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DIRITTO ALLA SALUTE E CARITÀ
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A cura di Banco Farmaceutico e Medicina e Persona
Giorgio Bordin, presidente Medicina e Persona; Domenico Giani, presidente della Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia; Luca Pesenti, professore di Sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore e Coordinatore dell’Osservatorio sulla Povertà Sanitaria di Banco Farmaceutico; Stefano Zamagni, professore di Economia politica, Università di Bologna. Modera Sergio Daniotti, presidente Banco Farmaceutico
Il nostro Servizio Sanitario Nazionale scricchiola. Il suo universalismo resta un vanto, se messo a confronto con quello di altre liberal-democrazie, ma la sua capacità di garantire a tutti l’accesso alla salute è sempre più ristretta. In particolare, stenta a intercettare e soddisfare i bisogni dei più fragili. Qualsiasi ragionamento relativo ai servizi socio-sanitari non dovrebbe mai prescindere da quella componente del Terzo settore che sta garantendo, gratuitamente, almeno un quinto dell’intera offerta socio-sanitaria italiana.
Con il sostegno dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
DIRITTO ALLA SALUTE E CARITÀ
DIRITTO ALLA SALUTE E CARITÀ
A cura di Banco Farmaceutico e Medicina e Persona
Venerdì 23 agosto 2024 ore 13:00
Sala Gruppo FS C2
Partecipano:
Giorgio Bordin, presidente Medicina e Persona; Domenico Giani, presidente della Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia; Luca Pesenti, professore di Sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore e Coordinatore dell’Osservatorio sulla Povertà Sanitaria di Banco Farmaceutico; Stefano Zamagni, professore di Economia politica, Università di Bologna.
Modera:
Sergio Daniotti, presidente Banco Farmaceutico
Daniotti. Buongiorno, buongiorno e benvenuti a tutti a questo incontro su diritto alla salute e carità. Approfondiremo il tema con Giorgio Bordin, presidente di Medicina e Persona, Luca Pesenti, professore di sociologia all’Università Cattolica di Milano, Domenico Giani, presidente della Confederazione delle Misericordie d’Italia e che tutti conosciamo come comandante della Gendarmeria Vaticana prima del ruolo di presidente, e il professor Stefano Zamagni, economista di fama mondiale e noto a tutti. Partirei rileggendo brevemente l’articolo 32 della nostra Costituzione, che recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti.” Io non sono un costituzionalista, ma non so quanti altri Stati al mondo abbiano un impegno così chiaro a livello costituzionale, e credo che da qui nasca la storia del nostro servizio sanitario nazionale o regionale ultimamente. Comunque, l’impegno è di sicuro ingente in termini di risorse economiche per garantire questo diritto. C’è però, ultimamente, qualche problema. Penso che tutti dobbiamo riconoscere che questo servizio sanitario nazionale dà a tutti noi tantissimo. Chiunque di noi, italiano, può affrontare delle cure chirurgiche o mediche che sarebbero proibitive se dovessero essere affrontate privatamente. Tuttavia, negli ultimi anni, presenta dei problemi. Io inizierei il nostro incontro dando la parola a Giorgio Bordin, che è medico e, oltre ad essere presidente di Medicina e Persona come dicevo prima, ha speso la sua lunga carriera professionale nel mondo della sanità italiana. Credo quindi che lui possa introdurre e iniziare questo convegno che abbiamo, tra l’altro, voluto insieme come Banco Farmaceutico e Medicina e Persona su questi temi. Poi parleremo anche di un appello e di un documento che troverete. Prego, Giorgio.
Bordin. Sì, grazie. È vero che oggi c’è una consapevolezza della crisi del sistema sanitario, una consapevolezza che sicuramente è stata innescata dalla pandemia, ma che affonda le radici ben prima. Dopo la prima ondata di generosità, è iniziata una retroguardia di lamentele e di timori. Tra i tanti timori, anche il timore che il servizio sanitario non potesse più reggere è emerso, a fronte anche di alcune cifre. Per esempio, la Corte dei Conti ha detto due cose: intanto che la spesa privata “out of pocket” ha toccato i 40 miliardi, che significa sostanzialmente metà delle visite specialistiche e un terzo della spesa per accertamenti ambulatoriali; ma ha detto anche che sostanzialmente il Paese si sta impoverendo, cioè che non ci sono soldi per aumentare il finanziamento del servizio sanitario nazionale. Ci sono due allert: un sistema sottofinanziato e disordinato, incapace di garantire l’universalismo su cui si è fondato come principio, e il crescere della povertà del Paese, non solo della povertà sanitaria, destinato a peggiorare lo stato di cose. Dal 2023 in avanti, direi che il tema è diventato assolutamente quotidiano su tutti i media e su tutti i quotidiani nazionali. Penso che non passi settimana, a volte nemmeno giorno, senza qualche titolo che lo richiami. Tra l’altro, non è solo un tema italiano; quella della sostenibilità dei servizi sanitari è un tema globale. C’è chi crede che il nostro servizio sanitario non ce la farà più e chi è convinto che ce la farà. Io penso che tutti, in qualche modo, si rendano conto che c’è bisogno di un passo nuovo e tutti invocano una riforma. Noi di Medicina e Persona abbiamo indicato la necessità non solo di una riforma, ma di una vera e propria rifondazione, cioè non solo di un passo organizzativo, ma di un passo culturale. Per esempio, in ottobre 2023 Medicina e Persona ha fatto questo quartino dal titolo “Un servizio sanitario da riformare” e già Sergio Danniotti l’ha accennato qui al Meeting. Insieme a Banco Farmaceutico abbiamo redatto questo appello-manifesto per una nuova sanità. C’è anche un video che Medicina e Persona ha prodotto a partire da questo appello per dire che c’è lavoro e fermento che condividiamo. Non entro certo nei dettagli di questo perché non è questo il momento. Vorrei però tornare al titolo. Sergio sa come questo incontro sia nato per volontà di entrambe le associazioni e il titolo è sicuramente indicativo e anche provocatorio. La medicina è antica come l’uomo; la Grecia, da Ippocrate, ha vantato una medicina fiorente, quella, tra l’altro, di cui la nostra medicina è in qualche modo debitrice. Però è interessante notare che in Grecia c’era una medicina fiorente ma non c’erano ospedali. Gli ospedali, cioè la forma con cui il prendersi cura è diventato l’espressione organizzata di una società civile, vengono da altro, dalla carità, che è rintracciabile già nei primissimi secoli del cristianesimo, ma che è