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DIRITTI, DOVERI. EUROPA: 1979-2019
S. Ecc. Mons. Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede; Enrico Letta, Presidente Istituto Jacques Delors; Enzo Moavero Milanesi, Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale; Nicola Renzi, Segretario di Stato per gli Affari Esteri, gli Affari Politici e la Giustizia della Repubblica di San Marino. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
Diritti, doveri. Europa: 1979-2019
S. Ecc. Mons. Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede; Enrico Letta, Presidente Istituto Jacques Delors; Enzo Moavero Milanesi, Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale; Nicola Renzi, Segretario di Stato per gli Affari Esteri, gli Affari Politici e la Giustizia della Repubblica di San Marino. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
GIORGIO VITTADINI:
Buongiorno, benvenuti a questo incontro dal titolo “Diritti, doveri. Europa: 1979-2019”. Sembra strano in un giorno del genere che noi andiamo avanti ad affrontare temi di riflessione di lungo periodo. Come abbiamo visto in questi giorni di Meeting secondo noi è la riflessione, l’apertura della ragione, la capacità di guardare alla realtà in profondità ciò che può risolvere i problemi concreti in un modo non rissoso, in un modo costruttivo per il nostro Paese e per il mondo intero. E qui oggi affrontiamo uno dei temi che è tradizionale al Meeting, ma che ha ancora più importanza perché è uno dei punti più discussi a livello politico, il tema dell’Europa. Noi abbiamo ospitato qui tantissime volte presidenti della Commissione, presidenti del Parlamento europeo e importanti politici europei. Oggi il tema riguarda qualcosa su cui non si è riflettuto abbastanza, che non è stato argomento di dibattito generale: sono quarant’ anni dal Parlamento Europeo. E questo è il diritto, il diritto di pensare che se dobbiamo stare in Europa la gente, il popolo deve eleggere i suoi rappresentanti, e questi rappresentanti possono e devono determinare le sorti dell’Europa almeno paritariamente agli Stati. 1979: era un’epoca in cui la democrazia, la decisione dei popoli era importante. Cosa avvenne? Avvenne che l’Europa, per lungimiranti leader politici, non solo si confermò, ma aiutò una transizione pacifica dell’est europeo alla caduta del comunismo. Anche questi erano leader importanti per il Meeting: ospitammo qualche anno dopo Lech Walesa quando era presidente della Polonia e in quegli anni leggevamo “Il Potere dei senza potere” di Václav Havel, primo presidente della Cecoslovacchia che è oggi oggetto di una mostra del Meeting. In quegli anni accadde che la democrazia si diffuse anche nei paesi dell’est e molti paesi dell’est entrarono nell’Unione Europea. Ma poi qualcosa si inceppò. Si andò ancora avanti, si passò all’unione monetaria tra alcuni paesi, ma pian piano invece di crescere, questo livello di passione democratica, l’idea di Europa si inceppò: prima fu bocciata la riforma dell’introduzione della Costituzione Europea in Olanda e in Francia e quindi non si ebbe una costituzione europea, ci si limitò al trattato di Lisbona per andare avanti e nel corso degli anni è andata in crisi quest’idea di Europa, al punto tale che un paese fondamentale come l’Inghilterra ha votato l’uscita. Ma anche nei paesi che sono rimasti dentro c’è stato un raffreddamento. Pensiamo a tutto il dibattito negli ultimi anni in Italia sulla necessità o sull’utilità di stare in Europa, di usare l’euro, eccetera, che è ancora un punto di discussione al punto tale che forze importanti di maggioranza dell’appena caduto governo, ancora in carica per gli affari correnti, ha votato contro alla nuova presidente della Commissione. Quindi esiste una disaffezione dovuta anche al fatto che il peso del Parlamento europeo votato della gente non è cresciuta, e abbiamo piuttosto avuto l’Europa degli Stati. Allora qui siamo a riflettere in termini generali, profondi su questo tema: diritti, doveri. Diritti: il diritto ad avere un parlamento che rappresenti la gente, che rappresenti i corpi intermedi, altro punto andato in crisi in questi anni, che faccia sentire la gente vicino ai politici. Ma poi doveri, dovere che quello che viene deciso venga seguito. Anche questo è in crisi in conseguenza alle grandissime divisioni che ci sono in Europa sulle migrazioni, sulla politica estera, sulla politica economica. Saremmo veramente convinti che un Parlamento europeo, eletto con più poteri, che decidesse la linea sarebbe accettato, sarebbe un dovere o non nascerebbero dei distinguo? Allora vedete che questa parola, “diritti-doveri”, che è il tema di tutto il ciclo pensato dal presidente Violante, oggi ha un’importanza cruciale, anche perché abbiamo visto proprio nel dibattito tra il professor Costantino Esposito e Luciano Violante, che perché dei doveri siano accettati non bastano delle regole, ci vuole uno stupore, ci vuole un interesse, una passione; non si possono accettare delle regole, anche condivise, di uno stato sovranazionale, se vengono meno la passione, la responsabilità, la collaborazione, la partecipazione, se non è qualcosa come quello che è avvenuto nei primi anni dopo la guerra. Abbiamo sentito qui negli anni scorsi, in una mostra sull’Europa, l’appassionatissimo discorso di De Gasperi che diceva: «Se non facciamo l’Europa non facciamo neanche l’Italia». Era un’occasione storica di ritorno all’unità che l’Europa aveva avuto nel Medioevo. Allora questo tema dei diritti-doveri, – dove nascono i diritti, dove nascono i doveri, la democrazia è l’accettazione di regole – in questo percorso ci sembra qualcosa di fondamentale, anche per quel che riguarda la crisi italiana, perché non pensiamo che un governo possa nascere senza essere preciso rispetto alla prospettiva che ha sull’Europa. Da questo punto di vista abbiamo degli interlocutori di primissimo livello, innanzitutto sua eccellenza Monsignor Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati della Santa Sede. Poi Enzo Moavero Milanesi, Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, nostro ospite in tanti Meeting, che ringraziamo della sua presenza in un giorno così. E poi Enrico Letta, presidente dell’Istituto Jacques Delors, anche lui ospite ormai tantissime volte al Meeting. Introdurrà l’incontro Nicola Renzi, segretario di Stato per gli Affari esteri, gli Affari politici e la Giustizia della Repubblica di San Marino, a cui do la parola.
NICOLA RENZI:
Grazie, sono davvero molto lieto di poter esser presente oggi ancora una volta a rappresentare la Repubblica di San Marino a quest’importante kermesse. Sono grato inoltre con sentimenti di viva e sincera amicizia al presidente della Fondazione Meeting, Emilia Guarnieri, per aver sostenuto ostinatamente il consolidamento del rapporto fra il Meeting e la Repubblica di San Marino. Sono grato ancora per la possibilità di poter esporre davanti a questo grande pubblico alcuni tratti della posizione che la Repubblica di San Marino ricopre nell’ampio contesto europeo. È certamente stimolante il titolo del panel che attribuisce ai quarant’ anni della prima elezione del Parlamento europeo a suffragio universale il valore portante di un’Europa che è confluita a metà Novecento nella rivalutazione di una civitas communis quale identità collettiva di fondo, propria dei popoli del vecchio continente e nello sviluppo del conseguente diritto comunitario. Non è certo mia intenzione ripercorrere in questo breve tempo le tappe di un percorso, quello dell’Europa unita, che dai suoi padri fondatori illuminati ha saputo mantener fede alle sue radici, al suo spirito d’aggregazione tra popoli e culture. Ritengo sia comunque un preciso dovere istituzionale, e dunque anche delle istituzioni di un Paese come il mio, cioè la Repubblica di San Marino incamminato verso una maggiore integrazione europea, riconoscere i passaggi intervenuti dall’idea al concetto di identità europea, che non può scaturire da quella nazionale. L’Europa unita ha saputo costruire un sentimento d’appartenenza che è ben radicato nel paradigma simbolico della cittadinanza anche se oggi a tratti messo in discussione. Dal primo e limitato rilievo accordato all’individuo, che in origine non rileva in quanto persona, ma quale protagonista del mondo economico, ad esempio come è il lavoratore in libera circolazione, si è giunti nei decenni più recenti all’elaborazione del concetto di cittadinanza europea. La comunità unione subentra alla comunità mercato. L’Europa dei cittadini ingloba e riassume anche in sé quella dei mercanti e la comunità economica europea rinasce in comunità europea. Non è una forzatura, al contrario lo ritengo un doveroso richiamo riconoscere la nascita, il progressivo sviluppo di un sentimento di appartenenza anche attraverso il ruolo fondante della humanitas, che ha consentito di riattivare, ricostituire costantemente l’identità culturale europea in quanto forma di vita associata. L’humanitas è il telos europeo, la filosofia giuridica è la lingua dell’Europa del diritto e il vecchio continente con la sua propensione universalistica e non escludente ha espresso da subito l’attitudine all’interscambio tra popoli, fungendo oggi, ancora oggi, da ponte tra i due grandi blocchi culturali, quello orientale e quello occidentale. In tale contesto mi preme richiamare il valore di un’etica pubblica e dei principi giuridici che si pongono alla base dell’unione politica ed in particolare l’approccio democratico, il rilievo dei diritti fondamentali e delle radici culturali che sono parte integrante dei suoi Trattati fondanti. La democrazia, quella rappresentativa, è un valore connaturato all’idea stessa di Europa. Le stesse radici democratiche affondano in quella che viene chiamata la vecchia Europa e la democraticità interna è condizione imprescindibile per l’ingresso nell’Unione. L’unificazione in un unico soggetto politico democratico di Paesi necessariamente democratici rappresenta dunque una buona garanzia di pace e di rispetto dei diritti umani, nel cui ambito è certamente ricompresa la previsione, la tutela delle peculiarità delle singole realtà statuali. Tra gli obiettivi fondamentali della politica estera di San Marino in primo piano si pone oggi, come da qualche anno, l’accordo di associazione da un lato con l’Unione europea, e dall’altro con i principati di Andorra e di Monaco. L’intesa citata, e questo mi emoziona tutte le volte che ci penso, rappresenta un unicum, un passo importante nella storia dell’integrazione europea, che oggi accomuna questi tre paesi da sempre radicati nel contesto della cultura e delle tradizioni dell’Europa, pur non essendo parte del progetto unitario. Mi piace ricordare il senso della volontà d’integrazione della Repubblica di San Marino anche mutuando la bella espressione del nostro Pontefice che richiama:
«La sensazione che sia nato uno scollamento affettivo fra i cittadini e le istituzioni europee, sovente percepite lontane e non attente alle diverse sensibilità che costituiscono l’Unione. Affermare la centralità dell’uomo», ha sostenuto papa Francesco, «significa anche ritrovare lo spirito di famiglia in cui ciascuno contribuisce liberamente secondo le proprie capacità e doti alla casa comune».
