Chi siamo
Dio ha bisogno degli uomini
L’intervento di don Luigi Giussani è stato redatto a partire dalla trascrizione della registrazione audio (conservata presso l’Archivio della Fraternità di CL). Il testo è a cura di Julián Carrón.
[Applausi] Grazie, basta. Però forse fate bene a battere le mani, perché credo in quel che dico.
I.
«Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità – dice Teilhard de Chardin – non è una catastrofe che venga dal di fuori, non è né la fame, né la peste; è invece quella malattia spirituale, la più terribile perché il più direttamente umano dei flagelli, che è la perdita del gusto di vivere».[1] Quando ho letto questa frase di Teilhard de Chardin mi è venuto immediatamente al cuore e alla memoria come deve essere nato l’interesse per Cristo, come debba essere nato proprio storicamente. Perché, come talvolta con alcuni di voi abbiamo riflettuto, meditato, la gente poteva andare a sentirLo dicendosi: «Cosa dice costui? Parla della Trinità, di Dio Padre, parla dell’inferno, parla dell’anima, della responsabilità dell’uomo…». Però potevano anche farsi un’altra domanda: «Ma perché costui dice queste cose?». Dentro il cuore della gente questa domanda trovava una risposta senza che essa, la gente, ne fosse cosciente. Immediatamente, se uno avesse formulato questa domanda, si sarebbe sentito rispondere: «Perché ama l’uomo, perché ha passione per l’uomo!».
«Prese un bambino, se lo strinse al seno e disse: “Guai a colui che torce un capello al più piccolo dei bambini”»;[2] e non parlava del torcere un capello fisico, perché lì tutti hanno un po’ di ritegno, ma parlava del far del male al bambino in termini morali – là dove nessuno si dà attenzione e precauzione –, del rispetto assoluto per questo esserino che con uno schiaffo si butterebbe via. Oppure: si scosta sul sentiero, passa un funerale, una donna singhiozza dietro il feretro e Lui domanda: «Ma cos’è?». «È una donna vedova, le è morto l’unico figlio». Fa un passo avanti e dice: «Donna, non piangere!».[3] O quando dice: «Che importa se ti prendi tutto quello che vuoi e poi perdi te stesso? Che cosa darà l’uomo in cambio di sé?».[4] Così è sorto nel mondo il senso – rispetto, venerazione, attaccamento, amore, fiducia, responsabilità – della persona.
La persona. L’amore all’uomo. Senza questo non si può capire il cristianesimo. Ma forse anche noi stessi non comprendiamo – vivendolo, pur vivendolo, pur tentando di viverlo – il cristianesimo perché non partecipiamo di questa sua origine. Il cristianesimo non è nato per fondare una religione, è nato come passione per l’uomo. Allora si capisce: se Cristo parlava del Padre, se parlava del bambino, se tendeva con particolare cura lo sguardo all’ammalato, al povero, era perché povero, bambino, ammalato erano, fra tutta la gente, i meno difesi, coloro che avrebbero potuto meno imporre loro stessi; ma proprio per questo ne sottolineava la presenza, perché il loro valore era indipendente dalla loro capacità di potere o di servire al potere.
Una passione per l’uomo: l’uomo, il figlio di sua madre, figlio di una donna, l’uomo concreto, come sempre insiste Giovanni Paolo II, a volte richiamando proprio esplicitamente tale concretezza con termini indimenticabili; non l’uomo alla Feuerbach o alla Marx, ma l’uomo – io, tu –, insisto, figlio di sua madre e di suo padre; l’amore all’uomo, la venerazione per l’uomo, la tenerezza per l’uomo, la passione per l’uomo, la stima assoluta per l’uomo.
La frase di Teilhard de Chardin mi ha richiamato una frase del Vangelo: «Vi ho detto tutte le cose che vi ho dette, affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena».[5] Gioia. È l’unica – mi perdonino, ma non è esagerazione e sarei disponibile volentieri a una qualsiasi obiezione –, è l’unica voce, quella cristiana, che può usare la parola «gioia» senza essere obbligata a dimenticare o a rinnegare qualcosa.
II.
