenti. E in questa cornice accade l’innovazione, cioè accade che succede qualcosa di nuovo e andrei subito su questo punto – perché quello a cui tengo di più -. Oggi tanti parlano di innovazione come strumento per rispondere al bisogno educativo, formativo, dei nostri ragazzi, delle nostre ragazze. Quello che ho scoperto nella mia esperienza, è che fare innovazione significa trovare un modo personale e comunitario di tradurre la tradizione in forme nuove, in forme diverse, in forme che possano toccare il gusto, la sensibilità, e i problemi nuovi che – come dicevo prima – tutti abbiamo attorno a noi. Faccio due esempi velocissimi; al liceo Malpighi negli ultimi anni abbiamo lavorato insieme a Elena Ugolini che ci dà una grandissima energia per trovare queste strade e sono nate delle cose bellissime; penso innanzitutto al Carrier Service che è un servizio di orientamento fatto dai docenti che è stato anche curato da Luigi Ballerini, che qualcuno forse conosce, ed è stato uno strumento pazzesco perché, che cosa abbiamo scoperto? Qualcosa di antichissimo ma sempre nuovo e cioè che prendersi cura del modo dei ragazzi di concepire il loro presente e di guardare al loro futuro non è un’invasione di campo ma una grande occasione di conoscenza di quello che sono, del modo che hanno di vivere e di pensare, e del modo che hanno di progettare il loro tempo e il loro lavoro. E poi anche un’altra bellissima iniziativa a scuola, il Malpighi Lab: è un laboratorio di design-robotica dove accade tantissimo, nel senso che incontriamo aziende del territorio, fondazioni, associazioni con le quali facciamo quelle che noi chiamiamo “finestre” su mondi che spesso sono sentiti come lontani dalla didattica quotidiana, introducendo appunto finestre che tutti oggi sentiamo importanti – come la meccatronica, il digitale – e andiamo a conoscere quello che è il mondo del lavoro dall’interno di questo ambiente molto innovativo che è il Malpighi Lab. L’altro – e concludo – ramo di lavoro sul quale in questi anni mi sono trovato a spendermi e che mi ha entusiasmato è quello che dalla scuola porta fuori dalla scuola e quindi con Diesse, con APIS, con tante altre associazioni, abbiamo – parlo al plurale perché siamo colleghi che hanno questo entusiasmo e questa voglia di puntare sulla propria disciplina, sulla bellezza e sull’amore per il sapere – e sono nate, come diceva Carlo, tante realtà come Romanae Disputationes, ma altre: dispute, il Festival di Innovazione Scolastica, che mi hanno fatto sentire l’urgenza di incontrare chi fa, chi ama e chi si spende per la scuola. Qui ci sono tantissime persone che lo fanno con grandissimo impegno e coraggio. Ecco, io credo che la cosa più bella sia trovare colleghi, giovani e meno giovani, che vogliano e, come anche i colleghi che sono qui oggi, magari anche da storie culturali diverse, da formazioni apparentemente lontane ma in cui si scopre che quello che abbiamo – come diceva Carlo all’inizio – è trovare il modo di – uso un’espressione forte – di conquistare l’attenzione dei nostri ragazzi di fronte a un mondo in cui i social, le serie tv, tanto mondo cerca – anche a volte in modo non troppo limpido – di rubargli quell’attenzione. E quindi io penso che dobbiamo confrontarci a questo livello mettendo i piedi sul bagaglio bellissimo di conoscenza, di teorie, di visioni di mondo che sono le nostre discipline – ognuno la sua – e con queste trovare veramente tutti i modi per poter dialogare con i ragazzi che abbiamo davanti. Mi fermerei qui, grazie.

 

Carlo Di Michele: Grazie, grazie a Marco Ferrari. Devo dire che questa capacità di innovazione – come diceva lui – è proprio anche … nasce da un guardare la realtà e quindi la capacità di – lui l’ha documentato molto bene – di mettere insieme il vecchio e il nuovo per trovare soluzioni diverse, per trovare soluzioni ad hoc, che rispondono a quel bisogno e a quella determinata situazione facendo nuove anche cose apparentemente antiche e superate come, per esempio, le Romanae Disputationes che sono il recupero moderno di una di un’esperienza di dialogo, di confronto, che viene dal buio Medioevo. A Simona Favari direi: ma questa stessa passione educativa che anima tanti insegnanti – ne abbiamo avuto un piccolissimo spaccato in questo intervento – è la passione che muove anche un dirigente a cui viene dato il compito di guidare una scuola e spesso, come nel suo caso, più scuole – perché il fenomeno delle reggenze è un fenomeno molto diffuso in Italia – e spesso anche in contesti diversi; e quindi la stessa domanda ma vista da un dirigente che ha il compito di guidare un’organizzazione che vive in un territorio, che ha tanti stakeholders – come si dice oggi: portatori di interesse – che guardano con attenzione all’organizzazione scuola, ecco: come ha vissuto questa sfida personalmente e come ha cercato di imprimere questo… di documentare questa passione nelle scelte della sua scuola?