È proprio con questo spirito che la Repubblica intende fare la sua parte all’interno della grande casa comune europea. Pur nell’attualità di una fase in cui si susseguono varie tappe relativamente all’insediamento del Parlamento e della nuova Commissione europea, in seguito alle elezioni dello scorso maggio, rilevo con soddisfazione la prosecuzione di un ottima relazione tra la Repubblica di San Marino e i servizi dell’Unione per il negoziato che è iniziato oramai dal 2015 e mantiene alta la priorità della maggiore integrazione dei tre stati nel mercato unico europeo. Per San Marino risulta prioritaria la necessità di una maggiore integrazione nel tessuto economico e sociale dell’Unione, oltre che in quello culturale già dato per assodato. A tal riguardo, particolarmente nell’ultimo periodo, la Repubblica ha svolto un ruolo trainante nelle sezioni negoziali, adoperandosi con determinazione per la definizione di un accordo che possa soddisfare le esigenze particolari di un piccolo Stato e raggiungere condizioni di omogeneità nella gestione del mercato unico dell’Unione europea. Nel principale obiettivo di ottenere le migliori condizioni di integrazione con l’Unione europea tramite un quadro normativo chiaro e preciso, si intende al contempo preservare le peculiarità culturali e sociali della Repubblica del Titano, che rappresenta un esempio millenario di pace e democrazia, inserita peraltro nel 2008 nella lista del Patrimonio mondiale dell’umanità. La Repubblica di San Marino auspica di poter concludere il negoziato già nella prima metà del 2020 e comunque entro la fine dello stesso anno, avendo definito con la nuova Commissione europea le principali clausole di salvaguardia e tutela delle proprie specificità. È nostro preciso intendimento che alla Repubblica vengano aperte le porte del mercato unico europeo, con adeguate clausole di salvaguardia che tengano conto delle nostre peculiarità di piccolo Stato. Desideriamo ad esempio che anche per il nostro Paese valga il principio della libera circolazione, del libero stabilimento delle persone, cioè che i cittadini sanmarinesi possano circolare e stabilirsi liberamente nell’Unione europea e che le persone dell’Unione europea possano stabilirsi nel nostro territorio all’interno di un sistema di quote ben definito, che rendano sostenibile tale principio. Ed è una valutazione questa che tiene conto della storia particolare di immigrazione ed emigrazione della Repubblica di San Marino. Basta solo pensare che oggi un terzo della popolazione sanmarinese vive all’estero e durante il secondo conflitto mondiale la Repubblica ha ospitato oltre 100 mila profughi che venivano dalle aree vicine per trovare scampo dalla guerra nella Repubblica di San Marino. Oggi ci attende dunque la fase propriamente evolutiva del negoziato che ha registrato un’ottima cooperazione tra le parti e le istituzioni europee. E’ dunque in questa fase in cui l’Europa pare debba essere ricostituita e sostanzialmente rinnovata, che la Repubblica di San Marino offre una testimonianza: è testimone di una chiara volontà d’integrazione, per richiamare e ribadire il valore dei diritti e dei doveri della democrazia rappresentativa, presentandosi oggi all’Europa con un profilo politico istituzionale particolarmente evoluto e allineato ai migliori parametri internazionali.
La Repubblica, con orgoglio, vanta oggi l’ingresso tra le principali White Lists in materia di trasparenza, di affidabilità, di contrasto ad ogni percorso che fuorvia dalla legalità e mina le stesse fondamenta della società. Per queste ragioni siamo certi che, con il concorso di tutti i Paesi amici e solidali, nel riconoscimento delle specificità statuali e del nostro percorso, l’Europa potrà ulteriormente arricchirsi del contributo di un Paese, l’antica Repubblica di San Marino, che vanta una lunga storia di democrazia e di libertà, ponendosi ancora oggi quale originale modello di polis vivente. Grazie veramente a tutti, grazie al Meeting, grazie per l’attenzione e buon lavoro.
GIORGIO VITTADINI:
La parola a Monsignor Gallagher.
- ECC. MONS. PAUL RICHARD GALLAGHER:
Signor ministro, Signor segretario di Stato, on. Nicola Renzi, presidente Letta, professor Vittadini, cari amici, questi sono i miei primi momenti a un Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione e devo dire che sono molto commosso dal grande pubblico che partecipa a questa riunione.
Certamente il tema proposto obbliga in qualche modo a ricentrare il dibattito sull’Europa, spesso sbilanciato a favore della rivendicazione di diritti, personali e sociali, rispetto al concetto stesso di dovere, percepito talvolta in modo ostile dalla mentalità moderna. Lo rilevava proprio Papa Francesco al Parlamento Europeo: «al concetto di diritto non sembra più associato quello altrettanto essenziale e complementare di dovere, così che si finisce per affermare i diritti del singolo senza tenere conto che ogni essere umano è legato a un contesto sociale, in cui i suoi diritti e doveri sono connessi a quelli degli altri e al bene comune della società stessa».
A ben vedere, se osserviamo la storia del progetto europeo, sorto alla fine del secondo conflitto mondiale, notiamo che esso nasce principalmente come una “comunità di doveri”. Lo fa intendere chiaramente Alcide De Gasperi, di cui proprio due giorni fa abbiamo ricordato il 65° anniversario della morte, in una conferenza pronunciata a Bruxelles nel 1948. De Gasperi notava che «per salvare la libertà bisogna salvare la pace» e che «tutta l’azione democratica deve puntare per le ragioni stesse della sua esistenza verso la pace». Occorre – proseguiva – costituire pertanto una «solidarietà della ragione e del sentimento, della libertà e della giustizia e infondere all’Europa unita quello spirito eroico di libertà e di sacrificio che ha portato sempre la decisione nelle grandi ore della storia. Questo è il compito primario di tutti».
In questa breve frase, De Gasperi traccia i pilastri su cui edificare il progetto di unificazione europea: la difesa della libertà, la promozione della giustizia e l’edificazione della pace. Al loro centro vi è il dovere della solidarietà, premessa indispensabile per conseguire gli altri beni, poiché senza di essa l’altro rimarrà sempre in qualche modo estraneo, un concorrente e dunque qualcuno da combattere e dominare. La solidarietà era l’antidoto alla sopraffazione tirannica e l’impegno, vissuto come dovere fondamentale, che avrebbe evitato il ripresentarsi delle premesse che avevano portato alla guerra mondiale.
