Chi siamo
DIVENTARE PROTAGONISTI: LA RICERCA DI SÉ NELL’ANTICHITÀ
Reading a cura di Zetesis. Con: Simone Arosio, Attore; Adriana Bagnoli, Attrice; Matteo Bonanni, Attore; Andrea Carabelli, Attore; Margherita Saltamacchia, Attrice.
LEGENDA PER “IPPOLITO” DI EURIPIDE
Afrodite: Margherita Saltamacchia
Ippolito: Simone Arosio
Nutrice: Margherita Saltamacchia
Fedra: Adriana Bagnoli
Teseo: Matteo Bonanni
Messaggero: Andrea Carabelli
Artemide: Adriana Bagnoli
IPPOLITO:
Dall’Ippolito di Euripide
IPPOLITO:
Cuore
Salve, salve, o bellissima fra le vergini!
Per te, o Signora, ho intrecciato questa ghirlanda
Presa da un prato inviolato.
Solo chi è saggio per natura, non per averlo appreso,
può raccogliervi fiori, ai malvagi non è lecito.
O signora cara, accogli da una mano pia
Questo ornamento per i tuoi capelli dorati.
Io solo fra i mortali ho questo dono:
sto con te e parlo con te,
anche se non vedo il tuo volto.
Possa terminare la vita cosi come ho iniziato.
SERVO:
Ah, mio signore – perché il termine “padrone” spetta solo agli dèi – mio signore, accetteresti da me un consiglio, se è buono?
IPPOLITO:
Ma certo. Altrimenti risulterei un dissennato.
SERVO:
Vige tra gli uomini una legge, la conosci?
IPPOLITO:
No, non la conosco: ma perché me lo chiedi?
SERVO:
Che impone di odiare la superbia, la sdegnosità.
IPPOLITO:
È giusto: i superbi sono tutti odiosi.
SERVO:
E allora perché sei altero e trascuri di riverire una divinità?
IPPOLITO:
Quale divinità? Bada alla tua lingua!
SERVO:
Alludo a Cipride: c’è la sua statua proprio lì, a fianco della tua porta.
IPPOLITO:
Io sono puro e il mio corpo è intatto. La saluto, ma me ne sto lontano.
SERVO:
Ma è una dea veneranda e famosa nel mondo.
IPPOLITO:
Degli dèi, come degli uomini, chi ne preferisce uno, chi un altro.
SERVO:
Ti auguro buona fortuna e di avere il senno che ti occorre.
IPPOLITO:
Non mi piace nessun dio adorato di notte.
SERVO:
Figlio mio, agli dèi si devono tributare onori.
IPPOLITO:
Muovetevi, compagni miei, entrate in casa e pensate a rifocillarvi. Dopo la caccia rallegra una mensa ben imbandita. E non dimenticate di strigliare i cavalli: appena placata la fame, li attaccherò per tenerli in esercizio, come si conviene. Quanto alla tua Cipride, portale tanti saluti da parte mia!
Ma guarda lì davanti alla porta la vecchia nutrice: sta accompagnando fuori dal palazzo la padrona. Che volto tetro, rannuvolato ha la regina. E io desidero sapere, con tutta l’anima, che cosa l’abbia distrutta, perché sia cosi pallida.
NUTRICE:
Che tristezza le miserie e le malattie degli uomini! Cosa posso fare per te? O cosa non devo fare? Tutta la vita umana è dolorosa, non c’è sollievo alle fatiche. Qualunque cosa è più cara della vita l’oscurità la nasconde coprendola di nubi.
E siamo presi da amori sbagliati per tutto ciò che splende sulla terra perché non conosciamo un’altra vita e non ci è rivelato l’al di là: e le favole ci portano fuori strada.
FEDRA:
Tiratemi su, reggetemi la testa, mi sento debole, spossata.
Afferratemi per le braccia, le mie belle braccia.
Questa benda sul capo, com’è pesante.
Toglila, lasciami i capelli sciolti sulle spalle.
NUTRICE:
Coraggio, figlia mia non ti agitare tanto. Ti sarà più facile sopportare il male con un po’ di calma e di buona volontà. Purtroppo, a questo mondo, si è costretti a soffrire.
FEDRA:
Ah, potessi bere
Bere le limpide acque
Di fresche sorgive
E stendermi quieta su un folto prato all’ombra dei pioppi
NUTRICE:
Ma figlia cosa blateri? Non parlare cosi davanti alla gente, tirando fuori dei discorsi folli.
FEDRA:
Portatemi sui monti.
Andrò nel bosco e tra i pini:
lì le cagne che azzanno le fiere
braccano i cervi screziati, li assalgono.
Voglio aizzare le cagne,
scagliare, rasente la mia bionda chioma,
una picca tessalica, impugnando
un giavellotto aguzzo.
NUTRICE:
Figlia, ma perché vaneggi cosi? Anche a te interessa la caccia? E cos’è questo amore per le fresche sorgive? Vicino alle mura c’è un colle ricco d’acque, buone da bere.
Come è cominciato questo male?
FEDRA:
Povera madre mia, che razza di amore il tuo!
NUTRICE:
Parli del suo amore per un toro?
FEDRA:
E tu, Arianna, misera sorella mia, sposa di Dioniso…
NUTRICE:
Ma cosa ti succede? Stai denigrando la tua famiglia!
FEDRA:
E la terza infelice sono io, che sto morendo.
NUTRICE:
Sono confusa: dove andrà a parare il discorso?
FEDRA:
Non sono recenti le mie sventure: vengono da laggiù.
NUTRICE:
Non che ora ne sappia molto di più su quello che vorrei sentire.