 

Simona Favari: Grazie. Buonasera a tutti; grazie per questa opportunità. Quando mi è stato chiesto di partecipare a questo incontro ho avuto occasione – e di questo ringrazio – di poter riflettere sul mio ruolo di dirigente. Una caratteristica di chi vive a scuola, e noi siamo persone di scuola, è quello che siamo sempre sommersi dalla quotidianità, dal presente, e quasi sempre proiettati sul nuovo anno, su quello nuovo che dovremmo fare; e invece è molto utile, di tanto in tanto, provare a guardarsi indietro e riflettere su quello che si è costruito e che si è costruito insieme. Quindi questa per me è stata un’occasione di rivedere la mia esperienza e di provare a farne sintesi e di trovare una mappa, diciamo, in quello che ho provato a fare. Quindi provo, molto sinteticamente, a dirvi come ho interpretato il mio ruolo da dirigente. Io ho un passato di vent’anni di insegnamento ed ho avuto una grande opportunità che è stata quella di insegnare in tutti gli ordini di scuola – dell’infanzia alla scuola secondaria di secondo grado – e sono diventata dirigente dal 2012, quindi ormai sono 10 anni. Ho iniziato la mia esperienza da dirigente al Quarto Circolo Didattico di Piacenza dove sono rimasta come sede di titolarità per i primi tre anni e poi ho diretto altre scuole ma ho tenuto il Quarto Circolo Didattico sempre in reggenza e quindi questa è per me l’esperienza – diciamo – più compiuta, e quella su cui vorrei soffermarmi un po’ di più stasera. La realtà del quarto circolo di Piacenza è una realtà complessa. Tutte le scuole in realtà sono complesse, ma noi siamo in un zona della città di Piacenza, in quartieri popolari con un alto tasso di immigrazione. Piacenza – non tutti lo sanno – è la città, dopo Prato, col più alto numero di studenti con cittadinanza non italiana e poi, come spesso succede, per questioni urbanistiche non è che la percentuale si distribuisce uniformemente tra le scuole. Nel nostro circolo didattico superiamo abbondantemente il 50%, raggiungiamo in molte classi anche l’80%. In più la situazione del contesto: era un contesto, ed è tuttora un contesto, che vive una situazione di disagio alta di famiglie con povertà materiale, ma c’è anche una grande povertà educativa e disagio sociale. Quindi era una realtà che ci si parava davanti agli occhi e vivevamo un momento in cui le stesse famiglie di immigrati chiedevano di non iscrivere i bambini in una delle nostre scuole perché loro stessi dicevano “troppi stranieri, siamo troppi tra di noi”, e quindi ci siamo davvero trovati davanti un problema. Spesso succede che nelle scuole e nei contesti più problematici si genera innovazione perché sei proprio costretto a leggere la realtà e a trovare delle soluzioni nuove. Credo oggi che tutti coloro che si occupano di educazione devono continuare ad interrogarsi sul senso che ha oggi la scuola, soprattutto e ancora di più oggi, dopo che abbiamo avuto la pandemia e abbiamo vissuto la drammaticità delle scuole che sono rimaste chiuse; ma credo proprio che di tanto in tanto ma proprio frequentemente dobbiamo tornare a chiederci che senso ha oggi fare scuola, di che cosa hanno bisogno i nostri bambini, che tipo di persone vogliamo formare. La prima cosa che mi è stata chiara in un contesto di questo tipo è stata che non potevo io fare la differenza ma che dovevo quindi costruire un gruppo di persone con cui provare a trovare delle nuove soluzioni. Attraverso il dialogo, il confronto e la condivisione. Con questo gruppo di persone che sono con me, abbiamo fatto questo cammino di 10 anni – qualcuno è qui con me anche stasera – e abbiamo provato a muoverci direi su tre direttrici, abbiamo considerato tre aspetti: prima di tutto che cosa vale la pena oggi insegnare e imparare, e ci siamo detti che sicuramente oggi l’istruzione passa per la strada dell’educazione. Educare al sapere vuol dire, contemporaneamente, oggi educare a saper stare al mondo, che è un mondo complesso in cui i nodi si connettono all’infinito, in cui giusto e sbagliato, ordine e disordine, spesso coesistono, i punti di vista si moltiplicano, le soluzioni non sono mai univoche; per cui bisogna formare individui che sappiano trovare soluzioni nuove a nuovi problemi e non tanto persone che sappiano rispondere a domande predefinite. È ovvio quindi che il modello tradizionale di scuola che insegna a isolare gli oggetti dal loro ambiente, a separare le discipline, non può più essere il mondo della formazione dei cittadini del ventunesimo secolo e dobbiamo quindi sicuramente cambiare il modo in cui noi proponiamo il sapere ai bambini, ai ragazzi. Quindi cambiare il come, riflettere – dicevo prima – sul che cosa e quindi, sicuramente, rivedere l’impianto curricolare e poi ragionare insieme sul come. Il come, il principio di fondo, è semplicemente cercare di rafforzare e sostenere il desiderio di sapere, quello che Daniela Lucangeli chiama la curiosità epistemica e che purtroppo, troppo spesso, nelle nostre scuole -soprattutto man mano che passiamo in ordini di scuole diversi – si spegne, quindi finisce per diventare una ricerca semplicemente della promozione o del voto; quando questo succede nelle aule scolastiche è una grande tragedia. A questo punto, una volta che abbiamo ragionato sul che cosa e sul come, ci è stato chiaro però che per costruire un progetto dovevamo mobilitare un’intelligenza collettiva, aprirci all’esterno, cercare forze sul territorio e quindi organizzare questo capitale umano e sociale in un progetto e maturare un approccio sistemico in cui tutti fossero indirizzati verso il bene comune. A quel punto era indispensabile, oltre al che cos’è, il come, ragionare sul dove – gli ambienti -, rinnovare l’ambiente di apprendimento. Purtroppo le nostre scuole sono dei contesti dove, a volte, la bellezza non regna e quindi questo è un aspetto fondamentale. Sappiamo che lo spazio è il terzo educatore, quindi abbiamo cominciato a prenderci cura degli ambienti, abbiamo cominciato a ragionare sul tempo dell’imparare. La fretta, i programmi scolastici, l’accumulo di contenuti – quello che a volte viene definito come ingozzamento cognitivo – non aiuta a maturare apprendimenti significativi; quindi c’è bisogno di un tempo per l’apprendimento e per l’imparare. Ecco, in sintesi, questa per noi è stata l’innovazione. Innovazione non è qualcosa, non è inventare a livello scolastico qualcosa che prima non esisteva, ma è la capacità di guardare alla realtà con uno sguardo nuovo, vuol dire affrontare situazioni problematiche con un approccio creativo, portando intenzionalità e riflessività nelle azioni e nelle decisioni. L’innovazione nasce dalla curiosità, dalla propensione ad assumersi dei rischi e quindi è l’applicazione creativa di un’idea, magari già nota, però in un contesto nuovo. In questo senso l’innovazione può assumere i contorni di un’impresa, di un’impresa comune, quindi di una sfida che coinvolge e che mobilita le energie. In questo senso bisogna sicuramente lavorare affinché ci sia fiducia reciproca nelle scuole; quello che io spesso dico nei collegi docenti è che dobbiamo avere fiducia l’uno nell’altro, maturare questa visione condivisa di futuro e diffondere la responsabilità, quindi fare in modo che ciascuno si senta responsabile del suo pezzo in un’ottica comune. In sintesi, quello che ho provato a fare è portare a sistema il contributo di tutti, cercare di ispirare una visione comune e, soprattutto direi, condividere una passione. Grazie.