Si badi tuttavia che De Gasperi parla di una solidarietà della ragione e del sentimento. Si tratta di un’annotazione particolarmente preziosa, specialmente nel nostro tempo altamente sentimentale, dove anche le questioni più delicate vengono trattate in modo evanescente, più per suscitare emozioni che per elaborare riflessioni. In tempi recenti c’è stato un deciso spostamento verso la “solidarietà del sentimento”, la quale invece deve rimanere strettamente congiunta alla “solidarietà della ragione”. Per De Gasperi era questa una premessa indispensabile perché il progetto europeo potesse crescere e svilupparsi. La solidarietà non è dunque «un buon proposito: [essa] è caratterizzata da fatti e gesti concreti, che avvicinano al prossimo, indipendentemente dalla condizione in cui si trova»[3]. Essa non si basa sulla compassione o repulsione che l’altro suscita, ma sull’oggettività della comune natura umana. In termini cristiani diremmo che si basa sulla consapevolezza di essere parte di un unico corpo per cui se un membro soffre, tutti soffrono (Cfr. 1 Cor 12, 26).
Ed è proprio questa caratteristica di oggettività e ragionevolezza che lega fra loro doveri e diritti. Poiché al dovere oggettivo di una solidarietà verso il prossimo, corrisponde quell’insieme di diritti altrettanto oggettivi di ogni persona umana. Laddove viene a mancare l’oggettività, lo stesso sistema dei diritti perde la sua pregnanza. È ciò che è andato accadendo negli ultimi cinquant’anni allorché «l’interpretazione di alcuni diritti è andata progressivamente modificandosi, così da includere una molteplicità di “nuovi diritti”, non di rado in contrapposizione tra loro», creando le premesse per quella che il Papa definisce la moderna colonizzazione ideologica.
Questo processo di relativizzazione dei diritti è intimamente connesso alla progressiva esclusione della sfera religiosa dalla vita sociale, a sua volta frutto di un laicismo malsano, che contrappone Cesare a Dio anziché consentire una loro positiva interazione, pur nell’ovvia distinzione degli ambiti. Dunque «non meravigliano più di tanto – affermava San Giovanni Paolo II – i tentativi di dare un volto all’Europa escludendone la eredità religiosa e, in particolare, la profonda anima cristiana, fondando i diritti dei popoli che la compongono senza innestarli nel tronco irrorato dalla linfa vitale del cristianesimo».
Uno degli esiti drammatici di questo processo è la frammentazione dell’esistenza: secondo segnale preoccupante del nostro tempo, marcato dalla solitudine e dall’individualismo[7]. Purtroppo – continua Giovanni Paolo II – l’Europa ha conosciuto in questi anni «il grave fenomeno delle crisi familiari e del venir meno della stessa concezione di famiglia, (…) il rinascere di alcuni atteggiamenti razzisti, le stesse tensioni interreligiose, l’egocentrismo che chiude su di sé singoli e gruppi, il crescere di una generale indifferenza etica e di una cura spasmodica per i propri interessi e privilegi». Sono parole che a sedici anni di distanza rimangono ancora profetiche.
L’affievolirsi del senso del dovere e la progressiva soggettivazione dei diritti ha dunque indebolito il cuore stesso del progetto europeo. A questo squilibrio, in quelle che potremmo definire le sue “premesse teoretiche”, hanno contribuito, nell’ultimo decennio, le molteplici crisi che hanno colpito il continente: da quella finanziaria, che ha messo a dura prova la tenuta dell’Euro, all’esito del referendum britannico, che ha messo in qualche modo in discussione la coesione dell’intero progetto europeo; dalla questione migratoria, che ha fatto emergere le notevoli fratture che esistono tra gli Stati membri dell’Unione Europea, nonché il problema dell’identità religiosa e culturale in un continente sempre più scristianizzato, all’avanzata dei populismi e di sentimenti antieuropeisti che hanno posto in evidenza uno scollamento da tempo in atto fra l’ideale di un’Europa unita e i popoli che la compongono. A queste crisi, si somma la crescente emotività e reattività delle scelte politiche, spesso prive di una visione di fondo e impegnate in una sorta di “navigazione a vista”, piuttosto che in un progetto lungimirante che affronti i problemi ricercando soluzioni durature.
Tra le varie crisi che ho citato, mi soffermo brevemente su quella migratoria, considerata la sua costante attualità e la capacità che l’argomento possiede di “accendere gli animi”, alimentando contrapposizioni ideologiche che non tengono pienamente conto della complessità del problema. Credo che risulti a tutti evidente come non si possa affrontare efficacemente un tema così delicato senza una chiara visione politica a tutti i livelli. Ma come si può avere tale visione, senza una prospettiva culturale che permetta di affrontare l’ampio spettro di problematiche connesse? Come evitare di soffermarsi in modo reattivo all’eco mediatica della questione? Come evitare che un grave problema umano ed umanitario si trasformi solo in un’arida diatriba su quote e confini? Come far sì che non ci si limiti semplicemente a contrapporre da un lato i bisogni dei migranti ai diritti dei cittadini? Come evitare che i migranti continuino ad essere vittime dei trafficanti e che i cittadini, specialmente di Paesi che come l’Italia sono in prima linea, percepiscano un generale senso di insicurezza e di impotenza di fronte ad un problema che, nonostante gli sforzi, rimane in gran parte ancora non affrontato?
Se c’è un aspetto che colpisce chiunque entri in contatto con Papa Francesco è la sua profonda umanità. Egli vede nell’altro essenzialmente e primariamente una persona. Tutte le altre caratteristiche di quella persona finiscono in qualche modo in secondo piano. Si comprende allora perché egli abbia spesso insistito, parlando di Europa, sulla centralità della persona, come antidoto principale al tentativo di “cosificare” e categorizzare gli altri. «Il primo, e forse più grande, contributo che i cristiani possono portare all’Europa di oggi – afferma il Papa – è ricordarle che essa non è una raccolta di numeri o di istituzioni, ma è fatta di persone», dotate di dignità trascendente, ovvero di una «innata capacità di distinguere il bene dal male, [di quella] quella “bussola” inscritta [nel cuore] e che Dio ha impresso nell’universo creato». E le persone hanno nomi, hanno volti, che descrivono la loro identità più intima e profonda, il loro essere rapporto con l’infinito mistero di Dio: «Nacque il tuo nome da ciò che fissavi», come recita il suggestivo titolo di questo Meeting, tratto da una poesia di Karol Wojtyła. Il nome e il volto scaturiscono proprio dal legame con Dio che rende persona. E proprio all’origine dell’idea d’Europa vi è – segnala De Gasperi -«la figura e la responsabilità della persona umana col suo fermento di fraternità evangelica, […] con la sua volontà di verità e di giustizia acuita da un’esperienza millenaria». Ma – aggiunge Papa Francesco – riconoscere che l’altro è anzitutto una persona, significa valorizzare ciò che mi unisce a lui. L’essere persone ci lega agli altri, ci fa essere comunità». E comunità è una parola cardine dell’Europa, poiché il progetto europeo sorge con l’idea di dare vita ad una comunità di popoli che accettano di vincolarsi con doveri reciproci.
Dunque, ritornando alla delicata questione migratoria, occorre riscoprire i doveri, più che i diritti, che sono in gioco. Vi è anzitutto il dovere più ovvio: quello della solidarietà umana verso la persona che è nel bisogno, nella sofferenza e spesso in pericolo. È un dovere che prima di riguardare gli Stati e i governi, riguarda ciascuno di noi. È l’abc della carità cristiana: «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25, 35-36).
Il dovere di aiutare il prossimo in quanto persona è un dovere fondamentale, ma certamente non l’unico. Esso deve essere bilanciato dall’altrettanto importante dovere che appartiene agli Stati di offrire opportunità di integrazione ai migranti e sicurezza ai propri cittadini. In tal senso, il Santo Padre, che ha anzitutto a cuore le persone, è stato particolarmente chiaro: non si può prediligere un dovere a scapito di un altro. Occorre la «virtù della prudenza che è la virtù del governante, (…) un popolo che può accogliere ma non ha possibilità di integrare, meglio non accolga», poiché «non si può pensare che il fenomeno migratorio sia un processo indiscriminato e senza regole», ha sottolineato Papa Francesco.
Vi è poi un dovere di solidarietà fra gli Stati. È questo – come ho richiamato poco fa – un principio cardine dell’esistenza stessa dell’Unione Europea. Non si può dunque pensare che la questione possa interessare solo i Paesi “di frontiera”. Non sta ovviamente a me, né ancor meno alla Santa Sede, offrire soluzioni pratiche da questo punto di vista, poiché è una questione interna. Tuttavia, non si può non rilevare lo sbilanciamento attualmente presente, che necessita di essere corretto, poiché le ricadute di tale squilibrio sono evidenti a tutti.