FEDRA:
Ahimè! Magari potessi dirmi tu quello che devo dire io.
NUTRICE:
Non sono un’indovina, non ho coscienza sicura dell’occulto.
FEDRA:
Che cosa si intende quando si dice amore?
NUTRICE:
Una cosa dolcissima, figlia, e dolorosa insieme.
FEDRA:
Noi avremo sperimentato solo la parte dolorosa.
NUTRICE:
Cosa dici? Tu ami, cara? E ami chi?
FEDRA:
Il figlio dell’amazzone.
NUTRICE:
Parli di Ippolito?
FEDRA:
Il nome lo hai fatto tu, non io.
NUTRICE:
Ma che enormità dici, figlia? Tu mi uccidi. Ma è una cosa intollerabile, donne: io non la sopporterò da viva. Che giorno odioso; anche la luce è odiosa ai miei occhi! Ma io mi butto giù da una rupe, mi libero dall’esistenza colla morte. Addio, io non esisto più. Persino i savi, anche se non lo vogliono, amano le brutture. Cipride non è una dea, ma qualcosa di più grande ancora, se mai c’è, di una dea: ha distrutto lei, me, questi tetti.
MUSICA
NUTRICE:
Mia signora, poco fa la tua vicenda mi ha provocato, lì per lì, uno sgomento terribile. Ma ora mi rendo conto di essere stata stupida: anche tra gli uomini i ripensamenti sono, in qualche modo, più saggi. Non ti è successo nulla di eccezionale o di assurdo. Tu ami, cosa c’è di strano? Sei in buona compagnia.
E per amore vuoi perdere la vita?
Ma che bel vantaggio per gli amanti di oggi e di domani dover morire.
Se Cipride irrompe impetuosa, non le si può resistere: e si accompagna con dolcezza e chi le cede!
Abbi il coraggio di amare: un dio ha voluto cosi.
E se sei malata, cerca un buon sistema per vincere la tua infermità.
FEDRA:
Ho paura che tu mi risulti troppo astuta
NUTRICE:
Lo vedi che hai paura di tutto? Cosa temi adesso?
FEDRA:
Che tu informi in qualche modo il figlio di Teseo.
NUTRICE:
Lascia perdere, figlia: aggiusterò tutto per bene. Purché tu, Cipride, signora del mare, mi aiuti.
FEDRA:
Silenzio, donne… è Ippolito che grida! Impreca contro la mia serva, dice cose tremende! La chiama mezzana… non ne vuole sapere… mi ha tradito! Ha rivelato il mio segreto! Mi ha perduta svelando quello che per me era una sventura. Voleva medicare la mia piaga, e la mano era amica, ma l’ha fatto in malo modo e a prezzo dell’onore. Sono perduta! Una cosa è certa: devo morire, al più presto. È l’unico rimedio nell’attuale disgrazia. Morire. Come, devo deciderlo. L’amore mi avrà vinta, un amore che sa di fiele, ma ad un altro sarò una sciagura con la mia morte perché sappia non essere superbo per le mie sventure. Quello che soffro e che mi fa malata lo soffrirà anche lui. E dividendo insieme con me questo male imparerà ad essere saggio.
NUTRICE:
Presto, venite tutti: non state lì intorno alla reggia: la padrona, la moglie di Teseo si è impiccata. Sbrigatevi! Nessuno ha una spada ben affilata per recidere la corda che le stringe la gola? Tiratela giù, adagiate il misero cadavere, amaro custode della dimora dei miei padroni.
TESEO:
Donne, cosa significa tutto questo clamore a palazzo? Perché non si aprono le porte e nessuno mi viene incontro? E torno da Delfi! È successa qualche disgrazia?
NUTRICE:
La madre dei tuoi figli è morta.
TESEO:
Cosa dici? Mia moglie è morta? E come?
NUTRICE:
Si è passata un laccio intorno al collo e si è impiccata.
TESEO:
Su di me, sulle mie case si è abbattuto un esiziale destino, l’imprevedibile infamia progettata da un dio vendicatore, intollerabile annientamento di una vita. Sono schiantato dal dolore. Da lontano mi porto dietro un destino sancito dagli dèi per le colpe di qualche antenato?
NUTRICE:
Signore non su e soltanto venne questa sventura. Insieme con molti altri perdesti una nobile sposa.
TESEO:
Tu di tutte le donne sei stata la migliore. Ora è la fine, la casa è vuota orfani sono i miei figli.
NUTRICE:
Ahi misero quanta sventura la casa, le mie palpebre sono tutte molli di lacrime per la tua sciagura e da tempo io tremo per la disgrazia che verrà dopo questa.
TESEO:
Che cos’è quella lettera che pende dalla sua mano? Vuole comunicarmi qualche cosa che ignoro? Forse la mia povera moglie ha lasciato una missiva con le sue preghiere di sposa e di madre? Staccate gli allacci del sigillo che io veda cosa vuol dirmi questa lettera.
NUTRICE:
Ahi, ahi misero lo avvicenda ecco un dio giunge in continuazione. Per me invero dopo l’accaduto è possibile solo un insostenibile destino di vita.
TESEO:
Ahimè a una sventura un’altra se ne aggiunge indicibile ed intollerabile che tortura per me.
NUTRICE:
Che c’è parla se posso averne parte.
TESEO:
Questa lettera grida, grida cose orribili. Come posso sfuggire al peso del dolore. Sono morto, finito. Che soli spaventosi ho visto uscire da questa lettera.
NUTRICE:
Ahimé tu riveli un discorso che è inizio di mali.