esplosa in modo incisivo nel vivere sociale con il movimento monastico ospedaliero, quindi in ambito sostanzialmente medievale. E questo perché? Perché ci si può prendere cura di un uomo infermo solo riconoscendo il suo bisogno di salute, che però cela un bisogno più grande, cioè un bisogno di salvezza, di felicità, di compimento, un bisogno di infinito. Dice che la vita è mistero e la felicità non è uno stato; la felicità è un cammino verso questo compimento, verso il destino. Così, la vita ci sembra ingiusta perché sembra negare questo desiderio di felicità e di compimento in tanti modi, primo con la morte, ma sicuramente con la malattia e la povertà. Malattia e povertà sono le due grandi ingiustizie che ognuno sconta nella propria vita e che richiamano paradossalmente ancora più forte a quel desiderio e lo rilanciano. Per stare di fronte a questa ingiustizia occorre una certezza, cioè la certezza che questa ingiustizia non è l’ultima parola, neanche la morte è l’ultima parola, neanche la povertà è l’ultima parola sulla pienezza della vita che uno può vivere, che non finisce tutto lì. Occorre la coscienza che il dolore e la sofferenza sono vinti e questo, nella storia dell’umanità, è sostanzialmente il cristianesimo, l’unico e il primo che l’ha detto e che ha mosso questa possibilità di prendersi cura. Tanto che nel Medioevo c’era questa locuzione delle “pauper infirmus”, alternativamente soggettivo e aggettivo, per cui il povero, essendo povero, si ammalava; il malato, essendo malato, si impoveriva. Questo è sempre stato vero, ma è vero anche oggi; oggi è vero ancora di più nel senso che il crescere dell’implicazione di povertà e della implicazione sociale della malattia, con la cronicità che è frutto della medicina, perché la medicina fa superare eventi acuti, ma non essendo capace di guarire, produce l’inguaribilità, produce la cronicità. Si vive di più, ma si vive di più malati. E quindi, al giorno d’oggi, ancora di più, questo connubio tra povertà e malattia, quello che noi rubrichiamo come sanitario e sociosanitario, è assolutamente vero. Tutto l’arco di sviluppo culturale che, a partire dal razionalismo fino al positivismo, ha cercato non solo di dare giustamente uno statuto scientifico alla medicina, ma di affermare che la scienza basta e la carità è un impiccio e che quindi va tolta, sicuramente con il Novecento ha cominciato a scricchiolare molto di più di quanto scricchioli oggi il servizio sanitario, e ci si è reso conto che non era vero. Non a caso, la risoluzione dell’OMS del 1948 della definizione di salute come completo benessere fisico, psichico e sociale ha cercato di superare questa idea della malattia come un pezzo guasto, come un organo rotto e basta. E degli stessi anni è l’articolo 32 della Costituzione, a cui ha già fatto riferimento Sergio, e che non rileggo, e sicuramente il significato di queste affermazioni è chiaro, però i termini rischiano di essere irrealistici. Già la definizione dell’OMS parla di una salute che, se la guardiamo bene, vorrebbe dire che noi siamo, penso, malati, qualsiasi giorno della nostra vita: un po’ perché fa troppo caldo, un po’ perché siamo tristi, un po’ perché ci succede qualcosa. Soprattutto, porre questa salute come obiettivo di un sistema sanitario è assolutamente utopico e irrealizzabile. Ma così è anche diverso tutelare il diritto alla salute dal dire che invece è un diritto la tutela della salute, perché se la salute è un diritto, io ho qualcuno a cui reclamarlo, e questo genera delle aspettative illusorie, pretese e recriminazioni, ma anche pesanti implicazioni organizzative. L’ho detto: se la salute è un diritto, per qualcuno diventa un dovere, e questo sposta il baricentro dal suo cardine fondamentale, che è quello dell’Alleanza Terapeutica. Allora, vado a chiudere. Diceva Eliot nei “Cori della Rocca”: “Essi cercano sempre di evadere dal buio esteriore e interiore sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono.” Noi abbiamo un incontro, anche come Medicina e Persona, sabato sul servizio sanitario e il titolo dell’incontro è “Solo un problema di risorse?”. La domanda è tautologica; la risposta è no. Però noi in questi mesi stiamo cercando di incontrare professionisti della sanità, tecnici, anche politici su questo tema, ma si fa fatica a percepirlo come un tema culturale; lo si percepisce solo come un problema organizzativo e, invece, sicuramente mettere più risorse in una macchina che non fa il suo dovere vuol dire soltanto sperperarle e buttarle. Allora, non solo organizzativamente, ma anche come significato e contributo ideale, il terzo settore, di cui parliamo oggi, e non sono certo io a parlarne, ci saranno altri che ne daranno ragione, è una presenza già in atto, ma anche questa deve essere portata al sistema per una serie di motivi. Intanto offre già un quinto dei bisogni sanitari e quindi è una presenza già significativa, ma va portata al sistema anche perché mantiene questa spinta che ha nel DNA, capace anche di una creatività concreta.
Daniotti. Grazie.
Bordin. Non me lo ricordavo, volevo leggere questa frase di Jonathan Hutchinson, che è stato un medico, tra l’altro un medico importante, uno scienziato, e diceva, perché è bellissima, signore, liberaci dal troppo zelo per le novità e dal disprezzo del vecchio, dall’anteporre la conoscenza alla saggezza, la scienza all’arte, l’intelligenza al buonsenso, dal curare i malati come se fossero malattie, da rendere la guarigione più penosa del persistere del morbo. Io sottolineerei questa anteposizione della conoscenza alla saggezza, perché è di una saggezza oggi che ne abbiamo bisogno, è che la saggezza non è autoprodotta, va incontrata e questo è l’augurio che noi facciamo e il motivo per cui Medicina e persona si è messa assieme.
Daniotti. Grazie. Grazie Giorgio, credo che tu abbia inquadrato in modo chiaro, sintetico e con anche una visione più ampia sui problemi e sulle possibili soluzioni. Ora chiedo a Luca Pesenti, che non solo è professore di sociologia come dicevo, ma da anni posso dire amico del Banco Farmaceutico, ma soprattutto è un compagno di strada, cioè nel senso abbiamo camminato insieme. Facendo cosa? Ha curato, insieme ad altri ovviamente, la pubblicazione per 11 anni di un rapporto sulla povertà sanitaria in Italia. Quindi non solo della povertà sanitaria ma anche delle risposte che di fatto parzialmente si riescono a dare, grazie anche al fatto che il Banco ha questa relazione continua, oggi con più di 2.000 realtà. Quindi ora do la parola a Luca e lo ringrazio per essere qua.
