“DIRE DI SÌ”. DIALOGO TRA GUS POWELL E JOEL MEYEROWITZ

Joel Meyerowitz, Fotografo; Gus Powell, Fotografo. Introduce Luca Fiore, Critico d’arte e giornalista.

In occasione della mostra Family Car Trouble, Gus Powell (New York, 1974) dialoga con un altro celebre fotografo americano, Joel Meyerowitz (New York, 1938), per discutere di come la fotografia può rappresentare e celebrare la vita di fronte e attorno a noi. C’è una distanza giusta da avere nei confronti delle cose? Che ne è della nostra capacità di controllo sulle immagini? Come raccontiamo la vita e la morte?

“DIRE DI SÌ”. DIALOGO TRA GUS POWELL E JOEL MEYEROWITZ

Luca Fiore: Buonasera a tutti, a voi che siete qui al Meeting, a chi ci segue in diretta streaming, a chi vedrà questo incontro registrato. Questo incontro è dedicato alla mostra di Gus Powell – “Family car trouble”, che potete vedere questi durante il Meeting di Rimini in Fiera. Innanzitutto, come curatore ringrazio il Meeting per la determinazione con cui ha voluto questa mostra e questo incontro, riallacciando un filo del rapporto con la fotografia contemporanea che risale all’inizio degli anni Ottanta, quando le mostre di fotografia le curavano Giovanni Chiaramonte e Luigi Ghirri. Però, prima di iniziare, vorrei anche fare un altro ringraziamento alle due persone senza le quali questa mostra non potrebbe essere che sono Giulia Zorzi di Micamera, che con la sua intelligenza e il suo coraggio rende il mondo della fotografia italiana un po’ meno provinciale, la seconda persona è Tommaso Campiotti, architetto, che ha progettato lo spazio che accoglie ora le fotografie di Gus nel modo giusto. Quindi grazie a voi, a voi due, ai volontari che per due settimane hanno costruito pezzo per pezzo la mostra. Davvero grazie. Ora entriamo nel vivo. Qui con noi, direttamente da Brooklyn, New York, Gus Powell. Gus è una delle personalità più interessanti della fotografia americana contemporanea, è uno dei maggiori esponenti della Scuola di Street Photography di New York dove c’è una persona a cui deve molto che è Joel Meyerowitz, che è in collegamento dall’Inghilterra con noi questa sera. Ciao Joel, grazie per essere qui con noi.

 

Joel Meyerowitz: Buonasera a tutti, è un piacere.

 

Fiore: Quando si usa la parola maestri della fotografia spesso si esagera un po’, ecco, quello di Joel Meyerowitz non è uno di questi casi, diciamo, l’espressione non è per niente esagerata. Chi lo conosce dice che non solo gli ha insegnato a guardare il mondo, a fotografare, ma qualcosa in più, qualcosa che ha a che fare con la vita e forse questa sera ci farà capire in che senso. Tra l’altro, tra l’altro, Joel nel 2002 fece una mostra al Meeting di Rimini, curata da Giovanni Chiaramonte, e fu una delle prima volte in cui si poterono vedere le fotografie di Ground Zero di cui poi ci parlerà. Non rubo altro tempo, passo subito la parola a Gus Powell che ci racconterà del suo percorso artistico e cosa ha portato alla realizzazione di questo grande libro che è “Family car trouble”, da cui abbiamo voluto trarre questa mostra straordinaria. Gus ti cedo la parola e grazie ancora.

 

Gus Powell: Wow, innanzitutto, voglio ringraziare Luca e tutti, tutti, del Meeting. Sono qui da alcuni giorni ed è stata un’esperienza incredibile! Ma soprattutto il popolo del Meeting è stato grandioso, soprattutto i giovani che hanno contribuito proprio a costruire pezzo dopo pezzo la mostra “Family car trouble”. Ho visto il loro entusiasmo, la loro energia, passione, spirito di collaborazione, qualcosa che attraversa tutti questi spazi. È davvero è qualcosa che mi dà grande entusiasmo. Grazie mille per questa opportunità di essere qui questa sera per cui sono molto grato.