TESEO:
Non riesco più ad arrestare sulla soglia della mia bocca questa insormontabile mortale disgrazia. Sciagurata città. Ippolito ha osato accostarsi al mio letto con violenza ha disprezzato l’occhio augusto di Zeus. Padre mio Poseidone tu mi avevi concesso un tempo tre maledizioni in dono esaudiscine una. Annienta il mio esilio. Che non veda la luce di domani se le tue promesse sono veritiere.
NUTRICE:
Signore per gli dei ritira questa maledizione. Saprai poi di avere errato. Ascoltami.
TESEO:
Lo caccerò via di qui. In un modo o nell’altro il suo destino è segnato. O verrà spedito cadavere nel regno dell’are da Poseidone se il dio onora le sue promesse o esiliato da questo paese si sobbarcherà un’esistenza penosa vagando per terre straniere.
NUTRICE:
Ma ecco Ippolito. In persona. Tuo figlio che giunge a tempo. Tesio, signore desisti dal tuo funesto sdegno e provvedi il meglio per la tua casa.
IPPOLITO:
Sono accorso in fretta padre appena ho sentito il tuo grido ma ignoro la ragione per cui piangi e vorrei sentirla da te. Ma cosa è successo? Scorgo lì davanti ai miei occhi il cadavere della tua sposa. E’ assolutamente incredibile non è molto che l’ho lasciata era ancora viva poco fa. Ma che cosa le è capitato? Come è morta? Padre vorrei che tu melo dicessi. Resti in silenzio ma il silenzio è fuori luogo in situazioni simili. Non è giusto che tu nasconda le tue sventure alle persone care anzi più che care.
TESEO:
Quanti errori inutili commettono gli uomini. Ma perché insegnate tante arti? Escogitate, invitate tutto. Ma una sola cosa non sapete e non perseguite educare alla ragione chi è privo di cervello.
IPPOLITO:
Tu hai definito bravo maestro uno capace di costringere alla ragione chi non ha cervello. Starei sottilizzando fuori luogo padre e temo che le tue sofferenze ti facciano sproloquiare.
TESEO:
Gli uomini dovrebbero disporre di indizi sicuri. Di un modo per scrutare gli animi degli amici per sapere chi è tale e chi non lo è. E dovrebbero avere tutti due voci una sincera in aggiunta all’atra che è come è. Così la voce disonesta verrebbe confutata dall’onesta e noi non saremmo tratti in inganno.
IPPOLITO:
Ma forse qualche amico mi ha calunniato alle tue orecchie ed io patisco per una colpa che non ho. Sono stupefatto e mi sbalordiscono i tuoi discorsi strani e fuori posto.
TESEO:
Dove… sin dove può spingersi l’anima di un uomo. Ci sarà mai un limite all’audacia tracotante, impudente? Se si gonfia ad ogni generazione se chi viene dopo supera in malvagità chi lo ha preceduto gli dei dovranno aggiungere alla nostra un altra terra che accolga gli ingiusti e gli infami. Ma guardatelo bene questo individuo è sangue del mio sangue eppure ha disonorato il mio letto. La morta lo accusa apertamente di essere un malvagio. Su, mostra il tuo volto adesso a tuo padre. Ormai sono contaminato dall’empietà. Tu, tu saresti l’essere superiore che ha comunione con gli dei? Tu saresti il virtuoso? Saresti un puro senza vizi? Non sarò certo io a credere alle tue millanterie ad attribuire agli dei le imbecillità di non capire bene. Ora vantati pure. Imbroglia gli altri, chi vuoi, col tuo nutrirti di verdure e cereali. Prenditi Orfeo come maestro e beccheggia in veste mistica, onorando i molti libri pieni di fumo. Sei stato colto in flagrante. Io grido a tutti di fuggire da individui come te. Cercano di catturare la preda con le grandi parole ma ciò che tramano è vile. Lei è morta. Pensi con questo di essere salvo? No, no sei invece in trappola proprio per questo. Vattene via da questo paese, alla svelta vattene in esilio.
IPPOLITO:
Padre la veemenza e la tensione del tuo animo sono terribili. Comincerò da dove mi hai subdolamente attaccato convinto di distruggermi e di non ricevere repliche da me. Tu vedi questo cielo splendente e la terra anche se tu lo neghi non c’è in questo mondo nessun di più virtuoso di me. Intanto io venero gli dei e frequento amici che cercano di non fare del male. Anzi si vergognerebbero di dare ai compagni ordini indegni di contraccambiare il favore con turpi azioni. E non derido i miei compagni. Sono sempre lo stesso per gli amici presenti o assenti che siano. E proprio in una cosa io sono integra quella per cui tu credi di avermi in pugno. Sino a questo momento mi sono conservato casto, immacolato. Non conosco gli incontri d’amore se non per averne sentito parlare o averli visti raffigurati. E neppure mi sento spinto a guardarli. La mia anima è vergine. La mia purezza non ti persuade? D’accordo allora devi dimostrare in che modo mi sono corrotto. Lei era la più bella donna del mondo? O speravo di insediarmi in casa tua e di prendere anche l’ereditiera come moglie? Sarei stato uno stupido uno sprovveduto. Ma comandare è bello dirai per chi è sano di mente. No certo e se a qualcuno piace la tirannia e perché è uscito di cervello. Per parte mia potrei essere primo ai giochi ellenici e secondo in città. Vivendo sempre in prospera sorte con gli amici migliori. Perché così si è liberi nelle proprie azioni l’assenza di rischio è più gratificante del potere. Una sola cosa devo ancora dirti il resto lo sai. Se avessi un testimone per provare chi sono io se potessi discutere il mio caso con lei viva, qui. All’esame dei fatti individueresti chi è il colpevole. Ora per Zeus garante dei giuramenti per il suolo della terra ti giuro: non ho mai toccato tua moglie. Non ne ho mai sentito il desiderio neanche mi ha sfiorato l’idea. Che io possa morire inglorioso, anonimo senza città e senza casa vagando esule per il mondo. Chi nel mare e nella terra accolga nel mio corpo se è vero che sono un malvagio. Che paura l’abbia spinta a togliersi la vita non lo so. Di più non mi è lecito dire. E’ stata casta e potevo non esserlo. Io lo sono ed ho male impiegato la mia virtù.
