DIFFICOLTÀ DI ACCESSO ALLE CURE E AI FARMACI: QUALI RISPOSTE?

In collaborazione con Fondazione Banco Farmaceutico onlus. Partecipano: Carmine Arice, Direttore dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Salute della CEI; Davide Faraone, Sottosegretario di Stato al Ministero della Salute; Maria Chiara Gadda, Deputata PD al Parlamento Italiano, Promotrice della Legge contro gli Sprechi Alimentari e Farmaceutici; Salvatore Geraci, Responsabile dell’Area Sanitaria della Caritas di Roma; Enrique Hausermann, Presidente di Assogenerici. Introduce Sergio Daniotti, Presidente della Fondazione Banco Farmaceutico onlus.

Difficoltà di accesso alle cure e ai farmaci: quali risposte?

SERGIO DANIOTTI:
Buona sera, benvenuti a tutti e un grazie particolare ai relatori qui presenti con me al tavolo e saluto anche il sottosegretario alla saluta Faraone che è in collegamento telefonico, perchè per motivi istituzionali non può essere qui oggi. Iniziamo con la visione di un brevissimo filmato per introdurre i lavori di oggi pomeriggio.

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Leggo quanto scrive il Papa nell’Evangelii Gaudium: “non è compito del Papa offrire un’analisi dettagliata e completa sulla realtà contemporanea, ma esorto tutte le comunità ad avere una sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi. Si tratta di una responsabilità grave, giacché alcune realtà del presente, se non trovano buone soluzioni, possono innescare processi di disumanizzazione da cui è poi difficile tornare indietro”. Ecco, uno dei temi, uno dei segni dei tempi che ci interroga è quello della povertà sanitaria e della difficoltà di accesso alle cure. Noi come Banco Farmaceutico facciamo poco, nel senso che noi siamo al servizio di chi poi vive incontra chi è nel bisogno ed è povero. E quindi ho il piacere di dare la parola a monsignor Carmine Arice che è il Direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute della CEI che ci introdurrà ai lavori di oggi pomeriggio.
Prego. Grazie.

CARMINE ARICE:
Buon pomeriggio a tutti e ringrazio davvero gli organizzatori per l’invito a partecipare a questo nostro incontro e porto i saluti del segretario nazionale della Cei, mons. Nunzio Galantino che segue con interesse i lavori di questa trentottesima edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli. Anzitutto una considerazione introduttiva: parlando proprio di amicizia fra i popoli e difficoltà di accesso alle cure e farmaci e volendo seriamente allargare il nostro sguardo oltre l’Italia e pensare per esempio ad alcuni paese dell’Africa sub sahariana, io penso che non possiamo non rattristarci. Sono queste, terre dimenticate da una disumana indifferenza che a pochi interessano e pensare che è a pochissime ore di aereo da qui, sono molti quelli che muoiono per patologie curabili a volte con pochi euro, grazie ai più semplici antibiotici, magari da noi, ormai andati in disuso. E questo veramente dovrebbe farci riflettere, farci pensare, mettere a tutti una mano sulla coscienza. Ma veniamo al nostro paese, leggendo articoli e studi sul tema, per prepararmi a questo incontro, ho trovato tanta analisi, proprio tanta, tante statistiche ma poche proposte e risposte per far fronte alle difficoltà di accesso alle cure e ai farmaci. Con ragione Papa Francesco parlando del contesto nel quale ci tocca vivere, operare, denuncia il pericolo di un eccesso diagnostico che non sempre è accompagnato da proposte risolutive e realmente applicabili. Questo dice la complessità del problema, certamente, ma anche la fatica di osare a percorrere strade nuove ed efficaci fino a volte a farci dubitare sulla reale volontà di affrontare la questione soprattutto per le persone più indigenti. Qualche dubbio viene. Chi non sa ormai che sono dodici milioni gli italiani che rinunciano a curarsi? Un milione in più rispetto al 2015 e che in questi ultimi anni è cresciuta gradualmente la difficoltà di assistenza sanitaria, fino a trovare difficoltà a curare patologie anche inserite nei livelli essenziali di assistenze, LEA. Non è così in tutte le regioni, grazie a Dio, ma a noi interessa tutta l’Italia, da Lampedusa a Bolzano, da Campobasso a Firenze e per questo andrebbe fatta una seria riflessione sul titolo quinto della Costituzione riformato, una seria riflessione. Purtroppo sono fin troppo noti anche la corruzione che in Italia è stimata, pensate, annualmente in sei miliardi , il 41% di chi si è rivolto a liberi professionisti dichiara di aver saldato in nero l’onorario e gli sprechi che portano un danno pari a otto miliardi di euro l’anno.