Chi siamo
EDUCAZIONE: DALLA PERIFERIA AL CENTRO
Partecipa Stefania Giannini, Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.
GIORGIO VITTADINI:
Che cos’è il cuore del Meeting? Si fa fatica certe volte, con qualche giornalista, a spiegare che noi abbiamo un ordine di priorità diverso nell’affronto della realtà, e che al centro di questa priorità c’è il tema dell’educazione. Quindi non è un caso che in tutti questi anni abbiamo sempre ospitato i Ministri dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (in questo caso, Ministero unificato) non per una formalità ma perché per noi il dialogo su questo tema è il cuore del Meeting e della nostra esperienza.
Ricordo, fin dai tempi del Ministro Berlinguer, non è “un tema” per noi, questo è “il tema” più importante, perché noi riteniamo che come si trasmette un’esperienza di qualunque tipo (un’esperienza a livello di famiglia, di conoscenza, imprenditoriale), attraverso quel percorso che è il percorso educativo che in un sistema sviluppato è anche un sistema di istruzione, le due cose non sono contrapposte. Per noi, il tema capitale umano richiama educazione e viceversa.
Allora, è con immenso piacere che abbiamo tra di noi, con noi, il Ministro Stefania Giannini, Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, anche perché, se mi permette di fare un’osservazione un po’ particolare, è una che di istruzione se ne intende, non è un Ministro che è arrivato al Ministero facendo altro, come qualche volta succede: noi sappiamo che i politici possono fare altro. Lei, come sapete, era un Rettore, e quindi è una competente di questo argomento, per cui è con grande piacere che noi la vediamo a questo Ministero, perché pensiamo che questo Ministero richieda anche una competenza, una capacità e una conoscenza.
Allora, da questo punto di vista, quello che le chiederemo oggi sarà di due tipi: prima, di allargare, di arrivare a dire come vede lei il fenomeno educativo dell’istruzione nella sua veste di Ministro ma anche nella sua veste di competente su questo, perché non pensiamo che la questione sia innanzitutto tecnica. Sappiamo che siamo in un momento particolare, si parla di riforma, ma la prima cosa per la nostra esperienza è proprio inquadrare la questione dal punto di vista di una visione umana. E’ una visione che in questo Meeting ha al centro proprio l’uomo perché, come abbiamo sentito dal discorso del Papa, il tema “periferie” non è innanzitutto un tema di luoghi ma è innanzitutto di persone. Per questo abbiamo dato come titolo a questo incontro Educazione: dalla periferia al centro.
Cosa vuol dire? Vuol dire l’idea che l’educazione è proprio un percorso attraverso cui si aiuta una persona a diventare centro. Quindi, la prima parte dell’incontro di oggi sarà un intervento del signor Ministro, che ci darà la sua visione di questo tema, educazione e istruzione. Dopo il suo intervento, la seconda parte saranno tre domande che, invece, entreranno più nel merito delle questioni che riguardano la scuola italiana da parte di alcuni degli attori. Darei la parola al Ministro, ringraziandola innanzitutto della sua presenza.
STEFANIA GIANNINI:
Vado qua, così vedo e sono vista. Grazie, grazie al presidente Vittadini per questa introduzione sintetica e molto efficace, grazie alla presidente Guarnieri e a tutto l’operosissimo staff, il team organizzativo del Meeting, per un invito che, vi dico subito, è stato veramente molto gradito, non solo per la funzione che questo appuntamento annuale ha per il pensiero, in campo educativo ma non solo, nel nostro Paese, a livello internazionale; ma anche per il tema particolare che è stato scelto quest’anno, che io ritengo essenziale per le nostre riflessioni e per i nostri impegni.
Alla radice di questa scelta ho visto un motivo chiaro, mi direte se sbaglio o se ho intuito bene, e cioè il riconoscimento che Papa Francesco ha dato al tema delle periferie, un tema vasto, multiforme, che è stato indicato nella Pentecoste, se ricordo bene del 2013, da Sua Santità, come “il” tema primario della Chiesa. Ma io direi non solo, e direi non per caso. Si è parlato allora di periferie “esistenziali”: guardate, di Papa Bergoglio si sono dette subito una serie di cose che sono ovviamente, oggettivamente vere, e che colgono un primum nella storia della Chiesa, e quindi nella storia dell’umanità. Il primo gesuita, il primo Papa non europeo, il primo latino-americano, il primo a chiamarsi Francesco (questo ha un senso).
Ma c’è un altro primum, rilevantissimo, a mio parere, e non così sufficientemente colto: Bergoglio non è nato e vissuto in un paesino della Lombardia o della Baviera o del Veneto; non ha fatto il Vescovo in città pur grandi come Milano, come Monaco. Il Papa è un uomo della metropoli, della megalopoli come Buenos Aires, una città cresciuta non con differenze abissali ma grazie a differenze abissali, quelle che hanno visto, in una dialettica molto sofferta, tangibile, manifesta tra periferia e centro, l’acuirsi della forbice tra ricchi e poveri, con ricchi che diventano sempre più ricchi e poveri che diventano sempre più poveri.
E quando il Papa parla di periferie, allora, almeno nella mia lettura (mi permetto di presentarla a voi, come premessa a quanto dirò), non bisogna pensare alla periferia di Rimini, a quella di Bologna, ma nemmeno a quella di Milano, in cui le case diradano magari con infrazioni estetiche talvolta anche vistose, talvolta anche dolorose. Bisogna pensare ad un’altra periferia, come ha detto il presidente Vittadini, un concetto più forte, più crudo e più ampio, un concetto che si compone di almeno due anime: lo spazio e la società.
In questo senso, vi propongo questa breve lettura: periferico direi che possa definirsi tutto ciò che eccede il centro, lo supera e se ne distanzia. E in questo spazio che avanza – perché di questo parliamo, è uno spazio che avanza, che sta al margine, al margine geo-politico, al margine della società, al margine anche talvolta della umanità – sta tutto ciò che è esterno e quindi tutto ciò che è estraneo ai veri processi di decisione, a quelli che cambiano il mondo, a quelli che danno l’agenda politica, dal mondo occidentale ai Paesi cosiddetti “emergenti”; insomma tutto ciò che innova e cambia, dalla corsa per gli idrocarburi in Asia all’impetuoso, talvolta drammatico, sviluppo urbano dell’Asia estrema.
In questo spazio che avanza, ci sono gruppi sfavoriti: sono gruppi sfavoriti che stanno lontano da chi decide, e sono esclusi dalle decisioni e svantaggiati dalle traiettorie di potere, dalle traiettorie di cambiamento.
Ecco, i fatti di questi giorni, i barconi che affondano ogni giorno drammaticamente ma anche le grida di dolore che sentiamo venire dall’Iraq. Mi veniva in mente che tre anni fa sono stata nel Kurdistan iracheno ad Erbil – non so se qualcuno di voi ha fatto mai questa esperienza nella vita -, la cittadella capitale di quella regione. Ed ero lì da Rettore dell’Università per Stranieri e responsabile di una parte delle attività di internalizzazione del Paese perché il governo iracheno aveva stanziato 100 milioni di dollari in quell’anno (parlo del 2010) per lo study abroad dei loro studenti, cioè per dare agli studenti iracheni (non solo curdi, ma di tutto il Paese) un’opportunità di un altro modello educativo. E c’erano opportunità anche per l’Italia, perlomeno a me sembrava che così fosse: poi le cose non sono andate esattamente in quella direzione.
Ecco, io credo allora che per calmare il nostro disagio (almeno il mio c’è, non solo per il ricordo di esperienze personali di fronte ai fatti iracheni, di fronte alle grida delle vittime di Boko Haram in Nigeria e molte altre cose che si potrebbero citare), c’è molto che possiamo fare, non solo mandando aiuti, mandando qualche volta anche aiuti militari, come è necessario che avvenga, ma utilizzando lo strumento che dobbiamo recuperare anche nel suo forte valore culturale e diplomatico, cioè la nostra cultura, la cultura italiana e il modello educativo italiano per rendere una chance, per dare un’opportunità e per rispondere alla grande domanda di Italia che cresce nel mondo.
