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E SE SCOPRISSIMO VITA SU ALTRI PIANETI?
Partecipano: Marco Bersanelli, Professore Ordinario di Fisica e Astrofisica all’Università degli Studi di Milano; Costantino Esposito, Professore Ordinario di Storia della Filosofia all’Università “Aldo Moro” di Bari. Introduce Stefano Facchini, Ricercatore all’Istituto Max Planck di Fisica Extraterrestre a Garching, Germania.
E SE SCOPRISSIMO VITA SU ALTRI PIANETI?
Trascrizione non rivista dai relatori
E SE SCOPRISSIMO VITA SU ALTRI PIANETI?
Martedì 21 agosto 2018
ore 1230
Partecipano:
Marco Bersanelli, Professore Ordinario di Fisica e Astrofisica all’Università degli Studi di Mila-no;Costantino Esposito, Professore Ordinario di Storia della Filosofia all’Università “Aldo Moro” di Bari.
Introduce:
Stefano Facchini, Ricercatore all’Istituto Max Planck di Fisica Extraterrestre, Garching, Germania
STEFANO FACCHINI
Buongiorno a tutti e benvenuti ad un altro degli incontri di questo spazio, lo spazio expoplanet, nuove terre in esplorate, l’antico mistero della vita. Questo è il quarto di una lunga serie di incontri che ci sarà per tutta la settimana, circa due al giorno. Oggi il tema che affrontiamo ha il seguente titolo: e se scoprissimo vita su altri pianeti? Ed è evidentemente un titolo che è interrogatorio e prima di introdurre i relatori di oggi molto velocemente per chi non avesse ancora visto lo spazio dico due dei dati scientifici che riportiamo nella presentazione che svolgiamo qua ogni ora. Innanzitutto una delle grandi rivoluzioni nel campo dell’astrofisica negli ultimi 20 anni, in particolare dal 1995 è che per la prima volta l’uomo è in grado di vendere pianeti, mondi che orbitano intorno ad altre stelle che non siamo il sole, che non siano la nostra stella.
Per millenni e secoli gli unici sistemi a cui l’uomo ha avuto accesso, innanzitutto con gli occhi, poi con i telescopi erano i pianeti del sistema solare. Da quella scoperta del 1995 è stato un susseguirsi di osservazioni che testimoniano che in media ogni stella della nostra galassia possiede all’incirca un pianeta, in media. E quindi il numero di pianeti diventa incalcolabile, soltanto nella nostra galassia ci sono circa 200 miliardi di stelle e la nostra galassia è una di miliardi di galassie. Questo è il primo punto. Il secondo, che è legato a questo è legato al tema dell’origine della vita, ed è un’altra scoperta di questi ultimi decenni, e alcune di questi ultimi anni proprio ultimi due anni ed è che se osserviamo regioni in cui in questo momento si stanno formando pianeti, o andiamo ad osservare materiale primitivo del nostro sistema solare, di quando la terra stessa si è formato, come le comete o dei meteoriti, su questi stessi osserviamo dei piccoli frammenti, ad esempio di dna, base azotate, o aminoacidi, cioè l’universo per come è costituito, per le leggi che lo regolano fa sì che si arrivi ad una complessità chimica, automaticamente, autonomamente meglio, che sono i primissimi mattoni di una complessità molto più avanzata che può essere la vita, che è la vita. Come questo avvenga è ancora da scoprire ma ne parleremo sicuramente penso anche oggi. Per aiutarci in quello che oggi sarà un dialogo per cui nella seconda parte dell’incontro sarà possibile fare domande, e verrete qui fuori a farle, abbiamo due amici, che sono Marco Bersanelli e Costantino Esposito, che sono, uno dei due, Marco, astrofisico e un filosofo, ovvero con back ground diversi ma credo che questa combinazione sia ottimale per dialogare su alcune delle domande che questi dati che ho detto evocano e pongono.
Per iniziare l’incontro pongo due grandi temi e poi su questo discutiamo assieme: il primo è questo ed è una delle cose che più mi ha colpito preparando questa mostra e questo spazio, ed è: perché ci interessa così tanto sapere se nell’universo c’è altra vita? Perché ci interessa così tanto sapere se siamo soli nel cosmo o no? A quale esigenza umana si collega questa curiosità, questa forza, usando un termine che riecheggia il titolo di questo Meeting, e che cosa dice dell’uomo la presenza stessa di questa domanda nel suo cuore che guida la ricerca scientifica presentata qua? Questo è il primo grande tema. Il secondo grande tema è che il numero esorbitante di pianeti scoperti inizia a porre come possibilità, anche se non sappiamo quanto probabile, il fatto che forse nel cosmo e nell’universo ci sia veramente altra vita, e osando perché no, forse vita autocosciente, anche se non c’è nessuna evidenza scientifica di questo. Davanti a questa ipotesi, in me, ma in altri, è come se emergesse una sorta di vertigine, vertigine per il fatto che per la prima volta nella storia sorge l’ipotesi dovuta a dei dati scientifici nuovi, sorge l’ipotesi che dell’altra vita non sia solo magari fantascienza in altri luoghi, ma possa un giorno diventare un’evidenza, ripeto ancora è un’ipotesi. E questo in qualche modo è vertiginoso perché appunto per la prima volta potrebbe essere che non siamo soli nel cosmo ed è vertiginoso e quasi fastidioso per alcuni perché sembra minare quella che è una assunzione che quasi inconsciamente noi abbiamo, il fatto di essere soli. Io penso che leghiamo questa assunzione di unicità come ad un sentore, un sentimento di preferenza, ma io mi chiedo, è veramente così? Se l’uomo scoprisse vita come questo andrebbe a cambiare, inficiare, determinare il sentimento che noi abbiamo di noi stessi? Per cui partiamo a dialogare su questi temi, un avviso che mi hanno detto di dare, per chi volesse una traduzione in inglese in fondo al desk, ci sono dei traduttori con delle radioline. Il primo a intervenire sarà Marco, prego.
