È VERAMENTE POSITIVA LA REALTÀ? DAI POPOLI DELLA MESOPOTAMIA AL POPOLO DELLA BIBBIA

E' veramente positiva la realtà? Dai popoli della Mesopotamia al popolo della Bibbia

Partecipano: Giorgio Buccellati, Professor Emeritus of Ancient Near East and History alla UCLA; Ignacio Carbajosa Pérez, Docente di Antico Testamento presso la Facoltà di Teologia dell’Università San Dámaso di Madrid. Introduce Davide Perillo, Direttore di Tracce.

 

È VERAMENTE POSITIVA LA REALTÁ? DAI POPOLI DELLA MESOPOTAMIA AL POPOLO DELLA BIBBIA

Data: MARTEDI 21-08-2012 Ore 11,00

Relatore 1: GIORGIO BUCCELLATI
Relatore 2: IGNACIO CARBAJOSA PĖREZ

Moderatore: DAVIDE PERILLO

MODERATORE:

Benvenuti a quest’incontro, a cui, come avete visto, abbiamo dato un titolo che è un po’ una domanda provocatoria, no?: “E’ veramente positiva la realtà?”. E’ una domanda che ci siamo fatti spesso, ci stiamo facendo spesso in questi tempi, perché sono tempi che pongono questa domanda. E il motivo è molto semplice: è una domanda capitale, perché solo se la realtà è intimamente e ultimamente positiva, solo se ha dentro una promessa di bene, originaria, c’è la possibilità di stare di fronte alle circostanze dure, anche come quelle che stiamo vivendo, per certi versi, senza esserne travolti. Quindi non è una curiosità intellettuale quella che ci muove, è una domanda vitale, e il problema è che questa però è una domanda che spinge, sollecita, può essere affrontata seriamente soltanto se si arriva al fondo della realtà, all’origine della realtà, da dove la realtà scaturisce. E infatti l’uomo, storicamente, in ogni tradizione, si è sempre posto questo problema, l’origine della realtà, da dove viene fuori, per capire se ultimamente è positiva o no, se ha dentro questa promessa di bene o no. Ecco, il tema che vorremmo sviluppare oggi è questo: andare alle radici, alla sorgente della realtà e andare a vedere come in due tradizioni culturali fondamentali, una perché esemplificativa della modalità con cui da sempre l’uomo affronta il problema del rapporto con l’infinito, dell’origine della realtà, e l’altra, perché segna uno stacco, un divario, qualcosa che accade, che cambia questa modalità di rapporto con l’infinito, andiamo a vedere come l’origine della realtà e la positività della realtà vengono considerate, appunto, tra i popoli della Mesopotamia e nella Bibbia.
E per farlo, abbiamo i nostri due ospiti di oggi, che vi prego di salutare con un applauso: il professor Giorgio Buccellati è, credo si possa dire tranquillamente, sicuramente uno dei maggiori archeologi viventi, professore emerito all’UCLA Los Angeles, ma è anche sicuramente uno dei maggiori esperti e studiosi dell’area e della cultura mesopotamica. E’ un piacere e un onore averlo tra di noi oggi e anche perché ha questa singolare proprietà di unire, come vedrete dal suo intervento, di unire la capacità dello studio sul campo, lo scavo, passa svariati mesi all’anno in Siria, quando la situazione glielo consente, non come in questi tempi, purtroppo, a scavare, a operare sul campo, a fare il suo mestiere di archeologo, e contemporaneamente ha una vastissima cultura e conoscenza anche teologica e filosofica, vedrete che la combinazione delle due cose permette veramente di andare al fondo del tema di cui ci occuperemo oggi.
L’altro ospite, molti di noi lo conoscono, Ignacio Carbajosa Pérez, Nacio per gli amici, è un biblista di leva, di fama, quindi con lui andremo a fondo invece di come la Bibbia e il rapporto del popolo ebraico con l’infinito cambia questo snodo fondamentale del rapporto con la realtà.
Sarà uno slalom, una specie di slalom parallelo; lo faremo in tre tappe, andando proprio a fondo di questi tre temi: l’origine della realtà, l’origine del male, che è il problema che mette in dubbio la positività del reale, e poi il confronto con la realtà, quindi come si arriva alla conclusione del tema che ci sta a cuore: se la realtà è ultimamente positiva o no. Quindi direi di iniziare dando la parola ai nostri ospiti. Iniziamo questo slalom parallelo e vediamo che conclusioni potremo dare a questa domanda. Grazie.

IGNACIO CARBAJOSA PĖREZ:
Vorrei cominciare io, semplicemente aiutando a capire come c’è stato l’incontro, nel mondo accademico, quasi un secolo e mezzo fa, tra il mondo delle scoperte della Mesopotamia e il mondo della Bibbia. Piuttosto all’inizio un incontro, uno scontro più che un incontro, così introduco al nostro dialogo.
La seconda metà dell’ottocento e i primi decenni del novecento sono stati l’epoca delle grandi scoperte del mondo del vicino Oriente e l’epoca in cui son venute alla luce, tramite la loro letteratura, le culture che circondavano l’antico Israele. Il paragone con la letteratura biblica è partito subito, in forza delle sorprendenti coincidenze tra modelli e temi. Proprio in questo periodo c’è stata un’iniziale reazione di perplessità tra quelli che guardavano la Bibbia come “La” parola originale che Dio rivolgeva all’umanità. Sembrava, almeno così veniva sottolineato in quegli anni, che non c’era originalità nella Bibbia, ma piuttosto una cultura e forme di espressioni comuni ai popoli del suo contesto geografico. Questa è stata l’origine di tante diffidenze da una parte difensori della Bibbia e, dall’altra, orientalisti.
Col passare del tempo e nella misura in cui questa nuova letteratura è stata studiata in profondità, e dopo che i primi giudizi frettolosi sono stati ponderati, il paragone della Bibbia con le espressioni letterarie dei popoli vicini si è rivelato veramente fecondo.
Infatti, in primo luogo, le nuove scoperte hanno rivelato l’humus culturale da cui proveniva Israele e in cui si inseriva la sua espressione letteraria, la Bibbia. È diventato così più chiaro che Dio non ha scelto un popolo venuto dal nulla, per rivelare una sua volontà disincarnata; Dio ha scelto un popolo semita, che condivideva una stessa cultura, lingua, leggi, racconti, con i popoli della Mesopotamia, e con esso ha fatto un lungo percorso di educazione. Non c’è da meravigliarsi se troviamo espressioni o modelli letterari e legislativi comuni a Israele e ai popoli della Mesopotamia: è la legge dell’incarnazione, che da una parte ci commuove fino alle lacrime e dall’altra ci scandalizza.
Ma in secondo luogo il paragone tra la Bibbia e la letteratura dei popoli della Mesopotamia, riferendoci alla cultura più vicina, ha permesso di evidenziare in un modo completamente nuovo l’originalità del giudizio biblico, espresso in forme e modelli spesso comuni. Proprio perché oggi abbiamo la possibilità, come mai prima, di conoscere tali modelli legislativi o letterari, siamo anche in condizione, come mai prima, di sorprendere nella Bibbia un giudizio nuovo e radicalmente originale.