L’uomo è grande perché è rapporto con l’Infinito. Gesù lo dice in termini biblici: «Il loro angelo [l’angelo dei bambini] vede la faccia del Padre mio».[6] L’uomo è grande perché è rapporto con l’Infinito. Ma un rapporto siffatto si è potuto anche definire con quel paradosso: Dio ha bisogno degli uomini. Dio! Ma chi non ha paura, qualunque immagine ne abbia, chi non ha paura ad usare questa parola? Io ne ho molta e infatti raramente uso questa parola: Dio, questo «insondabile mistero», come diceva Einstein tre giorni prima di morire al grande matematico Francesco Severi, «questo insondabile mistero che sottende ogni ricerca»;[7] questa «ombra che non si può staccare da noi», diceva Whitehead, questa implicazione ultima della ragione, della ragione intesa come coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori. «Tutta la legge dell’umana esistenza sta solo in questo: che l’uomo possa inchinarsi all’infinitamente grande»,[8] diceva Dostoevskij.
Ma, proprio per questo, comunque lo si concepisca – e sarà una formula che spero di ricordarmi d’usare spesso –, questo «infinitamente grande» è legato alla nostra esistenza. Con un termine drammatico, la Bibbia parla di «alleanza», un contratto sostanziale, essenziale o esistenziale: è l’alleanza della creazione. Questo infinitamente grande è legato alla nostra esistenza per quello stupore che assicura l’emozione della novità senza cui la vita sarebbe noia mortale – per cui Dio ci si impone come struggente attrattiva, la struggente attrattiva del reale, dell’essere –, per quel brivido della ragione per cui Dio appare come la consistenza che ci mantiene sopra l’abisso del niente, per quella dipendenza inevitabile dagli avvenimenti per cui Dio ci determina come Destino.
Ma, dunque, se è legato a noi, se ne può parlare? Se ne deve parlare, nel senso che non è possibile non parlarne, comunque lo si concepisca. C’è un solo modo per non parlarne: non pensare. «Chiuso fra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà) / Perché bramo Dio?».[9] E l’interrogativo appassionato di Ungaretti è così esplicitato da Rainer Maria Rilke – perdonate se cito –: «Spengimi gli occhi, ed io Ti vedo ancora, / rendimi sordo, e odo la Tua voce; mozzami i piedi, e corro la Tua strada, / senza favella, a Te io / sciorrei preghiere. // Dirompimi le braccia, ed io Ti stringo / col cuore mio, fatto, repente, mano; / Se fermi il cuore, batte il mio cervello; / ardi anche questo: ed il mio sangue, allora, // Ti accoglierà, Signore, in ogni stilla».[10]
Per questo, per questa implicazione “fisiologica”, con timore e tremore, ripeto: Dio ha bisogno degli uomini. Così ci si è rivelato.
Il titolo del bellissimo e dimenticato film di Delannoy[11] è un paradosso – è chiaro –, ma è vero: Dio si è reso bisognoso dell’uomo per il modo in cui ha agito. Noi non possiamo che esprimerci con queste formule. Aver bisogno senza che si avesse avuto bisogno è amore, l’amore nella sua purità; per tutti è nostalgia, tanto quanto normalmente non è esperienza: è la gratuità, la gratuità pura. Bene, Dio ha bisogno dell’uomo, si è reso bisognoso dell’uomo perché l’ha creato libero e, in secondo luogo, perché si è fatto uomo, si è reso storia.
Dio si è reso bisognoso dell’uomo perché ha creato l’uomo libero, ha partecipato all’uomo questa Sua suprema capacità di possesso di sé, l’ha partecipata. Mi perdonerete ancora, se leggo. È dal Mistero dei santi innocenti di Péguy: «Chiedete a un padre se il miglior momento / Non è quando i suoi figli cominciano ad amarlo come uomini, / Lui stesso come un uomo, / Liberamente, / Gratuitamente, / Chiedetelo a un padre i cui figli stiano crescendo. // Chiedete a un padre se non ci sia un’ora segreta, / Un momento segreto, / E se non sia / Quando i suoi figli cominciano a diventare uomini, / Liberi / E lui stesso trattato come un uomo, / Libero, / L’amano come un uomo, / Libero, / Chiedetelo a un padre i cui figli stiano crescendo. // Chiedete a quel padre se non ci sia un’elezione fra tutte, / E se non sia / Quando la sottomissione precisamente cessa e quando i suoi figli divenuti uomini / L’amano, (lo trattano), per così dire da conoscitori, / Da uomo a uomo, / Liberamente. / Gratuitamente. Lo stimano così. / Chiedete a quel padre se non sa che nulla vale / Uno sguardo d’uomo che incontra uno sguardo d’uomo. // Ora io sono il loro padre, dice Dio, e conosco la condizione dell’uomo. / Sono io che l’ho fatta. Non chiedo loro troppo. Non chiedo che il loro cuore. / Quando ho il cuore, trovo che va bene. / Non sono difficile. // Tutte le sottomissioni da schiavo del mondo non valgono un bello sguardo da uomo libero. / O piuttosto tutte le sottomissioni da schiavo del mondo mi ripugnano e io darei tutto / Per un bello sguardo da uomo libero, / Per una bella obbedienza e tenerezza e devozione da uomo libero, / Per uno sguardo di san Luigi, / E anche per uno sguardo di Joinville, / Perché Joinville è meno santo, ma non è meno libero, // (E non è meno cristiano.) // E non è meno gratuito. // E mio figlio è morto anche per Joinville. / A questa libertà, a questa gratuità ho sacrificato tutto, dice Dio, / Al gusto che ho di essere amato da uomini liberi, / Liberamente, / Gratuitamente, / Da dei veri uomini, virili, adulti, fermi. / Nobili, teneri, ma di una tenerezza ferma. Per ottenere questa libertà, questa gratuità ho sacrificato tutto, / Per creare questa libertà, questa gratuità, / Per far agire questa libertà, questa gratuità. // Per insegnare all’uomo la libertà».[12]
III.