Pesenti. Grazie a te, Sergio. Sì, da 11 anni siamo impegnati in questa operazione che si chiama Osservatorio sulla povertà sanitaria, essendoci resi conto dell’esistenza di un problema che in realtà sembrava non dover esistere. Essendo all’interno di un servizio sanitario nazionale di tipo universalistico e con un articolo 32 della Costituzione che recita quello che è stato richiamato in precedenza, nessuno riconosceva, e ancora oggi in fondo si fa ancora fatica a riconoscere, il fatto che esiste una quota della popolazione italiana e non italiana che in ragione delle proprie condizioni economiche non può permettersi di curarsi adeguatamente. Qui sì che è anche e forse soprattutto un problema di risorse, sono d’accordo che più in generale non è solo un problema di risorse, ma in questo caso è proprio un problema di risorse perché mentre dal 2011 a oggi il servizio sanitario è stato definanziato per circa 37 miliardi, tagli e mancati finanziamenti di tutti i governi, dal Berlusconi IV fino al Conte I. Tutti i governi in quei dieci anni hanno tagliato o sottofinanziato il servizio sanitario nazionale. Contemporaneamente è stato detto che cresceva la spesa out of pocket, cioè la spesa che ciascuno di noi deve tirare fuori dal proprio portafoglio per pagarsi le medicine da banco è la cosa più scontata che ci viene in mente ma in realtà ormai dobbiamo pagarci tante altre cose per garantirci quel sacrosanto ma appunto forse irrealizzabile diritto alla salute come dicevi tu Giorgio prima e allora siamo arrivati in una situazione in cui in Italia ciascuno di noi deve tirare fuori dal proprio portafoglio parecchi soldi. La spesa pro capite per farmaci e servizi sanitari in Italia è arrivata a 615,90 euro. Siamo dietro soltanto alla Grecia e al Portogallo, cioè due nazioni sud-europee che hanno subito crisi economiche pesantissime, ristrutturazioni pesantissime e transizioni di tipo neoliberale molto pesanti e siamo indietro a tutti gli altri di fatto. Perché? Perché siamo indietro rispetto anche al finanziamento pro capite. In Italia si spendono 2.179,80 euro in sanità. Tutti gli altri Paesi, sia di tipo universalistico, paesi cosiddetti mutualistici dove ci sono le casse mutue, la Germania e la Francia, spendono in sanità di più e talvolta molto di più di noi. Che cosa genera allora il combinato disposto, direbbero quelli che hanno studiato, di questi dati che ho sinteticamente riassunto? Determina il fatto, come ci dicono i dati, che in Italia quasi il 2% della popolazione lamenta i cosiddetti bisogni sanitari insoddisfatti, cioè lamenta il fatto di non aver potuto ricevere le cure adeguate per una qualunque patologia. Questa cifra, e arriviamo al punto, arriva al 3,5% nel quintile di reddito inferiore, cioè nel quinto della popolazione a reddito più basso. Allora, lì dentro c’è ciò che non dovrebbe esistere in un sistema universalista, ma che invece esiste. C’è la povertà sanitaria. Che cosa ci diceva dell’esistenza di questa povertà sanitaria? Beh, ce lo diceva un fatto sociale straordinario che è dal 1200 l’esistenza delle misericordie che sono stati i primi soggetti che oggi diffideremmo nel terzo settore ad occuparsi dei poveri e della salute dei poveri e ce lo dice oggi l’esistenza stessa di un’esperienza come il Banco Farmaceutico, con quasi 2.000 organizzazioni servite, con centinaia di migliaia di persone che si rivolgono a queste organizzazioni, perché non hanno soldi per comprare i farmaci da banco, ma in realtà poi sappiamo che mancano i soldi per tante altre cose. Tornerò su questo tema del contributo del terzo settore al secondo giro. Qui aggiungo soltanto qualche altra informazione. Allora, di che cosa è fatta questa povertà sanitaria, che è un pezzo della povertà assoluta registrata dall’Istat nel nostro Paese? Beh, la spesa sanitaria dei poveri equivale a un sesto della spesa sanitaria dei non poveri. Cioè i poveri spendono mensilmente 11 euro pro capite per curarsi, laddove i non poveri ne spendono 66 euro al mese. Il 60% di questa spesa sanitaria è peraltro dedicata, tra i poveri, all’acquisto di farmaci, perché appunto, perché esiste il Banco Farmaceutico? Perché non tutti i farmaci sono passati dal servizio sanitario nazionale. Tipicamente i farmaci da banco, anche un povero se li deve pagare. I poveri mettono il 60% di questi 11 euro al mese in farmaci. A conferma del fatto che proprio qui sarebbero necessarie adeguate interventi, ma conferma anche del fatto che i poveri devono dedicare ai farmaci la gran parte di quello che spendono per la salute. Dimenticandosi o evitando di curarsi e soprattutto dimenticandosi di fare prevenzione, che è il più grande elemento a sostegno di un servizio sanitario nazionale, perché prevenire è meglio che curare, diceva un vecchio slogan. Allora questa strategia obbligata di dover contenere l’accesso alle cure sanitarie riguarda il 31% di chi è povero in senso assoluto in Italia e riguarda invece il 15% di chi non è povero. Quest’ultimo dato è, chiudo, ci dice due cose fondamentali. La prima è che esiste un grande gap tra poveri e non poveri, ma la seconda è che esiste anche la possibilità che anche chi non è povero, in termini tecnici, non abbia reddito sufficiente per curarsi nel momento in cui il sistema sanitario, il servizio sanitario nazionale, è in arretramento. Proprio per questo, ne parleremo dopo, occorre una nuova grande alleanza in cui si riconosca al terzo settore la possibilità di essere non un soggetto ancillare, non un soggetto su cui si scaricano le cose che il pubblico non vuole fare, ma un grande protagonista della salute e del diritto alla salute del nostro Paese.
Daniotti. Grazie, grazie Luca per chiarezza e sintesi. E ora do la parola a Domenico Giani, presidente di questa grande realtà italiana. Facciamo due chiacchiere prima. InToscana dove vivo, ci sono più misericordie che comuni, quindi è una presenza radicata storicamente. Quindi chiederei di portare la sua testimonianza su questa realtà.
