DON GIUSSANI. La sua esperienza del mondo, dell’uomo, di Dio

Presentazione del libro di Massimo Camisasca (Ed. San Paolo). Partecipano: l’Autore, Superiore Generale Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo; Aldo Cazzullo, Giornalista e Scrittore; Mauro Mazza, Direttore RAI 1. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.

 

ALBERTO SAVORANA:
Buon pomeriggio. Benvenuti a questo incontro del trentesimo Meeting per l’amicizia tra i popoli di Rimini, che rappresenta una occasione molto particolare all’interno della storia del Meeting, perché oggi parleremo del grande antefatto senza il quale tanti di noi non sarebbero qui, senza il quale il Meeting probabilmente nella sua natura e forma non sarebbe esistito e senza il quale tanti di noi non avrebbero intravisto, scoperto nel Cristianesimo la strada, la soluzione del problema umano che tutti ci riguarda e tutti ci fa fremere nella ricerca di una risposta. Questo antefatto è un uomo, don Luigi Giussani, a cui don Massimo Camisasca ha dedicato la sua ultima fatica letteraria, dopo essersi cimentato per lunghi anni nella ricostruzione minuziosa, puntuale della storia di ciò che è nato dal genio umano e dal carisma cristiano di don Giussani, il movimento di Comunione e Liberazione. Lui all’epoca disse che aveva contratto un debito per cui, terminati i tre volumi della storia di CL, di lì a qualche anno avrebbe cominciato a tratteggiare con della agili e veloci pennellate alcuni tratti della inesausta, diuturna riflessione sull’esperienza di don Giussani. E così quest’anno ha avuto la luce Don Giussani. La sua esperienza dell’uomo e di Dio, pubblicato di recente dalle edizioni San Paolo. Io credo che senza presunzione si possa dire che in futuro chi racconterà la storia della società, della cultura, della Chiesa, del Secolo breve, del ’900 e dell’inizio del terzo millennio, non potrà non fare i conti con questa figura. Uno che, per chi lo ha conosciuto, lo ha incontrato, ha vissuto, come amava ricordare lui invitandoci a questo, intensamente il reale, con una ossessione, come scrisse giovanissimo nel 1945 all’amico Angelo Maio: “io non voglio vivere inutilmente; è la mia ossessione”. Questa passione per la propria vita e quindi per la vita degli uomini, sempre obbedendo alla realtà, la quale Giussani riconosceva essere la voce del Mistero che lo chiamava, fosse un incontro fugace con un giovane in confessionale o l’inginocchiarsi al cospetto del Papa. Sempre l’istante effimero attraverso cui la realtà entrava di schianto nella sua vita lo trovava obbediente. E così, diceva lui, non avendo voluto fondare niente, si è trovato padre di un popolo, di cui senza averlo previsto, senza averlo meritato, calcolato, tanti di noi si sono trovati parte. Don Massimo con questo libro appena pubblicato si è cimentato in una impresa che non è né semplice né facile, di mettere sotto la lente alcune delle grandi parole che hanno segnato e che sono emerse come carne e sangue nella vita di don Giussani e che per tanti di noi sono diventate strada, occasione per una vita più umana, più bella, più desiderabile, più vera. E allora oggi abbiamo invitato alcuni che per vari motivi hanno legami con don Massimo, col Meeting, con il movimento di Comunione e liberazione, perché ci raccontino che cosa hanno trattenuto, che cosa ha prodotto in loro la lettura del libro di don Massimo. Alla mia sinistra siede Aldo Cazzullo, che è giornalista di punta del Corriere della Sera e scrittore; e alla mia destra Mauro Mazza, neo direttore di RAI 1, lungo e antico frequentatore del Meeting di Rimini, quasi fin dall’inizio della sua storia, come corrispondente del Giornale radio e poi del Telegiornale e altro. E allora abbiamo chiesto una prima reazione, un primo commento a ciò che hanno letto. Poi io mi permetterei di chiedere a don Massimo, come autore, un intervento conclusivo di questo dialogo. Aldo Cazzullo.