(La manovra finanziaria, eh.). Anche di fronte agli amministratori più ravveduti, nessun sistema di assistenza sanitaria universalistico, a copertura mista, assicurativo è in grado di reggere. Tutto questo allora ci fa dire che non solo la Chiesa, ma l’intera nostra società è un ospedale da campo segnato da una crisi antropologica che nega il primato dell’uomo e con carenti riferimento di senso, pone come unica prospettiva il profitto. Io penso che la vera crisi, madre di tante altre che stiamo subendo, e che stanno subendo, soprattutto i più indigenti, è una crisi dell’umano che risponde con fatica alle domande di senso fondamentali: chi sono io? Dove sei? E dove stai andando? Ma risponde con altrettanta fatica ad un’altra domanda primigenia: dov’è tuo fratello e chi è tuo fratello per te? Dov’è tuo fratello e chi è tuo fratello per te? Questa società, ferita nella sua identità, povera non solo di cultura e di danaro – utile a curarsi, questo danaro – ma anche povera di senso utile per vivere, tra un po’, non avrà più nulla da trasmettere, da ereditare a nessuno, perché i morti sono più dei nati e la piramide della natalità è diventata un fungo. I suicidi sono in aumento e le malattie psichiatriche stanno esplodendo fino a diventare in futuro, molto prossimo, la prima causa di disabilità. Certo che le politiche familiari sono un po’ carenti e hanno bisogno di adeguata revisione. Ma ancor più carente in questo contesto è l’aggressione che l’istituto familiare riceve quando non si vuole riconoscere la sua peculiare identità scritta nella natura prima che nella legge. In questo contesto socioculturale, pensare una popolazione anziana che conosce, su dodici milione e mezzo di ultrasessantacinquenni, ben tre milioni di persone non autosufficienti, di anziani non autosufficienti, con un milione e duecento mila di anziani affetti da patologie neurodegenerative, ci preoccupa. Ci preoccupa perché forse prima di considerare se sia giusto o meno dare la morte a chi la chiede, dovremmo creare le condizioni utili affinché nessuno la domandi, né pazienti e nemmeno parenti per disperazione, per solitudine , o per mancanza di aiuto. Allora mi pare utile anticipare subito due conclusioni che meriterebbero di essere approfondite più di quanto possiamo fare nel tempo a nostra disposizione e che sintetizzerei così: senza etica non c’è sistema che tenga, senza società, senza gruppo nel quale l’uomo può definirsi e riconoscersi non c’è nemmeno salute. Quando i fondatori di grandi opere di carità e di cura, penso a San Giovanni di Dio in Spagna o il Cottolengo a Torino, per fare due nomi distanti quattrocento anni tra di loro, hanno risposto alla domanda di salute delle fasce più indigenti della società del loro tempo, partivano da una consapevolezza: la sorte e la vita del fratello mi appartengono come io appartengo alla sua. I grandi uomini della cura avevano coscienza che se volevano essere fedeli all’origine della loro esperienza, quella nata dall’incontro con una persona e non con una ideologia, dovevano essere fedeli anche alla storia e incarnare in opere visibili ed eloquenti il loro pensiero e il senso che li facevano vivere. Amici, non sono andato fuori tema, perché se l’OXE ci dice che il 20-30% del danaro messo a disposizione per la sanità è sprecato e non solo in Italia, questo significa che il sistema non funziona soltanto per motivi organizzativi, ma anzitutto perché manca una coscienza. E non sono andato fuori tema perché sono convinto che nessuna risposta