Ma questa capacità energica di aderire all’essere, in cui sta la libertà, ha in sé un “meccanismo” tremendo, tremendo come un mistero; anzi, Péguy dice: «mistero dei misteri». La libertà si realizza come scelta – come opzione, direbbe Althusser in quel suo terribile giudizio: la differenza tra il credere nella esistenza di Dio e il marxismo non sta in una ragione, è una pura opzione –. Scelta di che? Accettare o non accettare l’Essere. Come vorrei, parlassi soltanto a dei giovani, dialogare più immediatamente, perché questa è una scelta di tutte le mattine. Noi, ogni mattina, ci alziamo e ci poniamo di fronte alla realtà con lo sguardo spalancato, aperto, ingenuo di un bambino, pronto a dire pane al pane, vino al vino: «Sia il vostro dire sì, no; ogni altra parola viene dalla menzogna»,[13] oppure ci alziamo con il gomito di fronte alla faccia, guardinghi, in guardia, per difenderci dalla realtà. Accettare o non accettare l’Essere, la propria madre o Dio è lo stesso, la posizione è identica; accettare o non accettare il fiore o l’eternità è lo stesso, la posizione è identica. Possiamo andare anche contro l’evidenza, naturalmente accampando pretesti. E, se si accampano pretesti, allora non è solo negazione, ma è menzogna. Le ragioni, i pretesti fondamentali sono a mio avviso il dolore, in tutti i sensi, anche il dolore del proprio sentirsi venir meno, e la pretesa di affermazione, la volontà di affermazione dell’uomo; non – badate – di sé, non del proprio io, ma dell’uomo, appunto, alla Feuerbach.
Forse l’esempio più impressionante della prima ragione, il dolore dell’uomo, è una famosa poesia di Montale che mi permetto di ricitare: «Forse un mattino, andando in un’aria di vetro, / arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore di ubriaco. // Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto / alberi case colli per l’inganno consueto. / Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto / tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto».[14] Quando ho letto questa poesia di Montale, improvvisamente, immediatamente, mi è parso di comprendere. Perché questa è la posizione in cui si accende l’intuizione e l’esperienza mistica: questo nulla delle cose, questa percezione immediata del nulla delle cose, dell’inconsistenza di tutto, dell’effimero – dicevo prima –, è anche l’inizio della esperienza dell’Essere di cui tutto consiste e che tutto sostiene. Rerum Deus, tenax vigor, «O Signore, tenace consistenza di tutte le cose».[15] Questo, invece, nella stessa identica esperienza, diventa nichilismo: è una pura opzione. Giustamente Péguy parla del «mistero dei misteri»: la libertà. Indubbiamente, da un punto di vista astratto, Montale non spiega una cosa (l’errore è costretto sempre a dimenticare o a rinnegare qualcosa): perché le cose sono, effimere – “illusorie” è già una valutazione –, ma sono.
Mentre, un esempio tremendo dell’affermazione di sé – ma, nell’affermazione di sé, è l’affermazione della libertà dell’uomo – è in un noto brano di Nietzsche della Gaia scienza: «Un giorno il viandante chiuse la porta dietro di sé e pianse. Poi disse: “Questo ardente desiderio del vero, del reale, del non apparente, del certo, come lo odio!”».[16] E non vado oltre.
Tutta l’imponenza del mistero del reale, se l’uomo non lo riconosce, è come niente. «Il vuoto dietro / di me». È come un nulla, non perché non ci sia, ma perché non è riconosciuto. E in questo senso Tischner, commentando le poesie di papa Wojtyla, dice che per papa Wojtyla l’uomo permette a Dio di essere Dio.