Questo, guardate, è uno strumento assolutamente semplice, non facile da applicare in alcuni contesti ma semplice da progettare, e può diventare uno strumento di diplomazia culturale che salva molte vite, che dà delle opportunità diverse in quest’area mediterranea che, mettendo insieme questo contesto a molti altri pezzetti incendiati nel mondo (proprio lo stesso Papa Bergoglio ha definito qualche giorno fa, in ritorno dalla Corea, una “terza guerra mondiale a tappe”, se non ho letto male), ecco, in questo contesto, pensate all’impatto di un piano straordinario che consenta a centinaia di giovani algerini, siriani, tunisini, libici, iracheni, di venire in Italia a studiare, di poter cominciare un percorso di stabilizzazione di rapporti, e quindi di confronto educativo, di confronto culturale col nostro Paese. Io credo che creeremmo un legame solido tra noi e quelle future classi dirigenti, e daremmo un grande contributo alla pace e alla sicurezza di tutta la regione.
Questo è un contesto internazionale che dobbiamo guardare con attenzione, ma che non ci può e non ci deve distogliere dall’attenzione per la nostra società italiana, in cui la crisi, mi pare, ci ha imposto una lezione molto amara, anche in casa nostra, perché i confini di una nuova periferia sociale sono fluidi, sono sempre più fluidi, e chi sembrava stabile, al centro, adesso si sta spostando, talvolta rapidamente, talvolta imprevedibilmente, verso una periferia e un disagio. Nuovi poveri, italiani, urbani, generati soprattutto dagli ultimi cinque anni di crisi; famiglie in coda alla Caritas, che prima potevamo collocare nelle tassonomie sociologiche nella cosiddetta “Italia borghese”. E – vogliamo dirlo? – non solo i giovani ma i cinquantenni che perdono il lavoro e faticano a ritrovarlo, e quindi si trovano in una situazione di marginalità apparentemente irrecuperabile. Io non mi ricordo i numeri, li conoscete molto bene, non sta a me ora riportare statistiche.
Ma forse la preoccupazione nel mio ruolo attuale, in generale in questa sede, va a voi, cari ragazzi (ce ne sono soprattutto nella parte finale della sala), molto citati, un po’ meno ascoltati nei centri che contano e che, potrei dire, rappresentate la generazione più istruita, più mobile e quindi potenzialmente più forte della storia d’Italia. Eppure è una generazione che molto spesso, subito dopo gli studi, o anche prima di poterli completare, si trova ai margini, e si trova ai margini in quella sofferta alternanza tra disoccupazione e sottoccupazione che, a spregio del primo articolo della nostra Costituzione, vi rende direi “cittadini a metà”. Questo non possiamo permettercelo, Presidente, questo è il tema da cui noi dobbiamo partire e su cui dobbiamo insieme costruire un percorso di vero cambiamento.
E allora siamo al cuore direi significativo, semantico, del concetto di periferia, quello inteso da Papa Bergoglio, se la riflessione come intendo parte da lì, cioè la periferia del “mistero del peccato, del dolore, […] dell’ignoranza, dell’assenza di fede”, di ogni forma di miseria e di disperazione. E io non credo che in quella Pentecoste dell’anno scorso il Papa abbia chiesto alla Chiesa di farsi cura di una soluzione applicativa, direi di una mera gestione delle distanze e dei drammi sociali; quello a cui tra l’altro l’articolo 3 della nostra Costituzione provvede, immaginando la rimozione di questi ostacoli. Io credo che il Papa ci abbia chiesto di più, e non l’abbia chiesto solo alla Chiesa e alla comunità dei credenti ma a tutta la società, specialmente alle istituzioni, specialmente a chi ha responsabilità politiche.
E allora io credo che ci abbia chiesto di conoscere queste periferie, di uscire da un’autoreferenzialità (parlo anche a chi fa il mio mestiere, di professori, di intellettuali, talvolta anche di ricercatori) che ci è anche un po’ cara, dobbiamo ammetterlo, e di riconoscere in queste periferie quel futuro in potenza in cui si annida la fame latente di progresso e la voglia di affermazione, la voglia di scoperta, la voglia di partecipazione e di emancipazione. Guardate, c’è stato uno spunto molto bello che ci ha dato, da grande architetto qual è, Renzo Piano, qualche mese fa, ormai, che mi ha anche stimolato ad offrire quella traccia nel tema di maturità, ve lo ricorderete, di quest’anno: l’idea, in quel caso applicata al contesto urbano, che le periferie sono la città del futuro. Dice Piano: non fotogeniche, sicuramente, non sempre esteticamente belle, anzi, spesso dormitori deserti, ma ricche di umanità. E quindi io aggiungo, mi permetto, piene di energie, un’energia che potrà avere valenza positiva o negativa, un segno “più” o un segno “meno”, a seconda di quello che saremo in grado di fare, quello che saremo in grado di proporre a queste periferie.
Ed ecco che spetta a noi, ed ecco che spetta alla scuola – spetta alla scuola fondamentalmente come istituzione e come esperienza, direttamente interpellata dalle parole di Papa Francesco, evocata nella visione, nella lettura visionaria dello spazio urbano di Renzo Piano -, spetta alla scuola secondo me fare la sua parte, anche in Italia. Mi rifaccio, Presidente, a don Milani, per spiegarvi alcune delle idee fondamentali sulla scuola che stiamo per proporre e che costituiscono un po’ l’ossatura del progetto educativo di questo Governo. Don Milani, lo ricorderete, quando racconta del mestiere dell’insegnante (e io vorrei aggiungere dell’insegnante maestro), ci dice che chi insegna aiuta a fare emergere dal profondo dell’animo di ogni ragazzo una visione e una volontà di trasformazione, di un’assenza in desiderio. Vi cito proprio queste brevissime righe, le sue parole: “Il ragazzo è il nostro superiore, perché decreterà domani leggi migliori delle nostre; e allora il maestro quando può deve essere profeta, e deve scorgere, scrutare, i segni dei tempi e indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che loro vedranno domani, e che noi oggi vediamo confusamente, che non riusciamo a discernere veramente”.
Ecco allora, arrivo al dunque, il nostro compito, il mio compito, nel ripensare il ruolo, gli strumenti, i metodi della scuola italiana, e di andare a cercare quella verità figlia del tempo, che si affaccia dentro le situazioni concrete, quella che fa sì che l’affetto di una famiglia che mette i propri bambini in mano agli insegnanti ogni giorno abbia una sua remunerazione alla fine, ma io la vedo in questi termini, cioè che alla famiglia venga restituita una persona matura, abilitata alla conoscenza del mondo, cioè pronta con quegli strumenti di coscienza ad affrontare la vita: questo è il ruolo fondamentale dell’educazione, questo, al di là dei singoli strumenti che noi dobbiamo certamente concepire e progettare perché questo scopo educativo venga raggiunto, è il ruolo fondamentale dell’educazione. E non è un compito facile. Guardate, lamentarsi del populismo, che è un’abitudine molto, molto diffusa, non solo in Italia (perché il populismo non è una nostra tipicità), secondo me è come criticare il virus dell’influenza e sperare, immaginare che un bell’editoriale intimidisca l’influenza.
Magari, se la penna è dorata e autorevole, meglio, perché l’influenza si spaventa di più. Invece no, per curare l’influenza o prevenirla, meglio, ci vuole una vita sana, si deve fare sport, una dieta ricca, equilibrata, e ci si deve vaccinare, e allora nello stesso modo il vaccino contro i semplicismi e contro una lettura sbiadita e non autentica della realtà (e quindi della vita) è una scuola sana, è la buona scuola, è quella buona scuola su cui noi dobbiamo tornare a pensare, a progettare e ad investire. E si tratta di una missione che la nostra scuola – posso dirlo anche qui con molta sincerità? – qualche volta ha tradito. Non sempre nella storia del Paese, però qualche volta l’ha tradita, ma da cui, lo ammettiamo con orgoglio se guardiamo le cose con oggettività, non ha mai, mai divorziato. E questa scuola, lo sappiamo tutti, non nasce in periferia, non nasce come servizio sociale, nasce come privilegio per la preparazione delle élite della società europea. Ma poi ben presto si diffonde, abbassa i costi, cambia missione nel corso della storia, e diventa quello che oggi non è più fino in fondo, diventa quell’ascensore sociale, diventa quello strumento fondamentale per uscire dalla cultura dell’onore immobile dovuto al sovrano.