TESEO:
Ma guarda, guarda che incantatore, che giocoliere confida di piegare con la sua aria per bene il mio animo l’animo del padre da lui disonorato.
IPPOLITO:
Anch’io sono davvero stupito. Padre se io fossi il padre e tu il figlio se fossi convinto che ti eri accostato a mia moglie ti avrei condannato a morte, ti avrei ucciso.
TESEO:
Parole esatte degne di te. Ma non morirai così in base alla legge che hai proposto tu per te. Una fine rapida è troppo comoda per un empio. Tu te ne andrai invece in esilio dalla patria. Ti sobbarcherai un’esistenza penosa vagando in terre straniere.
IPPOLITO:
Ma che intenzioni hai? Mi bandisci da questa terra senza attendere che il tempo riveli la verità su di me?
TESEO:
Io ti bandirei se potessi ben oltre l’oceano ai confini di Atlante tanto detesto la tua persona.
IPPOLITO:
E mi caccerai dal paese senza processo, senza avere esaminato giuramento, prove, responsi di indovini?
TESEO:
Questa lettera. Questa lettera che non ammette l’ambiguità dei responsi ti accusa fuor di ogni dubbio. Quanto agli uccelli che ruotano sulle nostre teste salutameli tanto!
IPPOLITO:
O dèi, perché non dissigillo le labbra, quando voi mi uccidete perché vi onoro? Ma non riuscirei comunque a convincere chi devo, violerei inutilmente i giuramenti pronunziati.
TESEO:
Come mi tormenta questa tua santità. Perché non te ne vai alla svelta dalla casa paterna?
IPPOLITO:
Per andare dove, disgraziato me? Chi ospiterà in casa sua un esule gravato da un’accusa simile?
TESEO:
Chiunque sia felice di accogliere corruttori di donne e compagni di vizi.
IPPOLITO:
M’infliggi una brutta ferita. E’ da piangere passare per un malfattore soprattutto ai tuoi occhi.
TESEO:
Dovevi piangere e pensarci allora quando hai osato oltraggiare la moglie di tuo padre.
IPPOLITO:
Magari potessero parlare per me le case. Testimoniare se io davvero sono un infame.
TESEO:
Sei molto accorto nel ricorrere a testimoni muti. Ma il fatto in se ti denunzia come un esser abbietto senza bisogno di parole.
IPPOLITO:
Vorrei stare di fronte a me stesso e guardarmi per piangere sulla disgrazia che patisco.
TESEO:
Sei molto più bravo nell’avere cura di te che nell’agire onestamente come sarebbe giusto con chi ti ha dato la vita.
(musica – effetti)
MESSAGGERO:
Mio signore, Ippolito non è più. Se posso esprimermi così non vede la luce. Ma la sua vita è in bilico.
TESEO:
Dimmi: la spada della giustizia come si è abbattuta sull’uomo che mi ha disonorato?
MESSAGGERO:
Stavamo strigliando la criniera dei cavalli lungo la riva battuta dalle onde e piangevamo. Qualcuno era venuto ad informarci che Ippolito lasciava per sempre il paese che tu lo avevi condannato ad un triste esilio. Presto giunse anche lui. Risuonava con il nostro anche il suo pianto sulla spiaggia. Dietro di lui c’era una lunga fila di amici e di coetanei ad un certo punto smise di gemere ed esclamò: perché sono così sconvolto? Devo obbedire a mio padre, preparate i cavalli servi ed attaccateli al carro. La mia patria non è più qui ormai. Ci impegnammo tutti allora e in men che non si dica ecco le cavalle bardate pronte davanti al nostro padrone, afferra le redini appoggiate sul bordo, infila subito il piede negli incavi poi alza le braccia verso il cielo pregando gli dei “Zeus che io possa morire se sono un malvagio e capisca mio padre di avermi fatto un torto tanto se muoio quanto se continuo a vedere la luce”. Afferrato il pungolo di colpo toccò con esse le puledre. Noi servi accompagnavamo il padrone accanto al carro presso le redini lungo una strada che corre diritta ad Argo ed a Epidauro. Arrivammo a un luogo solitario a una spiaggia al di là dei nostri confini di fronte al golfo di Salonicco ed allora come un tuono di Zeus si udì un rombo sotterraneo di un boato cupo, terrificante. Le puledri alzano il muso le orecchie verso il cielo noi fummo presi da un’atroce paura non si capiva da dove provenisse quel fragore. Voltammo lo sguardo sul lido battuto dai marosi un onda gigantesca si stava levando sino al cielo. Non riuscivamo più a distinguere la rupe di Scirone erano scomparsi l’Istmo la rocca di Asclepio. Poi gonfiandosi un’esplodere di schiuma tutt’intorno per il ribollire del mare. L’onda avanzava verso la spiaggia dove si trovava la quadriga con la violenza della terz’onda dai flutti viene proiettato fuori un toro, un mostro orrendo. Tutta la terra si riempì di muggiti e riecheggiavano in modo agghiacciante. Ci si presentò agli occhi uno spettacolo che la vista non reggeva. Ho subito un tremendo terrore. Assale le cavalle il padrone molto esperto del lingue di quegli animali. Impugnò le redini con entrambi le mani e le girò a se inarcandosi all’indietro e reggendosi sulla