Dio, per essere riconosciuto come Dio, deve in certo qual modo attendere questa scelta. Ma la negazione non può non corrispondere, a mio avviso, ad un ultimo atteggiamento di ira, un’ira sottile o clamorosa, ad una affermazione irosa, sorda o patente. Ma in quest’ira l’accento non è sull’affermazione di sé – torno ad insistere –, della propria personale umanità; l’accento è sul rifiuto di qualcosa che è dato, è sul rifiuto dell’atto di un Altro. E perciò c’è un rifiuto della propria condizione umana perché è data, un rifiuto della propria natura in quanto data, il rifiuto di una gratuità originale. L’accento non è – insisto – sulla volontà di affermazione di sé; stranamente, non mi pare sia innanzitutto sull’orgoglio; l’accento non è sulla volontà di affermazione di sé: l’uomo nella concretezza della sua persona, l’uomo come tale, si dissolve piuttosto. «Chi non crede più in Dio», diceva Claudel nelle sue Grandi Odi, «non crede più nell’essere, e chi odia l’essere odia la propria esistenza».[17]
Come mi è piaciuto leggere in Un uomo di Oriana Fallaci questa osservazione: «L’amara scoperta che Dio non esiste ha ucciso la parola destino. Ma negare il destino è arroganza, affermare che noi siamo gli unici artefici della nostra esistenza è follia».[18] Follia! È la follia con cui Sartre diceva: «Le mie mani, cosa sono le mie mani? La distanza incommensurabile che mi divide dal mondo degli oggetti e mi separa da esso per sempre».[19] Quanto più stringi e afferri, tanto più percepisci, sei condannato a percepire e sperimentare una lontananza: nessun nesso è possibile. È l’io che si dissolve, l’io centro di relazione e di abbracci, di affermazioni e di collaborazione. Per questo il dissolvimento giunge fino al punto in cui Moravia, ne La noia, parla della assurdità di una realtà «insufficiente, ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza».[20]
Che terribile morte quella della “ragione misura di tutte le cose”, che non ha accettato di essere coscienza ammirata e stupita di una realtà non sua, che diviene sua nella misura della sua obbedienza, del suo sguardo bramoso, desideroso, spalancato in una accettazione continua! C’è una alternativa alla negazione di Dio, c’è un’alternativa al rifiuto di una responsabilità di fronte alla domanda, al bisogno espresso di Dio verso di noi: dentro il mistero della libertà, l’alternativa alla dimenticanza e alla negazione di Dio (lo leggevo nel breviario ieri mattina), dice il profeta Geremia, è «prostrarsi di fronte al lavoro delle proprie mani»,[21] prostrarsi di fronte a qualcosa che si crea noi. Ma, nella società attuale, per la organicità potente, per il meccanismo potente in cui tutto viene articolato e organizzato, è inevitabile che questo prostrarsi di fronte al lavoro delle proprie mani diventi prostrarsi di fronte al potere: quanto meno ne siamo coscienti, tanto più vi siamo soggetti. «Si è riusciti a far capire», dice il grande Nobel dell’anno scorso per la poesia Miłosz, «si è riusciti a far capire all’uomo / che, se vive, è solo per grazia dei potenti. / Pensi dunque a bere il caffè e a dar la caccia alle farfalle. / Chi ama la res publica avrà la mano mozzata».[22]
Il male, che filosofia e letteratura definiscono e descrivono, si rifrange in noi, nelle mille azioni di ogni giorno: totalmente o in parte esse sono strappate al disegno del Mistero, all’ordine ultimo, per l’ansia di non perdere una soddisfazione o per rifiuto di una gratuità. Questa negatività, questa incapacità di perfezione è l’avvenimento esistenziale più tragico per l’uomo cosciente di sé. Sempre io ricordo ai miei amici giovani l’espressione letterariamente più tragica di questa consapevolezza, la finale del Brand di Ibsen, quando colui che per tutta la vita ha ricercato l’attimo perfetto, l’atto interamente umano, ritto vicino alla sua capanna, mentre il tuono della valanga oramai sta compiendosi – la valanga lo travolgerà entro pochi secondi –, grida: «Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte mi travolge: può tutta la volontà di un uomo ottenere un atto solo perfetto?»,[23] cioè un atto solo umano. Per questo io ricordo con emozione, e anche con paradossale gratitudine, quando una persona che stimo profondamente disse – stavamo discutendo del peccato –: «Il peccato sono forse io?».
IV.