MARCO BERSANELLI
Grazie, allora innanzitutto vorrei dire che questa osservazione che ha fatto Stefano prima è davve-ro interessante, cioè il fatto che noi non solo vediamo che ci sono tanti pianeti, moltissimi, un nu-mero incalcolabile di pianeti in ogni galassia, ma il secondo aspetto che lui ha citato, è anche molto importante, cioè che ci rendiamo conto che le prime emergenze di complessità a livello chimico sono diffuse, non sono speciali del nostro ambiente locale terrestre, ma hanno la proprietà di essere diffuse su larga scala. E io vorrei un attimo innanzitutto insistere su questo dicendo che questo tipo di situazione la possiamo ulteriormente allargare perché non solo gli aminoacidi e le basi azotate sono essenziali per la vita, ma anche per esempio il carbonio e l’ossigeno che sono il mattone con cui sono costruite queste basi azotate e questi aminoacidi. E proprio dall’astrofisica, dalla conoscenza delle leggi della natura abbiamo imparato che il carbonio non è una cosa scontata, il carbonio esiste perché nelle stelle, nel cuore delle stelle più calde avvengono delle reazioni termo nucleari che producono il carbonio e producono l’ossigeno. Tra l’altro il carbonio viene prodotto all’interno delle stelle quasi con un gioco di prestigio della natura, la reazione 3 alfa che si studia diciamo nella fisica stellare ci fa vedere che affinchè il carbonio esista devono giocare insieme diciamo molte leggi della natura legate fra loro in modo estremamente sottile. Per formare un nucleo di carbonio occorre formare un nucleo instabile di berillio, che nei 10 alla meno 16 della sua esistenza, cioè un milionesimo di un milionesimo di secondo deve incontrare un terzo nucleo di elio, dopo i primi due che hanno formato il berillio, a formare il carbonio. E questo è una strettoia pazzesca attraverso la quale l’universo è ospitale alla vita, perché dal carbonio si formano le basi azotate e gli aminoacidi. Ma questo processo non è che è avvenuto solo qui nell’universo, è avvenuto, avviene su larga scala, tutto l’universo che misuriamo con dimensioni di miliardi di anni luce, contiene carbonio, contiene ossigeno. Ma non solo questo, l’elenco sarebbe lunghissimo, ma la struttura stessa dell’universo, l’esistenza delle stelle, del sole e delle altre stelle che hanno prodotto il carbonio che rendono possibile un ambiente capace di accompagnare la vita, queste nascono da condizioni iniziali dell’universo che noi siamo oggi in grado di misurare e di rivedere molto precisamente che ci portano a 13,8 miliardi di anni fa, quando in questo mare incandescente che era l’universo si incominciano a muovere quelle lievi disomogeneità, quei semi gravitazionali che hanno prodotto le galassie, le stelle e hanno reso possibile tutto questo. Potrei andare avanti a lungo, ma è interessante che oggi appunti ci rendiamo conto che anche il primo step di complessità prebiotico è qualcosa di diffuso nell’universo, quindi diciamo possiamo dire che il cosmo nel suo insieme si presenta sempre di più all’indagine come un ambiente ospitale alla vita. Allora una potrebbe concludere che la vita deve essere qualcosa di ovviamente diffuso in tutta la vastità dell’universo, in realtà non siamo in grado di dare questo tipo di affermazione, principalmente per due motivi, uno è che il nostro pianeta in mezza a miliardi di pianeti, è comunque certamente un pianeta molto particolare, non possiamo dire unico ma è sicuramente molto particolare, quanto particolare dobbiamo ancora capirlo. Ma certamente non basta avere una massa simile alla terra o una atmosfera iniziale simile alla terra per rendere un pianeta come la terra, quindi questo è un aspetto. C’è un aspetto che già sottolineava Stefano che viene ben sottolineato in questa proposta di questo spazio che è la nostra grande ignoranza tra il passaggio tra il non vivente e il vivente. Se noi rifacessimo andare avanti il film della storia della terra, del nostro pianeta, cento volte noi non sappiamo quante volte vedremmo ricomparire la vita, non lo sappiamo. Ed è una domanda interessantissima che si pone oggi al centro dell’indagine scientifica. Quindi è bello anche riconoscere di essere davanti a questa incapacità di rispondere, ma come diceva Stefano la questione è talmente interessante, intrigante che la maggior parte anche degli scienziati, anche delle persone che si occupano di queste cose, tende a prendere posizione, tende a scommettere che le cose stiano in un modo o nell’altro. Per esempio, faccio solo un paio di esempio prendendo due figure di alto profilo, uno è Christian De Duve, chimico biochimico belga premio Nobel il quale riteneva chela vita effettivamente si è diffusa nell’universo. Lui diceva: “sono convinto che la vita debba accadere, diciamo, ovunque le condizioni lo rendano possibile.” E definiva la vita come un cosmic imperative, un imperativo cosmico, la vita è qualcosa che accade in modo naturale dovunque