tensione delle briglie. Ma i cavalli serrando tra le mascelle il morso temprato al fuoco lo trascinava a forza. Non sentono più la mano dell’auriga, delle redini, del peso del carro. Se lui con mano ferma indirizzava le cavalle verso un terreno molle il toro gli stava di fronte e lo obbligava a ripiegare facendo impazzire di paura le quattro puledre. Se esse si dirigevano furiose verso la roccia appressandosi silenziosamente al capo il toro lo seguiva finché non lo fece sbandare e ribaltare. Le ruote del carro avevano urtato contro una rupe successe il caos i mozzi delle ruote, i cavicchi degli assali saltarono via. Lo sventurato impigliato nelle redini stretto in un groviglio inestricabile viene trascinato via. La testa urtava contro le rocce, le carni si laceravano e lui urlava parole terribili da sentire: “Fermatevi vi ho nutrito io nelle mie stalle non uccidetemi. O funesta maledizione di mio padre. Chi aiuta un innocente a salvarsi”. Molti di noi lo avrebbero voluto ma non si riusciva a raggiungerlo. Eravamo troppo lenti. E lui liberato di colpo non so come dalle redini di cuoio cadde a terra e respira ancora, debolmente. Le puledre e il toro, mostro orrendo, scomparvero non so come nel terreno roccioso. Signore io sono un servo di casa tua ma non arriverò mai a credere che tuo figlio sia un malvagio. Neppure si peccasse tutta la razza delle donne e si ricoprisse di scritti il legno dei pini dell’Ida. Io so che è innocente.
TESEO:
Odiavo l’uomo che ha subito questo strazio e perciò ho gioito al tuo racconto. Ma ora per rispetto verso gli dei. Ma anche verso di lui, che è nato da me non godo della sua sventura: ma neanche ne provo pietà.
ARTEMIDE:
Ascolta, Teseo, la storia dei tuoi mali. Io non ne ricaverò vantaggio e farò soffrire te. Ma sono venuta sin qui per dimostrare la rettitudine di tuo figlio – perché muoia con l’onore salvo – per dimostrare la follia di tua moglie o, in un certo senso, la sua nobiltà. Piagata dal pungolo della dea, grande nemica di chi ha gioia di essere vergine, fu presa da amore per tuo figlio. Cercava di vincere Cipride con la ragione ma venne rovinata suo malgrado dagli intrighi della nutrice che svelò quella passione a tuo figlio sotto vincolo di giuramento. E lui com’era giusto! Ignorò le proposte della donna e proprio per la sua pietà non volle violare il giuramento neppure quando fu offeso da te. Lei, temendo di essere scoperta in colpa, scrisse delle accuse bugiarde e con la frode annientò tuo figlio. E tu gli hai creduto.
TESEO:
Ahimè. Vorrei morire.
IPPOLITO:
Oh dio, dio come soffro! Un padre ingiusto e la sua maledizione ingiusta hanno fatto scempio di me. Mi trafiggono la testa dolori lancinanti. E’ finita. Povero me. Dio mio! Nel mio cervello infuriano gli spasmi. Fermati. Un po’ di requie per il mio corpo stremato. Cavalle odiose, vi avevo nutrito con le mie mani e voi mi avete spento, ucciso. Ah, ah! Servi, in nome di dio, fate piano. Attenti a toccarmi, sono tutto una piaga. Sollevate con cautela, trasportate tutti insieme questo povero perseguitato dalla sorte, maledetto torto, per errore è suo padre. O Zeus, Zeus, vedi queste cose e io, fedele agli dei, devoto, superiore a tutti per castità mi avvio verso l’Ade che si spalanca davanti a me. La mia vita volge ormai al termine estremo e i miei sforzi per tenere fede tra gli uomini alla legge divina sono stati inutili. Ah, ah, che dolore! Come soffro! Lasciate questo infelice, ben venga la morte, sarà un sollievo. Uccidetemi. Fatela finita con questo infelice. Datemi un’arma affilata, voglio mozzare la mia esistenza, addormentarmi per sempre. Che cosa orribile, la maledizione di mio padre; da loro, dagli antenati, dai parenti assassini mi viene in eredità questo male e non indugia. Io non ho fatto niente, niente. Ahimè, ma cosa posso dire? come posso liberare la mia vita da questo supplizio intollerabile? Che la nera tenebra dell’Ade fatale addormenti questo povero infelice.
ARTEMIDE:
Povero infelice! La sventura ti ha imposto il suo ineluttabile giogo. La tua nobiltà d’animo ti ha perduto.
TESEO:
Nell’aria c’è un profumo celeste. Lo sento, lo sento anche in mezzo alle sofferenze, è un balsamo per il mio corpo. Qui vicino c’è Artemide.
ARTEMIDE:
E’ qui, vicino a te, povero infelice, la dea che tu ami più di tutto.
IPPOLITO:
Tu vedi, tu vedi signora come soffro.
ARTEMIDE:
Lo vedo ma non mi è concesso versare lacrime.
IPPOLITO:
Il cacciatore, il servo che ti obbediva non è più.
ARTEMIDE:
E’ vero ma anche in morte mi sei caro.
IPPOLITO:
Il tuo auriga, il custode delle tue statue non è più.
ARTEMIDE:
E’ stata Ciprie l’infame a ordire tutto questo.
IPPOLITO:
Ora capisco chi è il dio a cui devo la mia rovina.