GIORGIO BUCCELLATI (G.B.) e IGNACIO CARBAJOSA PĖREZ (I.C.):

(G.B.)“Quando in alto i cieli erano senza nome e giù in basso il suolo restava innominato”,
(I.C.) “In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta, e le tenebre ricoprivano l’abisso”,
(G.B.) “quando solo il primordiale abisso il loro progenitore e la dea del mare Diana (Diama?), la madre universale, mescolavano le loro acque come in un’unità, ma senza prati ai bordi, né tracce di canneti”,
(I.C.) “lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”,
(G.B.) “quando neppure un dio era ancora apparso, nessuno aveva ancora un nome e di nessuno ancora noto era il destino”,
(I.C.) “e Dio disse: Che sia la luce. La luce venne in esistenza”,
“ecco che dal loro centro gli dei furono creati, gli dei palustri emersero per primi, identificati per nome”,
“e Dio vide che la luce è una cosa buona”.

GIORGIO BUCCELLATI:

Ecco, abbiamo sentito, fianco a fianco, le due visioni della creazione, quella babilonese e quella biblica, e cominceremo quindi da qui le nostre osservazioni sul tema centrale, se e come la realtà è positiva e in funzione di come viene concepito il momento iniziale della realtà stessa, per passare quindi a considerare, nella seconda parte dello slalom, come cambia questa realtà in conseguenza del male e quindi per vedere, da ultimo, come ci si deve confrontare con questa realtà.
Come abbiamo visto, l’inizio del grande poema babilonese della creazione, l’Enuma Elish, ci proietta in un mondo indeterminato e senza forme, ed è da questo caos amorfo, meglio, in questo caos amorfo che prende forma la realtà. Essere creati, in un contesto mesopotamico, vuol dire proprio questo, essenzialmente prendere o cambiare forma, attraverso stadi sempre più specifici si passa da una forma all’altra. Questo progressivo morfizzarsi trova il suo culmine nella tavoletta finale dello stesso poema: vediamo qui l’apoteosi di Marduk, il dio che si è conquistato il rango di dio principale nel pantheon babilonese, piuttosto tardi per gli standard mesopotamici, cioè verso il milleottocento avanti Cristo. L’apoteosi consiste, a quel punto, nel riconoscergli ben cinquanta nomi, alla fine del poema, quasi a segnalare la massima differenziazione e il contrasto con il caos iniziale. Quando mia moglie e io eravamo studenti all’Oriental Institute di Chicago, in quel lontano e fatidico sessantotto, un giorno vedemmo comparire su uno dei muri del nostro istituto la scritta “Oriental Institute bastion of irrilevance”, l’Istituto Orientale bastione di irrilevanza. E vi domanderete forse se non dovreste affibbiarmi la stessa qualifica, una volta che mi sentite parlare di Marduk e di Babilonia, ma non temete, non dovete ancora andarvene, perché il sessantotto ha influito anche su di me, su di noi, e allora io come giovane studente, e poi sempre di più col passar del tempo. Quindi voglio mettere a fuoco per voi la profonda risonanza di questo mondo apparentemente remoto, e mostrarvi come non sia affatto remoto, non solo perché fu la grande matrice culturale con la quale dovette mettersi a confronto il mondo della Bibbia, ma perché è in questo humus che da sempre, non solo dall’illuminismo, si sono affondate le radici del pensiero a-biblico.
Il contrasto è veramente strutturale, è l’innervatura stessa del pensiero che vediamo opporsi nei due sistemi. E il mio compito oggi è di interpretare per voi, non in chiaro-scuro, ma nel più forte bianco e nero, la concezione mesopotamica della realtà, per farci riflettere alla fine su come questa, ancora, condizioni profondamente la nostra concezione.
Guardate al punto di partenza. Benché si parli di un problema della creazione, non vi è un atto creativo costitutivo dell’essere, non c’è propriamente parlando uno stato creaturale, non ci sono creature: la realtà esiste all’interno di se stessa, ci sono solo delle trans-formazioni, cioè un cambiar forma, ma sempre all’interno di una non-forma primordiale. Vedete bene come in questa indipendenza all’origine, in questo non esser debitori possiamo sentire la più grande risonanza. È stata quella mesopotamica la prima grande cultura a codificare e trasmetterci il senso di autosufficienza. Non vi è dunque, a guardar bene, un inizio vero e proprio della realtà in cui viviamo, originantesi al di fuori di questa realtà, e questo perché l’assoluto non è un agente, un principio che agisce e pone in atto la nostra realtà, facendoci partecipi di una sua realtà diversa dalla nostra. È invece, l’assoluto, una matrice inerte, di cui noi stessi siamo i componenti; non vi è una matrice che non ci includa, la matrice siamo noi. Si tratta per così dire di un sistema omeostatico, che ha un suo interno equilibrio e che non inizia da nessuna parte; vi è un continuo equilibrio, con l’alternanze interne, risultanti soltanto da questo processo di morfizzazione. Paradossalmente quindi possiamo anche dire che non c’è propriamente un divenire, ma solo un tramutarsi, perché il divenire nel senso pieno della parola è solo possibile quando c’è un inizio, e questa è una profonda conseguenza psicologica, perché disconoscere l’inizio vuol dire rendersi indipendenti da ogni possibile agente esterno, e con una sua volontà. Analogamente, non è quindi possibile in Mesopotamia il concetto di “evento assoluto”. E’ un concetto fondamentale, anche se, proprio forse perché, può sembrare a tutta prima paradossale: ogni evento è di per sé essenzialmente relativo, no?
Cosa vuol dire allora “evento assoluto”? Vuol dire un evento in cui il soggetto, quello che lo mette in atto, è assoluto, indipendente da noi e dalla nostra relatività. E nella concezione biblica la creazione e l’incarnazione sono gli eventi assoluti per antonomasia, ma in effetti la partecipazione stessa dell’assoluto nella storia è un evento assoluto continuo; e questo concetto manca totalmente in Mesopotamia e manca in noi, nella misura in cui aderiamo a quella antica psiche politeistica: il fato, il destino, il caso, la fortuna, la natura, sono tutti modi di dire che ci permettono di appropriarci illusoriamente della sostanza del pensiero biblico nel momento stesso in cui lo neghiamo, perché in effetti neghiamo a questa dimensione della realtà, cioè all’assoluto, la capacità di intervenire come un agente dotato di volontà, di negare la possibilità stessa di un evento assoluto.