organizzativa potrà sostituire la coscienza di essere dentro una rete nella quale, oltre a ricevere, occorre anche dare, e non intendo solo in termini finanziari. Promuovere un welfare generativo, compartecipato, potrà davvero aiutarci ad iniziare il lungo percorso che ci aspetta per superare questo momento di crisi. E mi pare che l’esperienza del Banco Farmaceutico vada proprio in questo senso. In questi giorni al Meeting ci sono stati interventi di altissimo livello penso in particolare agli interventi di Nello Cristianini e Gianfranco Pacchioni che mi hanno particolarmente colpito sull’uomo e la macchina tra inquietudine e speranze. Bene, quando questa sorta di grande guardone della nostra vita come è diventato una certa tecnologia mediatica che può e vuole giudicare gesti e determinare scelte a partire dalle informazioni che noi diamo, sarà applicata alla medicina, quali saranno i criteri a determinare la locazione delle risorse in sanità? Se penso ai criteri di efficacia, efficienza, appropriatezza che sono alla base delle scelte economiche in un ambito sanitario, come si regolerà il medico sui criteri di accesso ad esempio alle nanotecnologie? L’AIF ha ideato, realizzato e sviluppato attraverso algoritmi matematici e in collaborazione con esperti italiani del settore, una serie di percorsi decisionali relativi alla più appropriata terapia farmacologica per le diverse patologie. Questi percorsi predefiniti sono in grado di indicare il miglior approccio clinico utilizzabile da parte degli operatori sanitari alla luce delle più recenti evidenze scientifiche. Bene. Quale sarà il criterio usato dal medico quando l’accesso a quel tipo di terapia non potrà essere alla portata di quel paziente? Il rischio poi di una medicina difensiva ancora più aumentata dell’attuale e l’accrescersi del divario tra medico e paziente è molto forte e grave. E pensare che un sistema organizzativo, universalistico, assicurativo che sia, sia la panacea pare un’utopia. Una medicina senza etica è come un aereo senza pilota. Per questo tra le vittime più illustri di un sistema che non concede spazio alle domande di senso che proprio malattie e morte pongono con insistenza ci sono le persone disabili, gli anziani affetti da patologie neurodegenerative e quei poveri che non rispondono più a quei standard qualitativi di efficienza.
Quali risposte dunque alla difficoltà di accesso alle cure, ai farmaci? Se è vero come ci ha ricordato il Papa ricevendoci in udienza che e c’è un settore in cui la cultura dello scarto fa vedere con evidenza le sue dolorose conseguenze è proprio quello sanitario e che quando la persona malata non viene messa al centro e considerata nella sua dignità si ingenerano atteggiamenti che possono portare addirittura a speculare sulle disgrazie altrui – fine della citazione – se è vero questo, speculare sulle disgrazie altrui , ecco il bisogno di una coscienza , occorre anzitutto allora un umanesimo nuovo che prima di cercare le necessarie strategie perché giustizia, equità, sussidiarietà, siano assicurate per tutti, metta le premesse perché si generino uomini nuovi. Un umanesimo nuovo che per noi ha le sue radici nell’Uomo nuovo per eccellenza, Cristo Signore che ha guardato con passione questa umanità e si è fatto carne e ha dato carne di grazia alla storia. E accanto a questo, seconda e ultima considerazione , è necessario una prossimità reale che genera storie e storie e che mentre lavora per promuovere la giustizia, la legalità, non aspetta, perché la gente muore, ma si rimbocca le maniche e opera, perché quell’uomo che incontra sulla strada riceva segni di salute, di salvezza. E tutto questo, non dimenticando quanto ha affermato la grande maestra in umanità Cecilia Saunders fondatrice degli Hospice, in quella splendida mostra che avete fatto anche l’anno scorso che ho potuto veramente ammirare. Quando dice: “non dimentichiamo però che la cosa più preziosa che una comunità può donare ad una persona malata è il tempo che è una dimensione dell’anima prima che delle lancette”. Grazie.