ARTEMIDE:
Ti ha trovato in colpa: le hai negato onore, sei casto.
IPPOLITO:
Da sola è riuscita a rovinarci in tre.
ARTEMIDE:
Si. Te, tuo padre e sua moglie.
IPPOLITO:
Ma io piango anche sulla sventura di mio padre.
ARTEMIDE:
E’ caduto nella trappola preparata da un Dio
IPPOLITO:
Povero padre che disgrazia ti è toccata
TESEO:
Per me è finita, Figlio. Non provo più alcun piacere a vivere.
IPPOLITO:
Più della mia sorte, compiango te per il tuo errore.
TESEO:
Vorrei morire al tuo posto, figlio!
IPPOLITO:
Sono ben amari quei doni di tuo padre
TESEO:
Non l’avessi mai pronunziata quella maledizione!
IPPOLITO:
Perché? Perché? L’avresti comunque uccisa: eri rigonfio d’ira e dio, dio ottenebrava la mente… Magari la razza umana potesse maledire gli dei!
ARTEMIDE:
Lascia perdere! Neppure sotto le tenebre della terra le ire concepite dalla dea Cipride per la tua pietà e per il tuo animo nobile si abbatteranno sopra di te impunemente. Io di mia mano, con queste frecce infallibili punirò un suo fedele, il fedele da lei prediletto e tu sventurato avrai un compenso per questi mali! Io ti garantisco un culto straordinario nella città di Trezene: candide vergini si recideranno per te chiome prima delle nozze! Per lungo tempo godrai del profondo compianto delle loro lacrime, sempre il loro ricordo si tradurrà in canti in tuo onore, non cadrà in oscuro silenzio l’amore di Fedra per te. E tu, prole del vecchio Egeo, abbraccia tuo figlio, stringilo a te: lo hai ucciso, ci sei stato costretto. È logico che gli uomini sbaglino quando così decidono gli dei. E tu Ippolito non odiare tuo padre, te lo chiedo io. Era tuo destino morire così. E ora, addio, non mi è concesso vedere i morti o lasciar contaminare la mia persona dal respiro dei morenti e mi accorgo che tu ormai sei vicino alla fine.
IPPOLITO:
Addio anche a te, addio anche a te, vergine beata, non è gravoso per te lasciare una lunga comunanza. Cancello in me ogni rancore per mio padre, come vuoi tu: ho sempre obbedito alle tue parole.. ah.., la tenebra comincia a calare suoi miei occhi!: Accoglimi padre, accoglimi fra le tue braccia e componi il mio corpo per il trapasso..
TESEO:
Di me sventurato cosa farai figlio?
IPPOLITO:
Sto morendo, mi lacerai alle porte dell’Ade..
TESEO:
Mi lascerai contaminato dalla colpa?
IPPOLITO:
No, ti perdono della mia morte..
TESEO:
Cosa dici? Mi perdoni del sangue versato?
IPPOLITO:
Chiamo testimone Artemide, la dea dell’arco..
TESEO:
Ahimè, te sei davvero un pio e un giusto..
IPPOLITO:
Addio a te padre, addio..
TESEO:
Che animo nobile mostri, carissimo, verso tuo padre..
IPPOLITO:
Prega che anche i tuoi figli legittimi siano così..
TESEO:
Non mi abbandonare! Resisti!
IPPOLITO:
La mia forze se ne è andata, come la mia esistenza.. presto.. coprimi il volto con un velo..
TESEO:
O gloriosa terra di Artemide e di Pallade, di che uomo resti priva! Infelice me! A lungo, Cipride, mi ricorderò dei tuoi crimini.
LEGENDA PER TELEMACO (DALL’ODISSEA DI OMERO):
Atena: Adriana Bagnoli
Euriclea: Adriana Bagnoli
Elena: Margherita Saltamacchia
Telemaco: Andrea Carabelli
Menelao: Simone Arosio
Ulisse: Matteo Bonanni
Eumeo: Simone Arosio
Nestore: Matteo Bonanni
ATENA:
Telemaco, ti darò un saggio consiglio se vuoi ascoltarmi:armata di venti remi la nave migliore che c’è, parti e cerca notizie del padre da tanto tempo lontano, te ne parlasse un mortale o sentissi la fama di Zeus, che molto divulga le voci fra gli uomini. Va a Pilo prima di tutto, il nobile Nestore interroga, e di là a Sparta, dal biondo Menelao, che è tornato per ultimo fra gli Achei dalle bronzee armature. E se del padre saprai che è vivo, ritorna e un anno ancora sopporta, benché depredato; se invece senti che è morto, che non è più, allora torna alla casa paterna, alzagli un tumulo, offrigli doni funebri, molti, come è giusto, e affida a un marito tua madre. Quando infine avrai fatto e compiuto ogni cosa, medita allora nell’animo e nel cuore come potrai uccidere nella tua casa i pretendenti, con l’inganno o apertamente: non devi più fare il bambino, non hai più l’età. Ti vedo bello e grande, oh amico, sii coraggioso, perché vi sia fra i tuoi discendenti chi parli bene di te.
TELEMACO:
Ascoltami, Atena, che nella mia casa venisti e per nave ordinasti che sul mare nebbioso il ritorno del padre, da tanto tempo lontano, partissi a cercare: ma tutto gli Achei mi impediscono, e più ancora i pretendenti dalla malvagia superbia.