ALDO CAZZULLO:
Grazie Alberto. Allora vi ringrazio davvero moltissimo e vi confido la mia felicità e la mia emozione per essere per la prima volta in vita mia al Meeting di CL a Rimini. Intanto, lasciatemi dire dall’esterno, che credo di non aver mai visto in vita mia, ho seguito mondiali di calcio, olimpiadi, G8, una manifestazione per giunta organizzata da italiani così efficiente, così scrupolosa, che tenga insieme l’umanità, il calore, l’accoglienza degli italiani ma anche la scrupolosità, l’efficienza che non è la nostra principale caratteristica, è una cosa che davvero colpisce molto. Lasciatemi anche salutare qui in prima fila, in fondo non lo potete vedere ma io sì nonostante sia visibilmente smagrito, il mio fraterno amico Renato Farina, l’uomo che ha subito un’infame persecuzione per aver fatto del bene a persone che si erano cacciate nei guai. Grazie di essere qua Renato. Bene, io vorrei raccontarvi, come dire, il rapporto…come dire, un’altra cosa che colpisce molto è che di solito alle presentazioni dei libri l’età media…. (io sono autore di libri, vado in giro a presentarli, è molto importante il confronto con i lettori) il problema è che quando si presenta un libro di solito l’età media in Italia è sui 102 anni. Il fatto di vedermi davanti tanti giovani mi dà qualche motivazione in più per cercare di dire soprattutto ai molti che qua ci sono, che forse don Giussani non l’hanno mai conosciuto e che magari non conoscono don Massimo Camisasca, di dire le mie personali impressioni sui personaggi, oltre che ovviamente sul libro di cui parliamo oggi. Io incontrai don Giussani negli anni ’80, quando ero un giovane studente, matricola all’università di Torino, di giurisprudenza. Era il 1985 e io confesso senza timore, però anche con umiltà, con il senso di un errore compiuto, che quando incontrai Giussani non lo compresi. Io avevo 19 anni, venivo da Alba, provincia profondamente cattolica, scrivevo sul giornale diocesano la Gazzetta d’Alba e andai a sentire e scrissi cinque articoli su cinque lezioni di politica che don Giussani tenne all’università di Torino. E don Giussani aveva una grandissima preoccupazione; parlando ai giovani la sua prima preoccupazione era metterli in guardia sul marxismo. Lui diceva in sostanza: il ’68 in sé aveva una carica anche positiva, vitale, di ribellione, di energia. Diceva più o meno le cose che ho sentito, mi ha spiegato Angelo Scola quando lo intervistai su questo tema nel 2005, durante il viaggio del Papa a Colonia. Don Giussani diceva più o meno le cose che poi ho sentito ripetere da Scola in un altro contesto. Cioè il ’68 era anche qualcosa di positivo, perché aveva in sé il germe di una ribellione a un vivere borghese, a un vivere quieto; però poi il ’68 abbracciò il cadavere putrefatto del marxismo e questo morto afferrò il vivo e lo trascinò in fondo. Quindi la principale preoccupazione di don Giussani, parlando coi giovani, era di metterli in guardia sull’inganno del marxismo. Confesso che alle mie orecchie di diciannovenne che arrivava dalla provincia cattolica, il marxismo non aveva poi quel grande fascino, per cui questo suo allarme mi sembrava, come dire, non dico inutile, però insomma persone che non erano state incantate dal marxismo difficilmente lo potevano vivere come una paura, un timore. Poi con il tempo compresi, grazie anche alla lettura del libro di don Massimo, come in quelle lezioni don Giussani ci trasmettesse proprio il senso profondo della sua esperienza. Cose che ho capito soltanto dopo, leggendo i libri e soprattutto incontrando don Massimo Camisasca. L’incontro con don Massimo andò così. Don Massimo mi cercò perché aveva letto alcuni miei articoli, alcuni miei libri che gli erano sembrati interessanti e cominciò una consuetudine. Io sapevo chi era don Massimo Camisasca, perché quello che era allora il mio direttore e che resta una delle intelligenze più brillanti di cui disponiamo in questo paese, Paolo Mieli, mi aveva confidato che quando anni prima, molti anni prima, lui era un giovane giornalista di famiglia ebraica, però capiva che un giornalista importante, che ambiva a diventare importante, non poteva non sapere cosa fosse il cristianesimo. E dovendo cercare un intellettuale da cui farselo spiegare, Paolo Mieli chiamò don Massimo Camisasca e si fece spiegare alcune cose che poi evidentemente mise a frutto. Ecco, quindi io sapevo chi era don Massimo, sapevo che aveva scritto dei libri importanti, aveva scritto i primi due volumi della storia di Comunione e Liberazione, poi in seguito anche alla nostra conoscenza ho avuto anche l’onore, il piacere di recensire sul Corriere il terzo di questi volumi, volumi che i più giovani di voi devono assolutamente avere, non possono prescinderne. Don Massimo racconta in questa trilogia tutta la storia del movimento, a cominciare dalle radici, dalla nascita, dal periodo che va da ’54 al ’68, la Gioventù Studentesca, i raggi, la grande novità di don Giussani. Poi racconta la fase che definisce “la ripresa”, dopo appunto il trauma del ’68 e per tutti gli anni ’70. E poi il terzo tomo, che uscì nei primi anni della nostra amicizia, quando già insomma ci conoscevamo, che si chiama “Il riconoscimento” e che racconta l’incontro tra don Giussani e Wojtyla. Pagine straordinarie. Giussani era tra i pochissimi che già conoscevano Wojtyla: quando uscì il nome Wojtyla, quando qualche giornalista pensò che si trattasse di un Keniota, Giussani no, era stato a Cracovia, si erano conosciuti, si erano incontrati. Ma è bellissima la pagina in cui don Massimo racconta il primo incontro di don Giussani con Wojtyla già Papa, già Giovanni Paolo II e Giussani che esce dall’incontro col Papa raggiante, euforico e continua a ripetere: è un leone, è un leone, è un leone. E’ una pagina davvero straordinaria, che ci consegna l’incrocio tra queste due straordinarie personalità. Ora questo