Giani. Grazie. E così riparto dalle ultime parole del professore, che appunto nell’attuale contesto sociosanitario italiano il ruolo delle Misericordie emerge come essenziale. In un’epoca in cui il servizio sanitario nazionale fatica a garantire un accesso universale alla salute, specialmente per le fasce più deboli della popolazione, le Misericordie rappresentano un pilastro fondamentale e mi piace qui ricordare quello che Giovanni Paolo II, in una storica udienza concessa alle Misericordie nel giugno dell’86, esortò appunto le Misericordie ad essere promotori, promotrici ovviamente, di una civiltà dell’amore e testimoni della cultura della carità. Le crescenti difficoltà del sistema pubblico sottolineano l’importanza del III settore, in cui le Misericordie operano ormai da secoli. Ricordava sempre il Professore che la prima Misericordia fu fondata nel 1244 dal frate domenicano Pietro da Verona perché nacquero per essere un modello antropologico attraverso il compimento delle opere di misericordia. Le Misericordie offrono questo lavoro, un contributo insostituibile attraverso questa rete capillare costituita da oltre 850 sedi in Italia, oltre 100 mila volontari, 700 mila soci, un esercito del bene, io lo dico anche da comandante, cioè da comandante della gendarmeria, oggi presiedo una grandissima realtà di servizio alla persona. E quindi è un supporto essenziale e fondamentale al sistema sociosanitario pubblico, colmando alcune lacune del servizio sanitario nazionale. E quindi è un intervento essenziale e diventa importante fermarsi a riflettere su come il mondo del volontariato può essere pronto ad affrontare, ascoltare e sostenere l’uomo. Il soccorritore, il volontario, può farlo perché, oltre alle capacità tecnico-professionali, è animato dallo spirito di servizio e da una forte spinta al bene. Quindi un esercito del bene che opera silenziosamente e genera innumerevoli impatti economici, sostenendo i più bisognosi, e degli impatti sociali, contribuendo significativamente alla tutela del diritto alla salute nella pienezza del suo significato. Tutelare la salute di ogni persona non è solo un diritto costituzionalmente garantito, ma è anche un dovere. Prima io pensavo rispetto ai miei due predecessori nelle relazioni che oggi ci sono le caste, perché il ricco si cura il giorno dopo e altri invece aspettano anche mesi. Quindi il volontariato rappresenta in sostanza la vera e propria spina dorsale del Paese. È importante, è stato ricordato anche questo, che chi governa e la politica in generale lo appoggi e lo incentivi, lo promuova soprattutto nei giovani. Il volontariato organizzato rappresenta oggi circa 6 milioni di persone che contribuiscono e io parlo sempre di valore economico, perché il valore morale non è quantificabile, contribuisce per circa 80 miliardi di euro per un valore del 5 per cento del PIL nazionale. E quindi è una quarta economia del Paese, e ripeto, il valore economico. Il valore morale non è quantificabile, perché si agisce in totale gratuità e quindi mi vengono in mente due parole che attribuirei a ciascun volontario nel loro agire: cura e coraggio. Queste due parole, così piene di senso, esprimono e sintetizzano appunto il valore morale delle opere a servizio della persona. L’impegno delle Misericordie si distingue pertanto non solo per la quantità di interventi, ma soprattutto per la qualità dei servizi offerti, un modello particolare nel suo genere. In settori chiave, come l’emergenza e l’urgenza territoriale e la protezione civile, le Misericordie intervengono in situazioni critiche, collaborando strettamente con le centrali di coordinamento sanitario. La loro presenza capillare garantisce interventi tempestivi, spesso decisivi per salvare le vite umane. Un altro aspetto cruciale delle attività delle Misericordie è rappresentato dai trasporti assistiti dei pazienti. Pensate che ogni giorno si percorrono migliaia e migliaia di chilometri per trasferire malati, anziani e disabili tra le loro abitazioni e le strutture di cura. Questo servizio, che è gratuito per gli utenti, costituisce una parte fondamentale della medicina territoriale domiciliare, alleviando il carico sugli ospedali e migliorando la qualità della vita dei pazienti. Anche le persone anziane possono fare affidamento sulla Misericordia, perché attraverso i nostri servizi sociali, medici, infermieri di comunità, ma anche attraverso le residenze assistite per anziani. Insomma, ci sono tanti e tanti casi di questa carità operosa, perché ovunque ci sia una necessità, il volontario si ferma e accorre. Quindi sono modelli di servizio alla persona davvero particolari. La pandemia da Covid-19 ha ulteriormente evidenziato l’importanza delle Misericordie; mi riferisco a tutto il mondo del volontariato che opera in questo settore, che ha risposto alle nuove povertà emergenti, offrendo un sostegno concreto tramite iniziative con gli empori solidali e il banco alimentare. Questi progetti hanno permesso a molte famiglie in difficoltà di ricevere aiuti essenziali, contribuendo a mantenere dignità e benessere in un periodo di grave crisi. In questi anni, infatti, il Servizio delle Misericordie ha potuto creare una vera e propria rete sociale, di protezione sociale, che fa affidamento su sportelli di ascolto denominati Casa del Noi, a cui afferiscono gli empori solidali, mense popolari, asili notturni, ma anche case per le vittime di violenza, l’aiuto agli uomini e maltrattanti. Le Misericordie hanno anche molta attenzione alle nuove sfide sociali, con la lotta alle dipendenze, il contrasto alla ludopatia e all’inclusione sociale. I centri di ascolto anti-usura, il servizio per le dipendenze e i programmi di lavoro socialmente utili sono una serie di attività che noi facciamo e quella fantasia della carità che partendo appunto dalle opere di misericordia permette ai nostri volontari di essere vicini al popolo, alla persona sofferente. Questo impegno si traduce in una rete di supporto che non solo risponde alle emergenze, ma lavora costantemente per prevenire l’emarginazione e promuovere l’integrazione. Alla luce di tutto questo è evidente che qualsiasi discussione sui servizi sociosanitari non può prescindere dal contributo fondamentale del III settore, di cui noi siamo una componente vitale. Queste organizzazioni garantiscono gratuitamente un quinto dell’intera offerta sociosanitaria, svolgendo appunto un ruolo imprescindibile nel mantenimento del benessere della popolazione. E per questo diventa indispensabile pensare a una inclusione del volontariato nelle politiche di welfare del nostro Paese, proprio per la sua caratteristica di incarnare e testimoniare con le opere un valore irrinunciabile: il dono. Senza la cultura del dono, senza le opere di misericordia, una società avanzata come la nostra, basata sull’economia di mercato, è destinata a disumanizzarsi. Quindi l’unico modo per evitare il rischio di disumanizzazione è quello di non accontentarsi di vedere solo il lato economico dello scambio. E qui mi piace ricordare appunto Papa Benedetto XVI quando ha parlato del nuovo umanesimo, un nuovo umanesimo che superi l’antropocentrismo e promuova una collaborazione armoniosa tra l’uomo e la natura, tra generazioni e cittadini, associazioni e istituzioni, che ponga al centro la dignità della persona come principio fondamentale per lo sviluppo di una società inclusiva. Mi permetto di citare il nostro Presidente della Repubblica che nel messaggio indirizzato al Meeting dice proprio che è essenziale rimettere al centro la persona, il desiderio di vita e di pienezza nelle relazioni con la comunità. Insomma, il nostro Presidente ci invita a fare proprio questo, cioè a tenere conto della persona, di porla al centro. In questo scenario il concetto di tassonomia sociale si inserisce come uno strumento fondamentale.