Infine, occorre rammentare che vi è pure un dovere dei migranti stessi. È il dovere di familiarizzare con la terra nella quale si è giunti, impararne la lingua, conoscerne le tradizioni culturali e religiose. Talvolta c’è la sensazione che si prediliga la nascita di ghetti per evitare le “contaminazioni” che giungono dall’esterno. È una soluzione comoda, non di rado ricercata alla stessa stregua dai migranti come da chi accoglie. La cronaca ha già mostrato quanto tale soluzione sia di corto respiro e acuisca i problemi, anziché risolverli. Il dovere dei migranti di integrarsi è invece una grande opportunità. Per loro, anzitutto, perché li inserisce nel nuovo contesto sociale in cui sono giunti e li libera dalle dinamiche da cui erano fuggiti in patria e che spesso si ripresentano nelle terre di approdo rimanendo in seno alle loro comunità nazionali. È parimenti un’opportunità anche per chi accoglie, di riscoprire, valorizzare ed efficacemente comunicare la propria tradizione culturale e la propria identità popolare. i ringrazio per l’attenzione.
GIORGIO VITTADINI:
La parola a Enrico Letta.
ENRICO LETTA:
Nel semestre scorso, all’Università nella quale lavoro, abbiamo invitato un professore asiatico che è venuto a fare una lezione su come da lì vedono fare l’Europa e parlando ai nostri studenti, ha presentato il suo paradosso delle tre “p”. E’ da qui che voglio partire per questa mia riflessione insieme a voi oggi pomeriggio, in quest’occasione così unica. Abbiamo già ascoltato delle parole che sono forti, importanti, che ci dicono cosa vuol dire l’Europa oggi e qual è la sfida diversa rispetto all’Europa di ieri. Allora questo professore che veniva da lontano, da Oriente, ci diceva: voi siete incredibili, voi europei, perché state vivendo il paradosso delle tre “p”. La prima “p”: la “p” della pace, non c’è mai stato tra di voi un tempo di pace così straordinario, duraturo e lungo come quello che state vivendo dentro l’Unione europea. Avete raggiunto la pace come l’avete sempre sognata, risultato unico e straordinario. La seconda “p”: avete raggiunto il punto massimo di prosperità che abbiate mai immaginato di raggiungere. L’Unione europea, i suoi cittadini, le sue società, i suoi Paesi non sono mai stati prosperi come oggi e allo stesso tempo, avete raggiunto il massimo livello di una terza “p”, il pessimismo. Al di là del sorriso che questa contraddizione ci fa oggettivamente fare, la sua provocazione è vera. Noi siamo dentro le nostre società in un clima di profondo pessimismo, nel momento nel quale abbiamo raggiunto il massimo livello possibile di pace e di prosperità e io credo che la nostra riflessione sul futuro dell’Europa debba proprio partire da qui. Mi hanno fatto molto riflettere e condivido molto il modo con il quale Giorgio Vittadini ha, con la sua solita attenzione e profondità, messo il quadro di riferimento della nostra riflessione. Siamo per l’Europa, siamo per l’integrazione, ma siamo consapevoli che in questi anni qualcosa si è rotto nel rapporto tra l’Europa e i suoi popoli e si è rotto questo qualche cosa nel momento nel quale abbiamo raggiunto il massimo di pace e il massimo di prosperità. E allora la riflessione più importante che dobbiamo fare è proprio quella sul futuro: perché questo è successo e perché la pace e la prosperità devono poterci spingere a un’Europa più forte, più integrata e più in sintonia con le aspirazioni dei suoi cittadini. E qual è la chiave secondo me per riuscire a superare questa difficoltà di oggi? Io credo che la chiave stia forse anche nel titolo del nostro incontro e anche in fondo nel “40” che sta dietro alle nostre spalle: 40° Meeting, quarant’anni, la data, 1979, che Giorgio all’inizio ci ha messo a riferimento. C’è un elemento che voglio qui mettere subito a riferimento, molto importante: da quando è stato eletto, il Parlamento europeo, nel 1979, da quel momento la partecipazione elettorale dei cittadini è sempre scesa; di cinque anni in cinque anni è sempre calata, da quella iniziale, sessanta per cento di partecipazione elettorale nel 1979, fino al peggior risultato di sempre, nel 2014, quando votarono poco più del quaranta per cento degli elettori europei. Ogni volta si scendeva. Le elezioni di maggio, comunque uno le giudichi e comunque uno giudichi il risultato, hanno dato un segnale molto importante. Sono state elezioni che hanno visto la partecipazione popolare di colpo salire oltre il cinquanta per cento, da poco più del quaranta al cinquanta per cento in un colpo solo, totalmente imprevisto, inatteso segno di voglia di esserci, di partecipare e anche del fatto che i cittadini cominciano a capire che lì si decide e quindi sia quelli che vogliono meno Europa, sia quelli che vogliono più Europa, lì devono esserci e lì devono discutere. Motivo per il quale un incontro come questo è così importante. Perché se questo è vero, dobbiamo tirare le conseguenze e fare dei passi avanti nella nostra riflessione. La democrazia oggi è messa in discussione: quanti cittadini delle nostre democrazie europee cominciano a pensare che in fondo questo Putin, questo Erdogan non sono poi così tanto male? Perché sì, un po’ meno diritti, un po’ meno democrazia, ma almeno decidono, trovano soluzioni e io preferisco soluzioni, rispetto a tanti discorsi. Quante volte noi sentiamo questo discorso, non solo in Italia ma in tutti i Paesi europei, segno di un momento di difficoltà della democrazia e del concetto stesso di democrazia. E allora la chiave qual è? Secondo me la chiave è quella di considerare il fatto che noi oggi non possiamo rilanciare sul futuro dell’Europa partendo soltanto dalle ragioni che ci hanno spinto a costruire il percorso di integrazione settanta anni fa; e non possiamo nemmeno partire dalle ragioni che portarono quaranta anni fa all’elezione diretta del Parlamento europeo e poi, dieci anni dopo, come Giorgio diceva prima, alla riunificazione del continente tra Est e Ovest, perché il mondo è cambiato in questi ultimi dieci anni, con un’intensità che nessuno aveva previsto e con un’intensità che ci sta facendo cambiare i punti di riferimento, qualunque cosa facciamo. Mi ha fatto molto piacere sentire Monsignor Gallagher per le cose che ha detto e anche per le citazioni che ha fatto di papa Bergoglio. Ma parto proprio da papa Francesco: pensate al cambiamento che papa Francesco ha portato all’organizzazione della Chiesa a livello globale. Noi eravamo abituati ad una Chiesa sostanzialmente italo-centrica, euro-centrica, una Chiesa che papa Francesco ha rivoluzionato, intanto da questo punto di vista: la Chiesa è globale. I cardinali che lui nomina sono quasi sempre cardinali che vengono da lontano, da altri continenti. Papa Francesco interpreta per primo questo senso di Chiesa globale immesso nell’organizzazione, con una rivoluzione che fa discutere, che fa riflettere, a volte spaventa tanti di coloro che erano abituati a com’era fatta la Chiesa da sempre nei nostri Paesi, l’Italia, la Francia, la Spagna, i Paesi di sempre. E questo cambiamento non vale solo per la Chiesa, vale per tutte le attività che svolgiamo. Io da quando ho lasciato la politica e mi sono messo a lavorare in università, cinque anni fa, ho visto in questi cinque anni un cambiamento impressionante. All’inizio pensavo di lavorare soprattutto con studenti e università di Paesi europei; se guardo la mia agenda di questi cinque anni, la maggior parte delle cose che ho fatto per la mia università sono con Paesi asiatici, con Paesi africani, con Paesi americani; soprattutto asiatici. Il mondo che cambia, fa sì che i nostri singoli Paesi europei, da soli siano sempre più piccoli. Questo cambiamento è quello che in questo anno 2019 ci ha improvvisamente fatto vedere il futuro del mondo in una nuova tenaglia e la nuova tenaglia non è quella del G7, in Francia, ospitato dal presidente francese e poi del G20 giapponese, la verità è che stiamo andando verso un G2, e questo G2 in questo 2019 è diventato sempre più evidente, è costituito dalle due grandi potenze del mondo che stanno diventando i due leader, i due poli attorno ai quali tutto ruota: gli Stati Uniti da una parte e la Cina dall’altra. Se ci fossero 28 Brexit, o se vincesse la tesi di chi a casa nostra o in Francia o in Germania o in Svezia sognasse un Brexit per ognuno di questi Paesi, se ognuno fosse per conto suo, saremmo tutti talmente piccoli da non essere in grado nemmeno di essere interlocutori degli Stati Uniti o della Cina. Perché ci ascoltano e perché