rapporto con Wojtyla e tutto quanto di non detto o che forse non si poteva, non si doveva dire compilando, non dico la storia ufficiale, però insomma un testo scientifico su CL, ora don Massimo lo racconta in questo nuovo libro. Ora è chiaro che così come dovendosi occupare della Rivoluzione americana si comincia con Tocqueville, così come dovendosi occupare della Rivoluzione francese si va a rileggere Lefebvre, chi dovrà tra duecento anni capire come è nata Comunione e Liberazione, si dovrà leggere la trilogia di don Massimo Camisasca. Questo libro che abbiamo oggi in mano, di cui parliamo oggi, è un libro diverso, è più personale. E’ quasi, non è proprio un’autobiografia ma il racconto dell’incontro di don Massimo con Giussani ed è il racconto della personalità e del pensiero soprattutto di Giussani. Un incontro che avviene quasi per caso. Massimo Camisasca incrocia per la prima volta don Giussani all’età di tre anni e in qualche modo don Giussani è il suo primo ricordo. E poi l’incontro vero e proprio avverrà solo qualche anno dopo. Camisasca apre il libro dicendo: ho incontrato don Giussani a 14 anni e poi non me ne sono separato più per i 35 anni successivi della mia e della sua vita. Don Giussani era all’epoca, come voi sapete bene, insegnante di religione al liceo Berchet ed era un uomo che portava avanti questa sua nuova idea, che ebbe questo scontro molto duro con il ’68 e che poi da lì riprende, rinasce in forme rinnovate. Quando io appunto entravo in università di quella grande fiammata politica degli anni ’70 alla fine poi erano rimasti i Cattolici popolari insomma. Ma la cosa più interessante di questo libro è che restituisce don Giussani in una dimensione viva, vera, di prima mano, vissuta, molto diversa dall’idea che noi laici, noi esterni ci siamo fatti. Perché noi, ad esempio, siamo abituati a considerare appunto nella nostra rozzezza, nel nostro pressappochismo, nel nostro dividere tutto tra destra e sinistra, siamo abituati a considerare don Giussani un conservatore, quasi un restauratore. Ecco, questo libro dice che è esattamente il contrario; forse a voi potrà sembrare scontato ma vi assicuro che dall’esterno scontato non lo è. Questo libro racconta bene il rapporto, anche tormentato, anche difficile, che Giussani ebbe con la figura egemone della Chiesa lombarda della seconda metà del ’900, Giovanni Battista Montini e racconta il suo rapporto con il Concilio e svela il vero Giussani, che è tutt’altro che anticonciliare; in qualche modo è un precursore del Concilio, è un precursore della necessità della Chiesa di aprirsi alla modernità e di andare incontro al mondo senza avere paura, incontro ai giovani senza averne timore. E quindi viene fuori in modo chiaro l’essenza del pensiero di Giussani, anche attraverso le tribolazioni successive con la figura che poi in qualche modo erediterà il peso, l’eredità storica di Montini nella diocesi milanese, vale a dire quella di Martini. Ma davvero si capisce bene leggendo il libro come alcune categorie, anche della dottrina cattolica, vengano vissute da Giussani con un’autenticità tale che sembra quasi ribaltarne il senso comune che esse hanno in italiano: l’obbedienza (c’è un bellissimo paragrafo che si chiama: “Obbedienza, povertà, verginità”). L’obbedienza è rovesciata di 180 gradi, non vista come una umiliazione, come una costrizione ma come il senso più profondo della libertà, cioè la libertà di fare ciò che si deve fare. Anche questo è un elemento che unisce la personalità di Giussani a quella di Wojtyla. In qualche modo le vite di questi due leoni, di questi due giganti della Chiesa scorrono quasi parallele. Entrambi si ammalano della stessa malattia, seppure in forme diverse, il Parkinson; Giussani muore nel febbraio 2005, due mesi prima di Wojtyla, e il 24 febbraio 2005 le esequie in Duomo, nel Duomo di Milano sono celebrate dal cardinale Tettamanzi e dal cardinale Ratzinger, che conia questa espressione bellissima per raccontare Giussani: “ferito dal desiderio della bellezza”. Sono delle pagine indimenticabili di questo libro che vi consiglio assolutamente di procurarvi e di leggere a proposito di questo percorso quasi parallelo di Wojtyla, Giussani e dell’incontro tra Giussani e Ratzinger e aggiungerei anche delle cene organizzate nella casa che Camisasca divideva con Angelo Scola a Roma, a cui appunto partecipavano Giussani e Ratzinger, dando vita a una sorta di gara di umiltà. Giussani proponeva un argomento teologico, una argomentazione e Ratzinger non solo la avvalorava ma cercava altri motivi per cui quella argomentazione di Giussani fosse vera e compatibile con la dottrina cattolica. Insomma pagine da cui non soltanto chi ama, chi fa parte di CL, ma anche chi si è interessato alla vita pubblica italiana non può prescindere. Bene io credo che ognuno di noi poi ha le sue idee, la sua fede, le sue teorie; io intervistando un altro uomo di Chiesa che stimo molto, che ho incrociato poco fa uscendo, il cardinale di Bologna Carlo Caffarra, mi sono fatto ad esempio una idea un po’ più precisa su quella che può essere la dimostrazione quasi matematica, quasi geometrica dell’immortalità dell’anima. Caffarra sostiene che la nostra vita sensibile, la nostra vita di tutti i giorni, che fa sì che noi siamo qui insieme in questo posto, è una sorte di parete, di una piramide che noi scaliamo lungo tutta la nostra vita e soltanto quando arriveremo in cima potremmo vedere le altre facce della piramide, quello che non ci è dato vedere in questa vita fenomenica e sensibile. Ecco, io, ripeto, non so quali siano le vostre opinioni, la vostra fede, però credo che un po’ tutti quanti condividiamo la fiducia, la speranza nelle forze dello Spirito. Ecco, se le forze dello Spirito esistono, e io credo che esistano, oggi don Luigi Giussani è qui tra di noi ed è quindi a lui che va il mio, il nostro pensiero. Vi ringrazio.