SERGIO DANIOTTI:
Grazie, grazie veramente di cuore per questa introduzione al tema. Ora dò la parola al dottor Salvatore Geraci che è responsabile dell’Area Sanitaria della Caritas di Roma, ma anche l’incarico di coordinare tutte le realtà sanitarie della Caritas a livello nazionale. Prego, Grazie.

SALVATORE GERACI:
Grazie buon pomeriggio a tutte e a tutti.
Un ringraziamento al dottor Danotti e agli amici del banco farmaceutico per quest’invito. Un ringraziamento anche e un saluto a nome del direttore della Caritas monsignor Soddu che non è potuto essere oggi presente. Il mio intervento sarà molto schematico, non volerò alto come è riuscito a fare don Carmine, però cercherò di ancorare il ragionamento su una esperienza, quindi ragionerò in termini di scenario (non so se è possibile ecco alcune diapositive, mi aiuto con diapositive). Lo scenario sulla povertà e poi l’esperienza proprio di Caritas in tre step, in tre passaggi, riservandomi poi magari una seconda tornata della nostra tavola con alcune proposte più operative. Povertà. Si diceva la povertà è in aumento, in particolare la forma più estrema di povertà è in aumento, la povertà assoluta, questo è certificato, son dati ISTAT, come vedete ci troviamo dei dati estremamente alti, i più alti dopo il 2005 (nel 2005 c’era stato anche un picco), ma la cosa forse più interessante è che la povertà sta cambiando. I ricercatori, queste non sono mie ricerche, miei studi, io mi occupo in genere di cose leggermente diversi, però i ricercatori indicano questo passaggio importante, una sorta di povertà che sta diventando trasversale. Se prima la povertà era confinata soprattutto come numeri in termini statistici al sud, ormai non è più confinata solamente al sud, ma interessa l’intero territorio. Se prima erano soprattutto le persone anziane, sempre di più sono coinvolti i giovani, se prima riguardava le famiglie numerose adesso sempre di più riguarda le famiglie anche con un solo figlio. Se prima riguardava coloro che non lavoravano adesso comincia a toccare anche persone che comunque lavorano. Quindi c’è veramente un cambiamento forte di quello che può essere la povertà e sempre gli studiosi dicono che c’è una sorta di normalità della povertà. Io quando ho letto questo articolo, un po’ sono rimasto male perché io non accetto una normalità di qualcosa che invece è critico. Ma qui forse gli studiosi volevano dire che la povertà è così presente, così trasversale ormai, così diffusa che bisogna intervenire anche con specifiche norme, non solo con norme generiche di welfare, ma anche puntuali norme. Io però ho letto questa diapositiva in un altro modo proprio ancorandomi alla mia esperienza; l’ambulatorio che dirigo, l’ambulatoria della Caritas sta a Roma alla stazione Termini e si trova fisicamente fra un centro diurno per senza dimora e un ostello per senza dimora. L’esperienza che ho da tanti anni è che le persone che vanno lì, che vengono accolte lì, non sono così lontane dall’esperienza che viviamo noi. Cioè esiste un filo sottile che ci divide tra la così detta normalità e situazioni di sofferenza, di povertà, di disagio. Soprattutto durante l’estate incontro, passatemi il termine, mia madre, mio figlio che stanno lì, cioè nel senso persone che fino a qualche mese prima, fino a poco tempo prima vivevano una normalità, come la nostra normalità e che qualche cosa, qualche evento è successo e ha fatto scivolare. Forse la normalità della povertà è in questo senso, cioè tutti possiamo vivere questo tipo di esperienza. E adesso qualche esperienza diretta: ragiono in termini di imbuto, parto da dati dei centri di ascolto della Caritas per arrivare poi all’esperienza degli ambulatori, quindi di strutture dedicate alla salute della Caritas, per poi arrivare all’esperienza personale. Dati Caritas: dall’ultima rilevazione su 190.000 persone che sono andate nei centri di ascolto, quasi 1700 centri d’ascolto diffusi su tutta Italia, la maggioranza, in leggera maggioranza erano stranieri però con una diversificazione territoriale, se è al livello nazionale il 57% sono stranieri, se noi andiamo al sud in Campania in particolare, quasi il 67% sono italiani. Come vedete un’età abbastanza più giovane, rispetto ad un passato, disoccupati