Mi veniva in mente (io vengo da Lucca) che nella mia città nel 1440, 1446, non ricordo esattamente l’anno, è stata fondata la prima scuola comunale, quella di San Marco, e da lì, se partiamo da lì, se vogliamo prendere questo valore simbolico, questa data come punto simbolico, generazioni e generazioni hanno costruito un percorso fatto di molte culture, anche di ispirazioni politicamente antagoniste, e cioè l’idea di una scuola che non è al servizio dell’élite ma è la scuola di tutti, la scuola di tutti! E noi, cari amici, dobbiamo ripartire da questa idea, dobbiamo aggiornarla, dobbiamo integrarla, dobbiamo correggerla in tutto ciò che è venuto meno, ma dobbiamo ripartire dall’idea di una scuola di tutti che assolve ad una funzione educativa fondamentale. Io credo che questa sia una scuola che non sta nei salotti. Anche qui, posso dirlo con franchezza? Non deve stare nei salotti, è una scuola che va in periferia, che conosce la periferia. E’ una scuola che sa molto bene che avere come compagno di banco un ragazzo disabile, un ragazzo che ha dei problemi o che pure è figlio di qualcuno che è scappato e ha corso a piedi il Sahara per fuggire una condizione di vita disperata e senza scampo, è forse un’esperienza che arricchisce più di tanti altri strumenti, per arrivare ad essere quella persona abilitata alla conoscenza del mondo che la scuola deve produrre.
E allora questa scuola cui penso è la scuola repubblicana, nel senso di quell’articolo 3 della Costituzione che citavo prima – ve lo ricordate? Credo di sì -, organizzata dallo Stato o dall’iniziativa privata, e valutata e misurata per come si colloca davanti all’ultimo, e all’ultimo apre o una via di scampo o una chance per emergere grazie alle sue qualità. Questa è la scuola che deve essere il nostro obiettivo e, permettetemi di dire con altrettanta franchezza, questa è la scuola che deve garantire, anche nel nostro Paese, una libertà di scelta educativa che non è stata ancora garantita da nessuno. Noi abbiamo una legge del 2000, quindi 14 anni fa: un periodo lungo, direi sufficientemente lungo per ripensarne l’efficacia e l’applicabilità, e questa legge dobbiamo finalmente applicarla. Ma non applicarla per rispondere ad un mondo piuttosto che ad un altro mondo: applicarla perché la missione è quella che dicevo prima, di un sistema integrato che deve rispondere ad una missione educativa globale. E anche qui, posso dirlo con molta chiarezza? Il tema del finanziamento alle paritarie è stato finora inquadrato in questo modo, vedete se vi riconoscete: o preteso o concesso o apparentemente concesso o negato o negoziato.
E’ sempre una logica che disegnava i confini tra gli amici della famiglia e gli amici dello Stato: io credo che invece – guardiamoci intorno, guardando oltre l’orizzonte nazionale, ma anche dentro nella società nostra -, questa è una crisi drammatica, non solo per tutto ciò che sappiamo e talvolta viviamo, ma anche perché ci mette a nudo la situazione reale. E la situazione reale la potrei concentrare in questa semplice definizione: la famiglia, se non vuole affondare, ha bisogno dello Stato, ma lo Stato, se non vuole affondare, ha bisogno della famiglia. Questa è la riconciliazione di un’apparente e risolvibile dicotomia che anche sul tema educativo va risolta finalmente in maniera equilibrata.
Io credo che chi guida questo Ministero, come dice Luigi Berlinguer che l’ha guidato per anni, molto prima di me, con grande efficacia – Berlinguer è l’autore della legge 2000, un moloch gigantesco, fatta di questi tre pilastri, scuola, università e ricerca -, conosce bene, deve conoscere bene quello che accade e ringrazio il Presidente Vittadini perché mi ha attribuito, forse immeritatamente, un’esperienza, anzi, competenze che dovrò dimostrare ai fatti e nei fatti, di una realtà che conosce anche le realtà estreme, conosce anche quello che avviene fuori dal palazzo, fuori dal contesto romano. Guardate, sono stata, tra gli altri begli incontri che ho avuto occasione di vivere in questi mesi, nel quartiere di Catania che si chiama Librino, se non sbaglio, e lì ho toccato con mano l’impegno silenzioso e incessante di insegnanti, di dirigenti scolastici che tutti i giorni fanno quello che, direi senza infingimenti, è un corpo a corpo contro la criminalità.
E’ una capacità di impegnarsi in prima persona per strappare ad un futuro potenziale di sfruttamento mafioso i ragazzi e le ragazze che studiano in questa scuola. E allora, come si misura – parlerò subito di valutazione e di merito – il successo educativo nell’istituto comprensivo di Librino? Quali sono i parametri, quali sono gli indicatori? Vi dico qual è la mia visione: io credo che si misuri questo successo quando le previsioni di questi ragazzini cambiano, svoltano. Quando invece che immaginarsi un domani da boss, prevedono un domani da carcerato, e allora in quel contesto hanno la possibilità di cogliere, come vogliamo definirla, la maestà della legge, la primazia dell’etica di una vita che è diversa da quella che nel quartiere viene presentata come modello. Ed è una maestà che non si esaurisce però in se stessa, perché a Librino, come in altri contesti di periferia estrema, io ho avuto la possibilità, in questi mesi e non solo, di verificare che ci sono anche altre realtà che danno contributo fondamentale, non sempre collocate in periferia. Vedo qui l’amico Odifreddi e penso alla Piazza dei Mestieri a Torino, che insomma non è proprio in periferia, ma che fa? C’era anche a Catania: io ho visitato quella di Torino, e lì c’è un’altra maestà che è la maestà dell’altro e quella dell’ultimo che viene fuori come elemento determinante di quel corso.
E allora, io penso che noi, cari amici, siamo un po’ abituati a sentirci rimproverare da giornalisti, figli di giornalisti, cattedratici, figli di cattedratici, finanzieri, figli di finanzieri, privilegiati, figli di privilegiati – la metterei sinteticamente così – di avere una scuola che non è abbastanza selettiva e che non punta fino in fondo e determinatamente al merito. Io sono una convinta sostenitrice della cultura del merito contro le tante retoriche del merito, però di merito (perdonatemi la pignoleria etimologica) si deve intendere la vera accezione, la prima accezione, quella dell’azione da cui può derivare premio o castigo, e che è di per sé sostanza della scuola. Me lo chiedevano prima i giornalisti: “Ma in questo provvedimento per la scuola del 29, ci sarà la voce merito?”. Beh, non è una voce che si scrive in un provvedimento di legge, è l’insieme, è la visione che mette alla valutazione, che mette una serie di elementi ancora estranei in certi sensi, alla scuola italiana al centro. E, permettetemi anche un briciolo di resoconto del lavoro fatto in questi mesi da questo governo e su questi temi. Non è forse un caso che nel 2015 tutte le scuole italiane pubblicheranno la loro valutazione, il loro rapporto di valutazione, perché da lì siamo partiti e su questo continueremo a procedere con molta determinazione.
Però di meriti ce ne sono due, sono tutti contenuti nella radice (perdonate ancora la pedanteria linguistica del verbo greco merìzomai): un merito è quello che distingue per capacità, che il bisturi lo dai al chirurgo, ed è giusto che lo dia al chirurgo e solo a lui, per carità; l’altro merito io lo definirei, Presidente, “esclusivista”, ed è un merito che indica invece un prezzo, e dà una parte, e dà un pezzo a qualcuno e non a tutti. Ecco, noi dobbiamo stare molto attenti perché se la società e il sistema educativo dovessero confondere tra queste due dimensioni, o non produrrà più chirurghi, oppure non produrrà più, non genererà più quell’umanità, quel complesso di elementi che fanno veramente parte di un progetto educativo completo. Quindi, questa è la visione di fondo che sta alla base delle considerazioni più tecniche che vi illustro subito. Ed è anche la testimonianza che ho avuto il grande onore e la grande emozione di portare a San Pietro davanti a Papa Bergoglio il 10 di maggio, quando c’è stato quel grande raduno della scuola, la testimonianza di 22.500 scuole, di 8 milioni di studenti e di bambini e la testimonianza di un mondo su cui questo governo ha deciso con determinazione, forse per la prima volta dopo tanti decenni, di investire con molta decisione.