L’affermazione sembra allora capovolgersi: l’uomo ha dunque bisogno di Dio per essere uomo? Come risposta, Dio si fa uomo, si coinvolge. Certo che chi ha molto senso drammatico della vita è molto vicino al cristianesimo, gli è molto più facile capirlo. Come risposta, Dio si fa uomo, si coinvolge con l’uomo come un compagno reale di cammino, totalmente familiare, accende un dialogo immediato, senza lunghi, solitari ed ambigui spazi interpretativi. Così Dio si rende bisognoso dell’uomo proprio come uomo. Come uomo, Dio si è reso bisognoso dell’uomo.
È a questo punto che l’opzione si gioca in modo più drastico e diventa dramma storico e tragedia del pensiero, nello sviluppo del pensiero. In nome dell’autonomia della verità umana, in nome, cioè, del suo modo di concepire l’ultimo – perché è inevitabile l’implicazione dell’ultimo nel dinamismo della ragione –, in nome dell’autonomia della verità umana, cioè in nome del suo modo di concepire l’ultimo, quello che noi chiamiamo «Dio», l’uomo respinge con violenza, fino alla nausea, questa presenza amorosa, questa presenza amorosa che ha bisogno dell’uomo, ma gli chiede di amarlo con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutte le forze, come dice il Vangelo.
Così, dalla “onestà” dei farisei al rifiuto del giovane ricco, allo scandalo di Giuda, la abolizione di Cristo dalla memoria che decide e guida la vita, singola e associata, diventa peccato sociale. È una ovvietà della cultura dominante: Cristo è un grande uomo – un grande di qui, un grande di là –; si può dire tutto, salvo che Cristo sia il Cristo. Questa abolizione di Cristo dalla memoria diventa un peccato sociale e diventa rinuncia alla categoria suprema della ragione, la categoria della possibilità: è assurdo, è inconcepibile, è impossibile che Cristo sia il Cristo. Mi ricordo, ne La fine dell’avventura di Graham Greene, quando il protagonista, “libero pensatore”, va di sera tardi in casa dell’amico cui era morta la moglie e ci trova il confessore della moglie, un fraticello smilzo, piccolo, fragile, che lui cerca di atterrare con una colluvie di invettive contro l’immagine religiosa cristiana della vita e dell’uomo. E quel povero fraticello – mi sembrava di vederlo scomparire sotto quella gragnola e quella tempesta –, approfittando di un respiro che l’artista libero pensatore si prende a un certo punto, esclama timidamente: «Ma mi sembra di essere più libero pensatore io di lei, perché è più libero pensiero ammettere tutte le possibilità piuttosto che precludersene qualcuna».[24] Anzi, è proprio dalla abolizione di Cristo, dalla abolizione della memoria di Cristo come Dio-uomo, che diventa possibile la lucidità isterica con cui tanta cultura moderna – grazie a Dio, non tutta – rinnega Dio. Ma lo diceva Nietzsche: se togliamo Cristo, dobbiamo togliere Dio.
Ma Cristo è un impegno del Mistero, irreversibile; è un impegno del Mistero col tempo umano; la Bibbia lo chiama «Alleanza Eterna».[25] Dio è fedele a se stesso, Cristo è lo svelarsi della natura del Mistero verso l’uomo. Che cos’è il Mistero verso l’uomo? Misericordia. La gratuità iniziale, originale, per cui l’uomo è, si svela compiutamente nel suo cuore, nella sua profondità affettiva: è misericordia. La risposta negativa dell’uomo non “risolve” la grande questione di amore.
Così, accanto all’uomo, Cristo si implica nella totalità della esistenzialità stessa dell’uomo, Cristo si implica con la totalità della esistenzialità stessa mia, dell’uomo. Che stupore mi invade quando penso che per il cristianesimo la salvezza, cioè il senso positivo del mondo è legato a un punto infinitesimale che è il «sì» di una ragazza di 15, 16 o 17 anni al massimo, che viveva in uno sperduto villaggio della Palestina! Mi basterebbe una cosa di questo genere per farmi capire che è divino! E quando penso, sull’altro versante, che un uomo viene baciato, in quella notte, ed esclama: «Amico, a che sei venuto? Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’Uomo?»![26] Cristo si è coinvolto con l’esistenzialità umana, perciò col gioco della sua libertà, secondo le movenze normali, quotidiane di essa. Implicato nella totalità dell’esistenza umana come uomo, Cristo si rende bisognoso delle toccabili, visibili cose che l’uomo usa: l’acqua nel Battesimo, l’olio nella Cresima, il pane, il vino nell’Eucarestia, la parola nella Confessione; il gesto, dovunque.
V.