sono obbligati a trattare con noi anche sulle cose più complicate? Perché stiamo insieme e insieme abbiamo una forza, una dimensione e una capacità, soprattutto di leadership, unica. Pensate alla grande questione ambientale, che in fondo è una questione su cui papa Francesco è stato il primo a intervenire. La Laudato si’, all’inizio, ha sconvolto tanti, nessuno se lo aspettava, come prima parola del Papa che veniva dalla fine del mondo e papa Francesco con la Laudato si’ ha detto chiaramente: quello è il tema principale, la natura, la terra, la difesa della nostra terra e in tutto questo sappiamo benissimo che l’Europa ha una leadership unica: la Conferenza di Parigi e le ulteriori leadership europee sono state tali perché l’Europa era unita. Anche quando Trump ha fatto uscire gli Stati Uniti da quegli accordi, gli altri Paesi del mondo sono rimasti, perché l’Europa era unita e la leadership europea era fondamentale. Ho citato questo tema dell’ambiente perché secondo me alla fine sono due le grandi questioni nuove sulle quali l’Europa gioca la sua capacità di parlare di fronte ai propri cittadini e far nascere una nuova voglia di essere europei e di essere europei nel mondo. La prima è questo grande tema dell’ambiente che da sempre al Meeting è stato protagonista e, il secondo tema, che voglio trattare nell’ultima parte del mio intervento, è la grande questione che ci sta facendo interrogare tutti, alla quale facciamo fatica a dare risposte perché facciamo fatica a capire la stessa qualità delle domande. La questione che io sintetizzo nella parola dell’umanesimo tecnologico, che è la grande questione del futuro. Io non penso che nel futuro le guerre saranno guerre che si scateneranno sulle frontiere o sui pozzi di petroli come nel passato. Le guerre del futuro probabilmente saranno soprattutto sul controllo e l’utilizzo dei dati personali. Quello che stiamo vivendo oggi con una tecnologia pervasiva che ci dà grandi opportunità, ma che tutti abbiamo la percezione… ci sfida tutti. La questione dei dati personali, della privacy, della protezione dei dati personali, la questione dell’intelligenza artificiale. Lo dico in una giornata molto triste: stanotte è venuta a mancare una persona, un grande italiano che era stato ed è stato l’italiano che ha lasciato il segno sulla grande questione della protezione dei dati personali. L’italiano che aveva lavorato a fare del nostro paese un paese leader nel campo della protezione dei dati personali, tanto da diventare il Garante europeo della protezione dei dati personali, Giovanni Buttarelli, che purtroppo è scomparso stanotte e al quale voglio dedicare questo intervento e questa riflessione. Giovanni Buttarelli, al quale va il mio pensiero, è padre di quella riflessione sul ruolo di leadership che l’Europa può e deve avere sulle questioni dell’umanesimo tecnologico. Se permettete, rompo un po’ le procedure di questi nostri incontri e vi chiedo di partecipare ad una riflessione molto semplice che voglio fare con voi. Se fossi venuto qui, come tante volte ho fatto nel passato, a parlare di questi temi e sei, sette anni fa, quando ero qui con voi, vi avessi chiesto di riflettere sul tema della nazionalità del telefonino che avete in mano, probabilmente un terzo della sala, alla mia domanda: «Avete un telefonino europeo?», avrebbe alzato la mano, perché fino a sei, sette, dieci anni fa Nokia, marca finlandese, era leader di mercato, molti avevamo un Nokia. Oggi se io vi chiedessi: «Chi di voi, come me, ha un telefonino americano?» Io alzo la mano. «Chi ha un Apple, come me?» Tanti. Ma se io vi chiedessi: «Chi ha un telefonino coreano, un Samsung, quante mani si alzerebbero?» Tante mani. Ma se io vi chiedessi: «Chi ha un telefonino cinese, un Huawei, quante mani si alzerebbero?» Tante mani si alzano. E se adesso vi chiedo: «Chi ha un telefonino europeo?» Quante mani si alzano? Io direi un applauso alle mani che si sono alzate perché sono dei coraggiosi e straordinari testimoni. Perché vi ho chiesto di partecipare a questo breve… per un motivo molto semplice: il telefonino non è più quello che era dieci anni fa, non è più un elettrodomestico come tanti ne abbiamo a casa nostra, che sia l’aria condizionata o che sia il Girmi per cucinare, no, il telefonino è un’altra cosa, – vi chiedo di riflettere su questo – il telefonino è la nostra seconda identità. Qui dentro c’è la nostra identità messa, stoccata in un piccolo chip, qui dentro c’è tutto, di ognuno di noi e di ognuno di voi. Se uno entra qui dentro, sa come io guido la macchina, se io sono un guidatore efficace, bravo, buono, virtuoso, non virtuoso, qui dentro ci sono tutti i siti che io ho visitato, qui dentro ci sono tutti i numeri di telefono con cui ho parlato, entrando qui dentro si entra nella mia identità e nella storia dell’uomo non c’è mai stato un luogo fuori dal corpo della persona che contenesse l’identità della persona. Queste riflessioni, questi ragionamenti li stiamo facendo oggi, dieci anni fa non li avremmo fatti. Oggi esiste una seconda identità che è fuori dal mio corpo e fra qualche anno esisterà una terza identità che è fuori dal mio corpo, che è l’intelligenza artificiale, la macchina che farà le cose al posto di ognuno di noi. Chi la controllerà? Perché ho citato questo tema della seconda identità? Perché il nostro sistema giuridico europeo è un sistema giuridico che ci garantisce dalle intrusioni sul nostro corpo, sulla nostra identità contenuta nel nostro corpo, ma non garantisce minimamente sulle intrusioni sulla nostra seconda identità; eppure quello che c’è qui dentro sono io, come ognuno di voi e le guerre del futuro saranno per controllare questi dati; chi controllerà questi dati potrà imporre i suoi prodotti sui mercati, chi controllerà questi dati vincerà le campagne elettorali, chi controllerà questi dati potrà ricattare Paesi, persone, organizzazioni. Quali regole esistono per la difesa di questi dati? Ed è qui il ragionamento finale che voglio fare, che c’entra con l’Europa e con il futuro dell’Europa. Perché alla fine, nel mondo, questa riflessione che sto qui facendo insieme a voi, comincia ad essere una delle riflessioni fondamentali, ma chi sta dando risposte? E soprattutto, chi vuole dare risposte? Ci sono tre filosofie diverse, nel mondo, su questi temi: da una parte gli americani. Cosa pensano gli americani? Ci sono molti americani preoccupati, come lo siamo noi, e vogliosi di risposte che proteggano la persona, ma in generale il sistema americano oggi sta dando risposte che proteggono soprattutto i giganti dell’high-tech e l’industria high-tech americana, più che le persone. L’impressione che gli Stati Uniti danno è: «Per noi è fondamentale la competitività delle nostre grandi imprese della Silicon Valley, perché sono minacciate dai cinesi, perché sono minacciate dalla concorrenza, devono vincere, quindi niente bastoni tra le ruote, non ci si venga a mettere i bastoni tra le ruote sulle questioni della protezione della privacy, dei dati personali». Se ci riflettiamo bene, la filosofia per la quale quei giganti e la loro competitività vince su tutto è fondamentalmente contraria all’idea che io ho di protezione della persona, perché per me, prima del profitto di quelle imprese, viene la protezione dei diritti della persona, e siccome il cellulare è la seconda identità delle persone, prima viene la difesa della seconda identità. Ma negli Stati Uniti queste regole non ci sono e non c’è la voglia di metterle e non c’è la voglia di affrontare questo tema a livello globale. A me non sembra che questa idea sia compatibile con la nostra concezione di diritti della persona. In Cina, l’idea che sta prendendo piede non è questa, è diversa, è l’idea che attraverso i dati personali si controlla la società. Si controlla la società nel senso che preventivamente si evita che qualcuno possa sgarrare rispetto a comportamenti e quindi un’intrusione dentro l’utilizzo. Pensate alla questione della ricognizione facciale, che è una questione estremamente delicata e preoccupante, per tutti gli errori che questo comporta e tutta la capacità di… La riflessione in Cina su questi temi è una riflessione che sta andando molto sul tema: utilizzo della seconda identità, dei dati personali per il controllo sociale. Ma questa non è la mia filosofia, non è la nostra filosofia, perché per ognuno di noi, se c’è una rottura delle regole, ci deve essere la punizione, ma non ci può essere preventivamente l’ingresso dentro la nostra identità.