IGNACIO CARBAJOSA PĖREZ:

Passiamo dunque a vedere come è l’origine della realtà per la Bibbia.
Innanzitutto, nei racconti della creazione della genesi c’è l’affermazione che la realtà tutta è stata creata. È la grande affermazione che apre la Bibbia: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. Anche quella terra iniziale, informe e deserta (tohu vavohu, in ebraico), è stata creata, ha avuto un inizio nel tempo. Indicazione di tempo, “in principio”, prima parola della Bibbia, sottolinea un momento creativo, che ha dunque un inizio, prima del quale non c’era niente. In questo modo la Bibbia incontra quell’esperienza di stupore davanti al reale, che caratterizza l’uomo cosciente: la realtà c’è, ci sono le cose, esiste l’essere e non il nulla, le cose sono venute all’essere. Infatti in tanta problematicità moderna, specialmente nei rapporti tra scienza e fede, o scienza e filosofia, manca questa esperienza di stupore, che è una domanda aperta sul reale: “Come mai c’è il reale? Chi lo ha fatto?”. È lo stupore della madre che parla ai suoi sette fratelli (figli) Maccabei condannati a morte, nella Bibbia: “Non so come siate apparsi nel mio seno, non io vi ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi”; parlando all’ultimo figlio: “Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e sappi che Dio li ha fatti non da cosa preesistente, tale è anche l’origine del genere umano”. Possiamo dire che c’è una sorta di pigrizia nella ragione moderna, che non vuole più parlare di creazione, ma piuttosto di mutazione e selezione, a partire dai principi della conservazione della materia e della conservazione dell’energia; ma dobbiamo parlare proprio di pigrizia della ragione!
Il gesto della creazione ha un unico principio: Dio. È il suo gesto potente, la sua volontà sovrana, senza nessun antecedente, concorrente, o avversario, che crea tutta la realtà. È Lui l’unico principio assoluto, da Lui procede tutto come creazione. Israele esclude dunque la generazione delle cose in virtù di un conflitto, guerre tra dei, o di un contatto sessuale: due tipologie di creazione a lui note per via dei racconti mesopotamici. Israele esclude inoltre altri principi che sembravano, alla luce dell’esperienza naturale e delle tradizioni di altri popoli, principi generativi, come il sole, un grande dio per tante nazioni, o la luna. Anch’essi sono stati creati da Dio, addirittura non il primo ma il quarto giorno. Nel primo racconto della creazione, primo capitolo, possiamo vedere in azione la volontà performativa di Dio, la sua parola esprime e compie efficacemente la sua volontà: “Dio disse: -Sia la luce-, e la luce fu”. Già nei primi salmi della tradizione di Israele si esprime questa sua volontà assoluta come origine di tutto il creato. Dice il salmo 33: “Perché Egli parla e tutto è fatto, comanda e tutto esiste”. Siamo davanti a un principio assoluto, che non soltanto dà l’avvio alla creazione, cioè non soltanto è all’origine di tutto il creato, come qualcuno che si limita a mettere in moto un meccanismo, il quale poi procede autonomamente. Egli infatti sostiene le cose nell’essere istante dopo istante. Israele ha la coscienza di una creazione continua e così lo canta nei suoi salmi, per esempio nel salmo 104: “Quanto sono grandi, Signore, le tue opere; se nascondi il tuo volto, vengono meno, togli loro il respiro, muoiono e ritornano nella loro polvere, mandi il tuo spirito, sono create, rinnovi la faccia della terra”. All’origine della creazione non c’è stata una volontà capricciosa, o un gioco crudele; nella volontà divina c’è un disegno buono, che ha nella creazione dell’uomo, autocoscienza del cosmo, il suo culmine. In realtà, anche se il libro della Genesi occupa il primo posto tra i libri della Bibbia, i racconti della creazione sono stati scritti dopo che Israele ha incontrato Dio nella storia. L’esperienza della bontà di Dio, che ha fatto uscire il suo popolo dalla schiavitù in Egitto e l’ha guidato per il deserto fino alla terra promessa, ha segnato la coscienza di Israele, il popolo eletto. Ha fatto esperienza di un disegno buono. In questo senso, l’esperienza dell’Esodo precede quella della creazione; nel salmo 136 è la misericordia di Dio che mette insieme creazione e salvezza, dice così: “Ha creato i cieli con sapienza, perché eterna è la sua misericordia; ha stabilito la terra sulle acque, perché eterna è la sua misericordia” e così con tutta la creazione, ma continua: “Percosse l’Egitto nei suoi primogeniti, perché eterna è la sua misericordia; da loro liberò Israele, perché eterna è la sua misericordia”. L’esperienza della storia segna la conoscenza che Israele ha della realtà naturale; Dio, il Dio che ha fatto uscire Israele dall’Egitto, ha creato tutto secondo un disegno che l’uomo può riconoscere come benigno, buono, ordinato. Non c’è traccia di quelle cosmogonie babiloniche che Israele conobbe in esilio e che ponevano nelle guerre e nelle lotte sanguinose tra mostri spaventosi, la generazione del reale.
Nel primo racconto della creazione della Genesi, c’è un ritornello che esprime il giudizio di Dio sulla sua opera, giorno dopo giorno. “Dio vide che era cosa buona”, questo è il grande giudizio di Dio sul creato nel ricapitolare tutta l’opera della creazione dirà ancora “Dio vide quanto aveva fatto ed ecco era cosa molto buona” ,…[23:33] , in ebraico. In forza di questo giudizio viene proclamata la positività della realtà, come realtà creata da Dio secondo un disegno buono. Non c’è dunque niente da temere dal reale, non c’è una realtà buona ed un’altra cattiva, non c’è una realtà che appartiene ad un Dio alleato e un’altra sotto il potere di un Dio nemico. Non ci sono poteri o potenze malvagi da temere, tutto è stato creato da Dio, tutto è sotto il suo potere, tutto è buono. La realtà è buona perché c’è, perché è stata creata ed è sostenuta da Dio nell’essere, dall’unico Dio che nella storia si è rivelato amante dell’Uomo. Poiché la realtà è stata creata secondo un disegno buono, essa rispecchia la volontà del suo Creatore, le cose create sono dunque cammino per scoprire questa realtà e per scoprire le tracce del Creatore. A partire dalla Sua opera, può essere conosciuto il Creatore, dice infatti il libro della Sapienza “Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore”. Si apre così la strada, l’investigazione e ricerca sul reale, l’ammirazione di Israele davanti all’opera della creazione, che diventa lode al creatore, è già il primo passo di questo atteggiamento di interesse verso il reale buono e degno di studio. Così dice il salmo 19: “I cieli narrano la Gloria di Dio e l’opera delle Sue mani annunzia il firmamento, il giorno al giorno ne affida il messaggio, la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio, senza parole,
senza che si oda il suono. Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola.”. Non è possibile porre le basi per la ricerca scientifica se non c’è una fiducia ultima nella bontà della realtà. Cioè se non si parte da un principio creatore, intelligente e buono che ha lasciato nel mistero del reale le sue tracce, o meglio, un principio che invita alla ricerca di sé tramite la Sua opera. In questo senso la tradizione giudeo-cristiana costruisce le fondamenta per la nascita della scienza del Medioevo. Se il reale non è buono, non sorge da un unico principio buono, chi oserebbe mettere le mani su di esso? Qualche potere maligno potrebbe tagliarle [26:23]. Al culmine della creazione c’è l’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio, solo l’uomo è capace di rendersi conto della creazione e di indirizzare un inno di lode al Creatore. Se paragoniamo i racconti della creazione della Genesi con il poema di Enuma Elish c’è veramente da stupirsi. Nel poema babilonico, l’umanità è creata dal sangue del Dio ribelle Kingu ucciso da Marduk, la finalità di questa creazione è che l’uomo serva gli dei in modo che questi possano riposarsi. Invece, dal racconto della Genesi, si deduce l’altissima dignità dell’uomo dal rapporto con Dio, fatto a sua immagine e somiglianza e la sua responsabilità nei confronti dell’opera della creazione. “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” ancora una volta sono i salmi che esprimono la coscienza di Israele stupita dalla grande dignità con cui Dio ha rivestito l’uomo. Così il salmo 8 “se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, cos’è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli e di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani. Tutto hai posto sotto i suoi piedi.”.