certamente con figli. Il principale motivo di richiesta di aiuto erano motivi economici, quindi effettivamente avere bisogno di risorse, dopo problemi lavorativi, problemi abitativi e poi anche esplicitamente problemi di salute. Il totale non da 100, perché ognuno poteva esprimere chiaramente più di un problema. Però tutti questi motivi riguardano la salute, questo lo dico da medico, ormai è chiaro, nel mondo sanitario, nel mondo medico come la salute non dipende dall’incontro con l’agente patogeno che va a produrre poi una malattia, o non dipende esclusivamente da comportamenti, ma dipende da tutta una serie di fattori i cosiddetti determinanti sociali di malattia. E quindi la povertà, la mancanza del lavoro, se vogliamo la mancanza di istruzione, non sentirsi parte integrante di una società e questo riguarda le persone più povere, ma riguarda anche gli immigrati, sono tutti fattori, (chiamati, con un termine forte) fattori di rischio per la salute e per le malattie. Se noi andiamo a vedere le persone che hanno accesso ai centri di ascolti che dicono di avere problemi sanitari vediamo che tra gli italiani al primo posto ci sono le malattie croniche, anche le malattie mentali, anzi sono proprio quelle più rappresentate come diceva don Carmine, è forse questa una delle situazioni più evidenti in fase di emergenza rispetto ad altre situazioni e poi delle richieste generiche. Tra gli immigrati invece vediamo che le situazioni sono un po’ diverse, sono le richieste generiche che sono al primo posto. Nelle richieste generiche spesso ci sono richieste per fare delle visite, ma spessissimo ci sono richieste di farmaci trasversali, chiaramente alle situazioni di patologie. Le risposte, quali sono state date, risposte soprattutto legate al risolvere i problemi acuti, quindi beni e servizi materiali, ma anche sussidi economici, un orientamento, l’obiettivo è sempre di reintegrare, reinserire le persone che hanno bisogno in quel processo che oggi si chiama di empowerment della persona in fase di bisogno e anche tutta una serie di interventi di sostegno alla sanità che sono significativi perché sono il 6,1% su 160.000 interventi quindi, il peso in una struttura non di tipo sanitario di richiesta di interventi sanitari è molto alta. Questo ha fatto sì che la Caritas ha disegnato una sorta di trend della povertà che in qualche modo si combina bene con quello che l’ISTAT aveva visto nel suo rapporto, un aumento dell’incidenza dei giovani che richiede aiuto, un aumento dell’utenza maschile in genere l’accudimento, anche l’accudimento in termini di richiesta nel tempo è stato prevalentemente femminile, adesso invece c’è una presenza marcata maschile, ormai sono al 50% gli accessi; prevalgono le classi centrali e aumenta l’incidenza di persone con figli o altri familiari, ma senza partner, sia femminile che maschile. Secondo step: ambulatori. La Caritas ha in giro per l’Italia una serie di ambulatori gestiti da volontari, in genere, che sono nati sostanzialmente non tanto per l’aiuto ai poveri italiani, in quanto i poveri italiani avevano come riscontro comunque un sistema universalistico. Sono nati essenzialmente come aiuto agli immigrati perché relativamente in un momento più recente gli immigrati hanno avuto il diritto d’accesso ai servizi sanitari, pur avendo noi una legge l’833 universalistica, di fatto quella legge non prevedeva l’accesso agli immigrati perché non c’era quella esperienza a suo tempo, nel ’78, negli anni ‘80. Quindi la rete di ambulatori della Caritas nasce sostanzialmente per gli immigrati, ma progressivamente a frequentare questi ambulatori sono sempre di più cittadini italiani, tanto è vero da quest’anno si è iniziata una riflessione su povertà e salute, non più immigrazione e salute. Gli ambiti su cui questi ambulatori lavorano sono sostanzialmente quattro: quello dell’assistenza, cioè rispondere concretamente ad un bisogno, quello dello studio, cioè capire dal di dentro il fenomeno, quello della formazione, cioè cercare di condividere ciò che si scopre in qualche modo e metterlo a sistema, e quella della advocacy, cioè non dare per carità quello che deve essere dato per giustizia. C’è un documento che è stato licenziato da Caritas italiana e qui forse l’unica cosa che