Daniotti. Ora darei la parola a Stefano Zamagni, che del Terzo Settore è stato pure presidente dell’agenzia, quindi per tanti anni è poi presidente della Pontificia Accademia per le Scienze Sociali.
Zamagni. Grazie, grazie molto. Nella lingua latina la parola salute è resa con due termini, e cioè valetudo e salus. Valetudo significava la salute in senso fisico, salus vuol dire salvezza, e cioè la salvezza del corpo e dell’anima, così pensavano i nostri progenitori. Passano tanti secoli, si arriva alla stagione della rivoluzione scientifica, 1600, e emerge una figura, Cartesio, il quale introduce una distinzione che allora per tanti secoli venne considerata irrilevante. Cartesio dice che non esiste l’ammalato, esiste la malattia. Quindi il medico, l’infermiere e tutti coloro che si occupano del settore non devono avere cura della persona, ma devono combattere la malattia. Questo è il modello della medicina cartesiana. Ovviamente il modello alternativo era quello che si richiamava al concetto di Salus, cioè la medicina umanistica. Cos’è accaduto? Nei nostri sistemi in Europa e poi altrove, eccetera, che per una pluralità di ragioni che non ho il tempo qui di illustrare, è prevalso il modello cartesiano. Chi ha fatto esperienza di questioni serie in ospedali, sa cosa vuol dire che viene preso di mira la malattia. E la ricerca in campo biomedico e farmacologico è finalizzata a questo scopo. Ecco allora qual è il problema oggi. Come fare, raccogliere e vincere la sfida per abbandonare il modello cartesiano e andare verso la medicina umanistica? Questa è la grande sfida di questa nostra epoca. Ovviamente a questa sfida sono chiamati tutti. Che fare per questo? Primo, bisogna affermare che la salute è un bene comune. Questa è la definizione che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dato nel 2008, ma di cui nessuno parla mai. Questa è la delinquenza, che non si parla mai delle cose che accadono e che sono vere. Cosa vuol dire che la salute è un bene comune? Vuol dire che non è né un bene pubblico, né un bene privato. E quindi le regole di governance della salute non possono essere né di tipo pubblicistico solo, né di tipo privatistico solo. Ma poi fra due minuti dirò di che tipo deve essere. Deve essere un modello di governance di tipo comunitario, se è vero che è un bene comune. E chi l’ha detto è l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Secondo, bisogna considerare che la salute è funzione, cioè dipende da cinque fattori causali. Uno è certamente la sanità, ma non solo. La nostra salute non dipende solo dalla sanità, che è fondamentale e viene per prima, ma da altri quattro fattori, che sono gli stili di vita, le condizioni di lavoro, l’ambiente naturale e infine la strutturazione sociale. Dentro la strutturazione sociale, il fattore decisivo è la famiglia, perché, come dicevano gli antichi, la famiglia è il primo medico. Perché tutta una serie di nostro star bene dipende da come è organizzata e funziona la famiglia. Perché è importante dire questo e nessuno mai quasi lo dice? Perché se noi carichiamo la salute solo sulla sanità non ci sarà niente da fare. Continueremo a spendere sempre di più e le condizioni di vita peggioreranno sempre di più. Quindi ecco perché l’articolo 32 della nostra Costituzione, i nostri padri costituenti erano veramente dei saggi, dei grandi saggi. Parla di salute, non parla solo di sanità. Andiamolo a rileggere. Avendo a cuore che tu non puoi difendere la salute solo avendo i migliori ospedali del mondo. I migliori ospedali del mondo sono in America e in America il livello della salute è al dodicesimo posto tra i paesi avanzati. Spendono l’ira di Dio, perché se vi dico quanto spendono, spendono quasi il 18% del PIL nazionale. Ma perché? Perché gli stili di vita sono sbagliati, nello stile di vita c’è l’alimentazione, le condizioni di lavoro, facciamo lavorare le persone in un lavoro che è considerato non decente, cioè non rispettoso della personalità e della dignità umana, è chiaro che quella persona va giù di salute. Poi mi fregio del fatto che ho il migliore ospedale? Ma come si fa a ragionare così? Bisogna essere veramente irresponsabili, se uno se ne intende un po’. Il terzo fattore è quello legato a una vicenda che ha riguardato il nostro Paese tra il 1992 e il 1993, in cui due anni vennero approvati e pubblicati due decreti legislativi. Chi ha una certa età se li ricorda. E cioè le USL diventarono ASL, le unità sanitarie locali vennero ridenominate aziende sanitarie come adesso. Voi direte: problema di nome? Eh no, magari. È perché è cambiata la filosofia di fondo, e cioè viene messo al centro come criterio di valutazione della sanità, ora parlo di sanità e non degli altri quattro fattori perché non ne abbiamo il tempo, il criterio dell’efficienza e cioè l’organizzazione sanitaria deve essere pensata e organizzata in modo da minimizzare i costi di produzione dei servizi, minimizzazione dei costi. Ora, qui un punto che non viene mai messo in evidenza e si capisce perché, in tutto questo una grande responsabilità sarà la categoria a cui io stesso appartengo, quella degli economisti. Perché questo è il punto, gli economisti non studiano, pensano di essere esperti perché tirano fuori i numeri, ma vi assicuro io che sanno poco, perché non studiano in profondità. Il concetto di efficienza è stato inventato dall’economista italiano Vilfredo Pareto alla fine dell’Ottocento. Prima non esisteva la parola efficienza, però Pareto dice che due sono i concetti di efficienza. L’efficienza che si applica alla produzione dei beni privati e, come allora si pensava, alla produzione dei beni pubblici. Ed è diversa, perché nel settore della produzione dei beni pubblici l’efficienza deve diventare efficacia. Cosa è successo dopo? Che gruppi di economisti, io spero in buona fede, sicuramente in buona fede perché altrimenti l’inferno sarebbe garantito se uno sapendo che diceva delle cose sbagliate ha costretto di fatto in Parlamento a prendere certe decisioni, è passata alla linea dell’efficienza intesa come minimizzazione dei costi e i risultati, lì diceva prima Luca Pesenti, noi in Italia spendiamo il 6,1% del PIL nella sanità, la Germania spende il 9,5%, la Francia il 9,3% e così via, perché se la regola è minimizzare i costi è come si fa a minimizzare i costi bisogna tagliarli. Non c’è bisogno di