Ecco, vengo a descrivervi le cose che stiamo pensando, che stiamo realizzando e che vorremmo che diventassero veramente il nuovo capitolo del pianeta educativo italiano. Le idee sono abbastanza chiare, mi sembra, e si stanno traducendo con rapidità e con l’emergenza che questo contesto di crisi ci chiede nei provvedimenti un po’ già assunti, quelli sull’edilizia scolastica, per esempio, e un po’ da assumere, quelli sull’importante infrastruttura umana e materiale che costituisce il nucleo fondante della scuola e su cui abbiamo lavorato per molti mesi, silenziosi perché c’è anche un lavoro da formiche, che talvolta sui giornali non compare e per fortuna, aggiungo, ma con uno staff molto composito, al Ministero, in contatto diretto col Presidente del Consiglio e che ha messo al centro alcuni punti molto precisi: la governance, il personale, i contenuti e metodi di insegnamento, l’autonomia degli istituti. Questi sono capitoli importanti, sono capitoli su cui c’è necessità di riflettere, a cui c’è necessità, all’interno di una visione che ho cercato di riassumervi, di dare delle risposte adeguate.
Qual è il sistema educativo di cui il nostro Paese ha bisogno? Riassumo proprio per punti molto essenziali, un sistema educativo che potenzi il diritto allo studio per le questioni che ho citato prima, ma che restituisca al tempo stesso professionalità agli insegnanti, consentendo loro l’aggiornamento e la formazione in maniera strutturale e non occasionale, che curi definitivamente la piaga del precariato e che adegui le competenze dei nostri studenti alle condizioni mutate culturalmente e socialmente a livello nazionale ed internazionale. E questo è l’unico modo per mettere in moto il riscatto sociale di cui tutto questo Paese ha bisogno, guardate, non solo per non restare l’ultimo nelle classifiche dell’Ocse che, per carità, ci premono, ma io direi più drammaticamente per non restare l’ultimo nel corso della storia che forse ci deve premere ancora di più. E allora, per fare questo cosa serve? Intanto un confronto a viso aperto misurato sul fatto che esistono dei problemi oggi che non si risolvono entro il mese ma che hanno dei tempi di possibile soluzione perché, se ho fatto bene i conti, chi nasce oggi va a scuola nel 2018 e – lo dico ai miei colleghi professori – farà il dottorato, se lo farà, nel 2038, questi sono i tempi della scuola. Nasce oggi, va a scuola nel ’18, fa il dottorato nel ’38: quindi, questi provvedimenti noi dobbiamo maturarli con tanto lavoro di dettaglio, con tanta competenza anche tecnica, non individuale, ci mancherebbe, ma di squadra e all’interno di una visione, perché è da quella visione e da come noi oggi costruiamo l’architettura del nostro modello educativo che dipenderanno le condizioni del Paese tra oggi e 20 anni. E allora vengo a descrivervi alcuni punti cruciali.
Ah, una cosa importante, su tutto questo serve anche, oltre al confronto a viso aperto, una mobilitazione di tutta la società italiana. Badate che sulla scuola non si possono fare discorsi – posso dirlo con tutto il rispetto e anche la gratitudine per chi ci accoglie talvolta per fare informazione buona – dentro i talk show televisivi, no, il mondo della scuola va discusso capillarmente con le famiglie, con gli insegnanti. Abbiamo fatto i conti, 8 milioni sono i bambini, poi aggiungo i professori universitari e gli studenti universitari che naturalmente non sono accessori perché la filiera dell’istruzione è unica e arriviamo a 10 milioni di persone, e alle famiglie di queste 10 milioni di persone che sono quindi i 2/3 della società italiana. E allora, questa è una mobilitazione che noi intendiamo fare, che dobbiamo fare con strumenti adeguati, con tempi adeguati, per alcuni mesi. E credo che il mondo del Meeting debba e possa dare, e posso fare un appello, un contributo molto importante in questo senso.
Quali sono allora i punti su cui abbiamo cominciato a riflettere con una certa maggiore attenzione di dettaglio? I contenuti, perché la scuola trasmette dottrina, trasmette metodo e trasmette contenuti. E io credo che qui di nuovo don Milani mi viene in aiuto per far capire come la crisi di alfabetizzazione a cui pensava lui, 60 anni fa a Barbiana, ahimè, in modo molto diverso, mutatis mutandis, la stiamo vivendo di nuovo oggi in Italia, a Firenze, a Milano ma anche a Catania. Diceva don Milani: non faremo nulla, e non potremo far nulla per il prossimo finché non sapremo comunicare, perciò le lingue sono, come numero di ore, la materia principale. Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero le lingue per intendersi, per potersi intendere e collegare e così non ci sarebbero più oppressori, patrie o guerre. Beh, forse è un po’ radicale come visione, decisamente radicale, però la sfida che pone il don Milani dell’alfabetizzazione negli anni ’60 è la sfida che abbiamo oggi, con modifiche che vi dico subito, perché l’Italia la vive di nuovo questa condizione.
Non conosciamo a sufficienza l’italiano e le sue origini in una società in cui, posso dire, anche i mercati sono conversazioni, in cui c’è bisogno di capirsi, di parlare e di condividere saperi e conoscenze. Non conosciamo i linguaggi matematici in un’era in cui siamo sostanzialmente sommersi dai dati e la loro applicazione governa quella che si definisce la catena del valore. Non conosciamo le lingue straniere, questa è una vecchia preoccupazione ma permettetemi di aggiornarla perché è importantissima e va veramente messa in un programma risolutivo e definitivo. E non conosciamo nemmeno i linguaggi, i nuovi linguaggi associati alla rete digitale in un’era in cui le architetture digitali gestiscono e talvolta governano completamente le nostre vite quotidiane, senza che magari ce ne rendiamo sempre conto e quindi senza una possibilità di replica o di reciprocità. Quindi, il futuro del Paese passa da una scelta politica e da una responsabilità culturale molto precisa, mettere la priorità della nuova alfabetizzazione che la scuola italiana deve trasmettere tra le priorità del capitolo scuola. Ci vogliono soldi, signori, non è che non lo sappiamo. Sono operazioni che hanno necessità di essere frutto di investimento ma io su questo mi aspetto – lo dico con molta esplicita serenità – anche un contributo della società, come si dice. La consultazione serve anche a questo, serve a far capire che certi investimenti anche da capitale privato possono affluire per questo tipo di iniziative.
Però tutto questo che ho detto avviene in classe, nella cornice della programmazione didattica. Io credo che l’obiettivo della scuola oggi debba essere un obiettivo più ambizioso, che travalica i confini della classe, che travalica la didattica diretta. E io credo che una buona scuola debba andare in soccorso di una società che ha un dramma fondamentale, che è quello dell’occupazione, cioè il dramma di un lavoro che manca e che se c’è, quando c’è, qualche volta si chiama in un altro modo, anche nel mondo della scuola italiana. E allora, restituire dignità al lavoro: vi ricordate quel bel programma delle Nazioni Unite, di qualche anno fa, del cosiddetto “decent to work”, il lavoro decente, cioè la dignità della dimensione del lavoro per la persona e per la società? E’ un altro obiettivo, indiretto, forse, ma prioritario per una buona scuola. E su questo io credo che ci siano due capitoli fondamentali e precisi. La formazione professionale e tecnica sono la base, come dire, sono la premessa perché si possa avere risorse umane qualificate che possano occupare posti di lavoro qualificati e che quindi possano contribuire alla risoluzione di questo dramma europeo. In Italia, e qui qualche numero ve lo do, anche se li conoscerete, abbiamo 700.000 ragazzi tra i 15 e 24 anni disoccupati e 4 milioni e mezzo – il dato è dell’anno scorso ma tanto sono cifre che crescono, ahimè, di anno in anno – di famosi ragazzi Neet, che non studiano, non lavorano e non sono in alcun percorso di formazione. E questo è il frutto in ampia misura di una dispersione scolastica che sfiora il 18%.