mi premeva sottolineare, poi ci torneremo magari nelle conclusioni, come si riconosce nel sistema sanitario nazionale il ruolo assolutamente prioritario. Quindi nè delega né in qualche modo contrapposizione, ma una partecipazione forte all’interno del sistema sanitario che noi abbiamo definito come strumento democratico del diritto alla salute, cioè un sistema per tutti senza esclusione. E arriviamo al terzo step: l’ambulatorio, queste sono immagini di quotidianità dell’ambulatorio alla stazione Termini dove lavoro. E’ dal 1983 che c’è questo ambulatorio e questo è l’andamento dei nuovi pazienti: noi generalmente vediamo su 6-7000 pazienti l’anno, gli utenti, cioè coloro che accedono, sono molto molto di più, come vedete c’è stato dopo alcuni picchi, un declino del numero dei pazienti. In realtà questi qua sono i nuovi pazienti, se noi andiamo a vedere invece i vecchi pazienti c’è stato un parallelo aumento dei vecchi pazienti: cosa succede, che significa questo, che l’offerta che noi diamo è il massimo di quella che noi possiamo dare, cioè più 6000, 7000 persone non possiamo assistere. Ma nel tempo è cambiata la popolazione, è avvenuta quella si chiama in epidemiologia, una transizione epidemiologica, se fino a qualche anno fa tra gli immigrati erano presenti malattie acute, la popolazione italiana ha avuto questa transizione epidemiologica una quarantina di anni fa, da qualche tempo invece sono aumentate la malattie cronico degenerative. Ma devo dire che in questi nuovi pazienti, in queste curve di crescita dei nuovi pazienti sono sempre di più i cittadini italiani. Questo tanto per darvi dei numeri, proprio sono gli ultimi numeri che do, del tipo assistenziale e come noi tanti altri ambulatori della Caritas di primo livello, avete visto nell’immagine iniziale l’opera san Francesco, a Milano, che è un ambulatorio molto simile a quello della Caritas.
Tra l’altro non c’è tempo, se noi andiamo a vedere queste curve, le curve risentono, se vogliamo, da scelte politiche, non necessariamente in ambito sanitario, vedete c’è stato un momento, un crollo dei pazienti in ambulatorio in tutta Italia ed è stato il periodo del così detto “Pacchetto sicurezza” non so se ve lo ricordate, nel 2008-2009 dove ad un certo punto c’era stata la proposta di voler fare dei medici delle sorte di spie. Cioè se tu dovevi visitare un immigrato dovevi chiedere se aveva il permesso di soggiorno, se non lo aveva dovevi denunciarlo. Questa situazione fortunatamente non è diventata legge ma ha prodotto un crollo di accesso ai servizi. Tutto questo è legato ed arrivo all’ultimo step al discorso delle medicine, noi visitiamo, sono tanti i volontari che lo fanno, ma per curare servono chiaramente le medicine. In Italia ci sono tante medicine che spesso non sono più utilizzate, oppure ci sono degli esuberi, ecco il Banco Farmaceutico ha avuto una grande intuizione, di fare in modo che tutto questo entrasse nel sistema, cioè entrasse in una sorta di solidarietà trasversale. Le medicine sono tante quelle che ci servono, negli ultimi anni, non sono i numeri del Banco Farmaceutico certamente che riguarda, però sono numeri che sicuramente risentono dell’azione anche del Banco Farmaceutico. Come vedete in questi ultimi anni almeno 300-350.000 confezioni di medicine sono state, diciamo, rimesse in circolazione. E con questa diapositiva concludo però aggiungendo una cosa: noi certamente alle persone più povere diamo delle cose, offriamo la nostra capacità professionale, il nostro tentativo di essere in grado di creare delle relazioni, offriamo le visite mediche, le medicine, ma se c’è una cosa che noi offriamo, ma soprattutto riceviamo è proprio quel senso di umanità che in qualche modo richiamava prima don Carmine. Noi quotidianamente anche i volontari che in questo momento sono presenti, stanno lavorando, quotidianamente ricevono e danno dignità, e se io ho davanti a me il titolo del Meeting di quest’anno, cioè andare a individuare quello che ereditiamo dai nostri padri per riguadagnarcelo e per poterlo possedere, ecco forse, poi ne metterò un’altra di parole chiave, ma una delle parole chiave da prendere come eredità importante e farcela nostra e quindi restituirla è sicuramente quella della dignità. Grazie.