ATENA:
Telemaco, mai sarai vile o sciocco, se hai la nobile forza di tuo padre, capace di compiere azioni e parole. Dunque né inutile, né incompiuto sarà il tuo cammino. Se invece tu non fossi figlio di lui e di Penelope, non avrei speranza che compissi i tuoi progetti. In verità pochi figli sono simili al padre ma i più sono peggiori, pochi invece migliori. Ma poiché mai sarai vile o sciocco e il senno di Ulisse non ti manca, spero che realizzerai queste azioni.
TELEMACO:
Nutrice, su!, vino nelle anfore versami, dolce, il migliore dopo quello che serbi pensando a quel misero se un giorno tornasse, sfuggendo al destino di morte, Ulisse glorioso. E versami anche farina negli otri ben cuciti: venti misure di farina macinata di grano. Sappilo solo tu: che tutto sia pronto. Lo prenderò di sera, quando mia madre salirà al piano di sopra e penserà al sonno. Infatti andrò a Sparta e a Pilo sabbiosa, per sapere del ritorno di mio padre, se mai ne udrò parlare.
EURICLEA:
Perché mia creatura ti è venuto questo pensiero nel cuore? Come vuoi andare, tu da solo, per tanta strada da solo?
Quello è morto lontano dalla patria, Ulisse divino fra popoli stranieri. Ma questi appena partito, ti trameranno insidie, perché tu muoia d’inganno e si divideranno tutto. Resta a custodire i tuoi beni; non bisogna che tu soffra sventure sul mare infecondo.
TELEMACO:
Nutrice, coraggio, questo progetto non è senza un dio. Ma giura di non dirlo a mia madre, prima che passino undici o dodici giorni o che lei mi cerchi e sappia che sono partito, perché non sciupi il suo viso piangendo.
ATENA:
Telemaco, non devi avere ritegno per nulla. Per questo hai navigato sul mare, per chiedere di tuo padre, dove lo copre la terra e quale sorte ha avuto. Su, avvicinati a Nestore domatore di cavalli: vediamo quale mente ha racchiusa in sé. Rivolgigli una preghiera tu stesso, che ti dica il vero: non racconterà menzogne perché è molto saggio.
TELEMACO:
Sì, ma come andrò? Come dovrò salutarlo? Non ho esperienza di parole sapienti, e non è un bene che un giovane interroghi un vecchio.
ATENA:
Telemaco, tu stesso penserai qualcosa nel tuo cuore, e qualcosa ti suggerirà un Dio. Non credo infatti che tu sia nato e cresciuto senza il volere divino.
TELEMACO:
Oh Nestore di Néleo, grande onore agli Achei, noi veniamo da Itaca, sotto il monte Neio, e questo che dirò è un affare privato, non del popolo. Cerco la grande fama di mio padre, se mai posso sentirne parlare, del paziente Ulisse divino, che un giorno si dice abbatté la città dei troiani combattendo con te. Ma tutti gli altri che fecero guerra ai troiani sappiamo dove morirono di triste morte, di lui invece anche la morte ha reso ignota Zeus. Nessuno sa dirci chiaro dove è perito se domato sulla terra da genti nemiche, oppure nel mare fra le onde della dea Anfitrite. Per questo ora vengo a supplicarti, se vuoi raccontami la tua triste morte, o vista coi tuoi occhi o udita dal racconto di un altro, che abbia viaggiato.,, Ben infelice l’ha partorito la madre! Ah! Non dirmi parole di miele per rispetto o pietà ma raccontami bene come ti è apparso alla vista. Ti prego, se mai mio padre, il nobile Ulisse, ah compiuto promesse con azioni o parole nella terra di Troia, dove dolori soffriste voi Greci, ricordatene ora e parla sincero.
NESTORE:
O caro, mi hai ricordato il dolore che in quella terra patimmo noi figli degli Achei impetuosi nell’ira. Là tutti i migliori furono uccisi, anche il mio caro figlio, forte e perfetto, Antiloco, veloce a correre e battagliero. Nessuno là voleva confrontarsi con Ulisse nel senno, perché di molto ci vinceva lo splendido Ulisse in tutti gli inganni, tuo padre, se sei davvero suo figlio: mi sbalordisce guardarti. Simili sono le tue parole e non diresti che un giovane parli nello stesso modo. Là io e lo splendido Ulisse mai in assemblea e nel consiglio parlavamo discordi, ma avendo un animo solo con senno e volere prudente suggerivamo quanto di meglio sarebbe accaduto agli Achei. Ma quando abbattemmo l’alta città di Priamo, andammo alle navi, e.. un dio disperse gli Achei. Così, figlio mio, senza notizie io giunsi e non so nulla di quelli, che fra gli Achei si è salvato e quanto perirono.. Chissà se un giorno, tornando, vendicherà le violenze Ulisse stesso da solo o tutti insieme gli Achei? Se Atena volesse amarti come allora aveva a cuore il glorioso Ulisse (mai vidi gli dei amare così apertamente come, apertamente, lo assisteva Pallade Atena) se così volesse amarti e curarsi di te, allora qualcuno dei pretendenti si scorderebbe le nozze.
TELEMACO:
Oh vecchio, non credo che questa parola si compia! Hai detto una cosa troppo grande: mi prende stupore. Non potrebbe accadere questo alla mia speranza, neanche se lo volessero i numi.
ATENA:
Telemaco, che parola ti è sfuggita di bocca! È facile a un dio, sa vuole, salvare un uomo, anche da lontano.
NESTORE:
Ma tu, caro, non errare troppo lontano da casa, abbandonando i tuoi beni, lasciando nella tua reggia uomini tracotanti: che non ti depredino di tutto, dividendo gli averi, e il tuo viaggio sia inutile. Però, però.. da Menelao ti esorto e consiglio di andare; da poco è tornato da genti straniere. Va dunque, va con la tua nave e i compagni. Se invece vuoi andare per terra, c’è un carro a cavalli, e ci sono i miei figli che ti faranno da giuda, alla splendida Sparta, dov’è il biondo Menelao.