Ma la realtà storica di cui Cristo ha bisogno per compiere la sua presenza al cammino dell’uomo verso il destino, la realtà storica totale di cui Cristo ha totalmente bisogno è l’unità fra tutti coloro che il Padre gli ha dati, dice il XVII capitolo di san Giovanni. Inizio dell’unità totale dell’umanità è l’unità fra tutti coloro che il Padre gli ha dati, è cioè la comunità ecclesiale, questo «ambiente dell’esistenza redenta dell’uomo», ci disse il 29 settembre 1984 Giovanni Paolo II. La comunità ecclesiale è l’«ambiente dell’esistenza redenta dell’uomo». Subito accenno a quello che risottolineerò dopo: è l’ambiente dell’esistenza redenta, dunque non perfetta – o il concetto di perfezione è un altro! – dell’uomo. Un «ambiente affascinante [sembra umoristico o ironico, e non lo è: ambiente affascinante] dove ogni uomo trova la risposta alla domanda del significato per la sua vita: [cioè] Cristo, centro del cosmo e della storia».[27] Perché non c’è nessun fascino nella vita più grande che l’esplodere chiaro del significato. Il fascino è l’attrattiva del vero, pulchrum splendor veri, diceva san Tommaso.[28] Il fascino è l’attrattiva del vero. Così, in un certo senso, l’inizio cristiano non è l’inizio di una religione e neanche di un’etica, ma di un’estetica, in un certo vero senso, perché l’etica verrà come conseguenza e sarà un amore, conseguenza d’un amore destato, e l’amore è destato dalla bellezza che è l’attrattiva propria della verità.
La comunità ecclesiale è la realtà dove tutti i temperamenti, tutte le storie, cioè tutti i movimenti, le associazioni, scaturiscono dall’unica domanda di quel significato e insieme, senza alcuna possibilità di dominio, completandosi e aiutandosi l’un l’altro come grande e appassionata compagnia, fluiscono verso l’unica foce: la testimonianza a tutto il mondo umano di Cristo morto e risorto.
Questa comunità ecclesiale è un popolo o, come diceva Paolo VI (23 luglio 1975), «una entità etnica sui generis »;[29] ma è un popolo, un popolo di uomini: Dio non ha bisogno di “santi”, ha bisogno degli uomini. Così, dunque, Eliot descrive il cammino di questo popolo nel VII Coro della Rocca: da quel momento «sembrò come se gli uomini dovessero procedere dalla luce alla luce, nella luce del Verbo, / Attraverso la passione e il Sacrificio salvati a dispetto del loro essere negativo; / Bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati e ottusi come sempre lo furono prima, / Eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce; / Spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un’altra via».[30] È questo che Cristo ha introdotto nella nostra vita facendosi compagno nostro: la vita umana, la dignità della vita dell’uomo, la dignità della libertà come tensione all’Infinito. Se l’uomo è rapporto con l’Infinito, l’unica dinamica degna è la tensione a esso. Come un bambino che, nato, deve imparare a camminare, e mille volte cade e mille volte riprende, ma tutto in lui è tensione al cammino e alla vita.
Eliot prosegue: «Ma sembra che qualcosa sia accaduto che non è mai accaduto prima: sebbene non si sappia quando, o perché, o come, o dove. / Gli uomini hanno abbandonato DIO non per altri dèi, dicono, ma per nessun dio; e questo non era mai accaduto prima / Che gli uomini negassero gli dèi e adorassero / gli dèi, professando innanzitutto la Ragione / E poi il Denaro, il Potere, e ciò che chiamano Vita, o Razza, o Dialettica. / La Chiesa ripudiata, la torre abbattuta, le campane capovolte, cosa possiamo fare? […] Deserto e vuoto. Deserto e vuoto [perché deserto e vuoto è il mondo là dove non c’è ricerca di un significato]. E tenebre sopra la faccia dell’abisso. // […] È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa? [Tutte e due] / Quando la Chiesa non è più considerata, e neanche contrastata, e gli uomini hanno dimenticato / Tutti gli dèi, salvo l’Usura, la Lussuria e il Potere».[31]
Il dio dell’uomo è ciò che l’uomo è; ciò che l’uomo è, è il suo dio. Ma l’uomo non è lussuria, denaro e potere. Questi dinamismi pretendono continuamente di definire l’uomo, e l’uomo può diventarne, soprattutto teoricamente, schiavo, prigioniero; ma l’uomo è definito da qualche cosa di più – di più! –, dove il calcolo è travolto. Nonostante tutto, nonostante l’essere attraversati continuamente dalla fame e sete della lussuria, del denaro e del potere, affermare questo “più”, tendere a questo “più”, vivere questa lotta e, nella propria fragilità, mendicare come poveri lungo le strade, questo è il modo umano di vivere la gratuità, di vivere cioè la propria vera natura, immagine di Dio, di vivere quel rapporto con l’Infinito, creatore per grazia. Tale capacità di gratuità, questo scatto oltre il calcolo, verso «l’infinitamente grande» che ci dà l’esistenza e che si è reso bisognoso della nostra esistenza, questa capacità di gratuità, questo scatto è il test della vita. «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in sovrabbondanza»,[32] una vita che non sia costretta a dimenticare o rinnegar nulla.