essere esperti, però all’origine sta un errore teorico che si è preso una nozione di efficienza che non poteva essere applicata al settore da sé. Io posso applicare quella nozione se devo produrre i bulloni, allora lì devo minimizzare i costi, ma io non posso minimizzare i costi quando in gioco c’è appunto la salute della persona. Una quarta linea di azione per raggiungere lo scopo e raccogliere la sfida di cui ho fatto parola poc’anzi è quella che riguarda il modello di organizzazione interno alla sanità. Anche qui devo dire cose che mi piacerebbe che venissero nei dibattiti politici, i quali ovviamente non sanno niente di queste cose. Questo è il dramma, che non le sanno e non se ne rendono conto, perché uno non è obbligato a saper tutto, però deve avere l’umiltà di sapere di non sapere e di aprire al dibattito pubblico. A che cosa alludo? Che il modello organizzativo dei nostri ospedali è ancora di tipo taylorista. Il Taylorismo, Frederick Taylor americano, 1911, pubblica il suo libro fondamentale tradotto in tutte le lingue del mondo, L’Organizzazione scientifica del lavoro. Pubblica questo lavoro pensando alla fabbrica, al settore manifatturiero e infatti gli ha dato risultati enormi il modello taylorista. Cos’è accaduto? Non solo in Italia questo, anche in altri paesi europei e americani, che il modello taylorista è stato impiantato dentro gli ospedali. I nostri ospedali hanno un’organizzazione di tipo tayloristico e quali sono i difetti principali di questo modello? Primo, la non flessibilità; secondo, la non scalabilità; terzo, la non modularità. Abbiamo visto cosa è successo al tempo del Covid, cioè l’entrata in crisi di un reparto ospedaliero mette in crisi altri reparti. Ma perché? Perché il taylorismo esige questo. Adesso non è la sede questa, non c’è il tempo. Ma se noi non ci decidiamo a scrivere in una legge lunga una riga, è vietato applicare il taylorismo, nella sanità non usciremo mai. Possiamo mettere soldi su soldi, sempre più soldi, e i soldi andranno a finire evidentemente nei due concerti. Infine, un ultimo punto che mi piace ed è stato ripreso dagli amici che sono intervenuti poc’anzi, è quello che riguarda la strutturazione, cioè noi dobbiamo batterci per una sanità plurale, che cosa vuol dire? Che, e quindi mi riallaccio a quanto ho detto all’inizio, abbiamo bisogno di mettere in interazione fra di loro pubblico, privato, civile, cioè il modello cosiddetto tripolare di ordine sociale pubblico, privato, civile. Voi direte, perché non dici terzo settore? Perché a me non piace, perché il terzo settore non l’abbiamo inventato noi, è stato inventato in America nel 1973. Prima del 1973 non esisteva, due studiosi americani, ma in America è ovvio che si chiami terzo settore. Perché terzo? Perché viene dopo lo Stato, dopo il mercato e arrivano questi qua che sono, come dire, le croci rosse sociali che aiutano, eccetera. L’Italia che ha inventato, quando 850 anni fa noi abbiamo inventato quegli enti, avete sentito le Misericordie, in terra di Toscana e poi altrove, eccetera, erano chiamate OMI, che vuol dire Organizzazioni a Moventi Ideali. Quindi noi prima del 1973 non abbiamo mai usato la parola terzo settore, perché non appartiene alla nostra radice, perché la nostra radice è legata alla società civile, ecco perché si parla di settore civile. Allora quello che lo sforzo che dobbiamo fare è di mettere in interazione il settore pubblico, che ci vuole, che sia ben chiaro, il settore privato, ma il settore civile, o come ormai si dice il terzo settore. Però fin tanto che lo chiameremo terzo settore, a questi soggetti al massimo arriveranno ogni tanto delle medaglie di riconoscimento del tipo: siete bravi ragazzi. Mettere in interazione questi tre vertici del triangolo magico vuol dire prendere in considerazione il principio di sussidiarietà circolare, non orizzontale. I lombardi hanno una grossa responsabilità in questo, che loro hanno in buona fede, parlato sempre solo di sussidiarietà orizzontale, ma quello mettetelo in testa, è sbagliatissimo ed è pericolosissimo. Ci vuole la sussidiarietà circolare, che vuol dire che i tre ambiti, pubblico, privato e civile, devono interagire fra di loro. Perché? Per attuare la coprogrammazione e poi la coprogettazione. Finalmente, chi ha dato avvio a questo dibattito è stata la sentenza 131 della Corte Costituzionale del giugno 2020, che per la prima volta in Italia ha detto coprogrammazione. Viene prima della coprogettazione. Cosa vuol dire coprogrammare? Vuol dire che attorno al tavolo si siedono il rappresentante del pubblico, del privato e del civile e sulla base di determinati protocolli si decidono le priorità e gli obiettivi ultimi da raggiungere. Poi avviene la coprogettazione, che vuol dire scriviamo i progetti per attuare quelli, perché altrimenti con la sussidiarietà orizzontale al massimo si ottiene la coprogettazione, che è già qualcosa, ma non basta in un ambito come la sanità, perché a decidere sui nostri bisogni sanitari deve essere soltanto un soggetto, che in questo caso, nel caso italiano, è il soggetto pubblico? È chiaro che il soggetto pubblico ha un ruolo, ma non può essere l’unico, perché certi bisogni in ambito sanitario li conoscono meglio i volontari, le associazioni di volontariato, le cooperative sociali che stanno in mezzo alla gente, sentono quello di cui che c’è bisogno, può decidere le priorità a chi sta chiuso in un ufficio, in mezzo alla burocrazia? Ma come si fa a non capire queste cose? Allora bisogna dire che se si vuole la sussidiarietà, articolo 118 della Costituzione, mutato nel 2001 come voi sapete, la vera sussidiarietà è quella circolare, la vera e piena sussidiarietà. Poi la sussidiarietà orizzontale non è che sia da buttare via, ma si deve applicare ad altri ambiti, così come la sussidiarietà verticale, che non è sussidiarietà perché è semplicemente decentramento politico-amministrativo. E vado a chiudere perché ho terminato il mio tempo, ma mi piace ricordare che la prima formulazione della sussidiarietà circolare, sapete dov’è? In un libretto pubblicato nel 1278, ad opera di Bonaventura da Bagnoregio. Bonaventura da Bagnoregio era stato il secondo San Francesco, era un francescano che poi diventa il capo di tutta la famiglia francescana e insegnava alla Sorbona di Parigi, pensate che testa aveva. Lui scrive un saggio in cui dice come si deve governare la società e lì enuncia, lui ovviamente la sussidiarietà circolare la fa derivare dal mistero Trinitario. Come dire, come il Dio cristiano non è un Dio unico, Padre, Figlio e Spirito Santo, e tutti e tre interagiscono, perché ognuno dei tre vuol dire la sua, capito, sto banalizzando ma mi capite, la stessa cosa dobbiamo fare nell’ordine temporale. Ecco allora, concludendo, recuperare queste idee e tradurle in atto anche politico, ma politico in senso proprio, è a mio modo di vedere la strada maestra per tornare a mettere al centro la persona e passare dalla medicina cartesiana a quella umanistica. Grazie.