Io vengo da New York, sono nato nel 1974, e questo sono io, avevo tra i sei e gli otto anni [foto] e c’erano i graffiti allora, e questa era la posa che si adottava per questo tipo di foto. Quindi, per me la fotografia è cominciata con una Polaroid. Adoravo qualsiasi cosa fosse davanti a me, come ad esempio il mio gatto. Adesso li vediamo su Instagram, ma io lo ritraevo con la mia Polaroid. Poi immortalavo tutto quello che succedeva intorno a me, avevo il permesso di girare intorno agli adulti con la mia Polaroid. Cercavo di immortalare tutto quello che vedevo, dall’inizio alla fine, ma gran parte della mia vita a New York è stata contrassegnata proprio dal girare a piedi, con mia madre soprattutto; quindi, andavamo dappertutto a piedi in città. E ancora prima della fotografia c’era proprio il gesto di guardare le strade di New York con mia madre e guardare, puntare con il dito le cose che colpivano la mia attenzione. Ricordo che andavamo dappertutto, nei musei ma non solo. Quindi ancora prima di avere una macchina fotografica si ha un dito e si usa il dito per indicare le cose che attirano la ns attenzione: “Guarda questo, guarda quello”. E poi, passando alla fotografia, ebbene il dito si è trasformato in quello che compie il gesto, un gesto essenziale, semplice, che stabilisce una connessione tra le cose che si guardano, che attirano l’attenzione e immortalarle. Quindi, in un certo senso, è come se si dicesse sì a qualcosa e, con la macchina fotografica, in qualche modo esprimiamo quel dire sì in un’altra maniera. Quando sono cresciuto avevo una cassettiera a tre piani, e ricordo che nel primo piano mettevo tutti i cappellini, e poi i vestiti, e in fondo, nell’ultimo cassetto mettevo tutte le cose che raccoglievo per le strade di New York. Adoravo soprattutto raccogliere le cose che erano state schiacciate, che originariamente erano tridimensionali, ma poi erano state schiacciate. Non so, magari anche un cucchiaio, piuttosto che un guanto. E, appunto, il mio cassetto in fondo, l’ultimo, era pieno di cose di questo tipo. Due mesi fa, ad esempio, ho visto questa sorta di cestello schiacciato [foto], ero a New York e sono corso per raccoglierlo prima che qualcun altro lo facesse al mio posto. Questo oggetto che prima aveva avuto una vita tridimensionale ed era stato trasformato in un oggetto che aveva una vita monodimensionale, davvero mi ha attirato irresistibilmente, e già da bambino raccoglievo queste cose. E mia madre si, diciamo che mi incoraggiava, diceva: “Ok, va bene”. Perché una cosa è raccogliere, ma poi, una volta raccolta qualcosa cosa, la si deve manutenere, intrattenere e, in un certo senso facciamo la stessa cosa con le foto., raccogliamo qualcosa poi bisogna mantenerle. Ebbene, a un certo punto mia madre voleva che mi disfacessi di tutto di questa sorta di rifiuti e mi diceva: “Ok, devi fare una scelta e conservare, per così dire, le cose più belle, che ti piacciono di più fra tutti quanti e tutte le cose che hai raccolto”. Un po’ la stessa cosa con le foto: fra tutte le foto che si sono fatte, quindi usando quel dito, schiacciando quel bottone, bisogna poi fare una scelta. E questo è proprio l’atto di cura, di manutenzione, perché poi quelle foto scelte dovranno comunicare qualcosa, avranno un significato, e questo rientra nel concetto di dire sì al mondo. Prima si dice sì reagendo agli input del mondo, ma poi, per trasmettere tutto questo a un pubblico più alto, bisogna fare una scelta, ed è questo che intendo con cura e manutenzione. Le prime immagini a New York, e qui vediamo [foto] la prima traduzione diciamo del mio passaggio dalle mani per raccogliere cose all’uso, invece, della macchina fotografica, che è un grandissimo lavoro, quindi 36, 38, esposizioni per cominciare a raccogliere le cose. Ed è così che ho iniziato a esplorare il mondo intorno a me, in modo timido. Vedete, volevo fare una foto di questa persona, ma cosa ho fatto? Bene, c’erano 3 o 4 binari tra me e lui, quindi mi sentivo al sicuro, volevo fotografare le ragazze, ma ho cominciato in questo modo, era la cosa più vicina a una ragazza che potevo fotografare. Vedete una statua, un gesto, vedete, volevo fotografare le persone, ma cominciato così, con gli strumenti che avevo a disposizione, ho cominciato da lì cercando di avvicinarmi il più possibile. E vedete di nuovo il gesto [foto], ci si avvicina a qualcosa, mi avvicino sempre di più qui. Vedete, ma qui copro il suo viso, non perché non volevo vedere il viso, ma non volevo che lei vedesse me, ero molto timido. E quindi la strategia è di imparare a superare questa timidezza per cogliere e raccogliere le cose. Vedete anche qui ho cominciato a mostrare più cose contemporaneamente che hanno una relazione nello spazio. E ho cominciato a dividere le foto in due categorie, quindi abbiamo i nomi e i verbi. Ebbene, abbiamo un nome che può essere una persona oppure può essere una casa. Invece vediamo che il verbo è qualcosa di vivente e il cuore della street photography è vedere qualcosa di vivente, come fa anche Joel nella sua fotografia, qualcosa che può essere colto solo dall’occhio di un fotografo. Ed è così che ho iniziato ad azzardare di più, ad avere una strategia, anche per usare il mio corpo per cercare di essere presente, generoso, ma senza farmi notare troppo.

Qui vedete una foto semplice, quasi noiosa, ma penso che in qualsiasi modo si lavori, ebbene, si vivono momenti di foto come questi. Ricordo che ero nella metropolitana e volevo davvero fare una foto a questo uomo, qui sulla destra, volevo provare, e l’idea di fare una foto in metropolitana, in un posto in cui le persone sono così vicine, l’altra persona è solo a 2 o 3 metri da te, e per me era estremamente diciamo intimidatoria come idea, mi intimidiva, e mi sono detto: “Che cosa succede se magari fotografo lo spazio tra lui e la persona accanto?”. Allora ho puntato lo spazio, ho alzato la mia macchina fotografica, ho fatto questa foto e poi ho riposato la mia macchina fotografica e non è successo niente, nulla era successo. Ebbene, per me fu un momento epifanico, mi sono accorto che potevo farcela, con questo piccolo stratagemma. E ho scattato questa foto, ma per me è stata molto importante e significativa, perché a mano a mano che andavo avanti col mio lavoro, mi rendevo conto sempre più spesso, soprattutto in strada, che le cose che attiravano la mia attenzione non era una persona o due persone, ma anche uno spazio negativo, vale a dire lo spazio tra le persone, il plasma in cui tutti viviamo e ci muoviamo. Secondo me è la cosa più universale, che in un senso ci avvolge tutti. E, anche da un punto di vista compositivo, ha sempre attirato la mia attenzione, ma anche in modo somatico, e quindi, questo momento, il momento in cui ho scattato questa foto è stato una lezione, un momento di comprensione epifanica di questo. Ebbene, ho avuto molti maestri, insegnanti, Joel è uno dei più significativi, ma non solo, e mi ha sempre incoraggiato tantissimo rispetto alle foto che scattavo in strada. E ci sono state delle influenze provenienti dalla fotografia, ma anche da altri ambiti e altri mondi. A un certo punto un amico mi ha mandato “Lunch Poems” di Frank O’Hara. È un libricino, un libricino grande quanto un passaporto. Questo è Frank O’Hara [foto] e le poesie che ha scritto tra gli anni Cinquanta e Sessanta lui le ha scritte durante la sua pausa pranzo. Lui lavorava al Museo di Arte Moderna, a Manhattan Mid Town (MoMA), e la leggenda dice che andava nella quinta strada e batteva a macchina queste poesie durante la pausa pranzo e poi ritornava a caso. E la natura delle poesia va in due direzioni, perché da un lato descrivono la vita nelle strade di New York, sono documentali: come le persone lavorano, cosa fanno, sono informative, però descrivono anche quello che lui ne pensa, quindi questo libricino si è infilato nella mia tasca per lungo tempo ed era diventato quasi un passaporto per me, che mi permetteva di essere testimone di tanti piccoli momenti durante la giornata e cercare anche quindi un equilibrio rispetto a tutto quello che vedevo. Perché per me il lavoro non consisteva tanto nel descrivere la pausa pranzo a New York, ma riguardava piuttosto il cercare di cogliere qualcosa in quello spazio, in quel momento, in quella disposizione. Osservare la diversità della città, la gente che lavora, la natura grafica degli spazi, la tipologia delle persone che popolano quegli spazi. Ebbene, per me era come una scacchiera, una scacchiera vivente, con cavalli, re, regine, pedoni, tutti che si aggiravano in questo spazio urbano, quindi, cercando anche, per così dire, assonanze visive. Si vede il manifesto e poi questo ragazzo che assume quasi la stessa posa [foto]. E poi si guarda in basso l’altra persona che ha la stessa posa. Quindi, vedete, c’è questa sorta di analogia, e cosa potevo aggiungere? Era già completa. Che cosa potevo fare per cercare di scattare foto che davvero avessero un significato? Ogni volta che ci sono dei fiori, ad esempio, c’è una storia, che può voler dire: buon compleanno, ti amo, mi dispiace. Vedete, a volte scatto foto anche se non sono il massimo, ma questa mi piaceva tantissimo. Vedi questa ragazza che portava questi fiori che avevano lo stesso colore del decoro sull’ombrello. E poi ho notato che lei li ha nascosti a un certo punto dietro alla schiena, e questo mi ha fatto capire che c’era qualcosa che stava per succedere, c’era una storia che stava per succedere. Ebbene, non ho seguito il resto della scena perché quel momento di attesa per me era già poetica abbastanza, per me era già sufficiente, e a volte i momenti più interessanti avvengono prima del momento clou, del bacio, dell’abbraccio.