ci siano condizioni minimalmente compatibili con la sua comparsa. In modo diametralmente opposto un altro scienziato molto famoso, anche lui premio Nobel, un biologo, Jacques Monod, noto per la sua vi-sione a-finalistica dell’universo, atea dell’universo, completamente atea dell’universo, ecco lui in-vece era convinto dell’unicità del fenomeno vita, perché anticipo qualcosa che poi accennerò fra un attimo, il tema della preferenza che dicevi tu, non è necessariamente la conclusione che uno trae dall’idea che siamo solo noi nell’universo. Per esempio Monod coglie in questo l’assoluto non senso, perché lui dice: “l’uomo finalmente sa di essere solo nella immensità unfeeling, indifferen-te, nella indifferente immensità dell’universo, dalla quale la vita e l’uomo sono emersi per pura casualità”. Uno scherzo della natura, contrapposto all’imperativo cosmico di De Duve, che dice: “la vita fa parte del piano della natura e deve avvenire ovunque”. Quindi vedete queste due posizioni molto diverse. Trovo particolarmente geniale, sempre, attenzione senza avere nessun fondamento scientifico, nell’uno e nell’altro caso perché ancora oggi noi siamo totalmente ignoranti, non siamo in grado neanche di dare una stima di probabilità, perché le incertezze sui passi sono talmente grandi che non ce lo consentono. Trovo invece particolarmente geniale una osservazione non di uno scienziato, ma di Arthur C. Clarke, il famoso autore del libro “2001, odissea nello spazio”, osservazione in chiave negativa, ma secondo me aiuta a capire qual è l’enormità della questione e la chiave di lettura della questione, della domanda che poneva Stefano prima, di fronte a questi temi. Lui dice – è un po’ ironica, ma negativa: “esistono solo due possibilità, evidentemente. O siamo soli nell’universo, oppure entrambe le possibilità le trovo “terrifying”, terrificanti.” Pensare di essere in compagnia di una non meglio precisata schiera di altri esseri viventi ovunque nell’universo ci dà questa vertigine. Ma anche essere solo noi, questa immensità – come la chiamava Monod – indifferente, può avere i connotati di qualcosa di vertiginoso e di terribile. Trovo interessante questa osservazione di Clarke, perché mi sembra che la questione diventi questa: esiste qualcosa che rende la vita, la nostra vita, non terribile ma positiva, nell’uno o nell’altro caso? Esiste qualcosa per cui possiamo dire oggi con certezza, con pace: “la vita è positiva”? Questa è la domanda, perché è talmente grande l’ignoto che queste domande aprono, che in assenza di questa esperienza positiva presente del vivere, siamo come smarriti, nell’uno o nell’altro caso. E credo che sia veramente una questione di preferenza, questa parola magnifica. E credo che la preferenza abbia a che fare con la unicità della persona. Con l’unicità dell’io, perché se noi guardiamo l’esperienza dell’essere preferiti, ci rendiamo conto che questa non è indebolita dalla presenza di altri. Il figlio si sente preferito se è figlio unico e se si è in dodici. Questa è l’esperienza che dobbiamo avere sotto gli occhi, secondo me, per guardare in serenità e libertà le grandi domande che oggi la scienza ci pone. L’esperienza positiva del vivere e il vivere umano, è essere preferiti come persona, come unico e irripetibile essere autocosciente, che è il mio io, il mio io, il tuo io. La dignità della persona, quindi dell’uomo, non è riconducibile a un parametro misurabile, non si diluisce nel numero, casomai queste domande che la scienza si sta ponendo, credo, ci invitano ad approfondire la coscienza di quello che è il valore irriducibile della persona, dell’io. Mi permetto di leggere una frase, che viene da Giussani, perché per me questa è uno di quei punti di sguardo che sempre mi hanno accompagnato in questo tipo di riflessione. Giussani per me è stato ed è una fonte di questo sguardo e ha un valore cosmico. Le sue osservazioni sulla natura dell’io e della vita, credo abbiano la chiarezza di una dimensione cosmica. Dice: “la persona, l’io, sta al di là di tutto ciò che sentiamo, di tutto ciò che fa, della sua stessa fisionomia, delle sue stesse idee. La persona è una cosa così spettacolosa, che nel suo punto inafferrabile e invisibile si specchia tutto l’universo. Pensate come sono piccolo eppure tutte le cose mi si riverberano dentro: le stelle, il lavoro, il pensiero, gli altri; non c’è nessun gesto su cui non gravi la responsabilità dell’universo.” Questa è l’unicità, la preferenza, di cui la singola persona, ciascuno di noi è oggetto. Con questa consapevolezza, guardare oltre l’orizzonte del già noto è possibile con una autentica libertà, con un non-timore, un non-preconcetto. La realtà creata è qualcosa che è buono, l’abbiamo sentito nell’incontro su Giobbe di ieri, “e vide che era cosa buona”. Ogni cosa creata è buona. Questo ci fa guardare con fiducia, con libertà, con curiosità aperta gli orizzonti che ancora ci stanno davanti.