SERGIO DANIOTTI:
Grazie per la completezza e la chiarezza, i dati erano complessi da presentare, ma grazie veramente perché erano molto chiari. Ora do la parola a Enrique Hausermann che è il Presidente di Assogenerici, Assogenerici è l’associazione che raccoglie le aziende produttrici di generici, e ci porterà la sua esperienza e la sua testimonianza.

ENRIQUE HAUSERMANN:
Innanzitutto grazie dell’introduzione perché molti di voi non sanno chi sia Assogenerici, è l’associazione industriale che rappresenta le aziende produttrici di medicinali equivalenti, di biosimilari, vale a dire i prodotti di cui è scaduto il brevetto. Perché siamo qui? Primo perché vogliamo portare la nostra testimonianza per quello che facciamo, abbiamo fatto e potremo soprattutto fare. Secondo perché la collaborazione con il Banco Farmaceutico, non mi ricordo più da quanto duri, io sono venuto qui parecchie volte e gli ultimi due anni per altri motivi non sono venuto, ma sicuramente siamo stati sempre presenti a questo Meeting. Sempre presenti a questo Meeting perché crediamo nell’azione del Banco Farmaceutico, quello che ha fatto e quello che potremmo fare di più e vedremo poi nel corso di ciò che andrò a raccontare. Il problema della povertà sanitaria è una realtà tristemente nota e ben documentata anche dal video che abbiamo visto prima, e rimbalza continuamente sui tavoli della politica sia italiana che internazionale con dati che diventano ogni giorni più drammatici e più allarmanti, soprattutto dopo la crisi economica che ci stiamo, speriamo, che oggi è alle nostre spalle. Recentemente il Banco Farmaceutico ha pubblicato un certo numero di dati che sono quanto mai interessanti da un lato, preoccupanti dall’altro, ma sono anche uno stimolo a fare di più. Cioè, nel 2016 nell’arco solare, abbiamo Banco Farmaceutico non noi, ha distribuito 1.800.000 confezioni di farmaci per un valore di circa 15 milioni di euro. Può sembrare tanto, può sembrare poco, sicuramente è troppo poco, perché voi capite che 15 milioni di euro e 1.800.000 confezioni sono poca cosa. Però è un qualche cosa che stiamo mandando avanti e la progressione è estremamente interessante perché la compartecipazione da un lato, e soprattutto importante perché questo come argomento sociale, perché non dimentichiamo una grossa parte dei farmaci vengono donati dalla popolazione, andando in farmacia e comprando un determinato numero di confezioni che poi verranno devolute al banco. Dall’altra parte ci sono le aziende che hanno contribuito in questi anni donando sempre di più dei prodotti che sono destinati al Banco, ma anche che sono stati destinati a emergenze internazionali come quella della carenza di farmaci in Grecia e mi pare di poter dire, di alcune settimane fa, quando un signore che è qui mi ha chiamato: “senti, c’è un problema in Afghanistan, vedete di darci una mano” qualcosa è stato fatto, non so il risultato, poi un giorno me lo dirai, che cosa abbiamo raccolto per un ospedale pediatrico in Afghanistan, l’aereo è partito ieri. Ecco, l’industria, è qui indipendentemente dal colore, noi abbiamo dei cugini che sono quelli grossi che sono quelli che appartengono a Farmindustria e sono molto più potenti di noi, noi siamo una più piccola realtà, ma siamo sempre nel campo dell’industria farmaceutica. Comunque l’industria quando viene chiamata e Sergio Daniotti potrà testimoniarlo, quando veniamo chiamati noi reagiamo prontamente. Però questo non è sufficiente, non sono sufficienti il 1.800.000 di confezioni ecc. perché? Perché noi dobbiamo tenere conto della