[Applauso] Non ho ancora finito, non ho ancora finito.

Qui [foto] vediamo un altro momento, sempre mentre mi aggiravo per strada, e ho visto questa rosa, questa rosa che in un certo senso era nel viso di questa persona, come quasi corrispondesse al suo occhio. E mi piace dire che faccio foto, in realtà le scatta la macchina, ma sono io che faccio foto, nel senso che quella prospettiva mi aveva dato una visione unica. L’intenzionalità di cogliere l’opportunità è unica, in un certo senso collaborare con il mondo per raccontare una storia è qualcosa di unico, perché questo consente alla fotografia di trasmettere quello che tu hai visto e colto ad altri. Sono stato alla Cappella Sistina, che è meravigliosa, ma in un certo senso cosa propone? Delle figure umane che fluttuano nello spazio. Ebbene, qui siamo nella Quinta strada, con figure umano che sembrano volteggiare nel cielo, e quindi chiamo queste foto “putti”. Ebbene, questa prima parte del mio lavoro mi ha consentito di imparare, di essere testimone di quello che vedevo in strada, di dire sì a tutto quello che incontrava la mia attenzione, qualsiasi cosa fosse. Ogni giorno succedeva qualcosa, magari giorni un po’ meno, altri di più, però io avevo una pausa pranzo di mezz’ora e cercavo di cogliere quello che vedevo. Se avessi avuto più tempo forse avrei colto più cose, ma avevo imparato una lezione. Questo è il libro successivo che ho pubblicato, chiamato “The lonely once”. Qui abbiamo una raccolta diversa, perché qui volevo raccontare storie in modo diverso. Quindi avevo lavorato per una rivista di New York e avevo lavorato per il dipartimento fotografico, e, soprattutto, dovevo associare le foto a dei brani di fiction, dovevo occuparmi anche delle copertine, quindi dovevo cercare delle foto che in un certo senso fossero assonanti con il contenuto della fiction. E quindi per me è stato come una sorta di lavoro che mi ha conferito una sorta di laurea virtuale, mi ha formato molto. Qui, invece, abbiamo dei paesaggi. Mi concentro su altri dettagli, ma c’è sempre un’aurea di mistero. Ho sempre cercato di cogliere qualcosa di più profondo che trascendesse le immagini. Vedete a volte ci sono combinazioni particolari, giochi di riflessi, ma sempre qualcosa che per qualche secondo attira la mia attenzione e mi incoraggia a immortalare quel momento. Ebbene, ci si può chiedere: “Ma che cosa rappresenta questa composizione?”. Appunto, è uno scuolabus in Qatar. Qui invece, siamo in Russia, a un mercatino delle pulci, alle 6 del mattino, e questa persona aveva solo questi oggetti da vendere, e questo mi riporta a quegli oggetti raccolti per strada. Sembravano una sorta di opera di Duchamp. Volevo comprare tutto, ma questa persona mi disse di no. Mi sono sempre chiesto poi cosa fare con queste immagini, come unirle. E c’è un’immagine che mi ha insegnato qualcosa in particolare, che è molto importante per me, perché è anche importante cercare di stabilire un legame con le immagini, come se l’immagine guardasse te, non solo tu che guardi l’immagine. E questa immagine è emblematica di questo rapporto, perché l’immagine la trovo molto bella, ma di un dipinto che non è un granché. Ma, vedete, è la luce che determina la qualità dell’immagine stessa, perché la luce in un certo senso distrae dall’oggetto del dipinto. Ed è proprio questo riflesso di luce che mi ha stimolato, e mi sono detto: “Voglio lavorare su immagini che riguardano questo”. Cioè sono foto che non hanno al centro quello che si vede, ma una sensazione che generano, e, anche in questo caso, è stato un libro che mi ha ispirato. William Steig, nel 1942 pubblicò “The lonely once”. Anche questo è un libricino di piccole dimensioni. Era un cartoonist di New York molto famoso, ho avuto anche la fortuna di incontrarlo. Avevamo un pranzo a base di cocomero e vino, beh credo che sia la dieta dei cartoonist newyorchesi. È un libro di cartoon ma per adulti, quindi di vignette per adulti, e le persone non sono così buone. Ebbene, l’opinione degli altri non mi preoccupa più, queste sono le didascalie. Beh, posso mistificare ed essere terrificante. E, alla fine, ho pubblicato il mio The lonely once esattamente nelle stesse dimensioni del libro originale di Steig e ho cercato di adottare lo stesso stile, però coniare le mie didascalie per dire di più, esprimere di più, e quasi anche per in un certo senso, distaccarmi anche dalle altre immagini, perché le prima immagini riguardavano Manhattan, Big Town, le strade di New York, ed erano legate ad un periodo specifico della mia vita. E, con questi lavori, ho voluto fare altro, ho voluto creare foto ed immagini che avevano quindi un rapporto diverso con la realtà e ho usato quindi il linguaggio per mostrare questo scollamento. E il libro è stato proprio concepito per leggere una pagina di testo e vedere poi la foto successivamente, quasi come un momento di rivelazione. “Siamo qui per rendervi felici” [foto]; un cambiamento di cuore [foto]; e, più appropriato che mai per stasera, “yes” [foto].

Questo libro ha rappresentato un’evoluzione nel mio lavoro e sono passato da un lavoro concentrato sulle vite e corpi degli altri, e sono passato invece a raccontare le mie storie, a esplorare il mio spazio, però, sempre catturando immagini dal mondo, momenti a cui ho detto sì, e poi li ho uniti al linguaggio per raggiungere un altro luogo, esplorare altre dimensioni. E poi, ebbene, ho continuato ad evolvere e a trovare nuovi modi per esprimere la mia esperienza personale usando sempre il medium fotografico.