VI.
Permettetemi di citare questo brano del Diario di Kierkegaard: «Il rapporto di negatività polemica – che il Paganesimo metteva fra l’idea di una vita futura e l’esistenza presente – si vede anche dall’obbligo che le anime avevano, giungendo ai Campi Elisi, di bere l’acqua del [fiume] Lete».[33] Per entrare nel loro paradiso i pagani credevano che le anime, pensavano che le anime dovessero prima bere l’acqua del fiume Lete (parola greca che vuol dire «dimenticare»): per essere felici nell’aldilà, nei Campi Elisi, bisognava dimenticare tutto. Ma – mi perdonino – questo è la norma per ogni ideologia, teorizzata o implicata nel modo di vivere. Il cristianesimo, invece, insegna che dobbiamo rendere conto che ha un valore eterno anche una parola detta per scherzo. Ciò significa, fra l’altro, la presenza totale del nostro passato, anche se un altro Lete ce ne deve togliere il lancinante dolore; e questo altro Lete è la misericordia, è il mutamento profondo, la conversione profonda del significato del mio male stesso. Nulla, nulla è escluso. Il Vangelo dice: «Anche i capelli del tuo capo sono numerati».[34] È una vita che diviene se stessa, cioè sempre più vita, come diceva sant’Agostino: la vita non deve passare, letteralmente, dalla giovinezza alla vecchiezza, ma è la giovinezza che deve crescere sempre di più. Quello che sant’Agostino definiva per esperienza personale ce lo testimonia una settantenne poetessa, grande anche se naturalmente oggi dimenticata, Ada Negri, nella sua bellissima poesia Mia giovinezza: «Non t’ho perduta. Sei rimasta, in fondo all’essere. Sei tu, ma un’altra sei: senza fronda né fior, senza il lucente riso che avevi al tempo che non torna, senza quel canto. Un’altra sei, più bella. Ami, e non pensi essere amata: ad ogni fiore che sboccia o frutto che rosseggia o pargolo che nasce, al Dio dei campi e delle stirpi rendi grazie in cuore».[35] Non ami il fiore perché lo cogli e lo annusi, ma perché è; non ami il frutto perché lo addenti, ma perché è; non ami il bambino perché è tuo, ma perché è. Questa è la gratuità resa vita quotidiana, che riverberi nello sguardo a chi vive vicino, che riverbero nel pensiero e nel travaglio per gente ignota che viva lontano.
Che riverbero di missione! In fondo il cristianesimo realizza davvero l’immagine che Victor Hugo, in un bellissimo brano del suo Les contemplations, intitolato L’eremita,[36] descrive. Si immagina questo eremita, che si alza al mattino presto, all’alba, e cerca alla luce di una candela di incominciare a leggere e a meditare il suo testo. E man mano che legge, il sole si alza e cresce, e così, nello stesso tempo, nella sua anima si fa luce. Non si passa dalla giovinezza alla vecchiezza, ma è la giovinezza che deve crescere sempre.
Non fidatevi dell’amore: è l’ultimo ricordo di Paul Valéry ai suoi amici. «Noi abbiamo creduto all’amore» è il messaggio di san Giovanni. «So bene che [Dio] non mi ama. Come potrebbe amarmi? E tuttavia in fondo a me qualcosa, un punto di me, non può impedirsi di pensare tremando di paura che forse, malgrado tutto, mi ama» (primo quaderno di Simone Weil).[37] Questo è ciò su cui non può non attestarsi la nostra umanità, per quel poco di purità che mantenga.
C’è un unico vero delitto; c’è un unico vero delitto: la dimenticanza, la dimenticanza del Dio che ha avuto bisogno di noi, che ha bisogno di noi. La dimenticanza, questo è il delitto. «Sento che la mia nave», dice un buon poeta spagnolo, Juan Ramón Jiménez, «sento che la mia nave / ha urtato, là sul fondo, in qualcosa di grande». La nostra nave, che sta navigando per l’oceano della vita o per il mare della vita, ha urtato là, sul fondo, con qualcosa di grande: Dio presente. «E nulla / accade! Nulla… Quiete… Onde… [tutto come prima]. Nulla accade; o tutto è già accaduto, / e stiamo già, tranquilli, nel diverso?».[38] Ci siamo già rassegnati, come se non fosse?