ALBERTO SAVORANA:
Anch’io come Cazzullo sono molto certo che Giussani è qui e non nella forma di un fantasma, di una ispirazione o di un devoto ricordo del passato ma perché qui in qualche modo ci sono persone che vivono la stessa ragione, la stessa passione a cui lui ci ha richiamato per tutta la vita; non richiamando a sé ma a ciò che aveva conquistato lui stesso, come disse il cardinale Ratzinger proprio nell’omelia funebre che hai ricordato. Perché questo è il modo con cui l’inesorabile mannaia del tempo, che nella dimensione umana della vita sembra procedere per tagli successivi, è sconfitta. Perché la genialità di don Giussani è stato che lui inseguiva per primo quello che invitava noi a seguire. Mauro Mazza.

MAURO MAZZA:
Buon pomeriggio a tutti. Lo ha fatto Aldo Cazzullo, lo faccio anche io, antico frequentatore del Meeting, mi ricordava Alberto, e saluto alcuni volti in prima fila che mi ricordano tanti Meeting vissuti da cronista e da inviato. Emma Neri, Robi Ronza e poi saluto un’immagine che mi ricorda un pezzo della mia vita recente, sette anni al Tg2, il regista Massimo Valeri, che saluto con tanto affetto. Essere qui è sempre per me una grossa emozione e non soltanto per me. È un’esperienza che l’amicizia degli organizzatori del Meeting mi permette di rinnovare molto spesso, anche dopo aver cessato di fare il giornalista inviato, quindi da quando sono diventato prima direttore del Tg2 e ora anche di Raiuno, da pochissimi mesi. Eppure se devo dire il momento che mi ha lasciato un ricordo indelebile, vivo, ancora molto forte è un altro, è del Meeting 1985. Ero in vacanza non lontano da qui con la mia famiglia e volli fare un salto al Meeting il pomeriggio in cui sarebbe intervenuto don Giussani. Si era nella vecchia fiera, dall’altra parte della città, e venni ad ascoltare don Giussani. Vederlo fu letteralmente impossibile perché il grandissimo auditorium era stracolmo ed era stracolmo anche il grandissimo piazzale antistante l’auditorium. E arrivava quella voce rauca, così caratteristica e tutti eravamo in silenzio, un silenzio religioso, attento. Si era tutti consapevoli di essere lì partecipi di un momento particolarmente importante, che sarebbe rimasto nella memoria e nel cuore di ciascuno. Poi, e chiudo qui con i ricordi personali relativi alla figura di Giussani, da direttore del Tg2 un paio di volte, attraverso l’amico Savorana, chiesi di intercedere perché Giussani facesse altrettanti interventi al Tg2 e così accadde in una riflessione natalizia, credo nel 2002, e così accadde nel giorno dei funerali delle vittime di Nassirya, il 18 novembre 2003. In quelle pochissime toccanti righe, Giussani denunciò nel giorno del dolore di tutto il paese, denunciò la mancanza di una educazione del popolo, specificò del popolo mussulmano, del popolo ebraico, dei popoli latini: “se ci fosse questa educazione – scrisse Giussani – tutti starebbero meglio”. Forse anche per questa sua semplicità di approccio semplice, razionale, forse sarebbe meglio dire ragionevole, Giussani merita di essere collocato, comunque la si pensi, in un possibile Pantheon della cultura italiana, almeno della seconda metà del novecento. Giussani spesso ha contrastato, spesso ha frantumato incrostazioni dogmatiche, barriere ideologiche, inerzie culturali, tre elementi che assieme nella seconda metà del secolo breve, come lo ha chiamato Alberto prima, avevano paralizzato la coscienza individuale, bloccato la crescita, soprattutto spirituale dell’occidente e dell’Italia in particolare. Io credo che proprio per queste tre grandi operazioni spirituali, ma anche culturali, a Giussani spetti un posto di assoluto rilievo nella storia italiana del ’900, ma oggi mi pare giunto il tempo di fare, almeno di tentare di fare una diversa operazione. Trasformare cioè questa constatazione, cioè la presa d’atto della sua grandezza di pensatore, di protagonista della storia anche culturale del nostro paese, in una consapevolezza diffusa, in una acquisizione della coscienza comune. Certamente l’intera storia d Comunione e Liberazione – ne parlava poco fa Cazzullo – quella della Compagnia delle Opere, quella del Meeting, sono ampia testimonianza di come questo albero (Giussani) abbia dato e dia ancora buoni frutti. E altrettanto certamente il libro che oggi presentiamo di Camisasca è un momento importante in questa prospettiva, perché propone e rilancia la conoscenza di questa figura, la sua storia, il suo pensiero, la sua azione. Un libro – scrive don Camisasca – che vuol far conoscere don Giussani a chi non lo ha conosciuto, a chi non ha avuto la fortuna di sentirlo parlare, di passare del tempo con lui.