A me fa paura: vidi un film da ragazzo, di fantascienza, che si chiamava “Minority report” qualcuno l’avrà visto, che raccontava esattamente questo. Alla fine della visione del film pensavo: saranno forse i nipoti dei miei nipoti che si occuperanno di questi problemi, non avrei mai pensato di avere davanti a me questi problemi, e doverci riflettere sopra. Perché noi europei invece abbiamo una missione nel mondo e abbiamo un differente approccio, perché per noi la difesa della persona vuol dire che viene prima la persona del profitto dell’azienda e viene prima la persona dell’intrusione dello Stato. La nostra capacità, la capacità di noi europei di far evolvere questa nostra riflessione ci deve portare a essere leader nel mondo, così come lo siamo sulla difesa sull’ambiente, così come lo siamo su altri temi: il no alla pena di morte, le grandi questioni legate all’indipendenza della giustizia, il welfare, il fatto che se tu stai male per strada e c’è un’ambulanza che viene a prenderti quell’ambulanza non ti chiede la carta di credito prima di portarti sulla sua lettiga e di salvarti. Questa è l’idea di Europa, questa è la riflessione che ho fatto sull’umanesimo tecnologico. Il Parlamento europeo, di cui parlava Giorgio Vittadini prima, è l’unico grande Parlamento che sta affrontando la questione di come regolare queste nuove vicende legate al ruolo della tecnologia, che non vogliamo imbrigliare, – perché la tecnologia porta progresso, – ma che dobbiamo gestire nel senso della protezione della persona, perché per noi europei la persona viene prima di tutto. Se l’Europa fosse un’Europa di 28 Brexit, io penso che alla fine ognuno dei Paesi europei singoli avrebbe semplicemente da scegliere, in un domani, se essere una colonia americana o essere una colonia cinese. Io vorrei, e questo è lo spirito del Meeting da quarant’anni, che i nostri figli potessero crescere con l’idea di essere italiani ed europei e non dover scegliere se essere una colonia americana o una colonia cinese. Grazie.
GIORGIO VITTADINI:
La parola al Ministro Moavero Milanesi.
ENZO MOAVERO MILANESI:
Grazie, il tema di oggi è molto stimolante, ma per riprendere le parole che tu usavi all’inizio circa il fatto di essere contento della mia presenza oggi qui in un giorno come questo, che significa il giorno dopo il giorno di ieri, devo dire che avendo sentito ieri tante, forse troppe parole dure, oggi sono particolarmente felice di essere qui nell’abbraccio del Meeting, nel vostro abbraccio.
Parlare di 1979, di questo quarantesimo anniversario del Meeting e delle prime elezioni del Parlamento europeo a suffragio universale ci fa effettivamente riflettere su una coincidenza importante, su una coincidenza stimolante. Tu la riassumevi, Giorgio, nell’idea di una sottolineatura della democrazia, del valore della democrazia. In effetti, la decisione di portare il Parlamento europeo da assemblea composta da delegati dei parlamenti nazionali ad assemblea direttamente eletta dai popoli europei, fu una decisione coraggiosa che, tra l’altro, pochi anni dopo porta al cambiamento del nome, per l’appunto da “assemblea” a “parlamento” e soprattutto al cambiamento delle funzioni, del ruolo, delle prerogative del Parlamento europeo. Una decisione coraggiosa perché arrivava alla fine di quegli anni Settanta che, chi ha qualche anno di più magari l’ha dimenticato, chi ne ha di meno a volte se non ha proprio studiato tra le righe dei libri non lo sa, erano stati definiti per la comunità europea di allora, “gli anni dell’eurosclerosi”, che non era esattamente un complimento ma identificava un’incapacità di prendere decisioni. Il Consiglio che era l’organo deliberativo, legislativo, composto dai rappresentanti degli Stati, come è ancora oggi, decideva all’unanimità e l’unanimità arrivati da sei a nove e poi dieci Paesi, diventava sempre più difficile. Si escì dall’eurosclerosi anche attraverso queste prime elezioni a suffragio universale del Parlamento europeo, quindi fu un vero salto di qualità, un esempio concreto di quel salto di qualità di cui avremmo bisogno oggi per uscire da una sorta di euro-depressione. Non solo sono le prime elezioni a suffragio universale del Parlamento europeo, ma sono le prima elezioni di un’assemblea eletta liberamente da cittadini a livello internazionale. Non c’erano precedenti e ancora oggi si tratta di un caso più unico che raro.
Pochi anni dopo quel 1979, nel 1985, viene pubblicato l’Atto unico europeo che contiene quel percorso legislativo che avrebbe portato a realizzare il grande mercato, che è poi una grande zona di libera circolazione delle persone, nella quale c’è un diritto di libertà allo studio e quant’altro, ed è diventato l’acceleratore più grande di quella diffusione di benessere che è una delle grandi conquiste della costruzione europea. Ma quel 1979, e anche qui faccio appello ai ricordi, alla memoria o a chi anche ha studiato, è sostanzialmente il momento di uscita da uno dei periodi più cupi della storia europea del secondo dopoguerra, i cosiddetti “anni di piombo”. Non dobbiamo trascurare questo, gli anni di piombo furono anni di terrorismo, di terrorismo nazionale, ma con forti collegamenti all’allora equilibrio di forze internazionali, che hanno avuto in alcuni Paesi, tra cui la nostra Italia, dei momenti obiettivamente nefasti. Ecco, si esce con uno slancio di ottimismo, con uno slancio che ridà la parola ai cittadini attraverso quella possibilità di elezione dei loro rappresentanti che rappresenta il momento più alto della democrazia. E anche questo non dobbiamo dimenticarlo: 1987, otto anni dopo, viene firmato l’Atto unico europeo, il Parlamento europeo da organo semplicemente consultivo diventa un organo pienamente legislativo, dapprima solo nelle materie del mercato unico e poi successivamente in tutte le materie. Oggi il Parlamento europeo, co-legislatore insieme al Consiglio, dove siedono i ministri dei vari Stati membri, legifera come legislatore fondamentale in materie essenziali per il nostro quotidiano: agricoltura, industria, economia, ambiente, salute. C’è sostanzialmente quasi tutto ciò di cui chiunque vive in Europa, ha quotidianamente a che fare. Eppure, lo abbiamo già sentito ricordare, la partecipazione al voto del Parlamento europeo, resta una partecipazione non così alta come la partecipazione a livello delle elezioni nazionali. Fra l’altro, è vero che nelle ultime elezioni il dato è migliorato nella media europea, ma in contro tendenza ci siamo stati proprio noi come dato italiano e questo elemento fa riflettere proprio sul paradigma tra diritti e doveri, perché laddove c’è un diritto ad eleggere un’assemblea legislativa, esiste un dovere a votare per eleggerla e su questo dovere i cittadini europei sono distratti e con discontinuità nell’ultimo caso per la maggioranza dei Paesi, sono stati crescentemente distratti; questo ci fa capire che questa svolta importante non è stata completamente colta da noi tutti, non è stata completamente colta da noi cittadini, quale occasione effettiva di esercitare un controllo indiretto, ma liberamente espresso nell’urna, sulla realtà dell’Unione europea. Fateci caso, nei media, ma nello stesso linguaggio che spesso usiamo tutti noi più o meno addetti ai lavori, l’Europa è declinata in terza persona: l’Europa ci dice, l’Europa ci chiede, l’Europa ci potrebbe dare, l’Europa ci offre, non viene individuata come una parte di noi, eppure proprio attraverso le elezioni del Parlamento europeo, ciascuno cittadino dell’Europa diventa protagonista della vita reale, ed è un peccato che non lo comprendiamo. Questa è una delle cartine tornasole di una certa disaffezione che, è inutile nascondercelo, soprattutto nel corso degli ultimi venti anni, si è andata espandendo nelle opinioni pubbliche degli Stati europei nei confronti dell’Unione europea. È una disaffezione progressiva, è una disaffezione motivata in maniera diversa, ma che ha come comune denominatore che un qualcosa di cui fino a poco prima di vent’anni fa sostanzialmente nessuno pensava di dire qualcosa di negativo, semmai si parlava unicamente di aumentare e di far crescere, oggi invece da molti è stata vista in negativo.
Credo che dobbiamo soffermarci sulle cause di questa disaffezione: io credo che nel soffermarci sulle cause, noi possiamo identificare, come al solito schematicamente, alcuni elementi fattuali e oggettivi, che poi naturalmente sono letti da ciascuno di noi in maniera diversa.