MODERATORE:
Ecco abbiamo visto la differenza sulla concezione dell’origine della realtà. In questa struttura del reale emerge un problema, una ferita, il male appunto che serve a mettere in discussione il fatto che la realtà sia buona. Allora da dove viene, da dove proviene il male, dalla tradizione mesopotamica e in quella biblica

GIORGIO BUCELLATI:
Questo modo di vedere che ho cominciato ad atteggiare io e che ha così bene puntualizzato Don Ignacio, è da questa grande archè, l’inizio, che siamo tentati a tutt’oggi di mutuare il modo di concepire l’origine, l’inizio e la causa del male. In Mesopotamia il male è semplicemente una nuova forma della realtà, una modalità del divenire inteso, per l’appunto, come tramutarsi. Dopo l’inizio che abbiamo letto qui sopra, il poema della creazione passa subito a descrivere, l’aveva accennato anche Don Ignacio, come gli dei primordiali crescano e si moltiplichino fino a che, diventati troppo numerosi, producono un tale rumore da disturbare profondamente gli dei primordiali. Il rumore, concepito come lo sbocco inevitabile dello sviluppo, è l’immagine del male. Non è quindi il male contrapposto al bene, in Mesopotamia, secondo un modello dualistico, ma non è neanche la rovina del male. Invece il male è iscritto, in maniera intrinseca ed essenziale, nella modalità di un divenire che non ha inizio, come abbiamo visto, e quindi di un tramutarsi omeostatico o possiamo dire entropico, avviarsi verso il disordine. Il male è un aspetto insito nel concetto stesso di progresso, non è mai il male visto come una scelta consapevole, risultante da un peccato che si oppone ad una volontà di bene. Perciò stesso il male non è di per sé un problema, se vi è un conflitto, è un conflitto nel senso eracliteo che il conflitto sia il padre di tutte le cose. Questo vuol dire, in quest’ottica, che il progressivo polarizzarsi o tramutarsi o morfizzarsi è il motore del progresso. Se poi parte di questo progresso comporta un risvolto negativo, ciò non deve indurci a prendere posizione. La realtà si sviluppa, progredisce, non perché sia avviata verso una meta, ma perché sottosta a procedimenti di differenziazione, dove il differenziarsi vuol dire che un elemento sviluppa caratteristiche sue proprie come il rumore. Il senso di meta, di traguardo è correlativo a quello di inizio e, se manca l’inizio, manca anche la destinazione. Il progresso in un’ottica mesopotamica e, capirete, moderna non è una traiettoria. La nozione di teodicea, di giustificazione di dio nonostante il male, è perciò ben lontana dalla sensibilità mesopotamica. L’esistenza del male non getta alcuna ombra sulla loro percezione dell’assoluto. Per esempio, si è ben consapevoli del fatto che la violenza della guerra è un male, ma gli viene attribuito uno statuto divino analogo a ogni altro evento e qualità. Così un mito molto tardo per gli standard mesopotamici, cioè verso l’800 avanti Cristo, il mito di Erra descrive in maniera appassionata la tragicità delle invasione nemiche, delle distruzioni, dei massacri, ma risolve il problema identificando la violenza stessa come una divinità che si alterna alle altre, senza alcuna spaccatura della realtà in due singole dimensioni antitetiche del bene e del male. In sostanza, dunque, il male e il bene convivono nella realtà e direi che per i mesopotamici la realtà non è né positiva né negativa, è neutra. È in fondo una forma di relativismo per cui si prende la posizione di non prendere posizione, e non siamo anche qui vicini a quella parte della modernità, per non dire del post-moderno, che vuole in sostanza ignorare il senso e il dovere della responsabilità delle proprie scelte?