STEFANO FACCHINI
Grazie, Marco
COSTANTINO ESPOSITO
Ma, io in realtà dovrei essere seduto lì con voi, perché sono qui solo come un ascoltatore e ho tut-to da imparare da Marco Bersanelli e Stefano Facchini. Lo dico sul serio, e quindi vi dico quello che sto imparando, sentendovi. La prima domanda che tu poni è da dove nasce questa domanda, che sembra un po’ strana, però le cose strane attraggono tanta gente. E’ una domanda che sembrerebbe astratta e inutile, Perché porsi questa domanda? Però è affascinante e giustamente tu dici: come mai? E’ tanto affascinante che anche quelli che lavorano su queste cose non possono, anche se semplicemente sotto forma di un’ipotesi, non prenderla in considerazione. Io parto dall’esperienza della vita che abbiamo e penso che questa domanda non sia da intendersi sempli-cemente come una domanda di fantascienza, perché innanzitutto ci pone una questione. Cosa vuol dire scoprire la vita? O chiedersi dov’è la vita o che cos’è la vita? Io credo che in questo caso la vita non sia soltanto l’oggetto di questa domanda. Una domanda che verte sul tema vita, che cos’è la vita, ma porre questa domanda è il nostro modo di vivere. Cioè noi viviamo non perché ci fermiamo e la teorizziamo, ma in quanto implichiamo nel nostro stare al mondo questa curiosità. Quando uno si innamora e ogni tanto guardando la persona amata dice: “com’è che mi è capitata questa persona?” E’ un esempio. O guarda una cosa bella o tragica nella vita e si trova addosso questa domanda. Cioè non è una domanda formulata teoreticamente, ma è una domanda quasi pre teoretica. Cioè una domanda esistenziale. Ecco, il mio primo punto è questo: che l’origine di questa domanda implica una attenzione non sempre consapevole nello scoprire la vita e questa attenzione nel sapere della vita non è qualche cosa che venga dopo la vita, ma fa parte della vita. Naturalmente qui parliamo della nostra vita, non della vita semplicemente di anonime basi azotate o di plancton, ma di una vita intelligente, di una vita cosciente. Ecco, io non ho altro modo per pensare a questa domanda che partire da come io faccio esperienza della vita. E noi facciamo esperienza della vita domandandoci della vita. Capite? Cioè non è semplicemente quelli che hanno certe domande un po’ strane o a cui piace… non sono solamente i nerds di fisica o gli ossessivi di filosofia, no. Vi invito a pensare che questa curiosità vitale fa parte di qualsiasi gesto della nostra vita. Non è un di più, non è un’aggiunta teoretizzante. Poi ci sono anche tutte le forme teoretiche, ma mi interessa innanzitutto la base azotata della coscienza. E l’aminoacido, per così dire, della coscienza, è questa curiosità a capire di cosa si tratta. E’ questo istinto di conoscenza, è questo istinto razionale, diciamo così, il mattone primordiale del nostro stare al mondo, che è quello che noi agiamo alzandoci ogni mattina. Non quando leggiamo libri sull’origine dell’universo. Quando leggiamo quei libri si esprime in maniera fantastica come coscienza e come esplicitazione quella matrice iniziale, ma il cercare, lo scoprire la vita, è un problema di cui consiste la vita. Potremmo anche dirlo così. Bersanelli, il mio carissimo amico Marco (perché in fondo è nato questo perché siamo amici e parliamo normalmente di queste cose, cioè parliamo di queste cose anche se non ci sono quattrocento persone), ha detto che il punto è di cercare qualche cosa che renda la vita non terribile, ma positiva, cioè un senso della vita. Ma anche qui, il senso della vita è un genitivo sog-gettivo, cioè è il senso che è la vita. Per noi esseri umani, la vita è il senso. Non è qualcosa di amorfo, per cui arriva qualcuno (un filosofo, un prete, un extraterrestre) e ci costruisce su il senso, ma il senso è il nostro modo di vivere. Quindi è un’unità fortissima della nostra base materica e insieme della nostra coscienza. Non sono due cose una attaccata all’altra. Tant’è vero che quando Bersanelli diceva che rimane enigmatico il passaggio dal non vivente al vivente (e lo dice da astrofisico) io, da uno che si occupa di filosofia, dico che su una scala infinitamente all’apparenza più ristretta, lo stesso enigma è nel passaggio dalle reazioni biochimiche alla coscienza nel singolo individuo. Anche lì è un salto straordinario. Ma la vita è esattamente in quel salto. Cioè non è che c’è, almeno per noi esseri umani, la vita che condividiamo con gli altri esseri viventi e poi a un certo punto c’è qualche cosa che altri non hanno. Non funziona così. Perché la nostra stessa base che condividiamo con gli esseri viventi è abitata da questa attesa. E qualcuno, penso ai filosofi della natura del romanticismo, dicevano che la natura è coscienza che deve ancora arrivare alla base della consapevolezza, è spirito inconscio. Invece