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DISAGIO MENTALE E COMPASSIONE
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Gigi De Palo, direttore generale Fondazione Angelini; Fabrizio Starace, presidente Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica; Michele Zanetti, già presidente Provincia di Trieste e promotore insieme a Franco Basaglia della legge 180. Introduce Marco Bertoli, direttore Dipartimento Dipendenze e Salute Mentale dell’Azienda Sanitaria Universitaria Friuli Centrale. In occasione dell’incontro video-intervento di saluto di Devora Kestel, direttrice del dipartimento di Salute mentale e abuso di sostanze all’Oms di Ginevra
L’esperienza della sofferenza necessita di qualcuno che condivida. Quando Franco Basaglia arrivò a Gorizia nel 1961 si accorse della bruttezza del manicomio, della sua brutalità e volgarità. Trovò chi lo aiutò a chiudere una vicenda disumana. Avvenne a Trieste, dove gli si affiancò Michele Zanetti ed insieme iniziarono un’altra storia, stavolta fatta di riconoscimento della dignità della persona, condivisione e apertura. Cosa ci insegna oggi quell’evento rivoluzionario? Ci continua ad indicare il bisogno di una pazienza, di una vicinanza e di una attenzione, che ritroviamo nelle nuove pratiche di intervento, nella consapevolezza incessante di un’umanità rinnovata, di un tentativo di comprensione delicato e di una programmazione condivisa tra utenti, famigliari ed operatori. È cioè l’esperienza di compassione di Franco Basaglia e di tanti professionisti di oggi che trasformano, con fatica, la psichiatria in un progetto di salute mentale inclusivo, dignitoso ed intessuto di diritti irrinunciabili.
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DISAGIO MENTALE E COMPASSIONE
DISAGIO MENTALE E COMPASSIONE
Martedì 20 agosto 2024 Ore 15:00
Sala Neri Generali Cattolica
Partecipano
Gigi De Palo, direttore generale Fondazione Angelini; Fabrizio Starace, presidente Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica; Michele Zanetti, già presidente Provincia di Trieste e promotore insieme a Franco Basaglia della legge 180. Introduce Marco Bertoli, direttore Dipartimento Dipendenze e Salute Mentale dell’Azienda Sanitaria Universitaria Friuli Centrale. In occasione dell’incontro video-intervento di saluto di Devora Kestel, direttrice del dipartimento di Salute mentale e abuso di sostanze all’Oms di Ginevra
Bertoli. Buon pomeriggio a tutti e ben trovati in questo appuntamento del Meeting, 45ª edizione. Il titolo è: “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?”. Ci siamo interrogati anche noi su questo aspetto dell’essenziale, e nella relazione di cura abbiamo ritrovato questa parola: la parola compassione. Oggi, sentendo il messaggio del Papa, anche lui parla di compassione, ma cercheremo di capire cosa significhi davvero questo termine, che non ha una valenza pietistica, ma una valenza di presenza. In questo senso, l’essenziale io penso che si possa anche definire come una ricerca nostalgica, nel senso che ogni volta che perdiamo l’essenziale, facciamo più fatica. Nella nostra ricerca, nel nostro percorso di uomini abbiamo bisogno di punti di riferimento stabili e veri, e quando questi vengono persi, allora perdiamo l’essenzialità. Presento i miei ospiti: Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di Salute Mentale e delle Dipendenze Patologiche di Modena, ma anche mio presidente, perché insieme lavoriamo nel Collegio dei Direttori dei dipartimenti di salute mentale nazionale, ed oltre a tutto questo ed altre cariche è un amico. Michele Zanetti, già presidente della Provincia di Trieste, persona che ha aiutato Franco Basaglia a chiudere il manicomio di Trieste e ha contribuito alla promulgazione della legge 180. Oggi ci racconterà di questo rapporto con Franco Basaglia. Gigi De Palo è il presidente della Fondazione Angelini, ma è anch’egli un amico che ci aiuterà a valorizzare questa parola: compassione.
Prima di tutto questo, vediamo un video che abbiamo ricevuto da Deborah Kestel, una persona che io conosco perché ha lavorato a Trieste e ora è direttrice del Dipartimento di Salute Mentale e Abuso di Sostanze all’Organizzazione Mondiale della Sanità di Ginevra. Ci ha inviato questo video di saluto.
Kestel. Buongiorno, buon pomeriggio, buonasera, cari colleghi. Sono Deborah Kestel, direttrice del Dipartimento di Salute Mentale, Salute del Cervello e Uso delle Sostanze dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ed è per me un vero privilegio essere qui oggi con voi per onorare Franco Basaglia, un uomo che ha cambiato il corso della storia della salute mentale. La mia esperienza personale nel settore mi ha permesso di vedere da vicino l’impatto delle sue idee rivoluzionarie nel mondo e la trasformazione che ha generato in molte realtà. Curiosamente, verso la fine degli anni ’80 partecipai a un congresso presentando la mia esperienza di lavoro in un ospedale psichiatrico. Il documento che esposi iniziava, questa era una curiosità, con una citazione di Basaglia tratta dall'”Istituzione Negata” e raccontava la storia di un uomo che, dopo aver ingoiato un serpente, aveva perso la sua libertà. Un giorno il serpente se ne andò e lui, di nuovo libero, non sapeva che farsene di questa libertà. Questa metafora descrive perfettamente la condizione di migliaia di persone con problemi di salute mentale, uomini e donne intrappolati dalla violenza delle istituzioni. Franco Basaglia non si è limitato a denunciare questa violenza, ma ha lavorato attivamente per porvi fine. La sua lotta per la chiusura dei manicomi e per la promozione della salute mentale comunitaria ha aperto una nuova era, non solo in Italia ma nel mondo intero. Eppure, siamo ancora lontani dal raggiungere il suo obiettivo finale. Oggi, a più di 30 anni dalla sua morte, continuiamo a vedere violazioni dei diritti umani nei contesti più vari: case, scuole, luoghi di lavoro e, purtroppo, ancora nei servizi di salute mentale. Queste realtà sono un richiamo potente alla necessità di un cambiamento continuo e radicale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità continua a sottolineare l’importanza di spostare l’assistenza per la salute mentale dagli ospedali psichiatrici verso servizi basati sulla comunità. Come sappiamo, questo non significa semplicemente chiudere i manicomi, ma creare una rete di supporto che permetta alle persone di vivere una vita piena e dignitosa. Dobbiamo investire nella salute mentale non solo attraverso i servizi clinici, ma anche promuovendo il coinvolgimento attivo della comunità. Il nostro rapporto mondiale sulla salute mentale enfatizza tre punti fondamentali e identifica questi punti come linee guida da seguire. Prima di tutto, è essenziale riconoscere e valorizzare l’importanza della salute mentale, trattandola come una componente fondamentale della nostra salute generale e del nostro benessere. Dobbiamo considerare la salute mentale un diritto umano essenziale e un contributo chiave alla salute pubblica, al benessere sociale e allo sviluppo sostenibile. La salute mentale in generale è cruciale. In secondo luogo, dobbiamo trasformare gli ambienti che influenzano la salute mentale, riducendo da una parte i rischi e potenziando dall’altra i fattori di protezione, in modo che tutti possano avere le stesse opportunità di prosperare e di raggiungere il massimo benessere mentale possibile. Infine, è necessario potenziare i servizi di assistenza per la salute mentale, garantendo che tutti i bisogni in questo ambito siano soddisfatti tramite una rete comunitaria di servizi accessibili, convenienti e di alta qualità. Il lavoro di Franco e Franca Basaglia non è finito. La loro eredità ci guida ancora, spingendoci a continuare la loro lotta per una società più giusta e inclusiva. Dobbiamo fare leva sulle loro teorie e pratiche e unirci per garantire che tutti possano godere di un supporto adeguato e un trattamento all’altezza. Vi ringrazio per la vostra attenzione e per il vostro impegno. Insieme possiamo fare la differenza. Un buon proseguimento a tutti.