Daniotti. Grazie. Ci vorrebbero due ore, non un’ora di incontro. Abbiamo ancora poco più di dieci minuti. Però facciamo un giro velocissimo sul tema che ci sta tanto a cuore, quello della gratuità del dono nella vostra esperienza. Comincerei con Giorgio, se vuoi dirci una riflessione.
Bordin. Penso che nella dimensione della medicina la gratuità sia fondamentale, ma è fondamentale perché è una dimensione della vita, non della medicina. La vita è una sostanzialmente. Purtroppo, gratuità è una parola che viene usata con delle accezioni che si prestano a volte a degli equivoci, al fatto che uno parla di una cosa e l’altro ne intende un’altra. La gratuità non è prima di tutto o soltanto il fatto di dare del tempo in più non pagato; poi anche questo, se è necessario si arriva fino a lì. Ma, come dire, è un cambio di atteggiamento, è una posizione libera di chi gioca, di chi costruisce, di chi non si arrende, di chi non pensa che le condizioni siano quelle che determinano il “chi me lo fa fare”. C’è bisogno di questo passo in più, senza questo non esiste un gesto e non esiste un’azione vera e, come tale, non esiste sicuramente la cura di un malato. Noi siamo trattati come dei dipendenti, ma siamo dei professionisti, medici, infermieri. I professionisti sono coloro che professano, cioè che di fronte all’altro esprimono per l’altro la verità del nostro legame. E questo non possiamo farlo. Noi dobbiamo reclamare di essere trattati come tali, oggi non avviene, ma dobbiamo cominciare a viverlo per primi noi, altrimenti tutti i cambiamenti, anche sicuramente del nostro servizio sanitario, se non partono da noi, non arriveranno mai.
Daniotti. Grazie. Luca, sullo stesso tema.
Pesenti. Dal mio punto di osservazione, l’abbiamo già un po’ toccato tutti, abbiamo richiamato tutti la necessità che venga riconosciuto pienamente e definitivamente il ruolo della società civile come un ruolo fondamentale anche all’interno del sistema sanitario. L’Istat recentemente ci ha fornito anche i contorni di questo mondo. In Italia ci sono 12.000 organizzazioni che si occupano di servizi sanitari e, in prevalenza, di servizi sociosanitari. È una tradizione che arriva addirittura dagli hospitalitas benedettini dell’anno 1000 in poi, dagli ospedali medievali, e che attraverso la storia, anche delle misericordie evidentemente, arriva fino a noi. Dentro questo gruppo di 12.000 ci sono quasi 4.000 organizzazioni che sono quelle che noi abbiamo definito un servizio sanitario solidale. Sono 4.000 organizzazioni che si occupano dei poveri, che si occupano delle persone in condizioni di disagio e senza le quali appunto il diritto alla salute sarebbe soltanto una parola vana. Che ne facciamo di queste 4.000 organizzazioni? Mi ha molto colpito, noi pubblicheremo in ottobre il volume che in qualche modo porta a compimento questi undici anni di lavori dell’Osservatorio sulla povertà sanitaria, lo pubblicheremo per Il Mulino, impreziosito dalla meravigliosa prefazione del professor Zamagni. Che cosa ne facciamo di queste organizzazioni? Le teniamo lì, poco riconosciute anche dalla letteratura scientifica, cosa che mi ha molto colpito. Si vede la solidarietà civile che si occupa di accompagnare i poveri, le persone in disagio; si vede la solidarietà civile che fa advocacy, cioè che difende il diritto alla salute da parte delle persone. Ma non si vede questo mondo del non profit, non si vede l’esistenza di 4.000 organizzazioni che producono servizi sanitari a tutti gli effetti. Io sono di Milano, a Milano ci sono delle organizzazioni, come l’Opera San Francesco, che sono dei piccoli ospedali. Prima della pandemia avevamo fatto i conti con loro: erogavano prestazioni per 60.000 persone all’anno, un piccolo ospedale. Allora, che ne facciamo? Li teniamo confinati nel mondo del volontariato e basta, e quindi come lo trattiamo? In Italia, il volontariato è qualcosa di romantico, di gente buona a cui facciamo fare queste cose, ma la vera sanità è un’altra? Oppure lo riconosciamo come un pezzo del nostro servizio sanitario? Tu Stefano hai parlato di coprogettazione dell’amministrazione condivisa, e la sentenza scritta dal giudice Antonini, tra l’altro che è di casa al Meeting e che è stata una svolta epocale da questo punto di vista. Allora, possiamo utilizzare l’amministrazione condivisa per trovare anche delle formulazioni giuridiche nuove per permettere a questi soggetti di essere accreditati al Servizio Sanitario Nazionale senza ricadere nelle forme di accreditamento pesanti che ricadono sugli ospedali? Possiamo trovare una creatività da questo punto di vista? Possiamo fare in modo che le 460.000 persone aiutate dal Banco Farmaceutico possano essere riconosciute come un pezzo in cui il Servizio Sanitario Nazionale non deve lavarsi le mani, ma deve sostenere le opere sostenute dal Banco Farmaceutico per fare questo? E guardate, mentre nel 2017 i poveri sostenuti dal Banco Farmaceutico erano il 37%, oggi sono arrivati al 50%, sono la metà. Questo vuol dire che non è solo un problema di migranti, ma è diventato un problema degli italiani, che in teoria hanno il Servizio Sanitario Nazionale, ma in pratica non ce l’hanno. Insomma, sono contento di questo incontro e sono contento del lavoro che abbiamo fatto insieme, del libro che lanceremo in ottobre, che speriamo, Stefano mi diceva, dovete presentarlo al CNEL in Parlamento coi ministri, dovete fare pressione, vedremo di farcela, anche col tuo aiuto Stefano. Credo che sia il momento per questa grande svolta epocale e appunto la sentenza sull’amministrazione condivisa e il nuovo codice del III settore, l’articolo 55, sono sicuramente un architrave giuridica che ci può aiutare in questa grande proposta di civiltà. Grazie.