E nella mia vita c’è stato un periodo in cui mio padre si ammalò e contemporaneamente alla malattia di mio padre c’erano i miei bambini, le mie bambine, che stavano crescendo. Questo duplice sguardo mi ha caratterizzato, è qualcosa che mi ha colto diciamo alla sprovvista e riguardava la mia vita, qualcosa che respiravo, qualcosa che respiravo e vivevo ogni giorno. Quindi per me fare foto era naturale e quindi semplicemente ho continuato a fare foto alle mie figlie, non solo durante i compleanni, ma in qualsiasi momento della loro vita. E ricordo che contemporaneamente vedevo mio padre che purtroppo era malato e stava morendo, e, ogni volta che lo vedevo gli scattavo una foto. E così, piano piano ho cominciato a pensare: “Come potrei lavorare su questi due temi?”. E ho pensato a un cavallo, un cavallo che è sulla strada e ha i paraocchi. I paraocchi anche lo proteggono da tutto quello che succede intorno a lui, in modo che possa concentrarsi sulla strada che deve percorrere. E poi ho pensato all’esperienza anche acustica. Mio padre che purtroppo a causa della sua malattia diventava come più silenzioso, e invece il rumore delle mie figlie, gioioso, legato alla crescita. A queste diverse prospettive di suono, sonore, che erano croce e delizia. Poi due opere d’arte mi hanno stimolato. Questa è un’opera di Philippe Gonzalez Torres, quindi due orologi analogici, uno a fiano all’altro, che però sono in relazione, cercano di funzionare in sincronia perfetta. e anche il loro tic-tac è in sincrono perfetto. E qui Robert Frank, è una sua opera. Ho avuto la fortuna di vederla dal vero la prima volta. Ricordo, ero a Washington DC, la vidi su un muro. Adoro Robert Frank, adoro il suo lavoro, e soprattutto le sue ultime opere. Ma quando vidi questa opera che è grande così, è piccola dal vero, e riguarda la perdita di sua figlia, con questo spazio negativo. Quindi, le foto che non era mai riuscito a scattarle. Mi ha parlato molto quest’opera, con questa esperienza anche viscerale, espressa dal linguaggio. Quindi una reliquia di quello che era successo, ma anche di quello che non era mai successo. Quindi, in seguito a queste influenze così diverse, e il desiderio di associare un’esperienza visiva e una sonora, ebbene, sono arrivato all’idea del libro “Family car trouble”, che è la mostra qui al Meeting.

 

E di nuovo l’dea dell’auto di famiglia, ma anche dei problemi che vengono da un’auto, quindi ho giocato con il linguaggio appunto per usarlo, per aggiungere un lato più divertente, ma anche per attirare l’attenzione. La strategia si è proprio basata sull’idea di creare un libro che fosse come un romanzo, perché volevo che le immagini potessero essere lette come un romanzo. Quindi questo libro non riguardava momenti di fotografie di strada perfette o immagini che esprimevano momenti unici: dovevano essere come tappe in un percorso, più piccole o più grandi ma in una storia, quindi cercando di utilizzare come materiale proprio i momenti della vita quotidiana.

E qui, vedete, c’è una storia con una struttura in tre parti: c’è un inizio, uno sviluppo e una fine. Il tempo svolge un ruolo centrale. Introduzione ai personaggi: vedete queste due bimbe che giocano ogni volta che possono, che stanno imparando a usare i loro cinque sensi in ogni momento della vita. E allo stesso tempo io che sono testimone della perdita dei sensi di mio padre che non riesce più a parlare, non riesce più a percepire il gusto. E quindi vedete il mio sguardo si è diviso in queste due direzioni.

Qui stavo tentando di fare una foto da passaporto di mia figlia e le foto da passaporto devono rispondere in un certo modo ad alcuni requisiti, ma vedete: vedete che si intravede il mio braccio. E qui si intravede comunque il mio stesso braccio in un altro momento completamente diverso, si riconosce dal maglione. Quindi, vedete, ci sono foto che si concentrano sulla vita proprio da vicino. E l’auto. Se gli avessi detto che il libro riguardava le mie bellissime figlie e mio papà che stava morendo, forse non avrebbe suscitato lo stesso interesse e l’auto è stato un collante, una metafora, una metafora per tante cose. Ma nella cultura americana le auto possono avere tanti significati, soprattutto una station wagon della Volvo ha un significato specifico: i bambini quasi ci giocano, ma sette volte la mia auto ha avuto bisogno del carro attrezzi. Ogni volta che è successo ero da solo, quindi mi sono concentrato sull’uso dell’auto con la mia famiglia, perché l’auto era forse una delle poche cose che potevo controllare: potevo ripararla, potevo magari venderla, potevo guidarla, ma avevo molto meno controllo sulle mie figlie e su mio padre. Nel progetto ho usato anche quei momenti di intermezzo: ecco perché mi concentro sull’idea di dire sì, di momenti come questo, momenti quotidiani, non momenti cruciali, ma momenti piccoli, che però ci consentono di arrivare alla fine della giornata. Qui i problemi sono arrivati davvero: tutte le spie sul cruscotto si sono accese. A volte sarebbe bello nella vita avere un cruscotto così che ti dice: “ok, devi chiamare tua madre, devi riposarti, devi pagare le tasse” e poi la risposta a questo momento traumatico.

Questa è stata la mia ultima visita a mio padre che ha coinciso con il centesimo compleanno di mia madre, quindi l’immagine a destra è stata scattata mentre mia madre compiva cent’anni e mentre mio padre viveva i suoi ultimi giorni. E qui di nuovo l’elemento del tempo, quasi come l’orologio che scandisce la vita: tic tac, tic tac, un suono leggermente diverso in italiano, forse voi avete più olio e qui la preparazione al momento dell’addio. C’è questo omino col paracadute, quasi un momento all’Antonioni. Vedete, mia figlia sembra quasi salutare questo omino col paracadute. E qui di nuovo, la luce rossa, come quella che era sul cruscotto: questa luce rossa che, non so perché, hanno utilizzato con mio padre per farlo aprire meglio in un momento così difficile. E poi il lutto, ma si cerca di andare avanti.

E questa è l’officina, in realtà non mi sono mai sentito fortunato nell’officina che si chiamava Lucky, fortunato. La maggior parte del libro si concentra sugli ultimi otto mesi di vita di mio padre. E qui invece abbiamo una foto che è stata scattata qualche anno dopo, perché ci vuole tempo. Qui vedete un bellissimo cimitero di Brooklyn che è più antico di Central Park, che esiste da oltre duecento anni, Green Wood si chiama. Quella stessa auto che mi aveva dato così tanti problemi, problemi però che in un certo modo potevo controllare, alla fine in un certo senso, ci ha tenuto uniti: io che guidavo, mia moglie come navigatore accanto a me, e le nostre figlie che anch’esse ci hanno sostenuto e il vento. Il vento che soffia. E alla fine siamo finiti al mare. Quasi tutti i grandi film di Fellini si concludono con una scena al mare. Grazie

 

Fiore: Joel, cosa dici? Puoi dire due cose su questo lavoro? perché ti è piaciuto e poi farci vedere il modo in cui tu intendi dire sì alle cose attraverso la fotografia?