IGNACIO CARBAJOSA PEREZ:

Israele, come del resto tutte le culture vicine, sperimenta la presenza ineluttabile del male nella sua vita quotidiana, nella forma di malattie o sofferenze del corpo, disastri naturali, violenze, oppressioni subite da altre nazioni, cattiveria nel cuore dell’uomo e perfino nel seno del popolo eletto. Il peccato del grande re Davide rimane paradigmatico in questo senso: Israele non può eludere la domanda: “che cosa è il male? Qual è la sua origine?”. Nonostante l’esperienza naturale potrebbe suggerire un’altra cosa Israele difende accanitamente l’esistenza di un unico principio creatore: il Dio Buono e che il male non è un principio assoluto in lotta con Dio. La letteratura biblica si trova dunque agli antipodi delle culture dualistiche o manicheistiche che descrivono la realtà come la lotta del principio del bene e quello del male, ma è antitetica anche rispetto alle culture mesopotamiche che concepiscono il male come parte intrinseca del reale, conseguenza inevitabile della convivenza stretta delle idee. Ma se il male non è un principio assoluto in lotta con Dio allora si potrebbe pensare che sia stato Dio stesso a crearlo. Tuttavia il libro della Genesi scarta anche questa opzione, quando finisce l’opera della creazione il giudizio su di essa è chiaro: “Dio vide quanto aveva fatto ed, ecco, era cosa molto buona”. Nel progetto della creazione non c’è spazio per il male. Davanti all’incombenza del male questa accanita affermazione della realtà come positiva, come buona, denota l’originalità di Israele e fa delle pagine della Bibbia in cui si trova un tesoro per tutta l’umanità. Se Dio è buono, se tutto quanto Lui ha creato è buono, allora da dove viene il male? Ecco che davanti all’esperienza della bontà di Dio, che nella storia ha accompagnato e difeso il suo popolo, Israele si pone come problema la presenza del male. No è forse il male un’obiezione alla bontà divina? Il grande scrittore inglese C.S. Lewis ha capito bene la natura di tale obiezione e ha colto la novità che la storia giudeo-cristiana introduce a riguardo del problema del dolore dice così nella sua opera Il problema della sofferenza: “In un certo senso il Cristianesimo – in realtà si potrebbe già dire dell’esperienza di Israele – non risolve, ma piuttosto crea il problema della sofferenza, dato che questa non sarebbe un problema se insieme all’esperienza quotidiana di un mondo di dolore non avessimo ricevuto la sufficiente garanzia che la realtà ultima è giusta e amorevole”. Nella letteratura biblica la domanda sul male si fa incalzante nel libro di Giobbe, nel Dramma dell’Uomo di Uz, l’esperienza del male fisico e la domanda riguardo alla responsabilità morale diventa obiezione aperta alla bontà della creazione e del suo disegno ultimo. La non censura di questa domanda e la stessa presenza di libri come Giobbe e Qoelet, nel canone dell’Antico Testamento, è cifra della verità e grandezza dell’esperienza del popolo eletto e resta come fondamento di una teodicea non ridotta, quella occidentale. Ma non è soltanto l’ambiente culturale mesopotamico quello che mette Israele davanti a certe domande, più avanti nella sua storia è proprio nel confronto con la cultura greca allora dominante che l’Israele della diaspora in Alessandria deve affrontare l’obiezione rappresentata dall’atteggiamento edonista o scettico davanti al reale. Gli ebrei affermano che c’è un unico Dio creatore dei cieli e della terra e sostengono che è buono. Così come è buono tutto quanto ha creato. Allora, direbbe un greco “Perché esiste la morte? Perché tutto finisce nel nulla?”. Nel capitolo secondo del libro della Sapienza, è il rappresentante della cultura greca che prende la parola e dice così: “la nostra vita è breve e triste non c’è rimedio quando l’uomo muore e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati. Su godiamoci bene il presente, facciamo uso delle creature con ardore giovanile.”. L’obiezione della cultura greca spinge Israele ad una nuova affermazione più cosciente della sua fede nella creazione e nella bontà del creatore avvicinandosi così all’affermazione dell’immortalità dell’anima. Risponde così Israele, nel libro della Sapienza: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza. Le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra perché la giustizia è immortale.”. Se non è stato Dio a creare la morte, se tutte le creature sono sane, da dove proviene il male? Arriviamo così alla proposta esplicativa del male propria di Israele. Ancora sul libro della Sapienza: “Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità, lo fece a immagine della propria natura ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono.”. L’affermazione del libro della Sapienza, la morte è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo, dipende dal racconto del terzo capitolo della Genesi, quello conosciuto di Adamo ed Eva nel Paradiso. Torniamo così al confronto col mondo mesopotamico. Quando comincia questo racconto la creazione è già conclusa, tutti gli elementi della natura che conosciamo in virtù della nostra esperienza sono già presenti. Quello che si inizia a descrivere in questo terzo capitolo è qualcosa che concerne le origini storiche dell’umanità ma non il creato così come esso è stato plasmato dalle mani di Dio. Il male è entrato nel mondo per via della libertà dell’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio, come uomo e donna. L’essere umano dipende da Dio e in questa dipendenza trova la sua libertà, è l’unica creatura cui è stato dato il dono della coscienza della libertà, questa ultima rivolta a una affermazione amorosa del legame con Dio. Non c’è amore senza libertà. Il male è entrato nel mondo tramite un gesto storico di affermazione della propria individualità e di rifiuto della dipendenza divina. Il racconto di Genesi 3, nella forma di una finzione letteraria contiene tutti gli elementi di questo dramma, il quale è entrato nella storia in virtù di un atto di quella stessa libertà che è necessaria per amare. Con la trasgressione del divieto di mangiare dell’albero, che esprime la dipendenza divina, l’uomo introduce il disordine nel mondo secondo tutte le sue espressioni, percezione di Dio come nemico, infatti Adamo si nasconde quando sente la presenza di Dio nel giardino, rapporto dialettico tra uomo e donna, fatica del lavoro, rapporto problematico con la realtà, cacciata dal Paradiso. Proprio perché Dio ha creato l’uomo libero per amare, libero per prendere coscienza della creazione e lodare il suo creatore, il rifiuto e la ribellione contro la dipendenza divina e dunque l’affermazione di sé, è percepito come peccato, offesa a Dio. Questa è un’altra grande novità che l’esperienza di Israele introduce nel mondo religioso. L’uomo è responsabile dei suoi atti e ne è responsabile davanti a Dio. Stupisce vedere nella letteratura biblica la coscienza che aveva Israele del suo peccato rispetto a Dio. Mentre tanta letteratura dei popoli vicini è fatta per innalzare i propri sovrani e la propria nazione, in proporzione i propri dei, la Bibbia non smette di raccontare i delitti ed i peccati dei suoi re a cominciare dai più grandi, Davide e Salomone. Ma ancora di più colpisce l’atteggiamento di uno di questi monarchi, Davide, che si rivolge a Dio pentito del suo crimine. Pensiamo al valore che avrebbe l’adulterio commesso da un re capriccioso nelle culture vicine, niente. Dice così Davide: “Pietà di me o Dio secondo la tua misericordia. Nella tua grande bontà cancella il mio peccato, lavami di tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato.”. La misericordia divina riapre la partita, il perdono ricostruisce un rapporto che sorprendentemente si fa più certo e cosciente quando la misericordia divina viene incontro al peccato dell’uomo, così neppure il male dell’uomo ha l’ultima parola.