 

Carlo Di Michele: Grazie, grazie. Questo sguardo nuovo che diventa uno sguardo che si allarga, che cerca e trova alleati, sul territorio ma anche dentro la scuola; perché è vero: il cambiamento non è il frutto di un’azione isolata, né di un’insegnante, né di un dirigente, perché l’azione isolata è diversa dal mettersi in gioco personalmente, c’è una differenza sostanziale. E adesso estenderei la stessa domanda a Franco Vaccari che non è un’insegnante, non è un dirigente, ma e stato fondatore della Rondine – Cittadella della Pace di cui è il presidente e che ha vissuto comunque questa passione educativa già da diverso tempo perché questa storia, la storia di questa realtà, è una storia – appunto – che è stata segnata da tanti fatti, da incontri significativi e da un ruolo incisivo non soltanto in Italia ma anche a livello internazionale. Ecco, mi è sembrato di capire che la vostra esperienza sia nata proprio da questa cura per il dialogo, per aiutare i ragazzi alla pace. Ma ti chiederei, le chiederei, di raccontarci un po’ come è nata questa esperienza e qual è stata la sfida che ha vissuto personalmente e come l’ha giocata con i suoi amici, con i suoi collaboratori.

 

Franco Vaccari: Buonasera a tutti e grazie per l’invito. Se mi permetti Carlo, partirei da un episodio: prima di venire qui ho avuto una telefonata – perché abbiamo scoperto con Carlo di avere un vecchio amico, di vecchissima data, più di quarant’anni – e questa telefonata, anche se breve, di qualche minuto, è come se mi avesse reimmerso improvvisamente in un clima, una storia, emozioni, anche dolore -perché c’è anche una storia di dolore – ed è come se non ci fossimo lasciati per vent’anni, avessimo ritrovato lo stesso timbro, lo stesso registro. Credo che questa esperienza che vi sto raccontando l’abbiamo vissuta tutti, la possiamo vivere tutti, cioè quella di relazioni che ci hanno accompagnato per un pezzo della vita, poi le abbiamo lasciate e poi, come le ritroviamo, è come se ripartissero immediatamente, direi quasi magicamente, da dove le avevamo lasciate; perché questo non è magia, questo è la relazione, cioè, quando due persone si donano reciprocamente tempo e spazio e si donano vita vera, integrale, è come se costruissero una storia; e avere una storia è come avere un filo che è pronto per essere dipanato e che non si perde. Perché parto da questo? Viene proprio bene questa piccola esperienza per dire che la forza delle relazioni è la risposta educativa che noi dobbiamo riscoprire continuamente – come anche è stato detto – specialmente in un tempo in cui è forte lo spaesamento e quindi la paura e il timore. E quando c’è paura e timore c’è il ripiegamento su se stessi, cioè emergono gli schemi difensivi e l’altro viene in qualche modo allontanato perché è visto come elemento di minaccia anziché di alleanza possibile. Allora la costruzione della relazione è la possibilità di avere un filo permanente, direi un filo di Arianna dentro lo spaesamento. Ecco perché ogni progetto educativo deve – direi – dire progetto di relazione educativa; perché educazione è una parola bella – a tutti noi ci appartiene, ci viviamo dentro – però forse se diciamo relazione educativa già la collochiamo, gli diamo una concretezza. L’esperienza a cui ti richiamavi è l’esperienza di Rondine. Noi da 25 anni ospitiamo coppie di nemici che vengono dai luoghi di guerra. Che cosa abbiamo scoperto in questi giovani che hanno tra i 23 e i 28 anni? Abbiamo scoperto che queste coppie di nemici che condividono la maledizione della guerra, e che quindi sono nati, cresciuti, nel veleno che produce ogni guerra, arrivando a Rondine, iniziando nella loro estraneità e, nello stesso tempo, nella comunanza della maledizione di essere nemici, scoprono che possono costruire una relazione ex novo. Lo possono fare. Con un aiuto, ovviamente, con un ambiente, con un cielo di valori a cui fare riferimento, però lo possono fare – e possono – mettendo in comunione l’interezza delle loro vite con le loro ferite, con i loro dolori e col programma che prevede due anni di convivenza, riaprire la dimensione dell’immaginario, quello che apre ogni relazione. Ognuno di noi nelle proprie relazioni – non i rapporti occasionali ma relazioni – vive tutte e tre queste dimensioni: condivide la parte faticosa, la parte del dolore, condivide l’esperienza sensibile dell’altro totalmente diverso da sé, e con l’altro condivide l’elemento immaginario, il domani, il cosa faremo, il noi. Quindi riapre al futuro la relazione; è un futuro che nasce dentro la relazione, è l’origine di ogni possibile innovazione. Questo va detto perché mi pare che uno dei temi e dei rischi è quello di una rincorsa, un’educazione – non penso tra noi ma, insomma, nel nostro tempo – la rincorsa tecnocratica, la rincorsa della tecnica e di tutto quello che può essere il supporto alla relazione – quasi che i supporti potessero sostituire le relazioni -. Le connessioni non possono sostituire le relazioni, le connessioni possono facilitare le relazioni, ma se sostituiscono le relazioni questo non è possibile; allora la relazione educativa e l’integrità di due persone che si mettono in gioco e che condividono ogni aspetto – anche la fatica, la frustrazione, il dolore – nella relazione si costruiscono tutti i valori, cioè scendono dal cielo delle teorie e diventano pratica. La fiducia si costruisce nella relazione ma non esiste fiducia se non è ferita dentro una relazione e riconquistata; allora una visione molto realistica, molto chiara e molto netta. Guai a delegare all’esterno delle relazioni il supporto, lo stimolo, la ricchezza educativa che invece nasce da dentro la relazione. Io vi voglio proporre la visione della relazione come un habitat, come una sorta di terzo, come una sorta di navicella che ci accompagna, che è nello stesso tempo protettiva e ci spinge oltre, insieme, nel noi; e la relazione, in questo senso, è un rischio perché l’altro è sempre un rischio, l’altro non è mai una garanzia, non c’è assicurazione verso l’altro. E se la relazione è costruita con tempo e spazio donato, il tempo e lo spazio donati non tornano più. Io faccio lo psicologo di mestiere e amo sempre quando arrivano le relazioni infrante, o ferite, o concluse. Spesso arriva un passaggio che suona più o meno così: “Ci siamo lasciati e gli ho restituito tutti i regali”. Al che mi fermo e gli dico: “Ma scusi, ma non erano regali?” cioè “Come non erano regali? che ne vuol sapere, gliel’ho regalati!” “No, gliel’ha dati in comodato”; perché se li richiede non li ha donati, perché donare – secondo me – è perdere. Ora perdere è qualcosa che ci collega, direi immediatamente, al sentimento della morte e quindi è chiaro che ci fa fatica. Allora perdere è sempre un richiamo al rischio del perdersi, ecco perché è nella relazione che possiamo vivere il rischio del perdersi, sempre però nella possibilità di rigenerarsi; questa è la possibilità del cambiamento e quindi – direi – di non seguire le sirene tecnocratiche ma di riscoprire incessantemente il valore della relazione.

 

Carlo Di Michele: Grazie. Beh, devo dire, molto stimolante questo intervento anche perché lui ha usato una parola che ci è molto, ci è molto cara, che è la parola rischio. Nell’educazione c’è un rischio e il contrario del rischio e l’assicurazione. Mi veniva in mente la famosa citazione di Eliot: “sognano mondi talmente perfetti che nessuno avrebbe bisogno di essere buono”. Un po’ così anche nella scuola: si sognano realtà talmente perfette che non ci sarebbe più bisogno dell’educazione, perché educazione vuol dire mettersi in gioco. Da questo punto di vista – appunto – la ricerca … il nostro incontro si intitola, ha una parte che introduce la parola canoni. La parola canone a volte viene sentita come un modello astratto, come una griglia, come una rigidità; noi l’abbiamo proposta invece come l’indicazione di qualcosa di certo, come qualcosa di certo perché è vero, perché è accaduto; e che quindi, proprio perché è vero, proprio perché è accaduto, può essere una proposta per gli altri, non tanto da replicare quanto da imparare e far proprio; perché appunto -come diceva Favari prima – c’è proprio un problema di sguardo. Ecco: rispetto alla parola rischio che è venuta fuori anche nell’ultimo intervento, che cosa dell’esperienza personale ritieni che possa essere indicata come un’esperienza di verità e di bellezza e quindi proposta come canone -nel senso che abbiamo, che ho provato a dire in questa introduzione.