lo spirito è natura consapevole. Adesso non voglio fare professione di romanticismo filosofico, ma per individuare il problema. Per questo, siccome il mio lavoro è fare lo storico delle idee, lo storico della filosofia, volevo portarvi tre piccole testimonianze dalla filosofia moderna soprattutto. Naturalmente un astrofisico contemporaneo sorriderebbe compiaciuto di come ha progredito la ricerca. Però attenzione, perché certe intuizioni dei pre socratici per esempio, sono valorizzate su basi sperimentali nel nostro mondo, eh! E comunque non arrivo fino ai pre socratici, sebbene appunto alcuni filosofi antichi, Democrito, Epicuro, erano ben disposti ad ammettere che ci fossero altri mondi, altri pianeti abitati. Quelli un po’ più razionali, Platone, Aristotele, no, no, no… è troppo perfetto il cosmo per non essere unico. Ma, voi sapete, per l’uomo Greco il finito è il perfetto, è il compiuto. L’infinito è l’imperfetto perché appunto è indeterminato, non è cosmos, cioè non è misurato, e il cosmos è la misura bella, è la proporzione compiuta che soddisfa il nostro logos. Il cosmos è il logos dell’universo che corrisponde al nostro logos. I rinascimentali diranno: è il macro cosmo che si rispecchia nel micro cosmo. Ma pensiamo ad un autore come Giordano Bruno, programmaticamente anti cristiano. che dice, nel “De infinito universo et mondi” (1584), che necessariamente l’universo implica una infinità di mondi. Perché? Perché l’universo è Dio, e se noi volessimo comprimere in un unico cosmo Dio vorremmo con ciò stesso “finitizzare” l’infinito. Quindi è per un motivo teologico, benché sia una teologia post-cristiana, o anticristiana, no? Ma è questa energia per cui la natura è Dio, e se la natura è il divino, la natura non può essere compressa, non può essere circoscritta, come dice lui, alla “convessitudine di una sfera”, ma è il “termino interminato di cosa interminata”, cioè: il termine, il confine, il limite è per sua natura illimitato. L’unico limite pensabile è illimitato. Miliardi di galassie, no? Sembra lontanissimo Giordano Bruno, no? Però ha l’intuizione che c’è questa espansione che non può essere mai arrestata. Il grande panteista moderno, no? Anche il grande cristiano moderno, Blaise Pascal, è impressionante. Cito dai “Pensieri”, pubblicati postumi nel 1670: “Cos’è un uomo nell’infinito? Un nulla, in confronto con l’infinito, un tutto in confronto al nulla. Qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto. Infinitamente lontano dal comprendere gli estremi, il termine delle cose e il loro principio sono per lui invincibilmente nascosti in un segreto impenetrabile, egualmente incapace di scorgere il nulla da cui è tratto e l’infinito in cui è inghiottito” – era uno scienziato, per altro, Pascal, eh? E poi, sempre dai suoi “Pensieri”, è celeberrima questa frase, però non diamola per scontata, cerchiamo di capirla: “l’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura. Ma è una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo. Un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quando l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di ciò che lo uccide, dal momento che egli sa di morire. E’ il vantaggio che l’universo ha su di lui: l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. La-voriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della moralità”. Mi ha colpito questo, perché Pa-scal coglie veramente il senso – molto cristiano – ancipite della finitezza. La finitezza è sempre as-soluta. Che cosa siamo noi? Quasi un nulla, nell’universo. E tuttavia sappiamo di essere un nulla, mentre l’universo non sa che è l’universo. Perché leggo questo? Non soltanto per la suggestività dell’uomo, potrei leggere anche altre pagine, bellissime, di Leopardi, ma naturalmente non ab-biamo il tempo. Perché questa questione del pensiero non è soltanto un’aggiunta consolatoria, ma fa parte della vita: c’è un punto nell’universo in cui la straordinaria e impenetrabile vastità del co-smo, la potenza inenarrabile delle stelle, delle galassie, che sembra schiacciarci, come pensiero, trova in noi un punto – questa è una cosa che so che piace molto a Marco Bersanelli – un punto di coscienza. Un punto di autocoscienza. Perché ho ridetto questo? Per dire che questo è il nostro modo di vivere. Il nostro modo di cercare la vita. Il nostro modo di incontrare la realtà, il nostro modo di vivere con un pensiero. Il pensiero appartiene esattamente al nostro modo di vivere. Il tempo corre. Vorrei presentarvi il terzo e ultimo mio compagno di cammino, che sembra contrad-dire totalmente Pascal: Friedrich Nietzsche. Avevo portato anche da leggere Kant, ma in un’altra vita, appunto; su un altro pianeta! Nel 1873 scrive Nietzsche: “in qualche angolo remoto dell’universo che fiammeggia e si estende