Bertoli. Grazie a Deborah Kestel. Entriamo nel vivo del nostro incontro. Comincia Fabrizio e il nostro tema si chiama “Disagio mentale e compassione: l’esperienza umana di Franco Basaglia e le pratiche attuali”. Allora vorrei chiedere a Fabrizio: a che punto sono i servizi di salute mentale? Abbiamo sentito anche la Kestel che rilancia su un certo tipo di lavoro che non è solo clinico, ma è anche di rivalutazione dei contesti e dei progetti personalizzati. A che punto siamo?
Starace. Grazie, buon pomeriggio a tutti. Mai come in quest’anno, in cui celebriamo il centenario della nascita di Basaglia, è opportuno tracciare un bilancio della riforma fondamentale che viene attribuita a lui, ma che è il frutto del lavoro di tanti: la legge che nel 1978 ha portato alla chiusura dei manicomi. Ma sancisce ben altro, come ci ricorda Bobbio, forse l’unica vera riforma che il nostro Paese ha visto, perché è una riforma che, al di là del contesto tecnico, restituiva diritti di cittadinanza a persone che li avevano totalmente persi. A quasi 45 anni da quel conseguimento fondamentale, possiamo tracciare un quadro della situazione come si è delineata nel corso degli anni. Disponiamo di una rete di servizi che risponde a tre fondamentali parole chiave: comunità, prossimità, assistenza domiciliare. Ve le cito perché 40 anni fa queste parole potevano suonare strane. Forse qualcuno di voi avrà trovato immediatamente l’assonanza tra queste parole chiave e quelle che guidano la riforma dell’assistenza territoriale delineata dal Decreto Ministeriale 77, quello adottato in applicazione delle riforme necessarie nel quadro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: case della comunità, ospedali di prossimità, assistenza domiciliare da incrementare. Sono tutti e tre i pilastri sui quali si è creato il sistema di salute mentale di comunità. Badate bene, come ci ha ricordato Deborah Kestel, si tratta di un’esperienza unica. L’Italia è l’unico Paese nel quale le istituzioni ospedaliere, i grandi manicomi, sono stati chiusi. In tutti gli altri Paesi, anche se si segue una politica di salute mentale di comunità, sono sempre presenti grandi istituzioni che concentrano diverse centinaia, talvolta migliaia di persone con problemi di salute mentale, con sofferenza psichica. Certo, questi elementi sono stati applicati non senza contraddizioni nel corso del tempo. Il primo punto nodale riguarda quello del finanziamento, quello delle risorse che non sono solo economiche; arriverò fra un attimo a quelle relative al capitale umano e professionale, alle risorse culturali, ma rimanendo alle risorse economiche, il sistema si è avvantaggiato di un primo ventennio di applicazione di questa legge in cui le risorse erano disponibili in quanto riconvertite da quelle impegnate fino ad allora negli ospedali psichiatrici. Sia il personale sia i fondi venivano gradualmente e progressivamente riorientati verso il territorio. Questo ha fatto sì da determinare una grande stagione in cui si sono arricchiti i territori di servizi, di personale, di attività. Siamo arrivati fino al volgere del secolo, quando con il secondo progetto salute mentale veniva definita la struttura di un Dipartimento di Salute Mentale, ossia di quell’insieme di servizi e attività che devono presiedere alla prevenzione, alla cura e alla riabilitazione. Ma da allora in poi, il combinato disposto di una serie di elementi normativi, primo fra tutti quello determinato dal terzo o quarto governo Berlusconi, ministro Tremonti, che introdusse il blocco delle assunzioni, prima per un periodo determinato, poi rilanciato nel 2010 con la legge finanziaria del 2010, e successivamente rinnovato indipendentemente dal colore dei governi che si sono succeduti fino ai giorni nostri, con una breve interruzione soltanto nel periodo della pandemia. Bene, questo ha corroso il capitale fondamentale su cui marciano le attività per la salute mentale, che è il capitale umano. Pensate che all’inizio di questo secolo il personale in carico ai servizi di salute mentale era di oltre 31.000 unità. Oggi, nel 2024, siamo a circa un migliaio di unità di personale in meno, ma rispetto a 25 anni fa abbiamo forse duplicato o triplicato l’utenza che si rivolge a noi. Ecco, se solo valutate questa contraddizione, potete comprendere quanto la battaglia che i Dipartimenti di Salute Mentale e i professionisti svolgono affinché si incrementi quel minimo 3,5% della spesa sanitaria che oggi è destinata alla salute mentale sia fondamentale. Tanto per darvi un termine di paragone: i Paesi con i quali ci confrontiamo nell’ambito del G7, quelli che incontriamo per altre questioni di tipo economico, di politica estera, come la Germania, la Francia, il Regno Unito, approssimano questa percentuale al 10%, tre volte tanto. Se considerate le stime dell’OCSE, l’OCSE qualche anno fa fissava il costo dei problemi di salute mentale in una società, costi diretti, cioè assistenza, e costi indiretti, cioè la mancata produttività, l’assenteismo dal lavoro, la malattia, eccetera, al 4% del PIL. Ora, se noi traduciamo la cifra che vi ho detto, il 3% del Fondo Sanitario Nazionale, in termini di percentuale di PIL, abbiamo all’incirca lo 0,2%. Lo 0,2% è il nostro investimento, 4% i costi che non affrontare i problemi di salute mentale determina. Cioè, noi investiamo meno di un ventesimo di quello che tutto questo ci costa. Questo è un primo grande elemento di contraddizione col quale occorrerà fare i conti, e purtroppo, da un’analisi delle iniziative anche recentissime che sono state adottate in sede parlamentare con i disegni di legge per il rafforzamento del sistema di cura per la salute mentale, non mi pare che sia stata individuata una strada percorribile. Dopo, semmai, potremo tornarci per le prospettive da finalizzare. Vi dicevo del capitale umano: il capitale umano è costituito dai professionisti. Oggi c’è una crisi di vocazione nel lavoro per la salute mentale. I professionisti preferiscono l’area del privato o addirittura la libera professione individuale. Questo è un effetto di un sistema perverso in cui si sono accumulate incombenze di tipo amministrativo e burocratico che distolgono la gran parte del tempo, del pochissimo tempo a disposizione dei professionisti, dalla loro vera missione, che è lo stabilire una relazione terapeutica con una persona che ha una sofferenza psichica. E per stabilire una relazione, in tutte le relazioni, a maggior ragione in quella terapeutica, c’è necessità di tempo, c’è necessità di competenze da parte dei professionisti, di motivazione, ma non si può stare lì a guardare l’orologio, non si può avere la pressione di altre 20 persone in sala d’attesa che aspettano di essere visitate. Questo, quindi, è un altro elemento di