Ora, guardate, questo contesto noi non possiamo ignorarlo, quando pensiamo alla visione architettonica della scuola italiana, di una buona scuola italiana, noi non possiamo ignorarlo. E allora significa che per non perdere tutti questi ragazzi, veramente troppi, demotivati, direi quasi quei ragazzi che la scuola non riesce a tenere con sé, anche talvolta nelle periferie estreme di cui parlavo, si devono fare delle scelte precise. Io vedo due strade da percorrere, molto precise: una è ovvia e in parte già intrapresa ma da potenziare, è quell’alternanza scuola-lavoro che oggi riguarda il 9% degli studenti italiani. Ecco, a questo 9% che va in una nicchia di imprese che rappresenta meno dell’1% delle imprese nazionali – questi sono i numeri – noi vogliamo e dobbiamo rispondere con un piano nazionale che riguardi tutti gli studenti che hanno un percorso di scuola secondaria di secondo grado, perché questo significa immaginare subito prima dello sbocco nella vita reale, nella vita lavorativa, un’esperienza che non è solo tecnica, che non è solo di applicazione delle conoscenze teoriche ma è anche un’esperienza, di nuovo lasciatemi usare questo aggettivo, importante, potente, umana, che prepara la persona al nuovo scenario.
E noi vorremmo immaginare interventi molto differenziati a seconda delle esigenze dei ragazzi ma anche a seconda delle esigenze dei diversi contesti professionali, aziende o istituzioni, e la finalità, però guardate, è comune, è avvicinarsi alla costruzione di una via italiana al modello duale. Voi sapete che la Germania, aldilà di tanti punti che ci distinguono in vario modo da quel Paese, ha risolto ampiamente il tema dell’occupazione grazie ad una formazione professionale concentrata nelle Fachschule e a un cosiddetto sistema duale che funziona e che sono 30 anni che funziona in quel Paese. Allora, questo è un modello che noi, naturalmente contestualizzato alla nostra realtà, dobbiamo con determinazione seguire. Io vedo un punto qui importante su cui chiamo anche, se posso, da questa platea molto visibile, facendo un appello agli imprenditori, al mondo delle aziende, al mondo della produttività italiana. I laboratori, signori, i laboratori sono stati il pilastro e il sostegno della rivoluzione industriale del ’900. Noi dobbiamo aggiornarli, i nostri laboratori, dobbiamo rimetterli al centro dell’educazione professionale, ma far sì che non siano dei – permettetemi, ne ho visti alcuni in qualche scuola, girando qua e là per il Paese – bei frammenti museali in cui si lavora con strumenti che funzionavano 30 anni fa nel mondo aziendale. Dobbiamo dare la possibilità di lavorare con materiale digitale, di stampare in 3D, di utilizzare il laser. Tutte cose che molti di voi conoscono molto bene ma che devono rientrare in un piano strutturato. E allora, forse, se riusciamo a fare questo, oltre a contribuire al dramma del lavoro che non c’è o che si chiama in un altro modo, potremo pensare che il Made in Italy, il cosiddetto Made in Italy, aldilà di uno slogan bello, ancora molto efficace, sia leadership del presente e del futuro per il nostro Paese.
Ma c’è un’altra strada che non solo è cara a me, è cara credo a molti di voi, credo che sia una strada doverosa e, per quanto ovvia, inesplorata finora, cioè il ricongiungimento di due pilastri del modello educativo, la cultura e l’istruzione, che sono stati interamente intesi e progettati separatamente. Io credo che sia innaturale per un Paese che ha dato al mondo il Rinascimento, che la cultura e l’istruzione debbano vivere in un’integrazione che è necessaria per alimentare l’economia reale, soprattutto in un Paese che ha il 70% e qualcosa in più del patrimonio tangibile come beni culturali esistenti. Ecco, questi due elementi credo siano parte integrante dello sviluppo umano e civile di ciascun cittadino e siano il motore di un recupero e di uno sviluppo futuro. Abbiamo cominciato con Dario Franceschini, con un protocollo d’intesa che sta dando già azioni concrete, ve lo ricordo perché sono anche le prospettive e le linee di sviluppo dei futuri provvedimenti: l’insegnamento della storia dell’arte, che sarà potenziata e rafforzala nei curricula liceali e degli istituti turistici, tecnici turistici, della musica, lasciatemi dire, che nella terra di Verdi e di Puccini è abbastanza sconcertante che la musica sia un’esperienza occasionale di bambini talvolta più fortunati di altri. La musica deve essere una componente curricolare fin dalla scuola primaria, strutturata e non lasciata ai margini del pacchetto educativo, fino alle competenze tecniche in questo campo che riguardano il restauro, la valorizzazione e la conservazione dei beni culturali stessi.
Io credo che l’Italia sia di fatto capitale del patrimonio tangibile mondiale, ma deve rimanerlo e deve rafforzare questo ruolo anche in virtù del patrimonio intangibile, cioè di quelle intelligenze – guardo qui il Rettore Dionigi dell’Università di Bologna, dell’Alma Mater – che nelle nostre università hanno la possibilità di sperimentare percorsi ancora molto autorevoli in campo umanistico e non solo, ma che poi non trovano molto spesso il possibile sbocco occupazionale. Questo è un divario che va assolutamente ricongiunto. Penso, per esempio, ad un modello come quello francese in cui il Louvre, per fare un esempio, ha una grande scuola di specializzazione collegata al museo. Mi spiegate perché gli Uffizi o gli scavi di Pompei non devono poter avere una stessa struttura di questo genere, che specializza le competenze teoriche e accademiche ma le applica immediatamente ad una pratica museale o di scavo? C’è un qualche motivo? No. C’è una separazione, come dicevo, all’origine, tra cultura e istruzione, c’è l’assegnazione a Ministri diversi, c’è l’assegnazione a percorsi politici anche diversi e il risultato è questo divario ormai inaccettabile.
Cari amici, io credo che tutte le azioni che il Governo ha in mente, su cui stiamo lavorando come dicevo operosamente da mese, e che a giorni, potrei dire ad horas quasi, ormai, saranno presentate nel dettaglio dal Presidente del Consiglio e da me, dal Governo, in un’occasione ufficiale, io credo che potranno essere tutte sicuramente, con fatica, con impegno, realizzate ad una condizione: se e solo se le centinaia di migliaia di operatori (fondamentale quelli che sono, io direi, il sistema nervoso centrale della scuola italiana, cioè gli insegnanti) potranno essere nostri alleati in questa operazione, cioè se potrà esserci un coinvolgimento diretto sui valori e sugli strumenti a cui stiamo lavorando. E non solo gli insegnanti di ruolo, guardate: ovviamente gli insegnanti di ruolo, parlo dello stato attuale, ma anche tutti quelli che continuano a fare quello che, senza retorica, definirei il lavoro più nobile del mondo, ma che in Italia molto spesso si chiama in un altro modo: GAE, GIS, TFA, SIS, concorso nel 2012, idonei. Potrei continuare per alcuni minuti. Ecco, questo panorama noi dobbiamo ricondurlo ad una funzione unitaria vera. E quest’alleanza parte dalla stipula di un nuovo patto per la scuola italiana.
Primo: l’insegnamento deve tornare ad essere una professione ed un lavoro bello, qualificato ed appassionante. Ciò significa che i nostri insegnanti devono poter crescere professionalmente, andare in classe con competenze adeguate, grazie a formazione e aggiornamento che siano dentro i criteri della loro professione. Quindi, lo dico con le parole tecniche, dentro i criteri contrattuali, perché l’Italia è l’unico Paese avanzato che non prevede la formazione all’interno del percorso degli insegnanti. E però significa anche affrontare un altro tema, molto scabroso: il tema del precariato. Io credo che tutte le scelte miopi che sono state protratte per decenni abbiano portato ad uno spezzettamento di tanti mondi, quelli che ho citato prima (ruolo, contro-concorso, concorso, graduatorie) che sostanzialmente non hanno fatto vincere nessuno. Io non so chi abbia guadagnato in questa giungla contrattuale, sicuramente la scuola ha perso, questo è un dato oggettivo credo incontrovertibile, e quindi questo è un tema che va affrontato, e va affrontato con una soluzione vera e definitiva.