Io ricordo di aver visto qui al Meeting a Rimini, negli anni ’80, figure così diverse fra di loro, come Giovanni Testori, come Augusto Del Noce che a contatto con Giussani, con la realtà del Meeting mi apparivano – io li avevo incontrati in altre occasioni come giornalista – mi apparivano trasformati, mi apparivano confortati, rifioriti addirittura, erano più forti per l’amicizia che qui avevano incontrato ed era un incontro che era esattamente il contrario di quello che Testori per un verso e Del Noce per un altro, incontravano fuori, dove i loro libri, i loro drammi teatrali, i loro saggi politico-filosofici incontravano ostracismo, provocavano isolamento, suscitavano scandalo, perché andavano contro il pensiero unico, contro l’egemonia intoccabile, dominante ancora in quegli anni. Ma se Camisasca con questa sua opera intende oggi allargare la conoscenza di Giussani, credo sia necessario un concorso, un lavoro più grande, più vasto, che deve coinvolgere più energie possibili. Con quale obiettivo? Con quello di realizzare non un salto di qualità, basta guardarvi per sapere che il salto è già compiuto da anni, da decenni, ma un salto di quantità nella diffusione del pensiero di Giussani – ma su questo punto tornerò fra pochi minuti, quando sarò alle ultime righe del mio intervento. Va detto, però, che compiere questo salto o tentare di fare questo salto di quantità, non sarà impresa facile, perché negli anni di Giussani e ancora oggi c’erano e ci sono ostacoli e resistenze, intralci ed ostilità, figli tutti dei tre fattori che Giussani ha sempre contrastato e che ho citato prima: incrostazione dogmatiche, barriere ideologiche, inerzie culturali. Per quanto riguarda il primo aspetto, le incrostazioni dogmatiche, fin dagli anni ’60 Giussani aveva ingaggiato un confronto appassionato, senza tregua, con le chiusure mentali che avvolgevano la società italiana e dentro la società – lo ricordava Cazzullo – condizionavano anche la Chiesa cattolica. Certo nei confronti di quest’ultima, della sua Chiesa, l’impegno di Giussani non poteva essere più leale e più sincero, ma al tempo stesso proprio per tenere fede alla massima che si era posto come criterio della propria vita, per rispettare cioè la convinzione che la verità vada perseguita ad ogni costo, Giussani ebbe anche modo di criticare certe posizioni che erano diventati dominanti in certi ambienti ecclesiali e cattolici, qualora queste posizioni, a suo giudizio e a sua opinione, contrastassero il criterio della verità. Questo spirito critico, funzionale al rispetto della verità, portò alcuni, che potevano evidentemente nella Chiesa, nel ’65, alla decisione di inviarlo con la dicitura “Viaggio di studio” negli Stati Uniti. Viaggio di studio che fu deciso evidentemente, non tanto per approfondire la conoscenza culturale o il bagaglio culturale di Giussani, ma per allontanarlo da Milano, dove aveva già intrapreso con successo la sua opera di educazione tra i giovani. Su questo faccio una piccolissima parentesi. Nei primi anni ’60, Gioventù Studentesca, sotto la guida di Giussani, aveva rivoluzionato la prospettiva tradizionale, era diventata una comunità cristiana concretamente presente nella scuola e nella società. Questa presenza originale aveva provocato incomprensioni ed ostilità anche in ambiente ecclesiale, nella diocesi di Milano e all’interno della Fuci, che riuniva gli universitari cattolici. Fu da questi ambienti che arrivò la richiesta, la pressione evidentemente autorevole ed ascoltata, di allontanare Giussani e di sostituirlo alla guida di Gioventù Studentesca. Quella decisione non fu né saggia, né proficua, perché dopo l’allontanamento di Giussani da GS, questa organizzazione entrò in profonda crisi, una crisi culminata nel ’68, quando moltissimi uscirono da Gioventù Studentesca per aderire al Movimento Studentesco, al movimento di ispirazione marxista che prese la guida della contestazione nelle università, nelle scuole, con una azione che io definisco ancora oggi devastante in quello che accadde quell’anno, negli anni successivi e i cui frutti perversi e cattivi ancora oggi non abbiamo finito di mangiare. Tornando all’azione antidogmatica, Giussani fu un riformatore anche nella coscienza civile dei cattolici italiani. Scrive don Massimo: “don Giussani voleva superare l’intellettualismo e il moralismo in cui erano finite gran parte della pedagogia, della catechesi e della pastorale della Chiesa Cattolica, opponendosi ad una sclerotizzazione che contraddiceva lo stesso spirito cristiano”, ma Giussani si opponeva anche ad un’altra strada, a quella ideologica che negli ’60 molti cattolici stavano imboccando per tentare di sfuggire, per tentare di liberarsi dall’irrigidimento della Chiesa, da quello che Camisasca scrive: “di fronte ad un mondo cattolico che stava perdendo il senso della propria originalità e della propria pretesa, don Giussani ripropose con tenacia la fede, come unica strada di salvezza e di giustizia”. Alla fine degli anni ’60 la Chiesa e più in generale tutti i cattolici vivevano un periodo di crisi forte, di disorientamento, di sfiducia e per superare questo disorientamento, per una malintesa esigenza di stare nella società, molti imboccarono una strada sbagliata. Lo scrisse allora il cardinale Ratzinger, lo scrisse nel ’93 nella prefazione ad un libro proprio di Giussani: “anche i cristiani – scrisse Ratzinger – cessarono in quegli anni di parlare della redenzione mediante la croce, anch’essi parlarono ormai soltanto della nuova società, della civiltà migliore che doveva nascere. L’utopia era diventato l’unico dogma che ispirava pensiero ed azione”. E a queste sirene ideologiche Giussani non prestò mai ascolto e la sua coerenza non gli facilitò affatto il cammino, nemmeno negli anni successivi. Ricorda Camisasca, che Giussani incontrò moltissime resistenze e opposizioni da parte di alcuni vescovi italiani, di fronte alla volontà di Papa Giovanni Paolo II di riconoscere ufficialmente il movimento di CL. Molto rapidamente il seconda punto: le barriere ideologiche. Giussani affrontava con ostinazione le domande cruciali di quegli anni, dà una risposta in controtendenza rispetto al ’68, vi ho detto, e lo ricorda Camisasca: “molta parte del cattolicesimo italiano in quegli anni, pur senza