 

Simona Favari: Sì, dunque, il Quarto Circolo Didattico oggi, dopo dieci anni, è capofila di una rete di innovazione didattica che si chiama Scuole che Costruiscono, che raduna ormai intorno a sé un notevole numero di scuole, di docenti, che si sperimentano nella pratica innovativa della ricerca-azione secondo determinati principi pedagogici. Ma vorrei un attimo invece attirare la vostra attenzione su uno dei progetti che al Quarto Circolo portiamo avanti dal 2014 che è una costruzione dell’orchestra in orario scolastico. A un certo punto abbiamo scelto per questa scuola, in una condizione così particolare, di ispirarci all’idea che il grande maestro José Antonio Abreu in Venezuela ha portato costruendo il cosiddetto “sistema”. Già dal ‘75 Abreu in Venezuela ha considerato la musica come un bene comune e una grande occasione per avvicinare, tramite l’arte e la bellezza, i ragazzi a questo aspetto educativo e artistico; ma grazie alla musica li ha tolti dai barrios e dalla povertà dando loro un’occasione. Questo è stato un grandissimo progetto che ha coinvolto più di 350.000 ragazzi in Venezuela e che è tuttora attivo, pur con le difficoltà che oggi il Venezuela ha. Noi ci siamo ispirati – in piccolo ovviamente – a questo progetto e abbiamo cominciato a pensare di offrire a questi bambini, in queste condizioni così svantaggiate e particolari, l’occasione di prendere in mano un violino, un violoncello, un clarinetto. Purtroppo oggi in Italia la musica nel contesto scolastico non ha molta fortuna e sappiamo, anzi, che il potersi avvicinare alla musica riguarda solitamente questioni di classi sociali. Quindi sono privilegi che solo alcuni bambini possono avere. Ecco, noi abbiamo pensato di poter donare a questi bambini questa esperienza fuori dall’ordinario, extra-ordinaria, che potesse essere un’occasione non solo di avvicinarsi alla bellezza della musica ma anche – in un contesto di pratica collettiva – di esercitare uno sviluppo della personalità e della cittadinanza. Sappiamo che la musica ha enormi potenzialità sia sul piano cognitivo che sul piano emotivo, e il fare musica insieme può essere un’esperienza democratica straordinaria. Abbiamo quindi cominciato a chiedere aiuto – perché avevamo bisogno di risorse -. Questo progetto ha bisogno che sia totalmente gratuito all’interno della scuola, avevamo bisogno di comprare gli strumenti e di sostenere il lavoro degli esperti musicisti che abbiamo trovato intorno a noi. Abbiamo trovato delle realtà sul territorio che ci hanno dato fiducia, hanno voluto rischiare con noi. Questo progetto è partito, è cresciuto negli anni. Ormai adesso, da quest’anno, partirà il progetto in altre scuole, anche nelle scuole secondarie. Ed è per noi, questa, una grande soddisfazione. Volevo brevemente farvi vedere come alcuni dei nostri bambini hanno valutato l’esperienza che hanno fatto. Noterete che non fanno tanto riferimento alla parte tecnica che loro hanno imparato della musica, ma che cosa questa esperienza, il contatto con lo strumento e il suonare insieme, ha loro fatto imparare come opportunità. A partire da Sofia che, sentirete, dice: “per me la musica è un rifugio dalla solitudine, mi ha insegnato a non arrendermi e a non avere paura di sbagliare”. Sentiamo Sofia: “Mi chiamo Sofia Corbellini, vivo a Piacenza, in Italia, parlo italiano, inglese e un po’ lo spagnolo. Suono il violino. Per me la musica è un altro mondo dove mi rifugio quando mi sento sola. Suonando ho imparato a non arrendermi e a non avere più paura di sbagliare. In futuro voglio fare la cantante”. Vladic invece viene dalla Macedonia, suona il clarinetto. Cosa ci dice Vladic? “Ciao a tutti, mi chiamo Vladic Morelli, vivo a Piacenza ma sono nato in Russia. Paro due lingue: inglese e italiano. Suono il clarinetto. Per me la musica è come una porta aperta. Ho imparato che non puoi ottenere nulla senza faticare. In futuro vorrei essere uno youtuber e un gelataio”. Ha imparato che non si ottiene nulla senza faticare. Ascoltiamo ancora Iovan: “Io mi chiamo Iovan, ho 9 anni, frequento la scuola Caduti sul Lavoro; le mie origini sono macedoni però sono nato a Piacenza e vivo qua. Io parlo due lingue il macedone e l’italiano; la lingua che parlo meglio è il macedone perché la parlo a casa. Io suono il violoncello da quattro anni e mi piace tantissimo perché fa dei suoni profondi. Suonando ho imparato molti brani e che era necessario rispettare i tempi. Grazie alla musica ho imparato a essere un po’ più tollerante e da grande mi piacerebbe essere un calciatore perché sono abbastanza veloce e mi reputo bravo a palleggiare”. Iovan ha imparato che è necessario rispettare i tempi e ha imparato ad essere tollerante. Questi per noi sono enormi soddisfazioni perché abbiamo cominciato a costruire anche con l’aiuto di alcune inseganti dell’università una serie di indicatori per valutare come questa esperienza potesse maturare le competenze di cittadinanza; quindi a noi non interessa tanto che diventino dei futuri violoncellisti, violinisti, clarinettisti – a dire la verità qualcuno di loro ha anche scoperto di avere un talento e qualcuno di loro sta anche attualmente frequentando il Conservatorio – ma quello che ci interessava era, appunto, sviluppare la percezione di sé, migliorare la propria autostima e quindi confrontarsi con un’esperienza veramente concreta e reale. Per concludere vi faccio vedere un brevissimo video che riguarda una sintesi dei laboratori che abbiamo fatto durante l’estate. Era il piano estate 2021; abbiamo avuto l’opportunità, quindi, grazie a queste risorse, di aprire la scuola e fare orchestra anche durante l’estate e quindi questo è il video conclusivo. (Video da min 44:11 a min 46:17)

Grazie.