 

Meyerowitz: Sì, è per questo che sono qua questa sera. Sono proprio qui per condividere alcune idee su Gus, sulla sua opera e sul perché diciamo Sì, cosa vuol dire. Sento dire che Gus Powell è uno dei nuovi poeti della fotografia: qualcuno che ha un modo nuovo di guardare alla fotografia e di utilizzarla, in un modo che la rende più accessibile.

Spesso abbiamo delle didascalie sotto le fotografie per spiegarcele: è quello che le riviste ci hanno insegnato nel corso degli anni, però Gus ci ha dimostrato che non abbiamo bisogno delle didascalie e che è possibile mettere assieme delle idee nella forma di fotografia e che si possono usare delle immagini umili, semplici. Queste sono opere grandiose, come quelle di Cartier e Bresson, son immagini che vengono fatte attorno all’intimità della vita, attorno a risorse che sono necessarie per allevare i figli, per a andare a trovare i genitori, attraverso la malattia, affrontare la morte, tenere la mano, amare le persone. Queste foto ci mostrano che possiamo trovare una nuova forma, una nuova poetica, e una forma letteraria nuova per la fotografia. Penso che il suo lavoro sia davvero straordinario, e lo dico dalla prospettiva di un fotografo che ha cercato di mettere assieme diverse collezioni, però non in modo narrativo. Si tratta di momenti in cui ho detto sì al mondo, ho imparato a essere più aperto di mentalità, in maniera informativa riguardo alle cose che vedevo. Così come se fosse possibile raccoglierle insieme nel tempo e creare una specie di significato flessibile, cosicché chiunque guardasse il libro potesse tradurre quelle immagini in idee, idee che sono tenute assieme senza un filo narrativo, ma con i significati intimi che noi portiamo nel corso del tempo. Gus sta usando questo con un’attenzione assoluta su quello che è intimo, è importante per lui, non solo cose che sono là fuori nel mondo, ma cose che viviamo, con cui viviamo e che ci portiamo poi nei nostri ricordi. Penso che veramente sia uno dei leader della sua generazione e che a questo punto stia reinventando il libro fotografico proprio come concetto, come idea. È una persona di gran cuore, che non ha paura di emozionarsi e trova una forma che è semplice, è forte, sembra quasi che non sia proprio un’arte fotografica coinvolta nel fare queste fotografie, eppure la cosa sta in piedi. Le immagini, pagina dopo pagina, io questo libro l’ho guardato più di venti volte; a volte lo vedo lì sullo scaffale, lo prendo mi siedo, e vivo con Gus in quel momento, quando lui sta vedendo le sue figlie crescere, il padre morente, poi ripongo il libro e rimango quasi con un groppone che mi lascia tante sensazioni dentro. Di nuovo, queste foto io le conosco bene, però hanno potuto fare la loro magia su di me: questo veramente è qualcosa di difficilissimo, qualcosa di raro, da poter fare con un libro di fotografie.

Molte volte prendiamo dei libri di foto, degli album e molte volte non tornano più: le guardiamo una volta e non rimangono imprigionate nella nostra memoria o nel nostro cuore. Quindi sento di dover celebrare i risultati raggiunti da Gus. Quello che mi ha permesso di raggiungere a me sulla riflessione del significato della fotografia perché ci sta mostrando veramente un’altra forma, una forma personale e privata di dire sì. E allora perché, che cos’è questo sì?

Ho ripreso una serie di foto, una serie limitata di foto dal mio lavoro e ho ripreso in mano un mio lavoro e visto dove ho detto sì. Ovviamente ci sono anche altre ragioni, oltre al dire sì, per cui ho fatto le foto. Però, se penso alle foto che mi hanno insegnato a credere nel mio istinto, alla fine, ma sì ve le voglio proprio mostrare, proprio così una manciata di foto diciamo su cui abbiamo anche discusso Gus e io, e vorremo che anche voi partecipaste a questa conversazione, allora vi farò vedere velocemente questa selezione di foto, ma non troppo velocemente, così che vi possa rimanere qualcosa. Ma cominciamo a guardarle.

Ho cominciato nel ‘62: il primo rullino era Kodak, era Chrome, lavoravo con il colore. Era così che io avevo imparato a fare le foto. E come Gus ha detto di sé stesso, anche io ero timido, non sapevo come avvicinarmi, magari se c’era una finestra tra me e i soggetti che osservavo… c’era questa coppia di persone che si amavano, lei stava sistemando i capelli di lui. E allora ho fatto questa foto assieme, vedete però questo momento, questo gesto, lui mi sta come toccando, ha quasi una preoccupazione che esprime con gli occhi però ero fuori dalla finestra e mi sentivo sicuro: “Non si metterà a corrermi dietro” e anch’io ho dovuto imparare a come avvicinarmi alle persone senza infastidirle, senza spaventarle o farle sentire a disagio o adirare. E ho sviluppato allora un atteggiamento positivo nell’essere presente nello spazio delle altre persone, ma senza minacciarle, senza sfidarle, riconoscendo che loro sono importanti per me, hanno qualcosa da offrire, il loro spirito, la loro integrità, la loro bellezza, il loro mistero: queste sono cose che richiedono un sì e coraggio. Quanto posso avvicinarmi ad un altro essere umano in uno spazio pubblico, e ricevere il sì che può metterci d’accordo. A volte le foto non richiedono grandi spiegazioni, suscitano domande, mistero. Il lavoro del fotografo sta proprio nella sua ragion d’essere di trovare dei collegamenti, degli incroci, di riuscire raccogliere significati potenziali o letture potenziali della scena sociale. Vedere perché, ad esempio, questo uomo bianco sta a fianco di un uomo nero con questo grande cane.

E l’uomo bianco ha tolto il cappello perché stava passando la bandiera americana in quella strada, ma dal mio punto di vista vedo una specie di carica razziale lì, con una specie di senso dell’umorismo anche, una specie di accettazione di quelle che sono le nostre differenze, perché l’uomo nero ha il cane grosso.

(NUOVA FOTO)

Allora a volte si tratta di una scena così, altre volte si tratta di un gesto e qui ho detto sì a questo gesto della ragazzina che si affaccia sul davanzale e si spinge fuori, quasi per un senso di dolore o di sofferenza, ma tutto il mio essere è balzato a lei per poter dire sì e cogliere quell’immagine. Perché con il sì siamo audaci, diciamo sì alla vita, diciamo sì all’istinto perché la fotografia è istinto. Non è vero?