Il primo che citerei sono i tempi: è vero che i tempi della costruzione europea sono stati molto più lunghi di quanto probabilmente all’inizio si pensasse. Andiamo indietro a settant’anni fa, quando iniziò con la Comunità del carbone e dell’acciaio la costruzione, probabilmente se si diceva: tra settant’anni a cosa pensi? – ma anche ancora prima – Tutti pensavano ai famosi Stati uniti d’Europa, che ancora non ci sono. L’Europa non è ed è lungi dall’essere un’entità federale.
La seconda disaffezione, forse proprio più puntualmente diretta, riguarda la frustrazione di un cittadino che elegge parlamentari europei, deputati al Parlamento europeo e poi si rende conto, sa, gli spiegano, gli viene detto, che il Parlamento europeo non ha iniziativa legislativa; ma l’idea della rappresentanza nasce proprio con l’idea del poter legiferare, nelle origini lontane, in materia tributaria, ma anche in quelle più recenti nelle varie materie, eppure noi eleggiamo settecento e passa parlamentari europei che non hanno un potere di iniziativa legislativa, perché questo è tuttora riservato alla Commissione europea. Io credo in tutta franchezza, lo dico da chi crede naturalmente nell’Europa, che questa sia una lacuna clamorosa. Si deve pensare a dare al Parlamento europeo, magari non a ciascun singolo parlamentare in una fase iniziale, magari a dei gruppi parlamentari, un potere di iniziativa legislativa. Il monopolio che le proposte legislative europee vengano fatte unicamente dall’organismo Commissione, che è un organismo bicefalo a questo punto legislatore, esecutivo e quant’altro, è come se noi immaginassimo nella nostra Italia che si fanno leggi unicamente per decreto. Tra l’altro, quando questo accade, accade abbastanza spesso, viene indicato come una sorta di patologia del sistema democratico; ebbene, in Europa la patologia è fisiologica.
Un terzo elemento della disaffezione naturalmente è creato dalle posizioni dei governi: hanno cominciato alcuni governi, in maniera particolare e non a caso si iniziò proprio in Gran Bretagna, ma poi questa tendenza si è espansa. Tutto ciò che di troppo rigoroso, non troppo popolare, non necessariamente gradevole, che ti cambiava un po’ i parametri di riferimento arrivava dall’Europa, era colpa dell’Europa, era colpa dell’Unione, era colpa di questa entità terza, dalla quale tu ti chiamavi fuori. Quello che invece arrivava di buono era sempre merito di una tua battaglia vinta, di una tua grande iniziativa presa e seguita dagli altri e questo chiaramente nel cittadino determina disorientamento: l’Europa è matrigna e poi per fortuna che di tanto in tanto c’è qualche leader nazionale, magari il mio, che è riuscito a portare a casa qualcosa di buono. Parlar male per anni e anni e anni dell’Unione europea, dell’Europa come portatrice di rigore, di austerità, di vincoli e quant’altro, determina disaffezione.
E poi ci sono state le grandi, – e ci sono – le grandi crisi di fronte alle quali noi ci troviamo. La globalizzazione: per la prima volta nella storia, in particolare nella storia moderna, da Cristoforo Colombo che iniziò a globalizzare con le sue caravelle, è la prima che non vede gli Stati europei e l’Europa fra i protagonisti chiave della globalizzazione stessa. Una globalizzazione che entra in Europa,- l’esempio dei telefonini che abbiamo tutti agitato e sui ci siamo fatti un rapido esame di coscienza lo conferma, – l’Europa arranca nella globalizzazione.
La crisi economica finanziaria ha flagellato tutto il mondo, ma poi tutti sappiamo dai dati economici che mentre gli Stati Uniti d’America hanno ripreso a crescere a ritmi sostenuti, in Europa ancora si va piano, addirittura gli ultimi dati mostrano di nuovo arretramenti, non abbiamo completamente recuperato in alcuni Paesi, vedi il nostro, purtroppo, dove il lascito di asimmetrie è drammatico. Asimmetrie fra Stati, diseguaglianze cresciute all’interno degli Stati e le vittime sono naturalmente gli Stati più piccoli, gli Stati più deboli, i livelli più deboli del tessuto sociale e questo è pessimo per una Europa che fa della solidarietà una sua bandiera.
Le migrazioni. Purtroppo le migrazioni che sono un grande fenomeno epocale non nuovo nella storia, hanno visto l’Europa latitante: lasciatelo dire a chi ha tentato, nel corso degli ultimi 13-14 mesi, di convincere altri Paesi alla indispensabile necessità di un meccanismo europeo di governo dei flussi migratori, che incominciasse dallo stanziare maggiori somme per i Paesi da cui proviene molta migrazione economica, perché la crescita economica e sociale riduce la necessità di abbandonare il proprio Paese, che continuasse con la creazione di centri per l’individuazione di coloro che hanno diritto d’asilo e protezione internazionali, il più possibile vicino ai luoghi di origine, in maniera che non debbano mettersi nelle mani dei nuovi schiavisti e dei trafficanti di essere umani, ma possano raggiungere l’Europa attraverso dei corridoi umanitari, che continuasse con la lotta dura ai trafficanti di esseri umani e procedesse col trattamento di tutte queste persone, che tali sono, in maniera solidale, con equa ripartizione di responsabilità e oneri. Ebbene, purtroppo l’Europa resta bloccata unicamente a una regola molto superata, che si occupa unicamente delle concessioni del diritto di asilo per chi arriva, ponendo tutti gli oneri a carico del Paese di primo arrivo e creando delle divisioni fenomenali, degli egoismi nazionali che trionfano. Care amiche, cari amici, qui parliamo di un’Europa vittima degli egoismi localistici e nazionali, vittima dell’egoismo e vittima del nazionalismo, poi lo possiamo ribattezzare sovranismo, trovare dei neologismi, ma tale è e l’Europa sui nazionalismi purtroppo si è fatta la guerra, quindi è veramente grave che non si riesca ad agire di fronte a un potenziale arricchimento delle nostre società. Una delle piaghe dell’Europa di oggi è l’invecchiamento, è l’Europa nonna di cui parlò papa Francesco nel discorso al Parlamento europeo di Strasburgo, è un’Europa vecchia che non si interroga sulla sua capacità di assorbimento, è un’Europa vecchia che non è capace di affrontare la necessità anche di facilitare le famiglie, di agevolare con meccanismi anche europei un ritorno della natalità in un continente che veniva chiamato vecchio per fargli un complimento di senority e che oggi purtroppo è vecchio dal punto di vista dell’anagrafe. Abbiamo ancora in Europa la crisi della tecnologia, il ritardo tecnologico, – il test dei telefonini ce lo dice -, ma aggiungerei un interrogativo a quelli che sono già stati posti da Enrico: chi di voi sa qual è la tecnologia che gestisce la trasmissione dei dati e l’uso del telefonino che ha in tasca e chi di voi sa da dove proviene questa tecnologia? E chi di voi si interroga se quella penetrazione nei dati personali che contiene il telefono mobile che abbiamo in tasca non è già in atto? Il controllo della tecnologia che è utilizzata per la trasmissione dei dati è l’elemento fondamentale e l’Europa da queste tecnologie è lontana, non è solo la tecnologia manifatturiera dell’apparecchio, è la tecnologia che permette al servizio di funzionare e noi siamo lontani, non ne deteniamo neanche una e fra l’altro quelle di ultima generazione sono quelle su cui si manifestano più vivaci le rivalità tra le grandi potenze globali. Quindi c’è l’Europa del ritardo tecnologico e infine c’è l’Europa che si interroga sulla propria sicurezza: sicurezza materiale di fronte all’esistenza di guerra intorno all’Europa, vicina all’Europa e alla nostra sostanziale non capacità di difesa autonoma. La difesa dell’Europa è tuttora garantita da un meccanismo di alleanze tradizionalmente creato dopo la seconda guerra mondiale con gli Stati Uniti d’America: non c’è una capacità autonoma, non c’è una efficace collaborazione che garantisca all’Europa una capacità di difesa in caso di conflitto, ma non c’è neppure nella prevenzione del conflitto e non c’è nemmeno di fronte a quelle minacce cibernetiche e telematiche che sono la nuova grande minaccia che tutti ci troviamo ad dover affrontare. Criminalità internazionale, terrorismo internazionale si nutrono anche loro delle tecnologie. E allora questa Europa che si trova di fronte a delle sfide così grandi, ma che ha anche quegli elementi di conquista che sono anche ben sottolineati, la pace che abbiamo ben costruito, esempio unico sulla faccia del pianeta, l’estensione di un inedito benessere a chiunque si trovi ad essere in Europa, tutti quegli elementi qualitativi positivi che convivono con i nostri timori e con le nostre lacune, queste grandi sfide come le vogliamo affrontare? E qua io do la medesima risposta dei due relatori che mi hanno preceduto. Io credo che la risposta ci arrivi anche dall’insegnamento della storia: l’Europa può rinascere soltanto rafforzando la propria unione, ritrovando quell’animus operandi, quella capacità di lavorare insieme che ha perso, ritrovando quella volontà di essere solidale che ha perso, ritrovando quella capacità di sedersi intorno ai tavoli con l’obiettivo non di certificare delle divisioni, ma di raggiungere dei compromessi e delle unioni e facendo anche quei salti di qualità regolamentari, politici, di struttura, – facevo l’esempio dell’iniziativa del Parlamento europeo perché centrale nella nostra riflessione di oggi, l’iniziativa legislativa – è solo in questo modo che l’Europa può progredire. E se l’Europa non progredisce? Beh, attenzione, richiamavo la storia: se l’Europa non progredisce, noi sappiamo, soprattutto noi italiani, cosa è successo agli albori del XVI secolo, in quel 1500 del Rinascimento, quando l’Italia era la culla delle arti, ma anche la culla dei banchieri, della prosperità, delle grandi invenzioni, uno dei luoghi in cui si viveva meglio e più a lungo in Europa, ma di fronte allo spostarsi dell’attenzione mondiale, dell’economia mondiale verso il nuovo mondo, quell’Italia divisa in staterelli e disunita andò incontro a due secoli di decadenza. L’Europa di oggi, se non fa questo, può trovarsi di fronte a un analogo destino, per cui la risposta non può che essere più unione, ma naturalmente su basi che vanno assolutamente riformate, modernizzate e adeguate alla capacità di rispondere alle attese e alle aspettative dei cittadini. Grazie.