Secondo: io penso che si debba anche ripensare, con uno sguardo aperto, a nuove soluzioni, a quello che succede anche in altri Paesi, al reclutamento e alla progressione in carriera, perché questi sono altri due elementi che non possono rimanere statici all’interno di un rapporto diretto, proporzionale ed esclusivo tra l’avanzamento in carriera e – l’invecchiamento? Vi sembra che sia ancora così, no? Direi che sia così, non so se qui c’è qualcuno che fa l’insegnante ma penso di sì, statisticamente penso di sì, è possibile? E’ probabile che ci sia? Ecco, allora vi chiedo: è ancora uno strumento attuale? E’ ancora l’unico vero strumento per far migliorare la scuola italiana, o si possono e si devono pensare strumenti diversi? Anche di incremento stipendiale, anche di miglioramento professionale. Io credo che sia gli insegnanti sia i presidi non abbiano paura di essere valutati per ciò che sono, per quello che danno alle famiglie, per quello che danno agli studenti. Mi sbaglio? Penso di no, c’è una procedura di valutazione però che va messa a sistema. Ripeto, nel 2015 le scuole italiane daranno il primo risultato della loro attività di valutazione, ma è solo il primo passo.
Terzo: i numeri. Qui, di fronte a Vittadini sono cauta, perché è uno statistico, e quindi non li cito, però mi insegna lui come altri che la qualità presuppone sempre una corretta misurazione della quantità nella gestione di qualunque struttura complessa, almeno nella buona gestione. E allora, guardando i numeri, io vi dico con semplicità quello che è il quadro attuale: noi non abbiamo tutti i docenti che servono per far funzionare la scuola correttamente dall’inizio dell’anno, pur sapendo che quei posti che noi ricopriamo con il grande capitolo delle supplenze sono posti in cui avremo bisogno di figure stabili; quindi, questo paradosso è l’agente patogeno che ha generato il precariato nel sistema scolastico italiano. E allora dobbiamo eliminarlo: è un batterio, l’abbiamo individuato, dobbiamo prenderlo e curarlo. Perché guardate, le supplenze, con tutto il rispetto, non fanno bene a nessuno: non fanno bene a chi le fa, perché sono una condizione transitoria e limitata; non fanno bene agli studenti, perché è materialmente impossibile programmare un’attività didattica per pochi giorni, per poche settimane, talvolta per poche ore; e non fanno bene soprattutto alle scuole, non fanno bene all’organizzazione complessiva, non fanno bene al lavoro dei presidi che spesso sono ridotti alla compilazione di una tabella contabile di presenze/assenze di persone che devono insegnare nelle classi.
Io credo, concludendo, che noi invece abbiamo bisogno di presidi, lo dico alla vecchia maniera, insomma di dirigenti scolastici (chiedo scusa), di insegnanti, che si sentano finalmente, veramente, parte di un progetto educativo nazionale, di un progetto educativo che parte da una visione, che condivide dei valori, che ha una sfida di contenuti e di metodi alla fine, ma che ha anche gli strumenti per poterla raggiungere. Questo è l’unico vero obiettivo che, si è detto, riforma. Non so se la definirei riforma, perché riforme ce ne sono state tante, non è questo il nostro obiettivo, ma rivisitazione (anche rivoluzionaria, per alcuni aspetti, come vedrete) delle regole del gioco; è quello che dovrebbe portare a raggiungere questo obiettivo. Chi lavora nella scuola, che si sente parte, con il dovuto spazio di autonomia, di organizzare il proprio lavoro, di dirigerlo, di coordinarlo, di essere valutato per i risultati che raggiunge, e di avere degli obiettivi di miglioramento necessario.
Allora, se questo avviene, io credo che don Giussani, figura ovviamente per voi molto cara e molto nota, quando parlava di “rischio educativo”, ci poneva anche questa sfida. Noi possiamo assumerla oggi, possiamo assumerla con l’impegno politico di un governo che sta lavorando operosamente da mesi, di un Presidente del Consiglio che in prima persona è impegnato anche su questo fronte, e con l’impegno che, dicevo, ad horas… Beh, diciamo a giorni, meglio, si presenta al Paese per dare risposte adeguate a questi temi ed anche ad altri che non ho potuto, per ragioni di tempo, evocare, e risposte, guardate, non solo adeguate ma che guardano lontano, perché questo è quello che è mancato sinora al mondo della scuola italiana.
GIORGIO VITTADINI:
A me la parola “rivoluzionaria” sembra adeguata: perché – parlo apertis verbis anch’io, senza formalismi – le cose che abbiamo sentito oggi non le abbiamo sentite per molti anni. Io dico che dobbiamo risalire a un dialogo franco come è stato con il Ministro Berlinguer per avere una visione di questo tipo, anche rispetto a tutto quello che abbiamo sentito sull’istruzione, e dico brevemente quello che per me è rivoluzionario. Innanzi tutto, l’idea che, quando parliamo di un sistema dell’istruzione, parliamo di una visione che è per tutti. Ma una visione per tutti non vuol dire piattume, vuol dire l’idea di portare la persona a essere protagonista. Noi ne abbiamo sentite di tutte, abbiamo sentito che al centro di una visione di sviluppo di un Paese c’è l’edilizia: io ho sempre detto che non è questo, al centro di una visione di un Paese è un percorso educativo di istruzione che serve ad aiutare la persona a arrivare al centro, a diventare protagonista, anche dal punto di vista economico.
Tutta la teoria del capitale umano lo dice ma abbiamo sentito dal Ministro che non basta un capitale umano, è qualcosa di compenetrato, è questo il secondo tema, la cultura e l’istruzione rimesse insieme, perché anche coloro che sotto il profilo economico, appunto, compresi i Nobel, sul capitale umano parlano di questa centralità, di solito dividono l’istruzione e dividono la cultura, mentre abbiamo sentito oggi che queste cose vanno insieme, che in un Paese che ha avuto il Rinascimento non si può dividere queste due cose. E, terzo aspetto, io ho sentito un discorso laico, ma della laicità che ci piace, perché un discorso laico che si rifà al terzo articolo della Costituzione, dice di un sistema pubblico, che abbiamo sentito essere un sistema che è fatto di scuola paritaria e di scuola pubblica, insieme: questa è una visione laica. Anche perché è un modo di parlare di un sistema paritario come ci piace. Noi abbiamo sempre detto in tempi non sospetti che il problema della scuola paritaria non è il finanziamento agli istituti per tener buona la Chiesa, ma è l’idea di una concezione in cui al centro c’è la persona che può scegliere: l’abbiamo sentita oggi.
E poi, quarto aspetto, a me sono piaciute molto le cose che descrivono questo sistema pubblico, entrando nel merito, innanzitutto la funzione insegnanti. Noi abbiamo sempre detto che l’insegnante non è un impiegato statale, l’insegnante è un intellettuale che deve avere un percorso di valorizzazione, che non può essere uno scatto organizzativo di anzianità. Noi stiamo parlando di gente che passa ore ed ore, anche al di là del tempo obbligatorio, per istruirsi, per imparare, per differenziarsi, per studiare. Vogliamo valorizzare questa gente che in Svizzera, per non andare lontano, prende il triplo di stipendi e ha una valorizzazione importante, o vogliamo considerarli come dei pari? La prima questione è pensare che lo scatto, la crescita non sia solo l’anzianità, e questo ha dall’altra parte l’idea di un merito, come abbiamo sentito, che non è elitario. Ma siamo andati avanti per anni con delle “fregnacce” nel senso letterale della parola, che dicono che aiutare tutti vuol dire appiattire tutto, vuol dire appiattire il merito, perché sennò questa non è la scuola di tutti. In questo modo, come abbiamo visto da numerosi studi, quello che succede è che chi deve usare l’istruzione come possibilità di una mobilità verticale non la usa, perché se appiattiamo tutto finisce che il povero rimane emarginato e il ricco si forma altrove, e questa è un’altra “fregnaccia” che ci hanno importato per anni, una scemenza, che oggi abbiamo sentito dire in modo opposto. Che poi arriva quindi a parlare di questo merito, che il merito è la condizione perché il povero si possa emancipare e perché venga valorizzato colui che può aiutare tutti a crescere.