negare in via teorica che Cristo fosse il Salvatore, confidava nell’analisi marxista come strada di liberazione e quindi come unica risposta razionale ed esauriente”. Don Giussani in contrapposizione a questo insegnava la libertà. Tutto il suo lavoro è stata una costante educazione alla libertà, tutta la sua esperienza religiosa e spirituale rivolta all’esercizio della libertà, tutto il suo impegno sociale e politico è stato dedicato alla difesa della libertà. Dette così sembrano frasi scontate, cioè una banalizzazione del suo pensiero, ma quello che posso dire come opinione personale è che è proprio questa semplicità di approccio, questa tensione costante all’aspetto educativo e pedagogico, che ha fatto sì che Giussani sia sempre riuscito a dare significato a parole e ad atteggiamenti che sembravano scomparsi, che avevano assunto altri duplici, triplici e ambigui significati. Contro l’ideologia e l’utopia aveva anche usato una parola costante nel suo linguaggio: la parola presenza, presenza concreta, che significava coinvolgimento in una esperienza viva, reale e quindi il contrario dell’utopia e dell’ideologia che subordina il singolo alla collettività. Giussani inseriva l’esigenza di libertà e di identità in un quadro operativo pratico ben preciso: la comunità come luogo dell’effettiva costruzione della nostra persona.
Terzo e ultimo punto: la pigrizia culturale. Giussani è stato un grande riformatore, con le sue domande, con la sua azione ha smontato, scardinato abitudini di pensiero e comportamenti che allontanavano dalla ricerca della verità. Un ricercatore certo particolarissimo, lo accennava Aldo nel suo intervento, direi contemporaneamente innovatore e conservatore. E’ un atteggiamento questo di mettere e tenere insieme conservazione ed innovazione, che è il modo migliore perché la cultura cattolica faccia i conti, attraversi, comprenda, prenda con sé il mondo contemporaneo, con i suoi errori e con i suoi orrori, ma anche con i suoi progressi e con le sue conquiste, coi suoi mostri e con le sue guerre, ma anche col suo sviluppo che migliora oggettivamente la qualità della vita. Detto schematicamente, la carica innovativa di Giussani si esprime nei concetti di libertà ed esperienza. La carica conservatrice si esprime nei concetti di autorità e di tradizione: i due orientamenti trovano sul terreno pratico una reale possibilità di conciliazione.
A questi tre elementi, che ho detto sinteticamente, corrispondono altrettanti ambiti tematici, tutti strettamente legati ed intrecciati fra loro, che possiamo definire: spazio di intervento sociale e religioso, spazio di intervento culturale e politico, spazio sull’intervento della coscienza personale e collettiva. Proprio andando alla conoscenza di questi ambiti come ho fatto io, dal libro di Camisasca si ricava anche un profilo diverso che convive in Giussani con la sua azione educativa, col suo apostolato, con la sua guida carismatica del movimento. Si ricava l’immagine di una personalità unica, capace come pochi di entrare in relazione con gli altri, si ricava l’impressione dell’entusiasmo che Giussani riusciva a infondere in tutte le persone che gli erano vicine, si ricava la speranza, la fiducia che Giussani riusciva a trasmettere attraverso quella sua umana simpatia, immediata, contagiosa, trascinante. Quando si dice, come anche don Camisasca scrive, che don Giussani è stato testimone della necessità dell’esperienza nella vita o se così posso esprimermi, è stato un autentico filosofo dell’esperienza, si vuole dire che è stato la prova vivente della possibilità di instaurare relazione autentiche non soltanto con le altre persone con cui si viene in contatto ma col mondo in generale. L’esperienza di Giussani ci dice dell’incontro con l’altro e con l’intera umanità, col creato nella sua totalità.
Sto arrivando alla conclusione e direi che Giussani è stato un pensatore, un teologo, un educatore, un genio dell’umano e della fede, ma è stato soprattutto, e questa è la filosofia che inspira l’intero libro di don Massimo, un amico, l’unico amico – scrive Camisasca – che avresti voluto trovare accanto a te durante il viaggio della vita. Qui passerei a quel salto di quantità che a mio giudizio è necessario, qui e ora, un salto di quantità a cui molti devono – e ora cambio la persona del verbo – a cui molti dobbiamo concorrere. Qui voglio parlare da nuovo direttore di Rai Uno e voglio dirvi in amicizia che è mia intenzione chiedere alla Rai, ne ho già parlato ieri col direttore generale Masi, che vi saluta, che è d’accordo e che si è detto entusiasta di questa mia idea, voglio chiedere alla Rai di fare come è stato fatto per altre grandi figure della fede, della cultura e della storia italiana, che si realizzi un film su don Giussani e sulla sua avventura. A me piacerebbe che un giorno, in Rai non si può mai dire che questo giorni sia troppo lontano, che un giorno la mia direzione di Rai Uno sia ricordata anche per questo, per aver ricordato e trasmesso questa bella storia. Io credo che lo meriti don Giussani, che lo meritiate voi che tra i frutti di don Giussani siete tra i più belli, i più freschi e ogni anno più buoni e credo che ascoltare questa bella storia sarebbe un regalo che noi potremmo farci a ciascuno e a tutti, a tutti coloro, come noi contemporanei, che siamo stati chiamati a compiere, se possibile assieme, se possibile senza fare troppi errori, un tratto di strada accidentato ma affascinante. Vi ringrazio