(NUOVA FOTO)

Possiamo girare tutto il giorno con la macchina fotografica e non sentire nulla, vedere che non ho nulla; ci si può sentire che c’è qualcosa di importante oppure si può camminare e all’improvviso succede qualcosa davanti a noi, perché ci troviamo nella modalità sì, siamo aperti a ricevere il mistero, la magia del mondo ci arriva e a volte succede proprio davanti a noi.

(NUOVA FOTO)

“Baciami stupido”, questo era a capodanno. Quanto sono stato fortunato, magari qualcuno lo poteva cercare di trovare una scena del genere, io l’ho ricevuta quasi come un dono.

(NUOVA FOTO)

Qui vediamo qualcosa che potrebbe riguardare il dolore, non sappiamo quale sia la storia, però c’è quella mano tesa dell’uomo verso il viso piangente, terrorizzato della bambina e questo ci pone tutta una serie di misteri visto attraverso un finestrino e un altro finestrino e vedere tutta la struttura dell’automobile mi ha fatto come sentire il senso di intrappolamento che poteva sentire la bambina e magari la cosa più semplice, magari l’uomo diceva “Dai, vieni” e lei magari stava dicendo “No! Voglio un gelato”; potevano essere cose molto semplici, chi lo sa. Però per me il significato potenziale, l’ambiguità del significato è la cosa che mi ha fatto dire di sì perché possiamo affermare qualsiasi cosa delle foto che facciamo, tutto ha finale aperto, non c’è un significato solo.

(NUOVA FOTO)

Attribuiamo alcuni significati alle immagini e questa attribuzione di significato è quello che ci insegnano i fotografi per come poter continuare a dire di sì di fronte alle trivialità della vita. Quali sono le cose che vogliamo, come possiamo sapere che cosa avrà un senso dopo.

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Penso che la fotografia riguardi il chiedere delle domande, porre delle domande, non solo dire di sì ma porre domande sui significati, su come funziona il significato su come si descrive l’evento che si dipana davanti a noi.

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A volte vediamo delle cose ridicole.” Ma cosa sta facendo questa donna? “Lì incastrata. Ho pensato: ma guarda questa! “Sono entrato in un momento teatrale con il gran Canyon sullo sfondo di questa donna pazza che si incastra lì nella ringhiera. Come potevo non dire di sì a questa scena?

(NUOVA FOTO)

Però a volte anche la vita ci offre delle lezioni di verità: questa l’ho scattata a Parigi per la strada. Vedete un uomo che era caduto, c’è un gruppo di persone in piedi, nessuna di quelle persone si è avvicinata per aiutare l’uomo che è caduto. La fotografia riguarda di più quella mancanza di umanità; cioè voglio dire, sono contento che un uomo con un martello stava passando proprio di lì e stava quasi passando sopra all’uomo caduto perché dà tutta una serie di implicazioni alla storia ma la vera tragedia è che lui è per terra e nessuno si avvicina ad aiutarlo. Se non avessi detto di sì a questo momento, se non avessi capito qualcosa di quella che è la vita contemporanea delle città, perché ci fa, perché ci abbassa, ci rende meno aperti e questo è proprio la descrizione di questo indurimento della vita che avviene nelle città.

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Anche qui in un barrio in Spagna, vedete ci sono i bambini che giocano, ce ne sono fin troppi, io vivevo con dei gipsy che vivevano in diciannove in una stanza sola. E qui vediamo che i bambini giocano in mezzo alla sporcizia e stanno godendo il momento dell’infanzia della loro vita. Ma il ritmo, il movimento che si vedeva in questa scena era veramente bello per me e questo era il modo di vivere che c’era in quel momento, in quel posto.

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Questa foto per me è estremamente tenera, ecco perché vorrei parlarne un po’ di più; ho passato velocemente le altre ma questa è stata fatta in Turchia. Stavo camminando per strada e ho visto questo mezzo uomo, un uomo senza gambe che stava lì seduto e questo ragazzino che sta lavando le mani dell’uomo. Però quello che io ho visto, non è stato solo il ragazzino, quello che faceva, ma guardate le ginocchia del ragazzino. Il ragazzino ha chiuso le ginocchia, si è messo così da poter sostenere lo strumento che stava usando per lavare l’uomo e in questo modo poteva non bagnare i vestiti dell’uomo. Questo è un gesto di una tal gentilezza, di una tale accortezza e di un tale riguardo per questo uomo senza gambe che ho pensato veramente che era la grazia della tenerezza che gli stava offrendo; ero veramente in uno stato di gioia e di stupore quando l’ho visto. E questa foto è rimasta con me per tutta la mia vita, questo momento di bellezza e tenerezza così spirituale e sono stato contento di aver provato il coraggio e di aver avuto anche il senso di appropriatezza per dire di sì a questo momento.

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Allora, per proseguire con il racconto della mia vita come ha fatto Gus, ho incominciato a girare, a viaggiare in Europa per un anno e in questa esperienza a volte succedono delle cose da cui non ci si può tornare indietro.

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Questa è una foto che ho fatto fuori dalla mia macchina. Ovunque andavo ho continuato a fare foto fuori dalla macchina così come si proponevano le immagini davanti a me. Probabilmente avrò fatto duemila foto dalla macchina in movimento e quando sono tornato poi a New York city, all’epoca avevo 29 anni, ho fatto vedere queste foto a John Tchaikovsky che era il direttore del museo di Modern Art e mi ha detto: “Facciamo una mostra” e io ero incredulo perché stavo facendo qualcosa che era molto rischioso, guidavo una macchina e facevo foto nello stesso tempo, era una cosa matta da fare, però ci riuscivo, sono riuscito a fare, arrivavano così all’improvviso a 100 km all’ora che dicevo “Sì, sì” a cose che si dipanavano davanti a me e che sparivano allo stesso tempo e questo per me è stato una risposta fotografica pura ; solo la macchina fotografica poteva cogliere quei momenti che sparivano subito con una sensazione, con una fiducia così intensa del fatto che ci fosse lì un’immagine che potesse poi essere colta e ricordata.

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Per concludere ho qualche altra foto in bianco e nero e a colori, la stessa foto, quasi la stessa foto. Adesso voi tutti siete sicuri di usare il colore, però pensate all’epoca in cui il colore era disponibile solo per scopi commerciali o per quelli che facevano dei report. Era qualcosa di eccezionale da usare nel mondo dell’arte e io volevo provare, attraverso le persone e attraverso il potere che il colore poteva portare argomentazioni molto buone contro la discriminazione fra bianchi e neri, perché il colore può descrivere meglio le cose. Allora ho continuato a lavorare su questo lavoro di approvazione, ho fatto circa 200 copie di immagini in cui c’è la foto in bianco e nero e la foto a colori e l’anno dopo sono andato al museo a Londra di Arte Moderna ed è stata fatta la mostra, queste immagini vengono dal ‘60, ‘63,69, o dal 1970.