in infiniti sistemi solari, c’era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzo-gnero della storia universale” – [RIVOLGENDOSI A STEFANO FACCHINI] e qui vengo alla tua do-manda sulla preferenza. Per lui è il minuto più tracotante e menzognero della storia universale e tuttavia “non si trattò, negli anni luce dell’universo, che di un minuto. Dopo pochi sussulti della na-tura, quel corpo celeste si irrigidì, e gli animali intelligenti dovettero morire”. E’ una illusoria pro-tervia. Di qui nasce tutta la grande ideologia anti-antropocentrica della filosofia del Novecento: è un’illusione pensare che l’uomo – ma chi è l’uomo? – sia al centro dell’universo. Guardate che quando leggete Nietzsche – il grande anticristiano – sembra a volte di leggere il Qohelet, eh? Che cos’è l’uomo? E’ vero, Nietzsche parla del superuomo, ma il superuomo non è Superman, non è un uomo con superpoteri: il superuomo è esattamente la negazione della centralità dell’uomo della tradizione cristiana. Ma perché, perché questo accanimento di Nietzsche nel dire che non siamo noi al centro del mondo? – Ma l’aveva detto anche Spinoza, qualche centinaio di anni prima: è un’illusione pensare che il fine dell’universo sia l’uomo, perché tutto è così come geometricamen-te o biologicamente o meccanicamente deve essere. Ma perché questo accanimento nel negare questa centralità? Appunto per questo: perché la centralità non è più una preferenza; o meglio, è un’autopreferenza, e quindi è una preferenza che significa violenza, è un’imposizione della propria misura. Invece qui che cosa si è perso? Si è perso il senso che io sono “dato” a me stesso, che qualcuno mi preferisce. Sono d’accordissimo con quello che diceva Marco prima: questa preferen-za non ha niente di sentimentale, o di psicologico: la preferenza è quel contraccolpo della cono-scenza in cui io mi rendo conto che ci sono. Cioè che sono dato a me stesso. Quindi il primo gesto di preferenza è questa possibilità di accogliermi, perché dicendo sì a me stesso dico che io sono una provenienza, che sono dato; non mi faccio da me. Per questo è interessantissimo – e chiudo – che oggi ci può essere – la chiamerei così – una via cosmologica alla preferenza. Non solo una via psicologica, o individuale, ma cosmica – ecco, forse dire “cosmica” è meglio che dire “cosmologi-ca”. Una via cosmica alla preferenza, no? Perché, se è vero che l’uomo ha sempre – vedete, il bel-lissimo libro di Marco – alzato la testa per guardare il cielo, a un certo punto è sembrato che il cielo fosse muto. Ma c’è un momento che è proprio il momento del nichilismo, da Nietzsche in poi, in cui il cielo ha una nuova grande chance per noi: è il cielo che ci chiama! Anche se noi ci siamo disabituati a interrogarlo, è il cielo, anche attraverso le scoperte scientifiche, che ci chiama. E perciò ci dice, è come se alla domanda nostra, “e se scoprissimo vita su altri pianeti?”, è come se il cosmo ci portasse a scoprire di nuovo noi stessi. Perché se queste due scoperte non vanno insieme perdiamo sia l’una che l’altra. Per questo questa vita sugli altri pianeti è in realtà una vita che c’è sul nostro pianeta, e che noi dobbiamo ancora scoprire. E queste galassie lontanissime, che ci sembra una cosa impensabile di poterle misurare, la stessa non-misurabilità è la cosa più vicina a noi: siamo noi. Siamo noi questa incommensurabilità. Ed è la scoperta più megagalattica che ci possa essere. Grazie.
STEFANO FACCHINI
Grazie Costantino. Grazie Marco. Penso che gli spunti che hanno posto siano tantissimi e profon-dissimi e sono veramente grato per questo. Siamo andati un po’ lunghi, per cui farei così, per aiu-tarci nel dialogo: abbiamo quindici minuti ancora di tempo, e dobbiamo essere precisi sulla tempi-stica, e favorirei domande dal pubblico. Quindi chi avesse delle domande su quanto detto, ne rac-cogliamo magari tre, o quattro, all’inizio, e poi rispondete. E per porre le domande bisogna venire qua, dove c’è un microfono. Se ci sono domande. Eccola!
PRIMA DOMANDA
Buongiorno, grazie. Vorrei chiedere al filosofo e allo scienziato questa cosa: ipotizzando altri mon-di in altri universi, com’è possibile? Io sono cristiano, devo ipotizzare che Gesù sia venuto su diversi mondi? Io ho imparato che – e lo insegnavo a scuola – che la natura, il mondo minerale, il mondo vegetale, il mondo animale vede l’uomo in cima, come autocoscienza del tutto, di se stesso ed eventualmente degli altri. Quindi spetta a noi, penso, cercare o trovare una soluzione.
SECONDA DOMANDA
Grazie, buongiorno. Volevo chiedere, proprio in virtù di quello che ha detto il signore poc’anzi. Per entrambe le vie, sia filosofica che astrofisica, che cosa vuol dire “essere preferiti”? Vuol dire che ci troviamo sopra a tutti, in quanto uomini, sopra tutto, o altro?