ALBERTO SAVORANA:
Mazza sul finire del suo intervento ha definito don Giussani un genio dell’umano e della fede, per una eccezionalità che dovrebbe essere normale e che invece non lo è, tanto che ce ne stupiamo. Don Giussani ha vissuto totalmente alla altezza sua umanità, alla altezza di quel desiderio che fin da ragazzino gli struggeva il cuore, tanto da farlo innamorare a tredici anni di Giacomo Leopardi, della sua sublimità del sentire, della percezione di ogni cosa come piccola e sproporzionata alla grandezza dell’animo umano. Adesso ascoltiamo don Massimo, perché e come se in questo libro si fosse domandato: ma cosa è stato per me don Giussani? Cosa ho ricevuto? Che cosa mi ha dato? E allora gli giro la domanda.

MASSIMO CAMISASCA:
Cari amici, questo libro è la storia di un uomo, di un grande uomo, che ho avuto la fortuna di incontrare e che ha segnato tutta la mia vita. Non una biografia, nel senso stretto della parola si usa dire una biografia spirituale, laddove la parola spirituale ha un suo significato positivo, è la biografia del suo pensiero, dello sviluppo della sua esperienza. Per questo l’ho sittointitolato don Giussani e la sua esperienza dell’uomo e di Dio e perciò del mondo, così come si è andata manifestando attraverso le sue parole a chi lo seguiva e a chi lo ascoltava. E’ una sintesi, certamente, prescinde da una volontà analitica e dialettica, per una sintesi che ha il desiderio di incuriosire e di mandare poi ai testi pronunciati o scritti da Giussani. La natura ed il pensiero della comunicazione orale di Giussani era singolare, egli parlando e scrivendo implicava sempre l’altro, era come se parlando avesse sempre davanti qualcuno, un altro con la a minuscola e con la A maiuscola. La sua comunicazione era assieme sempre rivelatrice di sé e rivelatrice di qualcuno che gli era davanti, e così leggendo don Giussani non scoprirete solo lui, ma scoprirete anche voi, perché egli ha detto parole che mettono l’uomo davanti a se stesso. Don Giussani ha avuto il grande compito, la grande responsabilità e la grande gioia di spalancare migliaia di esistenze, ha spalancato personalità rattrappite e chiuse su se stesse e a personalità ardite ed avventurose ha dato un punto su cui poggiare e a cui guardare, altrimenti si sarebbero perse ed esaurite in azioni vuote e distruttive, è stato un grande creatore di uomini, di grandi uomini, lì ha lanciati, uomini e donne, dentro la vita. Ecco in che senso è la storia di un uomo e nello stesso tempo anche di tanti uomini. Mi sono sempre piaciute le vite degli uomini più di ogni altra cosa, non è soltanto la mia passione, è propriamente una dimensione del mio sguardo e del mio approccio alla realtà, la dimensione storica. Io, penso, sono uno storico mancato, cioè un uomo che non ha potuto per tante ragioni sviluppare un metodo di conoscenza che mi avvinceva, la connaissance historique come diceva Marrou. Non ho potuto fare ricerca storica, ma quando leggo una poesia, un racconto, un romanzo, mi interesso subito della vita di quell’autore, di quel tanto o poco, ma è sempre tanto alla fine, che della sua esistenza vi è in quelle pagine. La vita di Giussani, perciò, per me, è strettamente legata a quello che lui ci ha detto e ci ha lasciato, ogni sua parola, ogni piega della sua esistenza, ogni gesto delle sue mani – mi pare di rivederlo – accende in me una comprensione nuova del presente. Ecco, nell’uomo io vedo tutte le manifestazioni dell’universo, dagli animali ai sassi, alle piante, ai fiori, perché tutto si raccoglie in lui. Questo ho imparato in Giussani e in lui, nell’uomo, conosco anche l’infinito, perché l’uomo è immagine dell’infinito. Come ho detto, questo libro nasce da un grande debito di riconoscenza verso don Giussani per quanto mi ha regalato, per ciò che ha donato specificatamente a me e anche per ciò che mi ha dato senza saperlo in ciò che ha trasmesso a tutti: da lui sgorga l’opera educativa che svolgo e che sento umilmente in continuità con la sua. Leggere questo libro – lo hanno detto Cazzullo e Mazza, ma lo voglio dire anch’io – è anche un modo di immergersi in 50 anni si storia d’ Italia, di un’ Italia che voleva risorgere e qui trovo la cifra importante della comprensione di ciò che Giussani è stato ed è: un uomo che ha saputo fiutare la contemporaneità, ha saputo aiutarci a vivere in essa, non al di fuori di essa, con una dignità e una creatività che venivano dal suo sguardo continuamente nuovo. L’Italia per risorgere doveva guardare in modo nuovo, con una profondità nuova, la sua tradizione, non poteva limitarsi a ripetere, a rivivere, ma doveva riscoprire e Giussani ha aiutato molte donne e molti uomini a compiere questo cammino tra passato e futuro, a non chiudersi nella reazione o nell’utopia, a imparare un realismo creativo, che è stata una delle chiavi direttive della sua esistenza. Realismo creativo. Anche il suo posto nella Chiesa, lo avete detto, ma lo ripeto perché il senso di questo libro è ancora da disegnare, io ho cercato di farlo mostrando la sua posizione creativa e anticipatrice nella Chiesa degli anni ’50 e ’60. Voglio dirvi un esempio soltanto, che mi è balenato alla mente in questi giorni, di questa sua opera di immersione creativa nella contemporaneità – ancora tre minuti, poi ho chiuso. Alcune sere fa – alla sera faccio fatica ad addormentarmi, leggo un libro, vedo un film, vedo qualcosa – vedevo in dvd un’opera di Pirandello, Come tu mi vuoi, un’opera complessa, difficile, ma in quest’opera c’è una donna, una donna che – siamo nella prima guerra mondiale – è stata forse fatta prigioniera dai tedeschi in Veneto e poi, ritornata dopo 10 anni, la credono una, la credono l’altra… – non mi interessa adesso raccontare, soltanto quel che basta per capire – ebbene questa donna ad un certo punto dice all’uomo che la tiene in mano: “sono qua, sono tua, in me non c’è nulla, nulla più di mio, fammi tu, fammi tu, come tu mi vuoi”. Quest’opera Pirandello l’ha scritta per Marta Abba, la musa ispiratrice dei suoi ultimi 10 anni. Allora sono andato a prendere l’epistolario di Pirandello con Marta Abba e in una lettera che lui le scrive un anno prima di morire, afferma: io non sono altro che tu, io per noi vuol dire tu. Ebbene allora mi è venuta in mente una espressione di don Giussani, che circa 40anni dopo ha genialmente – penso che don Giussani non avesse visto o letto quest’opera di Pirandello, non lo so, non lo citava Pirandello – ha genialmente scritto nel Senso Religioso: “io sono Tu che mi fai”. Ecco, per me questo è un esempio di che cosa sia stato don Giussani, è entrato dentro la contemporaneità, è entrato dentro la possibilità del senso della manipolazione dell’io che cominciava ad albeggiare all’inizio degli anni ’50 e che poi sarebbe diventata manipolazione pesante delle coscienze e finanche delle radici genetiche della personalità, ma non ha negato quella tentazione, l’ha capovolta, ha detto: l’uomo può soltanto vivere se riconosce di essere fatto, ma può vivere soltanto se riconosce di essere fatto da Colui che ne è l’origine. “Io sono Tu che mi fai”, altrimenti l’uomo diventa uno schiavo. Ecco, per me in questo c’è stata la grandezza di Giussani, la sua capacità di portarci dentro, senza paura, ogni sfida della contemporaneità e dimostrarne la vocazione, la voce, che questa sfida portava a riconoscere la perennità del cristianesimo nella sua capacità di essere risposta all’uomo. Grazie.