contraddizione col quale confrontarci. Dovremo chiederci, ad esempio, se gli attuali percorsi formativi che l’università fornisce ai professionisti siano davvero in grado di mettere questi professionisti in condizioni di affrontare le sfide che si trovano sul territorio. La capacità di lavorare in gruppo, di lavorare in equipe, significa abdicare almeno in parte a quella competenza specifica derivante dal ruolo professionale che io ricopro, significa aprire lo sguardo al modo di vedere, di leggere e di intendere che viene proposto da altre professioni: dagli educatori, dagli assistenti sociali, dagli psicologi, dagli infermieri, dai tecnici della riabilitazione. Ecco, questo significa lavoro d’equipe, ma io non so quanto dell’insegnamento che oggi viene erogato vada in quella direzione. Quanto dell’insegnamento prepara le persone all’interazione con le politiche sociali, all’integrazione sociosanitaria, che è il vero fulcro dell’intervento per le persone con disturbi psichiatrici gravi, perché dopo un intervento terapeutico psicosociale di tipo farmacologico, occorre intervenire sui determinanti di contesto, sui determinanti sociali, sul diritto ad avere un’abitazione e non una residenza o un’istituzione, sul diritto a poter lavorare per la comunità in cui ci si trova, diventando un contribuente e partecipando alle spese della propria casa, sul diritto ad avere delle relazioni soddisfacenti. Quanto della formazione che oggi viene proposta comprende questi temi? Poi c’è una contraddizione di carattere più generale, quella che con un termine inglese molto alla moda viene definita “governance”. Io lo definisco il rimpallo tra responsabilità centrali del Ministero e periferiche delle Regioni. Quanto si è fatto per verificare che le Regioni, pur nella loro autonomia gestionale e organizzativa, sancita non dalla legge Calderoli ma dalla riforma costituzionale voluta dal Governo D’Alema nel 2001, siano intervenute sulle inadempienze regionali che pure abbiamo documentato? Chi di voi voglia approfondire il tema, trova addirittura un documento di sintesi che abbiamo presentato alla seconda Conferenza Nazionale sulla Salute Mentale nel 2021, in cui tutti questi elementi sono analizzati ed esposti. E poi c’è il grande tema dell’organizzazione: se dobbiamo lavorare in equipe, se dobbiamo lavorare in maniera gruppale, non possiamo avere organizzazioni settoriali come si dice “a canne d’organo”. Io ho la fortuna di lavorare in una regione che ha adottato questa modalità di dipartimento integrato, di servizi integrati, già da 15 anni. Ma vi sono regioni dove i servizi per la salute mentale non parlano con quelli per le dipendenze e entrambi non parlano con quelli della neuropsichiatria infantile, il che, oltre a essere antistorico e antiscientifico, perché sappiamo bene come la maggior parte dei disturbi esordisca prima dei 18 anni e che solo se intercettati precocemente e seguiti efficacemente nel corso del tempo, senza rotture artefatte legate all’anagrafe, possono esitare in guarigione o in recupero. Quindi, dipartimenti integrati, ma anche qui occorre affrontare resistenze fortissime da parte di diverse corporazioni. Voglio citare tra le contraddizioni il rapporto tra il pubblico e il privato. Il privato for profit: le case di cura, gli ospedali privati accreditati. Anche qui, io credo che i sistemi di accreditamento che abbiamo elaborato nel corso di quest’anno non rendano fino in fondo conto, non valorizzano la potenzialità che il settore privato può esprimere nell’ambito del sistema di cura per la salute mentale. E che dire del privato non profit, che deve lottare quotidianamente contro elementi e strutture di tipo amministrativo, palleggiandosi tra le gare d’appalto piuttosto che l’assegnazione diretta? Ci riempiamo tutti la bocca della formula “progetto personalizzato”, “percorso personalizzato”, e poi invece continuiamo a ricorrere a strumenti antichi come la gara d’appalto, che va benissimo per un ordinativo di mille computer, per i quali probabilmente sarà utile verificare qual è la ditta che ci applica il prezzo più conveniente, ma sarà impossibile se dobbiamo ritagliare sulla singola persona, su ognuna di quelle mille persone, un programma personalizzato. In sintesi, io credo che occorra, e questa è un’occasione importante per poterlo fare, richiamare sul tema della salute mentale l’attenzione della politica. Perché l’impegno verso gli ultimi, verso i più fragili, verso i più deboli non è una questione tecnica, è una questione di scelte politiche. Io credo che oggi la questione della salute mentale sia agli ultimi posti tra le priorità che la politica si è data. Da diversi anni, non voglio focalizzare sugli attuali asset di governo, da diversi anni è agli ultimi posti. Basta vedere oggi il dramma che si sta perpetrando nelle carceri, e qual è la soluzione che viene immaginata? Quella di creare delle carceri speciali per i detenuti che hanno problemi di tipo psichiatrico? Ma dico, stiamo quindi ribadendo il tema dell’isolamento, dell’espulsione? Non ci stiamo interrogando su quali sono i veri fattori che determinano violenza, che determinano reazioni antisociali, invece che possibilità di recupero? Ecco, io credo che a partire da occasioni come questa sia necessario far giungere alla politica il segnale che vi è necessità di una più grande, più intensa, più fattiva attenzione alla salute mentale per mantenere l’Italia all’altezza del passato che l’ha caratterizzata.
Bertoli. E dopo riprenderemo alcune cose. Michele Zanetti, presidente della provincia di Trieste quando ci fu questa riforma, la chiusura di un manicomio in un contesto sociale di quel tipo avvenne una rivoluzione reale, no? Così la definiamo. E però una cosa in quest’anno, sono i 100 anni della nascita di Basaglia ed è una persona difficile anche da comprendere, un personaggio competente, colto, che arriva a Gorizia nel 1961 quando io nasco. E lui arriva nel manicomio di Gorizia e si inorridisce di quanto vede, perché questa era la realtà: gente segregata, gente che ha perso, come diceva prima Fabrizio, ogni diritto, che viene confinata in un manicomio. Michele Zanetti è presidente democristiano della più piccola, credo, provincia italiana e cerca Basaglia. Poi magari ci dici cosa è successo. Chiudono il manicomio di Trieste e poi avverrà anche la legge 180. La cosa che mi colpisce è che la provenienza culturale di Michele Zanetti era completamente diversa, era una posizione culturale completamente diversa da quella di Franco Basaglia, che è difficile definire in termini politici, ma due persone che si sono lasciate colpire da una realtà tragica e di morte. Michele, sono stato a recuperarlo sul Carso, in un paesino che si chiama Ternova Piccola, ed è con noi oggi.