Daniotti. Una parolina?
Giani. Veramente due parole, insomma, perché appunto sarei ripetitivo rispetto a chi mi ha preceduto e chi mi succederà, ma credo anch’io questo. Il tema è che la politica, chi governa, chi ha poi potere di decidere su alcune cose, non guardi al mondo del volontariato, non guardi a questo mondo solo nell’emergenza e ci viene detto grazie e poi non si fanno dei programmi per sostenere. Per esempio, penso nella scuola andrebbe favorito l’ingresso nel mondo del volontariato, andrebbe posta attenzione a tutta una serie di organizzazioni. Io qui vedo suor Barbara insieme alle altre suore che a Roma operano a favore dei bambini, di tanti bambini che si trovano in difficoltà. Quando c’è stato il momento di crisi, quando non c’era il gasolio, erano sole. Però continuavano a servire. Dal punto di vista della generosità, il mondo del volontariato non si tirerà mai indietro, però ci vuole quello che diceva prima anche il professor Zamagni, cioè ci vuole che questa circolarità faccia in modo che ognuno faccia la sua parte, ma si tenga conto di chi comunque è davvero prossimo alle persone sofferenti. Grazie.
Zamagni. L’ora è tarda, allora una chiosa velocissima. Il nostro moderatore ha chiesto la distinzione tra dono e donazione. Questa è una delle grandi confusioni di pensiero che nuoce non poco. La donazione è un oggetto, che può essere monetario o di altro tipo. Il dono, invece, è una relazione interpersonale, che può anche includere un’addazione, cioè un dare qualcosa, ma quello viene dopo. E qual è il modo più facile per far comprendere a livello popolare questa distinzione? L’esempio storico di San Francesco. Francesco era un imprenditore molto bravo, aveva fatto una barca di soldi con suo padre perché era intelligentissimo, ma veramente intelligente come imprenditore e non era tirchio, ma al suo servo diceva settimanalmente: “Vai nella Cisano a distribuire cibo, vestiario eccetera a chi ne ha bisogno”, quindi non era egoista perché dava. Però lui continuava a fare il suo lavoro. Quando si converte e si spoglia di tutto, ma si spoglia in senso proprio, come sapete, nella piazza di Assisi, antistante alla Cattedrale, qual è il primo gesto che fa dopo la conversione? Va a cercare il lebbroso che stazionava nei dintorni, lo abbraccia, lo bacia e si mette a mangiare con lui dalla sua scodella. Allora, prima San Francesco praticava le donazioni, poi pratica il dono e, come è stato ricordato, appunto il dono è l’espressione della gratuità. Ma la gratuità è esattamente il contrario del gratis; gratis vuol dire prezzo zero, gratuità vuol dire prezzo infinito, cioè la gratuità, la parola gratuita viene da grazia. E allora, se uno sa il significato delle parole, è aiutato. Allora è chiaro che ci vogliono anche le donazioni, ma quelle vengono dopo. Se nella sanità io ti do anche, ecco, quello che diceva l’amico Gianni delle Misericordie, quando loro portano e assistono l’ammalato, non gli danno solo la medicina che immediatamente serve, ma gli parlano, gli fanno una carezza, un sorriso, una parola di conforto, perché quando si è ammalati non si ha bisogno solo delle medicine, abbiamo bisogno anche di non sentirci abbandonati. Ecco la differenza tra il dolore e la solitudine. Quando abbiamo il dolore, al dolore si associa sempre alla solitudine, ma la solitudine non si combatte con le medicine o con le dialisi, ma si combatte con la vicinanza. Ecco perché assistere viene dal latino “adsistere”, che vuol dire stare con. Stare con è la cifra che connota di sé il variegato mondo delle associazioni, come le Misericordie; ce ne sono tante altre, come voi sapete, che si dedicano a questo scopo. Grazie.
Daniotti. Io vi ringrazio, ringrazio i nostri relatori. Voglio ringraziare anche il Meeting perché rimane un’occasione speciale per incontrarsi. Quest’anno, alla ricerca dell’essenziale, per noi, Banco Farmaceutico, ci diciamo che è importante essere al Meeting perché è uno dei modi per non abituarsi a fare le cose. La ricerca dell’essenziale serve a non abituarsi a fare le cose. Ovviamente il Meeting ha bisogno di essere anche sostenuto. Chiunque di noi può fare una piccola donazione ai punti col cuore, dove si possono fare le donazioni in modo da sostenerlo e dove i volontari indossano la maglietta d’una ora. Voglio anche dire un’altra cosa importante: in questo particolare momento, il Meeting, tutti noi, non potevamo non sentirci provocati da quanto ci ha detto il Cardinale Pizzaballa. Quindi, il Meeting devolverà parte delle donazioni raccolte questa settimana per l’emergenza a Terra Santa, che non dobbiamo dimenticare e per cui dobbiamo pregare, affinché finisca. Grazie a tutti.