TERZA DOMANDA
La mia più che una domanda è una curiosità che mi è venuta, perché sentendo voi che parlavate sia del cosmo che dell’uomo mi è tornato in mente un po’ il titolo del Meeting e mi chiedevo cosa può aggiungere tutto ciò di cui abbiam parlato a questa grande domanda che a me è un po’ poco chiara. [MARCO BERSANELLI: Quale domanda?] Il titolo del Meeting. [BERSANELLI: Ah, la domanda del titolo del Meeting]
QUARTA DOMANDA
A me non fa tanto problema il fatto se c’è altra vita intelligente altrove rispetto al cristianesimo perché come dice Giussani, se l’uomo è l’autocoscienza del cosmo, se l’uomo con il livello della natura in cui la natura diventa coscienza di sé, se c’è un altro punto cosciente nell’universo io semplicemente lo chiamerei uomo e dal punto di vista cristiano allargherebbe la missione della Chiesa che dovrebbe andare ad annunciare Cristi anche su Marte. Tra l’altro, se Dio ha scelto un popolo particolare come il popolo Ebraico per arrivare a tutto il mondo può aver scelto un pianeta particolare per arrivare a tutto l’Universo, questa non è un’obiezione, il problema è: se anche scoprissi un’altra vita nell’Universo siamo soli? Io non mi sento tanto solo anche vedendo…essendo alle strette anche qui, nell’Universo: un’altra vita intelligente non risolverebbe il problema della solitudine perché necessita, è davvero un responso oppure l’uomo ha bisogno di un tu infinito ed eterno che risponda all’esigenza del suo cuore? C’è in un film interessante, Contact, c’è continuamente il ritornello: se non ci fosse altra vita nell’universo sarebbe uno spreco di spazio”. Per me non è così perché apputno come ha ricordato prima Esposito che il cuore dell’uomo, come dice anche Leopardi, l’Universo intero non basat a colmare il suo desiderio quindi l’inifinità dell’universo è un richiamo all’infinità come idea, come esigenza. Basta davvero un’altra vita o c’è la necessità di una vita infinita ed eterna?
STEFANO FACCHINI
Ultimissima domanda? Perché già hanno, la carne al fuoco è troppa…
DOMANDA
Io volevo chiedere questo: un centinaio di anni fa non si pensava che si sarebbe mai potuto capire di che cosa sono fatte le stelle, adesso siamo riusciti a capire tantissimo su questo, addirittura riu-sciamo a capire che nelle nebulose ci sono gli amminoacidi, è una cosa strabiliante! Ma abbiamo la possibilità di capire se c’è vita in quei luoghi lì? C’è un’idea, un’intuizione di qualcosa, una strada che ci possa far capire se c’è vita? Perché arrivare su Marte ci arriviamo, ma arrivare su una nebulosa!
MARCO BERSANELLI
Sono tutte osservazioni veramente belle, sarebbe bello avere tutto il tempo che meritano. Credo che il penultimo intervento abbia aiutato anche a rispondere alla prima domanda che era stata fatta. Poi, casomai, Costantino dirà di più. Io credo che l’uomo dall’antichità si è trovato ad esplo-rare territori inediti. Per noi è difficile ritornare psicologicamente in quella situazione, ma il nostro pianeta aveva molte somiglianze con quello che oggi noi percepiamo essere l’universo. Era una realtà totalmente ignota in cui si andava a cercare vita a impiantare vita a cercare di sopravvivere si sono trovati di fronte altri essere umani, hanno fatto un po’ a capire che erano altri esseri umani, però alla fine si è capito. E così noi siamo di fronte a questo territorio nuovo che si sta aprendo. Cosa dovremmo pensare della storia della salvezza dell’incarnazione, la prima grande domanda. Siamo di fronte a qualcosa che non conosciamo. Non è ovvio dare delle risposte adesso, ma dobbiamo avere l’attenzione a ciò che ci permette di guardare queste possibilità e credo che alcune cose che sono emerse nel nostro dialogo di oggi ci diano lo sguardo giusto, uno sguardo che peraltro avevano anche qualcuno dei nostri antichi maestri medioevali. Perché non solo Giordano Bruno si poneva anticristiano o post cristiano e si poneva la questione degli altri mondi possibili. Ma anche un certo Sant’Alberto Magno, che è un Santo. Che diceva: “esistono molti mondi o c’è un unico mondo”, e affermava: “questa è una delle questioni più nobili e più esaltanti dello studio della natura”. Come può un uno dire così? Un cristiano dire così? È perché ha una esperienza presente del vivere in cui riconosce quel senso che è la vita e allora non ha paura anche dell’ignoto che può esserci anche in altra possibile vita. Oppure cito Nicola di Oresme, un altro maestro medioevale, i medioevali erano più aperti di noi, questa è la cosa strana. Nicola di Oresme era vescovo di Lisieux, quindi una figura della cristianità, e dice “il Dio cristiano è infinito nella sua immensità, e se infiniti mondi esistessero nessuno di essi potrebbe essere al di fuori di lui e del suo potere” cioè al di fuori del suo sguardo, del suo abbraccio, della sua preferenza. Ecco io credo che questo sia, io non so rispondere alla domande del primo intervento che è stato fatto ma capisco che in questo sguardo di positività e di riconoscimento di un bene dato ora, c’è la possibile libertà e la possibile apertura di una condivisione che ancora non possiamo immaginare, come 2000 anni fa non si poteva immaginare che cosa c’era oltre quello che appariva lo sconfinato oceano che si mostrava davanti agli occhi dei nostri predecessori. Ecco qui adesso il tempo stringe quindi lascio volentieri a Costantino di andare avanti.