Zanetti. Buon pomeriggio a tutti quanti. Mi è stato chiesto di parlare un po’ di Basaglia, della personalità umana di Basaglia, cosa che farò molto volentieri, ma intanto vorrei dire che condivido pienamente quanto detto da Starace poco fa. Noi abbiamo, ahimè, una classe politica, senza fare distinzioni di partito, che si dimostra di fatto incapace e incompetente. Non reagisce, probabilmente non si prepara nemmeno; ormai credo che molti assumano delle responsabilità politico-amministrative senza prepararsi neanche un pochino alle funzioni che dovrebbero espletare o alla materia che dovrebbero amministrare. Ebbene, io sono stato il datore di lavoro di Franco Basaglia. A seguito di un concorso nazionale, Basaglia vinse largamente quel concorso, risultando il migliore. Fu regolarmente assunto dall’amministrazione provinciale e cominciò un rapporto che poi si è evoluto, è anche cambiato nel tempo, intanto di grande fiducia reciproca. In primo luogo, Basaglia ha voluto informarmi, più che altro ha dovuto informarmi sulla sua lotta contro le istituzioni globali, alla deistituzionalizzazione, come si dice con una parola difficile da pronunciare. Una lotta che aveva avuto un’esperienza iniziata a Gorizia, ma vi assicuro che anch’io, che non conoscevo l’ospedale psichiatrico, il manicomio di Trieste, prima di diventare presidente della provincia, quando lo visitai, ebbi veramente uno shock dall’orrore delle situazioni e dalla penosità complessiva nella quale si gestiva una popolazione di più di mille malati. Ora, l’istituzione globale è un’istituzione da abolire, l’istituzione totale, perché toglie la libertà alle persone, mentre tutto lo sforzo e l’impegno di Basaglia, della sua équipe e poi anche di tutti noi che abbiamo cooperato per la realizzazione del programma, era quello di liberare le persone e ridare loro non solo la libertà ma anche la dignità e i diritti che avevano perduto con un ricovero che li disumanizzava, che li rendeva degli oggetti e non più delle persone.
Faccio una piccola parentesi sulle istituzioni, perché forse qualcuno di voi sa che Basaglia, tra i suoi riferimenti culturali, ne aveva uno in particolare, che era quello del filosofo francese Jean-Paul Sartre. Tanto per ricordare, il suo testimone di nozze, Terzian, gli regalò come regalo di nozze l’opera completa di Sartre. Io con Basaglia incontrai Sartre perché volevo ingaggiare quest’uomo un po’ particolare nella conferenza delle minoranze che organizzai nel 1974 a Trieste, le minoranze nazionali, le minoranze etniche. Sartre aveva un precedente di molte battaglie in difesa dei baschi e di tante altre componenti minoritarie in Francia. Sartre non venne alla conferenza e mi disse: “Io vengo a una sola condizione: che lei dica che bisogna distruggere l’istituzione principale, lo Stato, che è quello che opprime le minoranze nazionali”. Ho detto: “Guardi, io proprio questo non posso assicurarglielo e tutt’altro, io stesso presiedo un’istituzione piccola per l’amor di Dio, ci sono istituzioni e istituzioni, ci possono essere istituzioni da correggere, istituzioni da sopprimere, ma anche istituzioni da valorizzare, a cominciare da quelle democratiche”. Ebbene, questa lotta contro le istituzioni totali, e quindi anche contro il carcere. Basaglia diceva anche che l’ospedale civile va profondamente cambiato e così pure la scuola, piuttosto che le caserme. Tutto questo era un po’ l’impegno complessivo, la riflessione costante, l’aggiornamento che procedeva tra pratiche e riflessioni sulle pratiche con un passo ulteriore. Ma oltre a questo, e questo mi è stato richiesto, tra Franco Basaglia e me nacque un’amicizia profonda che, ripeto, era basata sulla fiducia e sulla lealtà nei comportamenti, diciamo così, ufficiali di lavoro, di governo, dell’amministrazione, anche dell’amministrazione dell’ospedale psichiatrico. Andava al di là: posso dirvi che era un uomo straordinario, dotato di un carisma, di una personalità tutta particolare, molto veneziano; parlava anche abbastanza bene il francese e l’inglese, ma gli dicevamo che in fondo si faceva capire parlando veneziano ovunque andasse. Era un uomo che, se lo incontravate, era pieno di tic, però anche un uomo molto allegro, un uomo molto colto; era facile intavolare discussioni anche culturali, abbastanza approfondite con lui, del resto faceva parte del gruppo di consulenti editoriali dell’edizione Einaudi, con la moglie, con tanti altri studiosi di varie discipline storiche, letterarie e così via. Era un uomo però di una capacità di relazione che lo poneva sia a livelli di discussione piuttosto impegnativa ed elevata, sia a livelli minimi con i quali iniziava il rapporto con le persone sofferenti di disagio mentale, con le quali riusciva immediatamente a stabilire un rapporto costruttivo, un rapporto di dialogo, di convenienza, scendendo anche nei particolari della vita di questi con semplicità e immediatezza. Anche se Basaglia, a un certo punto, non curò più a Trieste i malati, i pazienti, dedicandosi ai problemi organizzativi e soprattutto anche alle relazioni nazionali e internazionali, con le quali diffondeva e realizzava quello che avete sentito dalla dottoressa argentina direttrice del Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze dell’OMS. Ripeto, lui si dedicò soprattutto all’organizzazione, però appena arrivato, questo lo ricorderò sempre, siccome era circondato da diffidenze, sia dai medici dell’ospedale psichiatrico, che erano pochi, sia dal corpo medico triestino, e poi via via che la città comprese l’importanza e anche la forza di questo progetto che ha portato avanti e realizzato, devo dire, in tempi quasi record, perché in pochi anni si arrivò alla chiusura dell’ospedale psichiatrico di Trieste. Per superare la diffidenza soprattutto del personale infermieristico interno all’ospedale psichiatrico, lui arrivando disse: “Ditemi qual è il caso più grave che avete per le mani”. E il caso più grave era di una persona che aveva molti problemi di sofferenza psichica, che veniva legata ai letti, alla contenzione fisica, che veniva praticata purtroppo, ma non durante il mio periodo, prima. Erano stati praticati sia l’uso dell’elettroshock, che anche l’intervento chirurgico al cervello, la lobotomia, ecco. Questa persona, quando veniva legata, riusciva con le dita a entrare nel materasso, a estrarre le molle del materasso e le ingoiava. C’era poi il ricovero, l’intervento chirurgico e così via. Basaglia attivò il suo impegno nei confronti di questa persona che, dopo non molto tempo, divenne il responsabile del bar interno dell’ospedale, senza più nessun segno di particolare sofferenza o smania che poteva essere temuto. L’amicizia che legava Basaglia a me era anche un’amicizia che in certa misura legava le nostre rispettive famiglie. Dopo uno o due anni era frequente che Franco venisse la sera a casa mia, magari dopo cena, dove avevamo un buon bicchiere di whisky. Anche lì, ricordo che il mio budget familiare, cioè quello di mia moglie, non era molto elevato, e se era magari con la Franca, con la moglie, una bottiglia di whisky andava via in una serata. Noi eravamo un po’ preoccupati e ricordo che abbiamo acquistato da quel momento in avanti del whisky dozzinale con il quale riempivamo le bottiglie più titolate, perché altrimenti il budget familiare non avrebbe potuto reggere. Ma al di là di questo, ci sono state tante occasioni di conoscenza delle famiglie, dei rapporti interpersonali, e io di tutto questo sono molto grato alla memoria di Franco Basaglia. Tanto ho imparato da lui, soprattutto nella tenacia con la quale ha perseguito e conseguito il suo progetto, il suo obiettivo. E credo che quest’uomo, di cui abbiamo celebrato quest’anno appunto il centenario della nascita, le Poste Italiane hanno anche messo un francobollo, non so se l’avete visto, con il volto di Franco Basaglia. Quest’uomo va ricordato nella semplicità del suo approccio e anche nella profondità del suo pensiero. Un pensiero che non voleva mai ideologizzare le sue tesi. Lui era molto attento alle pratiche, non alle teorie, e però di teorie ne ha scritte anche lui, insomma, perché i suoi libri sono da leggere ancora oggi. Ma una cosa potete ricordare di lui: credo che tutto il periodo del secolo passato abbia visto grandi teorici, grandi pensatori, e tra questi possiamo mettere anche Franco Basaglia, che però, a differenza di tutti gli altri, oltre ad aver espresso un pensiero profondo e creativo, ha potuto anche realizzare in concreto quello che aveva pensato, cosa che nessuno che io ricordi, tra teorici o filosofi, ha potuto realizzare.