 

Carlo Di Michele: Grazie. Beh, immagini e parole eloquenti che documentano quello che abbiamo ascoltato. Grazie davvero. Franco, questa vostra esperienza è iniziata in un punto – Arezzo – bellissimo, ma comunque un punto del mondo. Si è estesa, è diventata un’esperienza significativa perché hai incontrato persone di tante parti del mondo. Quindi la domanda di questo nostro secondo giro: che cosa c’è di vero e di bello da indicare e da cogliere come esemplificativo? Credo che la vostra storia documenta proprio questo: che aver incontrato tante realtà diverse documenta che è una possibilità che si può estendere al di là di qualunque confine culturale, geografico, storico, politico.

 

Franco Vaccari: Sì, da una esperienza che era ed è anche molto legata a questo luogo che è Rondine, piano piano, con questo metodo, che è un metodo che affronta il conflitto in maniera positiva, perché sono le differenze che si incontrano. Abbiamo visto nel video ora: sono tutti differenti ma si possono incontrare e produrre un’orchestra, una bellezza. Questo metodo si sta estendendo e infatti adesso stiamo entrando nelle scuole italiane. A settembre suoneranno le prime tredici campanelle delle sezioni Rondine nelle scuole italiane, in tredici città italiane. Quali sono le caratteristiche, in tre minuti? Proprio questo, cioè, prima di tutto abbiamo formato i docenti, li abbiamo portati a riscoprire il valore della relazione educativa e lì è rinata la passione, cioè si sono sentiti di potersi riappropriare della motivazione che li ha portati a fare i docenti e, nello stesso tempo, riprendere la propria disciplina, la propria materia. I due grandi assi, le due grandi colonne che fanno, che sono in mano al docente: una competenza relazionale e quella della propria disciplina. È chiaro che nella scuola arrivano tutte le domande sociali, tutte le conflittualità tutte le differenze. Allora ci voleva un nuovo profilo professionale, quello del tutor di classe; perché non possiamo chiedere ai docenti di essere tutto, non possiamo chiedere di essere madri, sorelle, fratelli, assistenti sociali, psicologi, oppure di demandare ad altre professionalità che poi alla fine medicalizzano la scuola, in qualche modo, come se le questioni conflittuali fossero un problema, ma la conflittualità è una dimensione dell’esistenza quotidiana: le differenze che si incontrano confliggono tutti i giorni. Dobbiamo trovare un alfabeto, una lingua, capace di vivere i conflitti senza paura, ma tirandone fuori energia e crescita. Il tutor è questa nuova figura. Abbiamo formato un primo gruppo insieme all’università Cattolica del Sacro Cuore e sono destinati alle classi in cui ci sono i docenti formati. Ecco che allora questa figura – che non è che immette altri contenuti, ma facilita le relazioni – è la cartina di tornasole che proprio nelle relazioni ci sono le energie vitali dell’innovazione. E la coesione che cerchiamo, che è il grande antidoto – il vaccino – all’abbandono scolastico, la coesione la ritroviamo nella scommessa sulle relazioni. Ma non può essere abbandonata o lasciata soltanto all’insegnante che ha una sorta di “carattere disponibile”. Ormai dobbiamo capire che c’è una professionalità, c’è una scienza, c’è la possibilità di attivare la miniera di energie positive che sono le relazioni. Allora la classe è una piccola comunità vera in cui … se mi permetti chiudo con un’esperienza: io ho la grande fortuna dell’amicizia con Liliana Segre. Liliana Segre ricorda sempre che quel giorno in cui fecero l’appello a scuola e lei era assente e nessuno, se non quattro amiche, chiesero “dov’è Liliana?”; tutti gli altri andarono nell’indifferenza. Ecco, io credo che una classe coesa, vigile sui valori, si sarebbe non arresa a una domanda banale “dov’è Liliana?” ma sarebbe stato il problema di tutta la classe, sarebbe stato il problema di tutto quel consiglio di classe. Allora se il consiglio di classe, pur nella diversità delle persone, riesce a trovare una coesione, crea lo spazio educativo – l’habitat – in cui la classe può vivere; e questo facilitatore può essere un di più energetico per una crescita di cui la scuola ha bisogno per vedere quei risultati che abbiamo visto proprio poc’anzi.

 

Carlo Di Michele: Ti ringrazio, grazie. Perché in questa tua risposta – ti chiederei anche un accenno, se puoi – c’è un po’ il rischio di snaturare anche la professione dell’insegnante. Allora, qui che viene chiesto di essere psicologo, medico o assistente sociale, mentre basterebbe – lo metto tra virgolette – essere “educatore” fino in fondo. Ho capito bene quel che dicevi?