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Quindi in un certo senso il mio sì in quel caso era un sì al mio istinto sul fatto che il colore poteva essere un linguaggio valido per la fotografia che poteva essere la mia responsabilità porre delle argomentazioni convincenti per le persone nel mondo dei musei, per le autorità che si poteva effettivamente fare arte in questo modo.

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Passerò in rassegna adesso le ultime foto; però vedrete che ci sono momenti in cui ho una macchina fotografica in mano e sto osservando momenti di vita e ci sono momenti in cui c’è una bellezza trascendente nei luoghi più semplici, più normali.

Nel 1974 ho vissuto una transizione importante. Non volevo fare foto in bianco e nero e a colori, volevo solo fare foto a clori e facendo questo ho dovuto cambiare il mio comportamento per la strada, perché non volevo solo cogliere l’azione nell’inquadratura, ma volevo proprio l’integrità dell’inquadratura, proprio il punto più lontano nel cielo è il punto più vicino a dove stavo io. Volevo proprio una foto a fuoco, nitida, colorata, così da poter avere questa foto in cui è rappresentata la vita così come si vedeva. Allora ho smesso di fare foto per caso, diciamo, e avevo bisogno di più descrizione, la 35mm non era più sufficiente, sono passato a 20 per 25 cm, con una macchina fotografica che faceva foto che potevano darmi questa profondità spaziale che stavo cercando, e mi consentisse anche di osservare cose semplici. All’inizio di questo lavoro, nel 1976, ho notato che molte di queste foto venivano scattate nel momento in cui la luce del giorno svaniva e arriva all’oscurità della sera. Perché alcune cose si riescono a vedere proprio nel dettaglio della luce del giorno, ma cambiano poi con l’oscurità e, attraverso la macchina fotografica, si poteva salvare questo momento e potevamo, quindi, portare tutti i dettagli che stavo cercando. E ho trovato, in questo senso, un nuovo vocabolario per me, e un nuovo modo di dire di sì. Poteva essere un paesaggio, un ritratto… Stavo agendo in una cornice temporale diversa, sapevo che lo scatto era 250 millisecondi e dovevo poi rimanere 2 o 3 secondi per fare le foto in un certo momento del giorno. E cambiando questo meccanismo che avevo usato riuscii ad aprire la mia mentalità e a cambiare il modo in cui osservavo il mondo nei ritratti, nei paesaggi. Ho trovato che avevo più interesse in un corpo di lavori molto più ampio rispetto a prima e che dovevo trovare nuovi approcci, nuove tattiche, dovevo sviluppare un nuovo modo di essere per poter raggiungere queste idee così diverse. E questo è l’ultimo gruppo di foto che vi voglio mostrare. Per circa vent’anni ho avuto lo studio a Manhattan, questa era la visuale fuori dalla finestra del mio studio. Era una vista, come vedete, non ostruita dalla Ventesima strada giù fino al World Trade Center e per anni ho fatto foto al World Trade Center così, come se fosse un paesaggio di montagna nella lontananza. Però, un giorno, è venuto giù, e ho deciso che come newyorkese volevo fare qualcosa per mettermi al servizio della mia comunità, perché Rudy Giuliani, il sindaco, all’epoca, di New York, aveva detto che non era consentito fare fotografie e io ho pensato: “Fascista, non puoi proibire questa cosa, perché questa è l’America, e io troverò il modo di entrare a Ground Zero e fare le foto”. E ce l’ho fatta. In newyorkese diciamo un’espressione che vuol dire “ho osato”, “ci ho messo la faccia”. Si deve fare quello che si deve fare, quindi mi sono forzato lì dentro e sono rimasto 9 mesi a scattare foto dentro Ground Zero. È stato il momento, l’esperienza spirituale più forte che ha cambiato tutta la mia vita. Ho visto cose inenarrabili e vi posso dire qui che questa foto prima avevo avuto una crisi momentanea proprio su cosa fare. Era un giorno di ottobre e avevo il sole forte sulla schiena, sentivo il calore dei raggi del sole su di me e sentivo la gioia che trasmette una giornata dal cielo azzurro, con tutti gli edifici invece avvolti da questo telo rosso di plastica, e pensavo: “Oh, è di una bellezza straordinaria questa cosa”, e quando ho detto “bellezza” nello stesso momento ho pensato: “Ma io mi trovo adesso in un cimitero”. C’erano migliaia di persone, 1900 persone sono morte qui, e adesso non posso avere il diritto di dire che questa cosa è bella da vedere. Poi ho pensato, in realtà: “No, ho tutto il diritto di pensare a questa cosa perché abbiamo bisogno di bellezza nella nostra vita, di affermare il fatto che il tempo ci spinge sempre più lontano dagli eventi che succedono. Ci allontanano dalla morte dei nostri cari, ci allontanano dalle tragedie. Continua a spostarci in un futuro-presente, così che possiamo continuare a dire di sì alla vita, ad essere vivi, a celebrare tutte le cose positive della vita. Quindi ho fatto questa foto, si, l’ho fatta. Di nuovo ho imparato che è importante mettersi ben dritti con la schiena, schiarirsi le idee, presentarsi in maniera positiva verso il mondo e dire di sì. Grazie a tutti.

 

Fiore: Grazie Joel, grazie davvero. Ora vorrei chiedere una cosa a entrambi, una risposta flash se riuscite. Gus io ho l’impressione che sì, stiamo parlando di fotografia, ciò che le ha generate, come si fanno, Joel ha spiegato che cosa significa cambiare anche strumento no, che cosa produce cambiare lo strumento, ma non solo. Ho la sensazione che stiamo parlando anche d’atro. Spesso tu dici che l’immagine finale non è la cosa più interessante del tuo lavoro. E oggi dicevamo che spesso, quando parliamo di fotografia ci accorgiamo che stiamo parlando d’altro, di qualcosa che non è più fotografia. Volevo che spiegassi un po’ di più questa cosa.