MODERATORE:

E che rapporto con la realtà si genera dunque alla luce di questa origine, alla luce di questo affronto del male, che rapporto con il reale nasce all’interno delle due tradizioni?

GIORGIO BUCCELLATI:

In Mesopotamia l’assioma fondante è che la realtà è prevedibile nella sua totalità. Ciò non vuol dire che di fatto pre-vediamo in anticipo tutto quello che può succedere. Il concetto di prevedibilità si riferisce invece alla natura stessa della realtà concepita come geneticamente passibile di essere compresa all’interno delle nostre categorie mentali. L’Assoluto stesso è dunque prevedibile in questo senso e categorizzabile nella sua interezza anche se di fatto larghe zone del suo interno ci possono ancora sfuggire per ora. È questo il grande afflato intellettuale e spirituale della divinazione, come l’astrologia o l’epatoscopia, che sarebbe lo studio dei movimenti dei fegati animali dopo la macellazione sacrificale. La divinazione è profondamente radicata nell’ethos mesopotamico ed è una pratica che non dobbiamo vedere come una mera forma di superstizioni invece come uno sforzo molto serio, scientifico di annoverare e categorizzare tutti i possibili fenomeni per leggervi una narrativa. Ne derivano due importanti conseguenze: la prima è la correlazione fra prevedibilità e controllo, il fato e il destino sono progressivamente aperti alla nostra indagine senza alcun salto di qualità. Siamo, noi esseri umani, testimoni di un inarrestabile progresso che la nostra analisi riesce a comprendere, ad esplicare in maniera sempre più esplicita. E, in tal modo, riusciamo ad allargare indefinitamente la nostra conoscenza della realtà, senza limiti di natura e solo invece di scalarità, cioè di gradini che ci permettono di acquisire come nostro ogni nuovo orizzonte. Nella misura in cui superiamo un gradino dopo l’altro accumuliamo una capacità sempre più vasta e più sicura di controllo sulla realtà. La divinazione mesopotamica si fonda precisamente su un metodico processo di acquisizione di dati, durata secoli e millenni, in effetti, con una accuratissima categorizzazione che nel caso per esempio delle osservazioni sui corpi celesti, rimane tutt’oggi operativa. La seconda osservazione si riferisce alla frammentazione concettuale del reale. Se non vi sono limiti alla capacità umana di impadronirsi del reale è per la convinzione che possiamo ridurre tutto, compreso l’assoluto, alle sue componenti fondamentali anche quelle più atomisticamente minute. Il motore intellettuale del politeismo in genere, il politeismo che è ben documentato in Mesopotamia per la prima volta nella storia del mondo, sta proprio in questo, proporre un Assoluto polimorfo,dove ogni aspetto assorbe in sè in maniera esclusiva un’unica dimensione del reale e ne diventa un’icona monodimensionale. La saggezza, divinizzata, esclude la forza. L’amore esclude la giustizia, e così via. È così che gli dei non sono affatto antropomorfici, hanno sembianze umane ma solo nel senso, in un senso del tutto metaforico. La loro morfee, la loro forma propria, è invece l’ipostasi di singole qualità umane avulse da ogni integrazione basata sull’unità centrale dell’io, tutta la saggezza, la giustizia, la violenza ecc. ma di per se stessa, non integrate fra di loro, rinunciando quindi anche qui a ogni senso e dovere di responsabilità. In tal modo il politeismo impone una sua configurazione intellettuale sulla realtà. L’assoluto non è un punto di origine e di riferimento per sua natura stessa imprevedibile, non è, come lo è nella visione biblica, un Dio vivente. Vedete come acquista un gran senso questo termine, dico. Non ci si può aspettare che Dio parli, che Dio voglia, che Dio agisca. Non così in Mesopotamia, gli dei sono le nostre categorie mentali, ed è solo così che nell’ottica mesopotamica la realtà è dopo tutto positiva. Non perché lo sia di sua natura, non perché scaturisca da un assoluto che voglia condividere la sua natura con noi e non perché ci sia una volontà iniziale che assegna uno scopo agli esseri umani, ma, perché, siamo noi a configurarla. Il male, il negativo come tutto il resto è una tessera nel mosaico d’insieme che stiamo ricostruendo con la nostra capacità analitica. Ed è questa visione delle cose che attraverso i secoli abbiamo ereditato e continuiamo a fare nostra, nella misura in cui non facciamo nostra l’alternativa proposta con forza e coerenza dalla visione biblica delle cose.