MENELAO:
Davvero il figlio di un caro amico è giunto alla mia casa, che molti dolori ha sofferto per me. E mi dicevo che quando fosse venuto l’avrei onorato su tutti gli altri, se mai Zeus Olimpio dall’ampia fronte ci avesse concesso il ritorno per mare, sulle navi veloci. Ma un dio stesso doveva impedirci questo e ha reso senza ritorno soltanto quell’infelice. Telemaco, Zeus compia per te il ritorno a casa, come il tuo cuore desidera. Fra quanto tesori si trovano nella mia reggia ti darò il dono più bello e prezioso.
ELENA:
Mio caro, un dono anch’io, Elena, ti faccio, ricordo delle mie mani, per il giorno delle tue nozze bramate: che la tua sposa porti questa veste; intanto la serbi in casa tua madre. Felice possa tu giungere alla dimora ben fatta e alla tua terra paterna!
ELENA:
Ascoltatemi, farò una profezia, come mi ispirano gli immortali nel cuore e credo si compirà. Come quell’aquila ha rapito un’oca allevata in casa, dove ha il suo nido e i suoi figli, calando dalla cima della montagna, così Ulisse, dopo aver molto sofferto ed errato, tornerà a casa e farà vendetta: forse già ora è in casa e a tutti i pretendenti genera mali.
ULISSE:
Eumeo, certo arriva qualcuno che ti è molto amico o ben conosciuto, perché i cani non latrano, ma fanno festa: senti, senti il suono di passi?
EUMEO:
Sei qui, Telemaco, dolce luce! Non credevo di rivederti, da quando sei andato a Pilo per nave! Ma, su, entra, mio caro, che io goda a vederti nel cuore, appena tornato da luoghi stranieri.
TELEMACO:
Vecchio, da dove viene quest’ospite? Come lo condussero a Itaca dei marinai? Chi erano? Non è certo venuto qui per via di terra.
EUMEO:
Ma certo caro, tutta la verità ti dirò. Dice di essere stirpe dell’ampia Creta, e che per molte città di mortali ha vagato ramingo, così un Dio gli ha filato il destino. Ora fuggendo da una nave di uomini nemici è giunto alla mia capanna e io te l’affiderò: fa’ come vuoi: tuo supplice dice di essere.
TELEMACO:
Eumeo, davvero hai detto una parola penosa: ma come potrò accogliere un ospite in casa? Io sono ancora giovane e non mi fido del mio braccio per respingere un uomo che sia offensivo per primo. Se vuoi tienilo nella tua capanna: io manderò qui vesti e ogni cibo da mangiare, perché non sia di peso e rovini te e i tuoi uomini. Vecchio, tu va subito dalla saggia Penelope, dì che sono slavo e sono tornato da Pilo. Io invece resterò qui e tu torna indietro, dopo aver parlato a lei sola: nessuno degli altri Achei lo venga a sapere: molti infatti mi preparano mali.
ATENA:
Divino figlio di Laerte, Ulisse astuto, parla ora a tuo figlio e non nasconderti più, perché prepariate destini di morte ai pretendenti e insieme andiate alla nobile città: io stessa non sarò lontana da voi, disposta a combattere.
TELEMACO:
Ospite, mi sei apparso differente ora da prima: hai altre vesti e la carnagione non è la stessa. Davvero sei un dio di quelli che abbiamo nel vasto cielo. Sii propizio, perché ti diamo offerte gradite e dono d’oro lavorato: risparmiaci!
ULISSE:
Non sono certo un dio: perché mi paragoni agli immortali? Sono tuo padre, per cui gemi e soffri tanti dolori, subendo violenze.
TELEMACO:
No, no no, non sei mio padre Ulisse, ma un nume mi incanta, perché ancor più soffra piangendo. Mai un uomo potrebbe escogitare questo con la sua sola mente, a meno che un dio stesso venendo lo renda a suo piacere facilmente giovane o vecchio.
ULISSE:
Telemaco, non va bene che tu davanti a tuo padre tornato, ti stupisca troppo e guardi sconvolto. Non verrà più qui un altro Ulisse, ma sono io quello, che dopo aver molto sofferto, molto vagato, sono giunto al ventesimo anno nella mia patria. E questa è opera di Atena guerriera, che mi ha reso come mi vedi – lo può infatti – a volte simile a un mendicante, a volte a un giovane con belle vesti sul corpo. È facile per gli dei che abitano il vasto cielo, onorare un mortale o abbassarlo.
MUSICA
ULISSE:
Per consiglio di Atena venni qui perché insieme facciamo piani di morte ai nemici. Dimmi dunque a uno a uno i pretendenti, contandoli, che sappia quanti e quali uomini sono: poi riflettendo nel mio cuore incolpevole penserò se noi due potremo attaccarli da soli o se cercare degli altri.
TELEMACO:
Padre, ho sempre sentito grande fama di te, che eri gagliardo di braccia e saggio di mente, ma hai detto una cosa troppo grande: stupore mi prende: non sarebbe possibile che due uomini combattano con molti e forti. Dei pretendenti non ce n’è una decina, e neanche due, ma sono molti di più! E tu quindi, se puoi trovare un alleato, dillo, uno che ci difenda con cuore propizio.
ULISSE:
Certo te lo dirò, e tu ascolta e comprendi: e dimmi se a noi Atena e il padre Zeus basteranno.
(Trascrizione non rivista dai relatori)