 

Powell: Al college avrei voluto studiare arte, ma poi mi ricordo che tutto sembrava partire solo dalla mente, non dal cuore. E mi ricordo di aver frequentato anche dei corsi di religione e quindi ho studiato anche religione comparata, e devo dire che queste lezioni anche di mistica mi hanno insegnato molto. Gli studenti cercavano di capire sé stessi e cercavano in qualche modo dei modelli a cui ispirarsi per poi progredire. E rispetto alle varie confessioni religiose e all’esistenza umana ho cominciato a pensare al percorso, al terreno, agli obiettivi, perché, in un certo senso, qualsiasi religione, qualsiasi confessione, ma qualsiasi anche passione che sia l’amore, che sia il denaro, c’è sempre qualcosa che ne pone le basi, c’è sempre un obiettivo a cui intendere, che sia il paradiso, piuttosto che l’illuminazione, e c’è un percorso da intraprendere per raggiungere il luogo a cui aspiriamo rispetto a dove ci troviamo. Ed è questo percorso il luogo in cui trascorriamo la maggior parte della nostra vita, quindi, ebbene, al di là dell’obiettivo di scattare grandi foto, per me la parte più significativa del mio lavoro è proprio il percorso, è quello più significativo per me, quando sono lì e schiaccio il bottone sulla macchina fotografica, schiaccio il pulsante, scatto. Joel ha accennato a questo. Ebbene, ognuno ha il suo linguaggio e la macchina fotografica sembra quasi una licenza per intromettersi nella vita degli altri. Ciascuno in un certo senso vive in questo modo anche una responsabilità, quasi come se la macchina fotografica fosse una sorta di bussola che mi orienta, che mi guida in un percorso nella vita quotidiana, come se mi guidasse a vedere le cose il più possibile. E a volte la macchina fotografica anche che mi aiuta a mettere a posto le cose, sentirmi in sintonia con ciò che è intorno a me. E, cerco di parlarne anche ai miei studenti e magari stai vivendo un momento e c’è una parte di te che vuole scattare una foto, che vuole, appunto, così, varcare quella soglia. Ci sono due cose che avvengono: da un lato si impara a reagire al mondo intorno a te, a leggere lo spazio intorno a te, non solo per fare foto, ma proprio per capire cosa si svolge intorno a te come vita; ma poi bisogna anche ascoltare sé stessi, bisogna ascoltare le proprie sensazioni, intuizioni. Ma queste due cose devono unirsi: quindi guardare il mondo intorno a te ma anche ascoltare le tue sensazioni, quello che ti anima, i tuoi punti forti, le tue debolezze. E questi due binari sono quelli che ti portano a progredir e poi nel percorso della tua vita. Per me la fotografia è sempre stato uno strumento che mi ha aiutato a prestare maggiore attenzione al mondo intorno a me, a quindi cercare di concentrarmi sulle cose che per me avevano significato, ma leggendo anche le mie sensazioni, le mie intuizioni, cercando di unire queste due cose, farle andare di pari passo. E si tratta davvero poi di una visione soggettiva, ma anche di sé stessi, non solo del mondo. È come se questa sorta di lente, di prisma, avesse come due punti di visione. Mi piaceva molto il Kodachrome come pellicola, e, appunto, magari ero a Time Square un giorno, mettevi la pellicola Kodachrome e potevi davvero animare quella gelatina e darle vita, era una reliquia di luce, di vita, ma di qualcosa che tu hai visto, di cui se stato testimone, quindi come se quell’esperienza venisse creata dal nulla. Quell’atto proprio di fare un passo dopo l’altro su questo percorso, è la parte che adoro di questo lavoro di fotografo. E, ripeto, ogni tanto non c’è nemmeno bisogno di una macchina fotografica, si può vivere questa modalità di vivere la vita nel mondo con questo approccio, quindi cercare di avere un impatto, che sia piccolo, che consista nel portare cibo sulla tavola o altro. Questo stesso momento è un momento significativo, perché noi abbiamo un’interazione tra di noi, abbiamo un contatto, stiamo dando vita a un contatto, ed è qualcosa, davvero, scusa sto divagando rispetto alla tua domanda iniziale, ma mi hai chiesto rispetto alla mia esperienza di fotografo, e questo si ricollega secondo me rispetto a quello che mi hai chiesto, perché per me bisogna rivelare se stessi, ma allo stesso tempo scoprire il mondo. Queste due cose devono avvenire simultaneamente, nello stesso momento, ed è questo, secondo me, ti fa andare avanti verso il tuo obiettivo.

 

Fiore: Anche per te la parte più importante è il processo? Se puoi spiegarlo.

 

Jole Meyerowitz: Gus ha dato una riposta molto bella, molto interessante, potrei fare un’aggiunta dalla mia prospettiva, la fotografia per me è stato uno strumento per raggiungere momenti di consapevolezza. Uno non ha bisogno di una macchina fotografica per arrivare a questi momenti di consapevolezza, dove uno si rende conto di chi è, di cosa vede e si riesce ad integrare queste due cose in sé stessi, in un momento, e ci si sente più vivi, in quel momento, più di ogni altro momento. Ed è quello che io volevo veramente, attraverso il messo della fotografia, era proprio cercare di arrivare a un modo più famigliare di arrivare alla consapevolezza, che è uno stato di libertà in fin fine. Uno vede il mondo intorno a sé, io vedo il mondo intorno a me e ho un flusso di sensazioni e di comprensione allo stesso tempo e questo mi solleva, mi illumina. È come se riuscissi ad aprire un sipario che sta davanti ai miei occhi che mi impedisce di vedere e all’improvviso riesco a vedere con una specie di chiarezza. La fotografia è stato lo strumento che mi ha portato in questi istanti della mia vita, penso che non ci sarei mai arrivato, non si può mai dire, ma penso che non sarei mai potuto arrivare. L’assistenza di questo strumento meccanico che, nel mio caso, mi ha provato, centinaia di migliaia di volte che l’istinto nell’osservare l’umanità diventava sempre più chiaro per capire sempre di più cosa significa vivere. Quindi l’ho utilizzato questo strumento, in questo modo, come qualcosa per aprirmi di più, per essere più presente nel momento, per capire più chiaramente chi sono nel mondo in cui vivo.

 

Fiore: Grazie mille, grazie mille Joel. Sarebbe bello, sarebbe bello andare avanti ancora, ci sarebbe tante cose ancora da chiedere, ma purtroppo siamo costretti a chiudere. Io non voglio aggiungere altro a quello che avete detto, mi sembra chiarissimo, una grande provocazione anche a chi non è un professionista della fotografia ma si trova solo uno smartphone in tasca e magari la prossima volta che lo tirerà fuori penserà a una delle cose che sono state dette. Io ti ringrazio tantissimo Joel di questo regalo che ci hai fatto, speriamo di poterti avere qui a Rimini presto. Le tue fotografie sono già arrivate, manchi solo tu. Ringrazio tantissimo Gus, grazie, chi lo ha conosciuto direttamente ha sperimentato il regalo che ci ha fatto con la sua presenza in questi giorni, sarà fino a martedì sera, firmerà libri, spiegherà la mostra, risponderà alle domande. Quindi grazie a voi due, grazie.

Data

20 Agosto 2022

Ora

21:00

Edizione

2022

Luogo

Auditorium Intesa Sanpaolo D3
Categoria
Incontri