Bertoli. Gigi ci farà riflettere, ci aiuterà a riflettere, rifletteremo con lui sulla parola “compassione”, perché ci siamo divisi i compiti in questo incontro. La parola “compassione”, il suo significato e cosa dice a noi operatori della sanità, ma anche a noi tutti in generale. Cosa vuol dire essere compassionevoli senza questa valenza pietistica. Poi dico che questo suo intervento nasce in una ottima pasticceria al Testaccio, dove ci siamo incontrati, perché, come vedete, ci piace vivere.
De Palo. Grazie dell’invito. Dico la verità, quando mi è stato proposto di intervenire in una situazione di questo tipo, “Disagio mentale” in che senso? Vuoi che io ti esprima il disagio mentale personale? Fammi capire quali sono le regole di ingaggio. Perché, come sapete, io sono un esperto in famiglia, natalità e quant’altro, quindi uscire un po’ dal proprio seminato è sempre complicato, perché essere una cintura nera in un argomento e venire chiamato a intervenire su un altro ti colpisce. Poi però, se uno va a vedere nella realtà dei fatti, mi sono messo anche io la sveglia; nella realtà dei fatti, tutte le famiglie inevitabilmente hanno al loro interno situazioni di disagio, in famiglie più o meno allargate, in famiglie con il nonno, ma anche con i figli. Perché a tavola parlavamo anche del disagio legato alla iperattività, piuttosto che alle crisi di panico, alla depressione, penso che sia qualcosa che accomuna tutti noi. È qualcosa con cui facciamo i conti, anche se tante volte non ce ne rendiamo conto. Io però, appunto, cercherò un po’ di riflettere perché questa è stata l’occasione per farlo, sul tema della compassione. Perché proprio recentemente sono stato da una mia carissima amica che sta morendo, è inutile utilizzare perifrasi per dire un fatto concreto: sta morendo, sta in un letto d’ospedale, in un hospice bellissimo, organizzatissimo, stupendo, efficientissimo, il classico hospice dove farebbero a gara per andare a concludere i propri giorni le persone che magari non hanno l’opportunità di avere chiaramente una famiglia. Questa è una persona sola, e mentre stavo lì davanti in una stanza bellissima, con il televisore, ma veramente molto efficiente, davanti al suo corpo, che era proprio in totale controtendenza rispetto all’hospice, perché era totalmente consumato, piagato proprio dal dolore, piagato dalla sofferenza, mi sono reso conto che effettivamente la compassione non è, diciamo, un sentimento buonista, un sentimento dolce, “micio micio” come direbbe il mio vecchio parroco, qualcosa di tranquillo, ma è un pugno allo stomaco. La compassione, se non sbaglio, anche la Scrittura, nella traduzione, la tratta e ne parla in questo modo: è un morso, è violenta la compassione, è qualcosa che ti fa male, è qualcosa che ti dà una svegliata, è qualcosa che non ti lascia indifferente. Io ho definito la compassione un “sano dolore dell’anima”, e questo perché non è qualcosa di differente, non è un sentimento vago, un atteggiamento buonista, così, un pietismo da quattro soldi, è qualcosa che ti scombussola dentro, è un fatto che inevitabilmente, quando stai lì a guardare questa situazione, irrompe e scompagina un po’ quello che sei e quello che stai vivendo. E io la percepisco in questo modo: la sensazione triste di non poter gioire pienamente di qualcosa. Non so voi, io e mia moglie la sera ci mettiamo a letto, giustamente ti metti a letto, ti metti sdraiato, pensi alla giornata, fai un po’ un bilancio, i figli, tutta la complessità, quello che devi fare domani, e sei vagamente felice perché comunque si è conclusa una giornata complicata. Ecco, la compassione è un po’ quell’allarme, quell’inquietudine che ti lascia. Come puoi essere felice fino in fondo mentre c’è Mira che sta morendo in un letto d’ospedale? Come puoi essere felice fino in fondo mentre c’è quel tuo amico che ha la madre che non lo riconosce più perché è subentrata una demenza senile? Come puoi essere felice quando il compagno di classe di tuo figlio ha ricevuto una diagnosi complicata? O come puoi essere felice pensando che a migliaia di chilometri di distanza, nemmeno tanti, ci sono dei bambini che sentono gli allarmi per le bombe? Questa inquietudine è quella che, in un certo senso, io definisco la compassione. Però la compassione non è qualcosa che, come avrebbe detto Manzoni a proposito del coraggio, te la dai da solo. La compassione è un dono. Cioè, io provo compassione, provo compassione non perché sono bravo, sono buono, ho un cuore grande, sono cattolico, sono cristiano, vado a messa. Io provo compassione perché quando ero un ramo secco, quando ho vissuto le mie crisi di panico, quando a vent’anni non sapevo dove sbattere la testa, quando avevo tanti disagi non solo mentali ma anche fisici, c’è stato qualcuno che mi ha abbracciato, che mi ha accolto e che mi ha guardato diversamente da come mi guardava il resto del mondo. E questo sguardo di questa persona è stato nel mio caso inevitabilmente uno sguardo che ha sciolto in me uno sguardo altrettanto compassionevole. San Francesco non era buono, non baciava i lebbrosi perché a un certo punto diceva: “Dai, iniziamo a baciare i lebbrosi.” San Francesco ha iniziato a baciare i lebbrosi perché quando lui era lebbroso per tutti, quando lui era abbandonato da tutti, quando lui ne faceva una dopo l’altra, quando lui stava solo, quando lui stava facendo le peggiori cose, qualcuno, in questo caso Dio, l’ha abbracciato. Allora, quindi, il suo abbracciare i lebbrosi non nasce da un atto di volontà, non nasce da una scelta, non nasce da un impegno, ma nasce da qualcosa che hai ricevuto. È un po’ quello che avviene in ogni situazione, è quello che avviene in ogni occasione. Mia moglie, quando parliamo di famiglia, fa sempre un esempio che vale per ogni cosa. Vale per la fede, vale per la famiglia, vale per la compassione. Cioè, la compassione è un profumo. Noi pensiamo: “Come si fa ad essere compassionevoli?” Noi pensiamo che per essere compassionevoli bisogna andare a un incontro, ci danno gli ingredienti, ci danno quello di IKEA per montare i mobili, il libretto delle istruzioni, automaticamente mi danno