 

Franco Vaccari: Ma certo, ognuno di noi può tirare fuori dalla sua esperienza questo, certo, ognuno di noi può avere l’insegnante che lo ascoltò nel corridoio, che lo sostenne dandogli più tempo, più attenzione in un momento di crisi; ma certamente tutti noi abbiamo quell’insegnante che ha coniugato la propria passione per quello che ha studiato in una relazione, perché allora lo studio si lega al significato; e se io trovo significato in quello che faccio, sto a scuola, non desidero andare via, desidero non tornare a casa da quanto sto bene a scuola.

 

Carlo Di Michele: Certo, bello! E da questo punto di vista è un la, un assist – credo importantissimo – per Marco Ferrari perché poi il crocevia, il punto d’incontro principale del ragazzo con questa realtà, è rappresentato dal dall’ora di lezione, dall’incontro faccia a faccia con l’insegnante. Anzi, in questi anni, in questi anni di Covid, ci siamo accorti che il vero problema non era la distanza della tecnologia, ma quando, quanto un’insegnante è presente – e si può essere presenti anche attraverso la tecnologia – ma – appunto – quale suggerimenti ci dai, anche per concludere questo nostro dialogo?

 

Marco Ferrari: Provo a rispondere con delle domande che mi sono state fatte. Io ho 41 anni, insegno dal 2005. Appena incominciato il rettore della scuola dove insegnavo – che cito perché è mancato qualche anno fa: Don Giorgio Pontiggia – a me e ad altri giovani insegnanti, continuamente diceva: “ma tu li educhi o li ecciti?” E in questa alternativa secca, forse un po’ assoluta e radicale, però ci metteva con le spalle al muro e io questa domanda me la faccio continuamente. L’azione che vado a progettare in classe, la lezione che preparo, il dialogo che faccio su un certo tema, ha l’orizzonte -come si diceva adesso – dell’educazione, cioè di dare una proposta che possa toccare il problema del significato del mondo, della vita, della realtà, cioè il significato della vita del ragazzo. La seconda domanda me l’ha fatta un altro preside di un’altra scuola dove ho insegnato che nel colloquio di lavoro mi ha chiesto: “Dimmi un motivo per cui i tuoi studenti a settembre dovrebbero starti ad ascoltare” cioè “qual è l’essenziale che tu hai da dire insegnando filosofia e storia? Dimmi, perché dovrebbero stare lì tutte quelle ore a sentirti?” Domanda bellissima che io continuamente mi faccio a inizio d’anno e faccio anche ai miei colleghi nei dialoghi tra di noi, perché penso che da lì nasca la passione educativa, nasca l’intelligenza di trovare nuovi strumenti, e da queste due domande messe insieme – come diceva adesso Vaccari – cioè: provare a dire qualcosa sul problema del significato di quello che faccio come insegnante nell’ora di lezione. Vorrei raccontare tre esempi velocissimi. Il primo: a scuola abbiamo deciso con Elena Ugolini – che cito perché è stata veramente promotrice di questa iniziativa – di partecipare a un progetto in cui c’è anche Simona, che si chiama liceo TrED – Liceo quadriennale delle scienze applicate per la transizione ecologico digitale – che a molti prof di latino e greco fa venire l’orticaria solo a dire il nome. In questa sfida bellissima siamo stati formati dall’Università Cattolica, dal Politecnico, dalla Lucangeli; abbiamo avuto dei momenti di formazione intensi nell’arco di questo semestre e a settembre partono 28 prime classi. Io che ho fatto il classico, mi piace la filosofia, provo a insegnarla, penso che questo tipo di sfida sia una di quelle in cui proprio per la reazione magari iniziale un po’ … disruptive che uno può avere di fronte a una proposta nuova di questo tipo, invece la sfida gigante è: come ripenso ai programmi? cosa insegno? come lo insegno? come lo faccio in rete? che cosa faccio nel workshop del mercoledì pomeriggio in rete con 28 scuole in tutta Italia? come incontro i ragazzi in quattro anni anziché cinque? cosa cambia un anno in meno o un anno in più? Noi questo l’abbiamo fatto al Malpighi su un linguistico quadriennale: è stata un’esperienza gigante perché ha voluto dire rimodellare la didattica e, soprattutto, la valutazione. Primo esempio. Vado veloce perché vedo che scorrono i minuti. Secondo esempio: alle Romanae Disputationes quest’anno lanciamo la quarta categoria di concorso – che è bellissima – che è “monologo