IGNACIO CARBAJOSA PEREZ:

Quale rapporto dunque con la realtà per Israele? Detto in un altro modo: da dove nasce quella percezione positiva del reale? L’origine di Israele e dunque della sua percezione del reale radica in un avvenimento ubicato nella storia, la conversione di Abramo. È questo un dato rilevante visto che le civiltà del territorio circostante fanno risalire le loro origini a un tempo mitico originario. In fondo, per queste civiltà, non ha senso parlare di storia o di tempo. I racconti mitologici dei popoli situati in prossimità di Israele, descrivono l’origine e l’andamento della realtà così com’essa è, com’è stata e come sarà. Gli dei sono fuori dal tempo e dalla storia, non intervengono in essa. Israele invece legandosi al Dio di Abramo rifiuta un tempo cosmico fuori dalla storia come origine del Dio che serve. Al posto di risalire a un tempo mitico originario, che darebbe prestigio alla religione di Israele, la Bibbia pone le fondamenta dal rapporto tra Dio e il suo popolo in una storia, quella della chiamata di Dio a un politeista, Abramo, in un tempo, il secondo millennio avanti Cristo, in un luogo, Ur Dei Caldei. Il Mistero sceglie una storia, privilegia un rapporto, un dialogo e fa conoscere la sua volontà, manifesta un volere imprevedibile, imprevedibile perché manifesta una volontà. Come la donna è imprevedibile per l’uomo e l’uomo per la donna. E anche logos Dio. Ma è sempre imprevedibile perché ha una sua volontà. Da allora il rapporto col Mistero non poggerà più sull’appropriazione razionale dei meccanismi della natura ma sull’obbedienza a quella voce che invita a mettersi in moto cioè a fidarsi, a uscire da se stessi e sostare, riposare su un Altro. Abramo è invitato ad abbandonare la sua casa e ad andare verso una terra sconosciuta. In forza di un avvenimento storico, la rivelazione di Dio che diventa un Tu concreto e misterioso allo stesso tempo, Abramo si abbandona fiducioso in un futuro imprevedibile, va. Al contrario di quello che abbiamo visto in Mesopotamia, qui è veramente possibile parlare di rivelazione e di rapporto uomo Dio. L’imprevedibile intervento di Dio nella storia configura il volto di Abramo, genera un soggetto nuovo. Detto in parole del nostro caro Don Giussani: “con Abramo avviene la nascita dell’io.”. Da allora Abramo capisce che la sua persona è rapporto col Mistero che lo chiama, la sua autocoscienza è tutta determinata dalla dipendenza e appartenenza al Dio delle promesse. Senza questo avvenimento storico, in cui il Mistero entra in dialogo con l’uomo, quest’ultimo resterebbe, come abbiamo visto, intrappolato nel tentativo di controllare quanto è prevedibile. Con la chiamata di Abramo, la vita è concepita come vocazione, come apertura a un Tu misterioso che ha una volontà, come rapporto, come dialogo. E con la vocazione viene dato un compito, così in Genesi 12: “Il Signore disse ad Abramo:” Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre verso il paese che Io ti indicherò.”. La vita diventa compito, con la prima parola rivolta ad Abramo la sua vita viene indirizzata, si attua in un compito che esprime il suo rapporto col Mistero. In questo momento comincia una storia. Il compito di Abramo è responsabilità, risposta alla chiamata, al dialogo che Dio ha incominciato con lui. La forma della vocazione è la promessa “Farò di te un grande popolo e ti benedirò. Renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione.”. Si scatena così una dinamica di attesa e compimento che segna la vita di Abramo e del popolo da lui nato. La promessa rimanda a un’attesa e ad una verifica nella storia. Il compimento delle promesse nella storia non fa altro che accrescere un rapporto di cui Israele è ogni volta più certo. Il racconto della vocazione di Abramo segna la concezione della storia che ha Israele. La promessa e la verifica dell’attesa di compimento, che questa implica, stabiliscono una linea protesa al futuro. La storia descritta come un processo lineare che va alla ricerca del compimento sempre nuovo delle antiche promesse, si rompe così la concezione ciclica della storia che domina nei popoli che circondano Israele, una concezione in cui non c’è spazio per la novità e per l’avvenimento. La stessa natura con i suoi cicli che sempre ritornano, le stagioni, i raccolti, la vita e la morte, i cicli della donna, favorivano quella concezione. Soltanto l’irrompere di Dio nel tempo, assegnando un compito e facendo una promessa, è in grado di rompere tale dinamica e di introdurre il primo capitolo di una storia che si protende in avanti linearmente. Si tratta di un’unica storia universale con due protagonisti fondamentali, Dio, che sceglie un popolo tra i popoli che ha una sua volontà e la esprime e Israele, che gioca il ruolo di interlocutore di Dio a nome e a favore di tutte le nazioni. In queste interlocuzioni, l’iniziativa è sempre della parola di Dio che interviene liberamente sollecitando la libertà dell’uomo. La storia di questo intervento, che è un dialogo, costituisce il cuore della storia dell’umanità oltre le apparenze. Il resto della storia paradossalmente non sono che storie che si muovono alla periferia. L’intervento di Dio nella storia a partire dalla chiamata di Abramo ha chiarito il volto dell’uomo e quello della realtà. Il popolo di Israele è stato scelto per portare alle nazioni questo ultimo giudizio sul reale. Tutto è buono perché tutto è creato dal Dio che ha mostrato la sua misericordia nella storia.