dei consigli e divento compassionevole. No, non è così. Se io sono compassionevole è perché ho sentito un profumo. L’esempio è il seguente: se io mettessi qua la giusta quantità di lievito, la giusta quantità di sale, di farina, di acqua, di olio e vi dicessi: “Sentite il profumo del pane,” voi mi prendereste per matto; ma se io mettessi qui una pagnotta fumante appena uscita dal forno, voi sentireste il profumo del pane e quindi la vostra sarebbe un’esperienza diretta, concreta, non astratta, di qualcosa di buono da mangiare. È un po’ come quando la gioia più grande in una casa è quando ti dicono: “Che cosa hai messo in questa cosa che hai fatto?” E quando te lo chiedono vogliono seguire pedissequamente le indicazioni che tu gli darai, perché hanno sentito un profumo ed è talmente buono questo profumo che c’è il desiderio di replicarlo. Questo pane non è un elenco di regole, tante volte noi pensiamo e raccontiamo anche il cristianesimo, ma anche appunto questo tema, come un elenco di regole, come un impegno categorico, come qualcosa da fare. E allora noi possiamo trovare le medicine migliori della terra? E, insomma, ne parlavo prima a tavola: il mondo medico, il mondo farmaceutico, sta facendo passi da gigante da questo punto di vista, e viva Dio per questo. Possiamo trovare gli hospice migliori della terra, possiamo inventarci strutture il più efficienti possibile, ma senza questo sguardo, che è uno sguardo che ti fa sentire amato, non va da nessuna parte. Un malato non vuole solo guarire, mia moglie non vuole solo essere ascoltata, mio figlio non vuole solo attenzioni: tutti siamo chiamati e tutti vogliamo essere amati, vogliamo questo sguardo che effettivamente ci cambia la vita. E mi sembra di poter dire che la differenza, sentivo adesso, mi ero preso una nota, la differenza non è tra le nostre differenze, ma tra chi ha questo sguardo e chi invece non vuole avere questo sguardo. Perché questo sguardo potenzialmente ce l’abbiamo tutti, perché se io ho questo sguardo non è perché sono bravo, ho questo sguardo perché ho ricevuto tanta misericordia, e questa misericordia che ho ricevuto non posso fare finta di non averla ricevuta. Non posso, non so se vi ricordate Verdone nel film *In viaggio con papà* che a un certo punto faceva “blub blub blub” quando il padre parlava della mamma. Se tu hai visto qualcosa, l’hai vista e non puoi più farne a meno. Così come la legge 180 è stato un modo attraverso il quale si sono cambiati gli occhi nei confronti delle persone e ha aperto un’attenzione, ha messo i riflettori su persone che prima erano totalmente abbandonate. La cultura dello scarto, di cui si parla tanto oggi, lì un pochino sono stati fatti dei passi avanti per cambiare questa mentalità. La cultura dello scarto non nasce oggi, c’era già. Oggi continua con l’efficientismo, con il fatto che se non sei bello, non sei performante, non sei vincente, non hai la macchina figa, non hai tutte le forme a posto, non vai da nessuna parte. E continua questa cultura dello scarto. Allora, io nel mio passato, quando ero piccolo, adolescente, sono andato qualche volta in Africa. E ricordo che nell’orfanotrofio di Lula, in Tanzania, dove c’erano anche malati psichiatrici, situazioni difficili, perché oltre alla sporcizia, alla complessità del non avere medici, c’era anche appunto la disabilità, la disabilità mentale, il disagio mentale anche grande, mi domandavo, e mi domando ancora, ma che senso ha andare in Africa, fare un gesto bello, curare, stare vicino, parlare con un bambino, aiutare un malato, ascoltarlo, cercare di fare un gioco per cercare di distrarlo? Che senso ha? Tutto questo cambia la sofferenza che c’è nel mondo? Cioè, il mio gesto può cambiare qualcosa? Evidentemente no. Però se noi ci rassegniamo al fatto che questo tipo di gesti non cambiano nulla, attraverso quei gesti, a mio modo di vedere, invece stiamo dicendo al mondo che nessuna ferita è incurabile, nessuna persona è totalmente sola. E allora non cambieremo le strutture di peccato che costituiscono e che generano questo tipo di disuguaglianze, ma cercheremo di offrire non solo a noi, ma anche agli altri una chiave di lettura diversa. Credo, e avvio verso la conclusione, che l’incontro di oggi, ma un po’ le riflessioni che stiamo facendo, ci devono ricordare una cosa: che il centro di tutto, ed è anche la grande occasione che abbiamo di dialogo con il mondo esterno, con il mondo differente, in questo mondo pluralista, è la persona umana. Se noi non ci ricordiamo questo, se noi non mettiamo al centro la persona umana con la sua dignità, non andiamo da nessuna parte. E lo dico spesso e volentieri, venendo da Presidente del Forum, in una dinamica di cattolici moralisti-moralizzatori per cui la vita è degna nella pancia della mamma, però poi nell’immigrato, “ma adesso vediamo, dipende, la sicurezza, valutiamo, caso per caso.” O dall’altra parte ci sono i cattolici socialisti, socialoni, io ci scherzo, dove la dignità della vita umana è solo nel migrante, solo nel rifugiato, poi quando si parla magari di donne che sono costrette ad abortire per questioni economiche, “no, ma sai però lì c’è l’autodeterminazione.” Amici, la dottrina sociale della Chiesa, ma anche la nostra ragione, ci dice che la dignità della persona umana e la persona umana è degna non estrinsecamente, cioè non è degna perché ha delle qualità, perché ha una comunità che gli dà forza, perché ha delle qualità fisiche ed è efficiente, è degna intrinsecamente, cioè per il solo fatto di essere nata, per il solo fatto di essere venuta al mondo. E Basaglia, in maniera laica, l’aveva compreso pienamente. Perché? Siamo irripetibili, siamo unici, siamo impronte digitali. Quanto vale la Pietà di Michelangelo? Non ha un valore, perché è una. Stessa cosa per ciascuno di noi. E se noi ci rendiamo conto di questo dono, perché veramente è un dono tutto questo, allora voi capite che non ci sono più divisioni. Perché non solo la dottrina, ma anche la ragione umana ci dice che c’è un’unica persona umana. E questo vale in ogni ambito, vale in ogni situazione. Io ho un figlio con la sindrome di Down, Giorgio