GIORGIO VITTADINI:
Per concludere l’incontro voglio fare un’ultima domanda a Monsignor Gallagher: lei ha accennato allo scostarsi del Cristianesimo dall’Europa e quindi io volevo chiederle qualcosa che è centrale in questo Meeting, come in tutti i Meeting: l’importanza della religione cristiana e la collaborazione con le altre per la costruzione di questa Europa, perché noi abbiamo sempre pensato questa positività e abbiamo sempre discusso con chi dice che l’unione voglia dire perdita di identità.
- ECC. MONS. PAUL RICHARD GALLAGHER:
Grazie per la domanda. Posso solamente confermare che il progetto europeo rimane molto a cuore del Papa, della Santa Sede, della Chiesa cattolica. Credo che in questo momento un po’ di crisi, – crisi che se la intendiamo nella sua origine greca è anche momento di opportunità – la religione, la manifestazione dello spirito dell’uomo nella ricerca del divino e la risposta dell’uomo di fronte al mistero divino può essere motivo per ripristinare le energie e l’entusiasmo che noi dobbiamo restaurare in Europa in questo momento. Credo che questo sia così. Poi, evidentemente, avere una umanità europea che sia ricca in tutte le sue dimensioni, spirituale, umana, eccetera, eccetera, questo è indispensabile. Credo che oltre che mettere la religione ai confini del nostro discorso europeo, dovrebbe essere proprio il nostro centro e che noi possiamo proprio contribuire rispettando le coscienze di tutti e le convinzioni e le credenze di tutti. Però la religione dovrebbe essere una forza di unità. Una forza di energia, una forza di motivazione e come la religione tocca la parte più intima dell’umanità, dovrebbe essere una parte indispensabile di ogni europeo per il futuro. Grazie.
GIORGIO VITTADINI:
Allora, su questa risposta di Mons. Gallagher trarrei alcune conclusioni.
Mi ha colpito molto l’inizio di Mons. Gallagher, tutto il suo primo intervento, perché ci ha portato a qualcosa prima anche delle istituzioni democratiche. La persona, la solidarietà, le comunità che diventano comunità di popoli, l’oggettività della persona. Lo abbiamo ricordato più volte in questo Meeting, nel messaggio di don Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, l’idea che tutto si risolva sulla costruzione del soggetto. Non possiamo neanche pensare più alla democrazia europea se non c’è qualcosa che viene prima, il soggetto che la costruisce, il soggetto che, per riprendere poi quello che diceva Enrico Letta, capisce che è sempre meglio qualcosa di democratico che leader dittatoriali in qualunque modo. La democrazia è il sistema peggiore, ha tutti i difetti del mondo, – non cito letteralmente, ma a senso, – diceva Churchill, ma è sempre meglio di tutti gli altri sistemi. Noi abbiamo bisogno però di una persona che capisca il valore della libertà, della costruzione comune, prima ancora del valore dell’utilità; se non c’è la persona, non c’è l’Europa, perché, – e passo al secondo intervento di Enrico Letta – che cos’ha l’Europa oggi di forza rispetto a enormi Paesi come la Cina e gli Stati Uniti? Un concetto di persona non individualista, quel concetto che manca a tutto l’Oriente e quel concetto che manca anche al mondo nord-americano, in cui la persona è ridotta all’individuo. Questo c’è solo in Europa, come tradizione e voi capite che se viene meno da noi, si affermerà un mondo che porterà anche a grandi potenze, a cambiamenti tecnologici, ma in cui la possibilità della vita, della soddisfazione, del gusto del vivere insieme verrà meno. Capite il compito enorme che ha l’Europa, perché potranno costruire telefonini, potranno gestire cose di questo tipo, ma la cosa più importante nella tripartizione che diceva alla fine Enrico è proprio questa specificità, unica e irripetibile, dell’uomo, come diceva Giovanni Paolo II e ripeteva papa Francesco nelle parole di Mons. Gallagher. Ognuno ha diritto a una vita positiva, ognuno vale, non solo chi fa i soldi o chi è dentro alla grande armonia, è un compito che se non svolge l’Europa non svolgerà nessuno e quindi avremo un mondo sempre più vicino al Grande Fratello, in cui uno esiste in funzione di qualcosa che non ha a che fare col cuore. Allora arriviamo al terzo intervento di Enzo Moavero Milanesi, perché si capisce che solo questa persona che si mette insieme può affrontare i problemi. Perché noi oggi siamo di fronte a una antinomia continua: chi ti dice non c’è più niente da fare, è tutto meccanico, anche l’uomo, la neuroscienza dirà che tu non hai più la libertà, – altro argomento di questo Meeting, – prima o poi questi robot ti cambieranno e quindi è tutto finitamente pessimista, oppure che tu non conti, che la persona non conta, ci vogliono gli Stati. Invece, quello che ci ha detto il ministro Moavero Milanesi, è che sono problemi che hanno bisogno della libertà, della ragione, del mettersi insieme, di luoghi come questi, della religiosità e che è una opportunità: noi oggi vogliamo dire che non siamo pessimisti, ma non siamo neanche ottimisti. Vogliamo dare il nostro contributo nel 2019 a fare qualcosa di positivo, perché, come ricordava Mons. Gallagher, pensate il valore di De Gasperi: cosa sarebbe stata l’Europa senza De Gasperi, senza Schumann, senza Adenauer, senza Jean Monnet? Sono persone che hanno superato Stati che si odiavano alla fine del ’45. Abbiamo visto De Gasperi, che quando andò alla conferenza di pace di Versailles, disse: «Ho davanti solamente la mia dignità, la mia domanda». Allora una persona – mi ricordo quando ospitammo qui il ragazzo della Tienanmen, uno di quelli che si era messo davanti ai carri armati – può guardare anche un carro armato, sarà distrutto ma quello che farà, vincerà. Abbiamo parlato di tanti tentativi apparentemente perdenti nella storia, – la Rosa Bianca – ecco noi siamo qui per dire che vogliamo affrontare come persone e anche come un Paese che non dice né bello, né brutto, ma vuole ragionare, questo cambiamento del mondo e noi siamo convinti che questa ragione e questa libertà, come sono riuscite a ricostruire paesi democratici che si odiavano dopo la guerra e in pochi anni a metterli insieme, possano fare la stessa cosa. In fin dei conti quando Mitterand e Kohl, proprio nel momento migliore dell’Europa, si trovarono sul cimitero di guerra ai confini tra Francia e Germania, dicendo “mai più”, erano innanzitutto due persone dotate di ragione, dotate di libertà, dotate di desiderio, di ideali e di fede, uno, che volevano questo cambiamento; quindi sta nelle nostre mani non venir meno e pensare che niente è facile, tutto è estremamente complicato ma è certamente possibile. Grazie.
Trascrizione non rivista dai relatori