GIORGIO BUCCELLATI:

Non abbiamo ancora finito!
Dovete lasciarmi tirare anche le mie conclusioni, un pochino lo ha già fatto Don Ignacio. Come vi ho detto, non c’era nessun chiaro-scuro, il contrasto tra le due ottiche è assolutamente radicale. Un forte bianco e nero. Lo era 4000 anni fa, anche 5000, tra la Mesopotamia e poi nell’Antico Testamento, lo era 2000 anni fa tra l’ellenismo e il cristianesimo e lo è oggi tra le due modernità, le due pretese. La modernità omeostatica ed entropica, se volete, cioè avulsa dal divenire di matrice mesopotamica tutt’ora, e la modernità creaturale e tendente ad un fine che nel divenire è invece immersa, che è quella di matrice biblica. Il quadro che vi ho mostrato riguarda, sì, la Mesopotamia, ma riguarda dunque anche noi direttamente. È un’esperienza umana, remota, interrotta da secoli in cui non fu più vissuta, eppure drammaticamente vicina, la primissima che ha formulato schemi mentali dai quali noi siamo tutt’ora profondamente condizionati. Possiamo capire meglio tutto questo in conclusione, inquadrando il significato di quanto siamo venuti dicendo, all’interno del tema centrale di questo meeting. Vedete che conoscete così bene ormai. Vedete, la Mesopotamia, tanto quanto la modernità omeostatica, secolare se volete, ci dicono, sentite bene, che la natura dell’uomo non è un rapporto con l’infinito, non è. Nella seduta inaugurale di domenica, Emilia Guarnieri ha precisato il senso di questo tema centrale dicendo che nel meeting si intende parlare di un rapporto non generico. Ecco possiamo dire che la Mesopotamia tanto quanto la modernità omeostatica ci propongono al massimo, un rapporto generico con l’Assoluto, con l’Infinito.
Un rapporto così generico da non essere più propriamente parlando un rapporto, un confronto, un incontro. Pensate, nella modernità, nella Mesopotamia e nella modernità omeostatica, siamo anche noi moderni, parlano di vocazione, diceva appena adesso anche Don Ignacio, noi esseri umani all’interno di una realtà progressivamente morfizzantesi, ci auto chiamiamo, per così dire. La modernità creaturale, invece, quella del meeting, presuppone in maniera molto profonda un essere chiamati e quindi un rapporto, un confronto con un Assoluto, un Infinito che chiama, che è presente, un confronto che nel cristianesimo fa venire i brividi perché si erige allo statuto massimo di vero e proprio evento assoluto quando si realizza nell’incontro più possibilmente, forse più impassibilmente, toccante, personale, concreto, magister adest et vocat te.

DAVIDE PERILLO:

Grazie. Siamo tutti grati al professor Buccellati e al professor Carbajosa, grati e si vede. Grati perché si è capito molto bene che a un certo punto nella storia c’è una linea di confine netta, precisa. Dio sceglie, interviene, sceglie. E cambia tutto. Cambia come è venuto fuori con molta chiarezza la nostra concezione al rapporto con la realtà, al perdono, al peccato, all’idea del male, cambia la coscienza che avevamo di noi stessi. Ma questo fa emergere con ancora più nettezza e chiarezza e anche di questo sono personalmente gratissimo ai nostri interlocutori, che c’è come un’altra linea di frattura sottile che riguarda ogni nostra giornata, perché quella che sta tra lo stupore, la meraviglia carica di sorprese e di attesa perché la realtà c’è, o il tentativo in qualche modo di controllarla, di riportarla nelle categorie nostre, di manipolarla. La tentazione che abbiamo un po’ tutti, appunto, è di essere mesopotamici. Siamo tutti un po’, siamo tutti molto mesopotamici. E allora questa alternativa tra lo stupore perché la realtà c’è ed è carica di promessa o il tentativo di manipolare la realtà, di ricondurla nelle categorie nostre, di poterla controllare, di non essere debitore nei confronti di nessuno, come diceva il professore, ditemi se non è la domanda, se non è il bivio che ci ritroviamo davanti in ogni giornata, e in ogni istante della giornata. Stupore o potere? E Dio si è fatto carne, ed è rientrato nella storia, è entrato definitivamente nella storia con questa modalità, per sostenerci in questa battaglia. Per sostenere la possibilità di guardare la realtà per quello che è, per mantenere questa apertura, per recuperare di continuo questa apertura. Sono grato ai nostri ospiti perché ci hanno fatto riscoprire la tenerezza con cui Dio guarda all’uomo nei suoi tentativi di comprenderlo e nella sua quotidianità di oggi tanto da farsi compagno di strada, come ci ricordava il Papa nel suo saluto inaugurale del Meeting. Quindi grazie al professor Carbajosa che vi prego di salutare ancora con un applauso caloroso. E grazie di nuovo tantissimo al professor Buccellati di cui per altro è appena uscito questo libro: “Quando in alto i cieli, la spiritualità mesopotamica a confronto con quella biblica” che evidentemente approfondisce lo slalom parallelo che abbiamo fatto oggi. Va fino in fondo, fino al dettaglio del percorso che abbiamo fatto oggi, quindi lo trovate nella libreria del Meeting e evidentemente avrete capito che val la pena assolutamente leggere e studiare fino in fondo. Soprattutto potrete reincontrare il professore alla stessa libreria del meeting, domani, alle 16, dove il professor Buccellati sarà disponibile anche ad autografare delle copie del libro ma soprattutto a proseguire l’incontro che abbiamo iniziato oggi. Grazie ancora a tutti e buon proseguimento.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

21 Agosto 2012

Ora

11:15

Edizione

2012

Luogo

Sala Neri GE
Categoria
Incontri