Maria, ma voi pensate che mio figlio ha una vita di serie B perché ha bisogno di più aiuto rispetto a quella di Marco? Assolutamente no. Ogni vita è unica, è irripetibile. E questa è la grande opportunità che abbiamo di dialogo con tutti. Sarebbe bello che tutte le istituzioni, non solo gli ospedali, fossero permeate da questa commozione, da questo desiderio di vivere vedendo nell’altro una ricchezza reale. Qual è il problema? Il problema è che spesso e volentieri noi passiamo le giornate e ce lo dimentichiamo, perché comunque è complesso. Io non sto negando la complessità di tutto questo. Io dico solo che è necessario, ma è necessario non imporci di vedere nell’altro questo. È necessario andare a ricordare, andare a fare memoria della misericordia che abbiamo ricevuto. C’era un carissimo amico da cui andavo quando avevo dei problemi. Qualsiasi problema io andavo da lui, persona saggia, purtroppo è morto. Si chiamava Giorgio, mio figlio si chiama Giorgio proprio in onore di questo amico. Andavo da lui e dicevo: “Guarda, io ero assessore al Comune di Roma, ho questo problema, che cosa devo fare?” E lui mi ripeteva sempre la stessa cosa: “Age quod agis.” “Ho questo problema con mia moglie, con gli amici,” e lui: “Age quod agis.” Che cosa vuol dire “Age quod agis”? Facilissimo. Fai bene quello che stai facendo. E allora, sei un medico? Come fai a fare bene il medico? Beh, devi capire che a seconda di come tu racconti a una persona che deve fare una chemioterapia, la trasformi in un lottatore che proverà a vincere questa battaglia, poi non è detto che vada a buon fine, ma quanto meno ci proverà, o in una persona rassegnata. Sei un docente? A seconda di come tu spieghi l’infinito di Leopardi, un ragazzo potrà essere uno che come me da adolescente faceva sega a scuola e non gliene fregava niente di niente o uno che, dopo aver sentito l’infinito di Leopardi in maniera molto appassionante, andava a scrivere poesie al Giardino degli Aranci. Sei un genitore? A seconda di come tu vivi il tuo essere genitore, torni a casa, stai lì sul divano, scrolli distrattamente su Instagram, oppure ti giochi quel momento perché è un momento fondamentale, beh, fa tutta la differenza nel mondo. Ecco, io credo che questo è qualcosa che possiamo fare tutti, dobbiamo ricordarcelo a vicenda.
Bertoli. Grazie, grazie. Ricominciamo. Fabrizio, hai fatto una descrizione un po’ difficile della realtà della salute mentale dei servizi, ma da cosa si riparte?
Starace. Da cosa ripartire? Io credo che vi siano due o tre questioni di fondo che attengono sia agli elementi strutturali sia a quelli contingenti sui quali va messo mano nell’immediato, con l’obiettivo di farci fare bene quello che facciamo. Mi piace molto il consiglio che l’amico di Gigi gli forniva nelle situazioni difficili. Oggi noi non facciamo bene quello che sappiamo fare perché siamo in pochi. In un altro contesto ho usato un esempio. È come se ci trovassimo da infettivologi a dover curare dieci persone avendo però una sola scatola di antibiotico. Che facciamo? Diamo una compressa per ciascuno sapendo che non servirà a nulla? Scegliamo uno solo di quei dieci al quale fare la cura fatta per bene e gli altri nove li mandiamo a casa? Ecco, noi oggi, noi operatori dei servizi pubblici, ci troviamo in questa situazione. Io credo che quindi occorra intervenire in maniera decisa, quando dico decisa intendo senza atteggiamenti, quelli che nella politica io chiamo “vocazionali”: si deve fare, si dovrà… no, sei tu che devi fare. Mi permetto di dare un suggerimento: se davvero quest’area è considerata – ed è tutto da verificare – un’area prioritaria nella quale investire, perché il benessere mentale e psichico delle persone è un potente motore di relazioni, ma anche di crescita economica, di stare bene nella società, se questa è un’area prioritaria, che la si identifichi come obiettivo prioritario del sistema sanitario. In questo modo si dedichi a questo obiettivo prioritario la quota parte di fondi che ci possiamo permettere come Stato e che dovremo incrementare nel futuro. Questo ci servirà per risolvere un altro problema, quello della carenza del personale. Oggi il personale scappa dai servizi pubblici perché se vi sono in servizio tre persone invece di dieci, quelle tre persone dovranno sobbarcarsi il carico di tutti gli ipotetici dieci che ci si aspetta di trovare in quel servizio. Capite? Dovranno fare il lavoro per tre. E quindi alla prima occasione troveranno una soluzione alternativa. Se invece ricostituiremo quella forza, quel capitale umano e professionale necessario, allora potremo andare nella direzione giusta. Io credo che vi sia un’altra questione di fondo della quale si parla poco, se non con interventi spot, ed è quella del disagio psichico diffuso nella popolazione. Noi ci occupiamo di disturbi mentali gravi, soltanto in maniera limitata di disagio psichico diffuso. Io credo che occorra rendersi conto che gli attuali servizi non sono in grado di dare una risposta a quel 15% della popolazione – queste sono le stime ufficiali – che ha nel corso dell’anno una condizione di disagio psichico. E quindi bisogna inventare degli strumenti nuovi. L’Emilia Romagna, per far fronte alla non autosufficienza, ha individuato un’apposita area del bilancio con la quale contribuisce alla non autosufficienza in maniera molto superiore allo stanziamento dello Stato. Queste sono soltanto alcune delle proposte. Di molte di queste proposte, noi parleremo assieme ai cittadini, assieme a tutti voi, alle associazioni, ai familiari, a chi si occupa di comunicazione, alle istituzioni, il 10 ottobre. Il 10 ottobre è la Giornata Mondiale della Salute Mentale. In tutti i dipartimenti italiani le porte saranno aperte per creare delle agorà nelle quali i professionisti si confronteranno, parleranno delle proprie possibilità, dei propri limiti, e assieme proveremo a trovare delle risposte da rappresentare a chi ha ruolo e responsabilità per affrontarle. Vi aspettiamo in quell’occasione.
Bertoli. Michele, hai parlato di fiducia. Avevi fiducia in quest’uomo, no? Però parlava veneziano, giocava a carte, beveva la sera.