filosofico”. Noi facciamo: paper scritto, stile universitario; video creativo filosofico, si lavora sempre in team su un tema lanciato a inizio d’anno e dispute filosofiche age contra: sono delle dispute regolamentate. Quest’anno lasciamo la quarta via; lo dico perché pensando a questa proposta abbiamo detto: “Caspita! Ma ragionare su un tema filosofico insieme alla collega di lettere che fa scrivere un testo, lo fa ripulire, poi insieme collegialmente si prova a dirlo di fronte a una videocamera e poi a dirlo a teatro davanti a 1000 persone, in 5 minuti, con i tempi stretti, con un percorso ordinato. Ha dentro tutto: argomentazione, logica, pensiero critico. E sono strumenti nati dalla vita, dai dialoghi con le persone che abbiamo intorno. E come ultimo esempio che volevo portare di come quelle due domande che mi sono state fatte e che negli anni hanno lavorato, è il Festival di Innovazione Scolastica. Anche lì con alcuni insegnanti e persone che lavorano nel mondo della scuola è nato questo luogo che da due anni prova proprio a – non politicamente o teoricamente – ma nel racconto in stile Ted talk, quindi su un palco, ogni scuola ha 20-25 minuti – e lì l’anno scorso e quest’anno abbiamo visto – come Simona ci ha mostrato – esperienze eccezionali di tutti i tipi: dalle elementari fino alle superiori, esperienze didattiche della classe, fuori dalla classe. E la cosa che mi entusiasma e mi conforta, per provare a rispondere, è che questo canone nasce da persone che, secondo me, per i dialoghi e per le discussioni avute – e che ho provato anche a restituire in un contributo, in un volume che uscirà settimana prossima su questi temi, una collettanea di proposte per rinnovare la scuola – mi sembra che quelle due domande, cioè: ma tu li educhi o li ecciti? Cioè: hai l’orizzonte della vita intera del ragazzo e della vita intera del docente? Perché – come diceva prima Vaccari – il problema è quando il docente – anche tu Carlo lo dicevi – si riduce a un aspetto ed è faticoso, fa fatica a vedere tutti i lati della vita, tutti i lati della dimensione del vivere, del vivere in una scuola. Ed è la cosa più impegnativa ma anche la più bella. E al Festival di Innovazione Scolastica, a Valdobbiadene, tu vedi una galassia sterminata di persone che amano la scuola perché amano la propria esperienza umana e amano i ragazzi a cui comunicarla, con una ricchezza, una varietà e una possibilità di incontro bellissima, un po’ come qui al Meeting. E quindi io, quando tu ci hai chiesto cos’è questo canone per l’innovazione, direi: stare, per me, su queste due domande. Ma io dentro in classe, quando penso alla lezione, quando sto con loro in corridoio, li educo o li eccito? E in questa domanda – che è un po’ tranchant – però si apre una voragine di lavoro. E l’altra, ma cosa ho di essenziale da chiedere al loro tempo, al loro ascolto, al loro lavoro, alla loro collaborazione? E su questo, l’ultimissima cosa che dico in conclusione: è che penso che come scuole, come docenti, come consigli di classe, l’immenso lavoro da fare – e un po’ lo stiamo facendo a scuola da un anno e mezzo, con un lavoro molto bello – è quello sulla valutazione, perché lì si gioca poi tutto il problema. Cioè: dimmi come – noi diciamo a scuola – dimmi come valuti e ti dirò che insegnante sei; e abbiamo aperto una pista di lavoro su cui stiamo investendo molto: ragionare su risorse cognitive, processi – cioè come concettualizzi l’esperienza e la sai riprodurre – e disposizioni o atteggiamenti o virtù, e provare a mappare questo; perché se non c’è questa attenzione all’intero di tutti questi tre aspetti – abbiamo ragionato a lungo su questo con i colleghi e con tante persone che lavorano nella scuola – manca sempre un pezzo; e la cosa che ho visto è che quando tu lavori sulla stima e quindi sul riconoscere all’altro anche un cammino fatto e lo riconosci insieme ad altri adulti, il ragazzo, la ragazza, il gruppo classe, si sente oggetto di una stima, di un bene, che non è disciplinare in senso negativo, nel senso di ristretto e chiuso e rigido, ma è un mondo aperto in cui tu li porti a bordo con te e lì diventa una cosa bellissima perché – vorrei dirlo – la scuola è oggettivamente il lavoro più bello – mi spiace per chi ha scelto altre cose – ma è il lavoro dove si sta meglio.