E ancora, abbiamo sentito parlare qua di una cosa fondamentale, che questo merito ha una questione importantissima, pratica ma importantissima: sapere le lingue. Perché io lo vedo dai ragazzi che sono in università adesso, uno che sa la lingua vive, sennò uno oggi è un handicappato, non può andare a lavorare all’estero, non può lavorare in Italia per imprese che siano competitive. Ma questo si insegna prima. Io ho fatto il liceo classico, ho fatto due anni di francese e niente di inglese, ho dovuto impararmi l’inglese per conto mio. Io spero che quelli che vengono dopo non abbiano questa cosa perché, essendo molto contento di aver studiato greco e latino, non esiste che nel 2014 si facciano due anni di lingue – allora si faceva addirittura il francese – e poi uno se lo debba studiare per conto proprio. Bisogna studiare in lingua, interattivamente, bisogna parlare queste cose in modo fondamentale. E, ultimo tra i tanti aspetti, un altro luogo comune che nel discorso del Ministro è stato distrutto: l’idea che quando si ha a che fare con l’impresa si “vende” la scuola al mercato.
Ma questi sono discorsi sovietici del 1960. Roba da Politburo. Smettiamola, vuol dire che prima di tutto c’è gente che nella formazione professionale trova il suo futuro, anche economico, e secondo, un rapporto interattivo, una scuola in cui si fanno laboratori, si lavora. E’ la scuola di oggi, perché questo qui è un mondo figlio, non è che si è schiavi di una multinazionale se hai rapporti con le imprese. Ma qui siamo nel 2014. Allora quest’immagine che riprende, che allarga questo fondamentale alternanza scuola-lavoro, questa apertura della scuola al mondo del lavoro, è finalmente una visione moderna. Adesso, prima di lasciare la parola alle domande, daremo tutto il sostegno al Ministro, perché non sarà mica facile: quante burocrazie ideologiche che abbiamo in certo mondo di tutti i tipi, quanti discorsi sentiti sui giornali che sembrano appunto scritti in un mondo che non c’è più. Oggi abbiamo sentito da Marmolejo, responsabile della World Bank per l’Educazione di terzo livello, università e altro, che dal 2015 tutti quelli che vanno a scuola saranno degli studenti digitali, che sono vissuti in un altro mondo. E allora noi abbiamo bisogno di una scuola in cui questo “digitale” non vuol dire appiattimento, asservimento al computer, ma vuol dire anche qualcosa che supera questi stereotipi. Quindi, noi saremo al fianco del Ministro in questa battaglia perché è veramente la battaglia epocale. Da questo punto di vista, concludiamo questo incontro con tre domande che vengono da operatori della scuola, di tre livelli diversi, che possono appunto approfondire alcune cose che sono state dette, che sono veramente di un’importanza grandissima. Innanzitutto, abbiamo Alberto Bonfanti che è insegnante di scuola pubblica e anche responsabile di un esperimento di aiuto ai ragazzi con problemi scolastici, Portofranco, che è in tutta Italia.
ALBERTO BONFANTI:
Buongiorno, signor Ministro. Allora, io insegno storia e filosofia in un liceo scientifico di Milano e, devo dire la verità, sono molto contento di insegnare perché ritengo l’insegnamento il lavoro più bello del mondo. Intorno a me, oltre ai colleghi e alla gente che incontro insegnando e facendo anche Portofranco, oltre a gente sfiduciata e stressata, vedo anche tanta gente appassionata a quello che deve insegnare, alla propria materia, al gusto per la verità nella ricerca appassionata al cammino dei ragazzi. Per cui sono consapevole, siamo consapevoli che le ragioni di questo lavoro le troviamo innanzitutto in noi stessi e nell’esperienza che facciamo. Però certamente voglio ritornare su un punto che veniva detto prima da lei e poi dal professor Vittadini: una certa legislazione che ci equipara a un impiegato statale, a un bidello un pochettino più istruito, un impiegato statale per di più non pagato, un po’ ci mortifica. E allora la mia domanda, tornando sul tema appunto della valorizzazione della persona insegnante che è un artista, è proprio questa: come intende e pensa di valorizzare la professione insegnante attraverso il percorso di progressione di carriera?
GIORGIO VITTADINI:
Adesso Marco Masi, che è responsabile della Federazione Opere Educative, una realtà di opere scolastiche libere.
MARCO MASI:
Sì, la mia è una domanda di approfondimento sul tema della parità scolastica. Come ha ricordato lei, è un tema che ci sta molto a cuore, lo ridico, ci sta a cuore perché ci sta a cuore tutta la scuola italiana e ci stanno a cuore tutti i ragazzi che frequentano oggi e frequenteranno domani la nostra scuola. Sul tema della parità, lei anche questa sera ha usato parole anche coraggiose, anche impegnative. In un passaggio dei giorni scorsi, ha detto: “I tempi sono maturi perché possa realizzarsi una completa parità scolastica”, anche, come ricordava lei, per avvicinare un po’ di più l’Italia agli altri Paesi europei. Allo stesso tempo, con realismo, lei ricordava che questo tema, questo cammino incontra ancora oggi due ostacoli storici: pregiudizi culturali e la carenza di risorse economiche. Io sottolineo solo come questa realtà, perché sono scuole che ci sono, 13000 scuole paritarie in Italia, un milione di studenti, cioè il 12% degli studenti italiani nonostante, come ricordava lei, la legge 62 dica che tutto il sistema nazionale di istruzione è costituito dalle scuole paritarie e dalle scuole statali, queste scuole non statali sono sistematicamente ignorate quando va bene o penalizzate. I tagli, il non accesso alle risorse per l’edilizia, per l’innovazione tecnologica, per il sostegno, le famiglie che scelgono la scuola paritaria continuano a pagare due volte il servizio scolastico, quelle meno abbienti non sono in alcun modo tutelate. Allora, in questo quadro che le è ben noto, che ci è ben noto, lo conosciamo sulla nostra pelle, le chiedo: siamo alla vigilia di una stagione di provvedimenti sulla scuola come quelli che ha preannunciato il Governo? Che passi avanti si possono fare in concreto nella direzione che sta a cuore a noi come anche a lei, per quello che lei ha sempre detto sin dai primi giorni, di una reale parità scolastica per assicurare alle famiglie una effettiva libertà di scelta?
GIORGIO VITTADINI:
Terza domanda, il già citato Dario Odifreddi, responsabile della Piazza dei Mestieri, una bellissima realtà di formazione professionale.
DARIO ODIFREDDI:
Signor Ministro, lei ha avuto in questi mesi l’occasione di visitare alcune realtà della formazione professionale italiana, degli amici dei salesiani, delle ACLI, della Compagnia delle Opere. E durante la sua visita alla Piazza dei Mestieri, lei ha detto: “Intendo mettere la formazione professionale, insieme con la scuola, al centro delle politiche del mio Ministero. Il mio obiettivo è arrivare in estate con un progetto preciso che mette insieme scuola, formazione e lavoro. La formazione è sempre stata vista come un ripostiglio, mentre è una stanza prioritaria. Ci vuole un sistema duale come quello sperimentato alla Piazza dei Mestieri”. Udire queste parole ci ha profondamente colpito, perché era da tanti anni che non sentivamo in modo così esplicito un riconoscimento al valore della formazione professionale iniziale, da parte di un Ministro. Un riconoscimento che è legato a dei dati oggettivi: ormai tutte le analisi, le indagini statistiche rendono in modo chiaro ed evidente che chi frequenta i percorsi di formazione professionale ha tassi bassissimi di dispersione, quasi tutti raggiungono la qualifica, il diploma professionale, il 65% al primo anno e l’85% al secondo anno ha un’occupazione e il 64% di queste persone ha un’occupazione coerente con quello che ha studiato.