Zanetti. Giocare a carte non amava molto, però potrei dire tante cose, anche molti aneddoti. Lui aveva una capacità di coinvolgere le persone. Pensate che è riuscito a coinvolgere l’Italia, convincendola a fare un piccolo volo a una cinquantina di malati che volarono da Trieste a Venezia e ritorno, ed erano fierissimi. È stato un atto che li ha resi migliori, più contenti di tutto e così altre cose. Non so, c’è stata per esempio, ma questo forse qualcuno lo sa, lui invitò e stettero più di un mese, un mese e mezzo, un gruppo di artisti, di insegnanti, che vissero in manicomio con i malati. C’era il laboratorio, il padiglione Pi dell’ospedale psichiatrico che diventò appunto il laboratorio Pi, dal quale uscì il più conosciuto Marco Cavallo, costruito in quel laboratorio che poi fu portato fuori dall’ospedale. Non passava perché era alto, e Basaglia fece demolire una parte di un cornicione, di una porta, per farlo uscire. Andò per la città dando il segno, il segnale della liberazione dei malati. Il coinvolgimento si faceva anche coinvolgere. Vi ho detto che c’era un rapporto anche familiare. Ricordo Franco Basaglia che ha visto le mie figliole giocare con le Barbie e si è messo a giocare anche lui con le Barbie. Ha tanto interessato queste bambole, che a me non piacciono, a me piacciono le bambole di pezza, ma insomma evidentemente alle ragazzine a quell’epoca e forse ancora oggi piacciono, che diede una tesi di laurea all’università di Parma sulle Barbie, sul gioco delle Barbie. Si lasciava molto prendere da tutto, aveva una capacità di comunicazione eccezionale e qualche volta usata provocatoriamente, per esempio è stato accusato più volte di aver affermato che la malattia mentale non esiste, affermazione che Basaglia non ha mai fatto. Però lasciava che partisse la polemica, che la polemica sorgesse, perché bisognava parlare di tutto ciò. Lui riusciva a usare i media, la televisione piuttosto che la radio. Ricordo per esempio che quelli che hanno i capelli bianchi presenti qui, forse ricordano che c’era la RAI, che dava delle trasmissioni per una settimana, dava in pratica da fare da conduttore a un personaggio. Lo diede anche a padre Balducci. E padre Balducci, che tenne bordone tutta la settimana, invitò Basaglia a parlare dei suoi progetti, e fu una trasmissione molto sentita, molto seguita, e lui trovava quegli spazi, anche piccoli spazi, per continuare a diffondere le sue idee, il suo progetto, i suoi obiettivi. E devo dire che questa non era l’ultima, ecco, delle capacità, oltre alle relazioni che aveva con molti scienziati, sia italiani che stranieri, che a loro volta lo appoggiavano e lo aiutavano nel suo lavoro quotidiano.
Bertoli. Grazie, grazie. Gigi, ultima domanda. Tu ci hai accompagnato in una riflessione. Ma io ho capito che ci vuole un’educazione a questa attenzione alla realtà e ad avere uno sguardo su questa realtà. E questa educazione da dove ci deriva?
De Palo. Allora, posto che io, come ho cercato di dire in maniera molto chiara, non sono un esperto, sono una persona – l’ho messo in chiaro sin dall’inizio – che ha maturato questo sguardo di compassione perché io, a mia volta, quando ero un ramo secco, sono stato guardato in un certo modo. Lo dico perché da una parte mi libera dall’essere – cosa che non sono mai stato, viste le mie bocciature al liceo classico Socrate – un primo della classe, dall’altra perché questo discorso è qualcosa che riguarda tutti, perché non credo che ci sia qua dentro qualcuno che possa dire: “No vabbè, io questo sguardo ce l’ho avuto sin dall’inizio, ce l’avevo da mo’ che ce l’ho, non mi è servito nessuno, non ho avuto momenti di fragilità, di fallimento, di difficoltà, me la sono sempre cavata da solo.” Questo lo voglio chiarire perché è fondamentale. Io credo che l’educazione sia un tema enorme, un tema grande. Le famiglie chiaramente sono chiamate a educare. Io sono convinto che questo tipo di educazione, così come un po’ l’educazione in generale, c’era un libro se non sbaglio di un vostro collega, non mi ricordo il nome, faccio una figuraccia perché poi l’argomento non è il mio precisamente, “I nostri occhi fanno crescere,” o qualcosa del genere, era il titolo del libro. Ecco, io invece sono convinto che in questa fase, ma in assoluto, noi dobbiamo smetterla di giocare in difesa e dobbiamo cercare di giocare maggiormente all’attacco. Perché? Perché è impensabile ed è impossibile, con la storia più bella del mondo che abbiamo da raccontare, giocare sempre speculando sulle difficoltà o sulle sollecitazioni degli avversari. Qui c’è una storia grande, bella, stupenda da raccontare, e io sono convinto che invece si educhi con i sì. I no li conosciamo, i no ai nostri figli li conoscono. Tendenzialmente sono gli stessi, cambiano i nomi, cambiano i luoghi, cambiano l’epoca, i no sono sempre gli stessi. Sono i sì che sono diversi. Un esempio concreto dal punto di vista dell’utilizzo degli smartphone, dei social network: il nostro approccio è “spegni ‘sto coso.” Questo è il massimo dell’educazione del genitore medio, mentre invece il genitore oggi è chiamato a fare un salto di qualità, a crescere, a studiare maggiormente, perché la generazione successiva alla sua è più formata da questo punto di vista, e offrire delle chiavi di lettura dei sì appunto per cercare di utilizzarli in maniera intelligente. Ma quello che voglio dire, che credo sia fondamentale, è che la vita non è neutra, cioè se noi ci siamo o non ci siamo non è la stessa cosa. Se la persona a cui rivolgiamo la nostra compassione c’è o non c’è, non è la stessa cosa. Perché la compassione è un dialogo, è uno scambio, non ci lascia indifferenti. E se ci sono io a vedere Mira, a guardare Mira – questa mia amica si chiama Mira – o ad essere il papà di Giorgio Maria, non è un accidente. È perché sono stato messo nelle condizioni di poter esercitare questo. Credo che sia importante riconoscere che ciascuno di noi deve fare bene dove è stato messo, perché se lui c’è o non c’è, non è la stessa cosa. Ecco, dobbiamo un po’ riscoprire questa importanza che ciascuno di noi ha e che tante volte mettiamo un po’ in secondo piano, perché il protagonismo è un po’ anche questa parola che non è tanto apprezzata, perché non si può dire, perché i cattolici, no? Che è la parola “leadership.” Ciascuno ha una leadership da esercitare e che può essere esercitata anche particolarmente bene. È qualcosa che ha a che fare molto più con la pienezza di una vita che non con parole anglosassoni o mentalità anglosassoni da quattro soldi. Grazie, grazie.
Bertoli. Allora, concludiamo questo nostro incontro e ringrazio i nostri ospiti che ci hanno portato a riflettere molto sulla questione dell’essenzialità. E quindi è essenziale avere uno sguardo, è essenziale avere fiducia, è essenziale avere un rapporto. Io credo che tutte queste parole ci possano, nelle giornate del Meeting, accompagnare. E però devo richiamare il fatto anche che noi siamo in Meeting, che il Meeting ha bisogno, è un’esperienza clamorosa, ma ha bisogno della nostra presenza, degli aspetti educativi, per cui troverete delle modalità per sostenerlo anche dal punto di vista economico perché c’è bisogno di questo. Non c’è bisogno solo della salute mentale o di tutte le cose che lo Stato prepara o che noi cittadini possiamo costruire, ma questo è un luogo che va costruito, che ci permette di vivere, di ragionare e di sorridere anche. Buona serata a tutti.