ALBERTO SAVORANA:
Ogni sua parola o gesto – ha detto don Massimo – accende in me una comprensione nuova del presente. E’ questa conoscenza nuova, attraverso l’incontro con una umanità cambiata, di cui oggi i nostri ospiti ci hanno dato, chi per conoscenza diretta, chi per conoscenza indiretta attraverso dei testimoni, ci hanno dato prova. E questo è il grande segreto, il grande tesoro che don Giussani continua a metterci nelle mani, come dice molto di frequente Carrόn: io non finirò mai di ringraziare don Giussani, perché ha messo nelle mie mani il metodo, gli strumenti per fare il mio percorso, non per sostituirsi a me, ma perché l’avventura della vita come conoscenza sia possibile a me dovunque sia, in qualunque condizione, sia un ergastolano di Padova o una donna malata di aids in Uganda. Io credo che questo, a distanza di anni, può sorprendere una curiosità, uno stupore, un interesse, come ci hanno documentato oggi Cazzullo, Mazza o don Massimo che ha bevuto la linfa come figlio e che per questo ha sentito questo debito, perché è il debito verso chi ci ha messo nelle condizioni di fare la stessa strada che don Giussani ha fatto. Perché come disse sempre nella omelia funebre il cardinale Ratzinger: non guidava a sé don Giussani, ma a Cristo, non teneva la vita per sé, ma la dava e così è diventato padre di molti, cioè è diventato sorgente di un flusso di vita che è un segno per tutti, di una possibilità, di una positività così che lo stesso titolo del Meeting, nato dentro la sua riflessione sulla esperienza, si carica di carne e sangue. Una conoscenza che non è un discorso corretto e pulito che ci ripetiamo ossessivamente, ma come ci ha ricordato nella sua conferenza di ieri De Martino, è frutto di un avvenimento che precede il fenomeno della conoscenza e ne è il frutto, così che il conoscere è esso stesso un avvenimento, come per brevi istanti anche oggi abbiamo dovuto riconoscere. Per questo io ringrazio Cazzullo e Mazza per quello che ci hanno detto, don Massimo per la testimonianza scritta e verbale che ci ha dato e auguro a Mazza di veder realizzato il desiderio del suo cuore. Grazie

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

25 Agosto 2009

Ora

15:00

Edizione

2009

Luogo

Sala A1
Categoria
Incontri