 

Carlo Di Michele: Io ringrazio i nostri ospiti, penso a nome di tutti. I nostri applausi hanno confermato quanto siano state condivise, apprezzate, le cose che abbiamo ascoltato, l’intelligenza, la profondità delle cose che abbiamo ascoltato, e la passione che hanno documentato in questo loro racconto. Quindi vi ringrazio. Da questo punto di vista non voglio fare nessuna sintesi di questo incontro perché credo che ognuno di noi porti a casa, a questo punto, quel che ha ascoltato, quello che ha visto questa sera.

Una cosa la voglio dire. Chiudiamo sempre i nostri incontri al Meeting ricordando il fatto che il Meeting si sostiene, e moltissimo, grazie al contributo di ciascuno di noi, contributo anche economico. Avete visto le postazioni Dona Ora (#donaora): invito tutti a sostenere, a non dare per scontata questa possibilità di sostenere, anche per quel che si può, il Meeting con un proprio contributo economico, perché il Meeting, perché l’importanza del Meeting è sotto i nostri occhi. Poter vivere un gesto come quello di oggi pomeriggio è possibile perché c’è questa realtà, una realtà che vive del volontariato di tantissimi ragazzi, giovani, e tantissimi adulti, ma che comunque ha dei costi importanti per andare avanti. Quindi il nostro contributo nel promuovere il Meeting è anche di sostenerlo economicamente. E quindi non voglio chiudere con uno spot commerciale – perché non è uno spot commerciale – è proprio un modo per fare nostra la passione di chi vive da protagonista il Meeting, perché ne siamo stati protagonisti anche noi questa sera. Quindi grazie a tutti e grazie ai nostri ospiti. Buona prosecuzione del Meeting. Ci sono tantissimi appuntamenti che non sto qui a dire e avremo anche altre occasioni per continuare il dialogo che questa sera abbiamo comunque iniziato. Buonasera a tutti.

Data

21 Agosto 2022

Ora

19:00

Edizione

2022

Luogo

Sala Ferrovie dello Stato B2
Categoria
Incontri