COSTANTINO ESPOSITO
Innanzitutto si, rieccheggiamo Nicola di Oresme, che è un gesuita molto noto, Pierre Teilhard de Chardin che morto nel 1955, quindi molto più vicino a noi, che proprio alla luce delle scoperte astrofisiche scriveva: “la probabilità dell’esistenza di nanosphere è divenuta così grande che se una religione escludesse per struttura l’eventualità di molteplici centri pensanti essa non coprirebbe più le dimensioni del mondo che conosciamo. Ecco perché avremmo bisogno, presto o tardi, di un nuovo Concilio di Nicea che definisca l’aspetto cosmico dell’Incarnazione”. È un po’ visionario, però vuol dire che anche la divina umanità, sancita al Concilio di Nicea, di Cristo non può che essere ampliata ad una sfera cosmica, che tenga dentro anche in maniera critica il senso del tutto, tra l’altro ricordo che l’immagine più nota nel medioevo del Cristo Pantocratore dice proprio questo, il regno sulla totalità del cosmo intero. Però è anche vero che non sarebbe meno cristiano ritenere che il metro di Dio è una preferenza secca. E quindi non sarebbe contro il suo dominio sul cosmo pensare che questo granello insignificante possa racchiudere il senso del tutto. E qui vengo subito, cosa vuole dire essere preferiti? Che siamo superiori? Direi con una risposta molto articolata, no. Perché l’essere preferito vuole dire che siamo capaci di accogliere, di capire, di esser donati, non di essere i padroni e, se è vero che la vita per noi è sempre una vita cosciente e autocosciente, cioè una vita che è logos, ricordo che la parola logos in greco significa raccolta di pezzi sparsi, questo è il logos, il pensiero, il linguaggio, la parola, il senso è la possibilità di unificare, di raccogliere e allora il modo il segno per noi più grande di essere preferiti è che sappiamo domandare. E che sappiamo domandare perché. È la nostra capacità di domandare il perché il segno emblematico e enigmatico della nostra centralità, quindi è una centralità molto decentrata, è una centralità di ritorno che chiede il senso, non che decide il tutto. E poi l’ultima cosa su questo senso della solitudine. Spaventa, siamo soli nell’universo, però la solitudine è anche forse una delle più grandi chance che abbiamo di capire chi è l’altro per noi. Se non avvertiamo un po’ questo nostro essere soli, ma questo anche nei rapporti quotidiani tra noi, forse non avvertiamo veramente il bisogno dell’altro. Il bisogno dell’altro non è mai un azzeramento della solitudine ma è il coglierne l’invito e comunque se altra vita con logos da qualche parte dell’universo c’è, io sono certo di una cosa che, se c’è, si farà conoscere o ci verrà a conoscere.
STEFANO FACCHINI
Purtroppo dobbiamo chiudere. Dico purtroppo nel senso che avrei continuato a chiacchierare e a discutere di questi temi per ore. Ma forse in questo purtroppo c’è anche una testimonianza come una evidenza presente di questo momento di quello che ci dicevamo prima, che diceva Costantino all’inizio del suo intervento e che ha ripreso ora. Ovvero che questa domanda sulla vita è la vita. E dico che l’esperienza di questa ora per me lo testimonia nel senso che è una esperienza in cui mi sono sentito me stesso nel porre questi temi al centro della nostra discussione. È stata una espe-rienza di una umanità in me, per me, porre questi temi. Ovvero che il porre al centro questa do-manda sulla vita è vita no? Tanto che è una delle cose, ma forse ciò che più ci definisce, questa domanda che dicevi alla fine. E la seconda cosa, che per me è esaltante anche per il lavoro che faccio, sono anche io un astrofisico, è questo rapporto così stretto, così intrinseco se volte, ma così tante volte dimenticato anche da me che faccio questo lavoro, tra il dato scientifico, tra l’evidenza tra queste nuove scoperte che apparentemente possono far cambiare la concezione che abbiamo del cosmo e di noi stessi e queste domande così connaturate con ciò che sono, questo bisogno di senso, di avere un posto, questo bisogno alla fine di preferenza cioè di un punto di affetto che alla fine coincidono queste due parole. Per me è entusiasmante avere uno spazio come questo, ma ce ne sono anche dopo al di là di questo meeting, ma questo spazio qua al meeting in cui questo dia-logo tra il dato e il cuore che urge in me è possibile e anzi è sollecitato e per me questo rende il mio lavoro di ricerca scientifica entusiasmante perché è un lavoro dentro al quale posso scoprire sempre di più me, me stesso che è un punto che sinceramente di più di tutto quell’universo che pure per lavoro studio.