Purtroppo questa realtà è presente in Italia sostanzialmente in pochissime regioni, tendenzialmente nelle regioni del Nord: Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Tantissime sono le domande, oggi gli studenti sono circa 280.000 che frequentano formazione professionale dai 230.00 di dieci anni fa, ma le richieste sono oltre 500.000. Ricordo a tutti che la formazione professionale iniziale dal 2010 è parte dell’ordinamento, quindi fa parte dei diritti che ciascuna famiglia, ciascun ragazzo potrebbe esercitare: tantissimi genitori fanno interminabili scuole per iscrivere i ragazzi alla formazione professionale, poi non lo possono fare perché non ci sono percorsi disponibili. Allora, noi ci auguriamo innanzitutto che in questa data fatidica, a ore, a giorni, che ormai abbiamo tutti del 29 di agosto, almeno dal punto di vista culturale sia esplicitato questo ruolo della formazione professionale. Ripensiamo i sistemi educativi che sono fatti di scuola e di formazione professionale, e poi lanciamo due proposte che non dettaglio dal punto di vista tecnico: noi abbiamo una parte importante di Italia, che è il Mezzogiorno che citava lei prima, dove siamo presenti, che ha un bisogno enorme di realtà di questo tipo. Abbiamo un problema di gradualità, abbiamo un problema di risorse (inciso, se le risorse per la formazione si spendessero bene, ce ne avanzerebbero anche per andare a cena tutti quanti in questa sala, ma questo è un altro paio di maniche).
Quando c’è un problema di gradualità di risorse, diciamo: facciamo 15 centri di eccellenza nelle regioni del sud. Ci sono 3 miliardi e 154 milioni a disposizione per le regioni del sud, per un’operazione di questo tipo credo che non occorra più del 2%, e, secondo, valorizziamo l’apprendistato per i giovani per quello che lei diceva prima, perché possano fare esperienza già durante il percorso educativo. Facciamo in modo che l’apprendistato di primo livello, cioè per i ragazzi che fanno la qualifica professionale, il diploma professionale, possa veramente essere attivo ed efficace, perché anche qui in Italia, di apprendistato si parla ormai da dieci anni, di sistema duale si parla da quattro, cinque anni, ma spesso se ne parla senza cognizione di causa e questo è il motivo per cui alla fine non si riesce ad arrivare a rendere operativi questi strumenti. Chiudo ringraziandola per l’attenzione che ha avuto non solo oggi ma in tutti questi mesi. Grazie.
STEFANIA GIANNINI:
Allora, beh, domandine “piccanti”. Io cerco di cavarmela,
Presidente: lo scritto è sempre più difficile dell’orale, come si sa. Dunque, progressione in carriera: beh, su questo il discorso è molto chiaro e non può che essere esplicito. O si cambiano le regole del gioco… Che vuol dire cambiare le regole del gioco? Ammettere contrattualmente e tecnicamente che lo stipendio di un insegnante non varia solo ed esclusivamente in virtù del suo progresso di anzianità nel lavoro che svolge ma soprattutto, direi, anche se non esclusivamente, in virtù delle attività che svolge e della valutazione sulle attività che svolge, sia funzionale sia di qualità, sia di merito nel senso buono, il primo che ho detto, oppure, signori, diciamo la verità, facciamo un bell’ esercizio di stile perché la valutazione è un capitolo che soprattutto nel mondo anglosassone, nell’università, nella ricerca ma anche nella scuola, ha una tradizione pluridecennale. C’è una letteratura in materia: chi di voi è appassionato e specialista ne sa sicuramente molto più di me ma io stessa, confesso, me ne sono occupata, anche se su alcuni settori specifici. Ma la valutazione, se non è collegata a regole del gioco, ergo a una rivisitazione del contratto, quindi di come si entra a scuola, di come si progredisce in carriera e, diciamolo pure, anche di come si può essere penalizzati se non si fa il proprio dovere – perché la premialità è una moneta che ha due parti: la prima facciata e la seconda -, se non si accetta questo, un nuovo patto, facciamo un esercizio di stile… In accademia se ne fanno molti, questo è anche un settore scientificamente fondato, ha una sua dignità scientifica, ma non serve. La risposta, credo e spero, è questa.
Parità scolastica: dei due punti che ha detto e che condivido, il pregiudizio culturale e la mancanza di risorse, mi preoccupa di più il primo del secondo, se lo devo dire con tutta l’onestà intellettuale. Perché? Perché quando un Governo decide, come questo ha deciso veramente di mettere al centro del progetto di ricostruzione del Paese la scuola, e quando decide di farlo in una visione, rubo l’espressione che mi è piaciuta e mi identifico, laica, nel senso anche qui etimologico del termine, della scuola, la legge l’abbiamo, la si applica, le risorse saranno risorse che devono essere investite in tanti capitoli, quindi non è questa la preoccupazione di base: c’ è il costo standard, come lei sa è un lavoro che stiamo già sviluppando, è l’impegno del sottosegretario Toccafondi che ha una particolare attenzione, tra gli altri dei nostri validi Sottosegretari, su questo tema. Ma se non abbattiamo il pregiudizio culturale, signori miei, ci sarà sempre un muro che si erge ad un certo punto, perché si dirà o si scriverà da qualche parte che, sì, è vero che il sistema è integrato, sì, è vero, non lo dice solo la Giannini che pubblico è “pro populo”, cioè ciò che si fa per il bene comune e per la comunità e non ciò che è gestito dallo Stato. Ma se non si arriva ad abbattere questo pregiudizio, signori, l’ho detto prima: la grande consultazione, il contributo di tutti, questo non è un esercizio retorico, noi non lo concepiamo in questo modo, noi concepiamo la mobilitazione dei mondi. Ci sono mondi, mi auguro, che daranno un loro contributo, robusto, in questo senso.
Terzo punto: scuola, formazione lavoro, formazione professionale. Ma, con Dario Odifreddi non nascondo, sarebbe un infingimento poco sostenibile, abbiamo avuto occasioni, non solo nella visita, molto bella, molto utile, della sede di Piazza dei Mestieri a Torino, di confrontarci su questo tema. Io vedo due punti importanti: primo, il collegamento necessario, i numeri, quelli sì, ve li ho citati, tra il dramma della dispersione scolastica italiana e la cura della formazione professionale. C’è una solida letteratura su questo tema, non solo in Italia ma anche in altri Paesi, e c’è un’altrettanta solida trascuratezza nel nostro Paese, anche recente, su questo stesso tema. Quindi, questo è un discorso che va raddrizzato e il mio impegno politico rimane nei termini che ho già annunciato. La proposta è molto bella: dei quindici centri di eccellenza al sud e della valorizzazione dell’apprendistato credo di poter dire già in questa sede che Ministero, a prescindere da ciò che faremo su tutto il capitolo scuola, ha un capitolo destinabile a questo tipo di attività. E quindi io credo che sia assolutamente già un filone su cui stiamo lavorando, in autonomia rispetto alle iniziative di Governo e complessive. Il tema della formazione che sperpera un po’ di soldi, chiedo scusa, non lo sgancerei, non è un altro discorso: bisogna avere il coraggio, anche qui, di dire quello che fanno certe Regioni o che hanno fatto certe Regioni con la formazione. Scusate, diciamolo senza finti pudori, quel capitolo dobbiamo ricondurlo al percorso naturale e provvidenziale di una formazione professionale che, come dicevo prima, molto spesso salva i ragazzi non solo dalla strada ma dallo sfruttamento mafioso, in alcune regioni d’Italia. E allora, se questo avviene anche all’interno del tavolo Stato-Regioni, forse il tema della formazione dovrebbe essere rivisitato. L’apprendistato è quel capitolo di confine tra il Ministero del Lavoro e il nostro: stiamo lavorando con Poletti, dall’inizio devo dire molto bene, sullo Youth Guarantee, e questo è un altro degli strumenti, forse non il principale ma sicuramente uno strumento fondamentale, per andare nella direzione che anche Piazza dei Mestieri ha iniziato qualche tempo fa.
GORGIO VITTADINI:
Allora, mi sembra che abbiamo ascoltato cose veramente impegnative. Ne aggiungo solo una: i soldi! Bisogna investire in educazione, i soldi bisogna investirli in educazione anche prima delle infrastrutture e anche prima dell’edilizia, perché lo sviluppo di un Paese si fa nella misura in cui si investe qualitativamente in educazione, come abbiamo sentito oggi. Questo è, se vogliamo, un modello economico che noi abbiamo, un po’ diverso da altri pensieri. E’ finita l’epoca del keynesianesimo, del mattone, è ricominciata l’epoca dell’investimento nel cervello, nel cuore, nell’intelligenza, perché questo ha un ritorno infinito. E quindi noi siamo con il Ministro in questa battaglia. Grazie.