Io auguro a me e a voi di non stare mai tranquilli, mai più tranquilli!
Grazie.
[1] Cfr. P. Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano, parte III, 3.2.b, in Opere di Teilhard de Chardin, Il Saggiatore, Milano 1980, pp. 310-311. [2] Cfr. Mt 18,2-6. [3] Lc 7,13. [4] Cfr. Mt 16,26; Mc 8,36-37. [5] Cfr. Gv 15,11. [6] Cfr. Mt 18,10. [7] Cfr. F. Severi, Scoppiò cinquant’anni fa la «rivoluzione» di Einstein, in «Corriere della Sera», 20 aprile 1955, p. 3. [8] Cfr. F. Dostoevskij, I demoni, Garzanti, Milano 1993, vol. 2, pp. 708-709. [9] G. Ungaretti, «Dannazione», in Id., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1992, p. 35. [10] R.M. Rilke, «Spengimi gli occhi, ed io Ti vedo ancora», in Id., Liriche, Sansoni, Firenze 1942, p. 194. [11] J. Delannoy, Dio ha bisogno degli uomini (Titolo originale: Dieu a besoin des hommes; Francia-1950). [12] Ch. Péguy, «II mistero dei santi innocenti», in Id., I misteri, Jaca Book, Milano 1997, pp. 342- 343. [13] Cfr. Mt 5,37. [14] E. Montale, «Forse un mattino andando in un’aria di vetro…», Ossi di seppia, in Id., Tutte le poesie, Oscar Mondadori, Milano 1990, p. 42. [15] «Rerum Deus, tenax vigor, immotus in Te permanens, lucis diuturnae tempora successibus determinans… » (Inno dell’Ora Media, Nona, in Messale ambrosiano. Dalla XVIII alla XXXII settimana del Tempo Ordinario, Marietti, Milano 1984, vol. V, p. 47). [16] Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, Adelphi, Milano 1995, p. 223. [17] «Qui ne croit plus en Dieu, il ne croit plus en l’Être, et qui hait l’Être, il hait sa propre existence» (P. Claudel, «Troisième Ode – Magnificat», in Id., Cinq grandes odes. Suivies d’un processionnal pour saluer le siècle nouveau, Éditions de la Nouvelle Revue Française, 35 & 37, Paris 1913, p. 92. Traduzione nostra). [18] O. Fallaci, Un uomo, Rizzoli, Milano 1979, p. 151. [19] Cfr. J.-P. Sartre, La nausea, Einaudi, Torino 1990, p. 166. [20] Cfr. A. Moravia, La noia, in Id., Opere complete, Bompiani, Milano 1976, p. 483. [21] Ger 1,16. [22] C. Miłosz, «Consigli», vv. 18-21, in Id., Poesie, Adelphi, Milano 1983, p. 116. [23] Cfr. H. Ibsen, Brand, Bur, Milano 1995, p. 240. [24] Cfr. G. Greene, La fine dell’avventura ora pubblicato con il titolo: Fine di una storia, Mondadori, Milano 2011, p. 190. [25] Sal 105,10. [26] Cfr. Mt 26,50. [27] Giovanni Paolo II, Discorso al movimento di Comunione e Liberazione nel XXX anniversario di fondazione, 29 settembre 1984, 1. [28] «La bellezza è lo splendore del vero» (San Tommaso d’Aquino, Scriptum super sententiis, I, d. 3, q. 2, art. 3.). [29] Paolo VI, Udienza generale, 23 luglio 1975. [30] T.S. Eliot, Cori da “La Rocca”, Bur, Milano 2010, p. 99. [31] Ibidem, pp. 99-101. [32] Cfr. Gv 10,10. [33] S. Kierkegaard, Diario. I (1834-1849), Morcelliana, Brescia 1962, p. 359. [34] Cfr. Lc 12,7. [35] A. Negri, Mia giovinezza. Poesie, Bur, Milano 2010, p. 78. [36] Cfr. V. Hugo, «Heureux l’homme, occupé de l’éternel destin», in Id., Les contemplátions, Garnier Frères, Paris 1969, p. 61. [37] S. Weil, Quaderni. Volume I, Adelphi, Milano 1982, p. 105. [38] J.R. Jiménez, «Mares», in Id., Segunda Antolojía Poética (1898-1918), Espasa-Calpe, Madrid 1987, p. 335 (traduzione nostra).