realtà italiana internazionale dove la fragilità degli ultimi è sempre di più, come abbiamo visto dai numeri che ci sono stati presentati, è sempre più in aumento. Noi essendo uomini di azienda uomini di industria siamo abbastanza pratici e quindi che cosa possiamo fare? Adesso io non voglio togliere la parola alla signora che mi sta accanto, però voglio dire una cosa: ha fatto un’operazione, ha condotto a termine un’operazione eccezionale, perché ha portato a temine la legge anti spreco, in modo tale da permettere ad una serie di organizzazioni Onlus, ecc, di poter destinare a chi ne ha bisogno alimenti e farmaci. Devo dire che sono particolarmente felice, orgoglioso, scusate il termine, di essere qui accanto a lei perché ci abbiamo messo anni, Grannich, che è qui davanti, quanti anni fa ho detto che bisogna cercare di portare i farmaci agli enti di carità, alle Onlus perché possano essere distribuiti? Adesso io mi auguro e poi spero che ci darà qualcosa di positivo per quanto riguarda almeno i decreti attuativi. Per quanto riguarda i decreti attuativi che, secondo me, possono essere sintetizzati in modo molto semplice per quanto ci riguarda, si tratta di mettere a disposizione di questi enti di questa organizzazione una persona qualificata, che abbia la qualifica, quindi mi rivolgo nella fattispecie ai due signori che sono seduti laggiù, che sono i farmacisti. I farmacisti dovrebbero farsi carico, Federfarm, non i farmacisti, di allocare in modo ex temporaneo, non continuativo, una, due, tre volte alla settimana preso queste organizzazioni, un farmacista, magari anche che è andato in pensione o che voglia fare del volontariato, in modo tale che possa: primo: procedere alla presa in carico del farmaco, perché non lo posso fare io, non lo possiamo fare noi normalmente; secondo: la gestione, dove deve essere conservato, come perché ecc, e terzo per la dispensazione. Se noi riusciamo, riuscissimo a chiudere questo cerchio direi che l’80% dei problemi delle Onlus è risolto, perché è solo lì, poi qualcun altro può smentirmi, ma dalla mia esperienza e da quello che mi è stato raccontato dagli amici del Banco Farmaceutico ci si incaglia sempre lì. Cioè noi aziende farmaceutiche, finchè siamo ai farmaci da banco il problema non sussiste, ma se dovessimo dare un semplice antibiotico, che se uno di noi, andiamo in farmacia ce lo da senza ricetta, questo non si può dire, ma lo dico, però se riusciamo a mettere nella farmacia un farmacista tutto questo, quindi le aziende riusciranno a veicolare i farmaci più importanti, più significativi e che curano soprattutto le patologie più interessanti, più gravi, dove chi non ha accesso alle cure molto spesso non ci arriva. Veniamo ad altre considerazioni molto molto molto pratiche: è stato citato il titolo V, dal 2001 la sanità italiana non è più unica ma è divisa in 22 stati, cioè ci sono 22 popolazioni diverse che afferiscono e possono godere di una sanità diversa una dall’altra, alcune migliori, alcune peggiori. E questo non è costituzionalmente accettabile: cioè i cittadini italiani mi pare nei primi capitoli della Costituzione sono tuti uguali, ma evidentemente il titolo V ha buttato all’aria questa uguaglianza, uguaglianza che francamente non è accettabile anche perché non si capisce perché i vari cittadini non possano avere accesso alle stesse cure, agli stessi farmaci, indipendentemente dalla regione a cui appartengono. Quindi questo è un problema grosso: c’è stata la volontà politica di mettere mano, ma ci sta girando intorno e sicuramente io almeno, la soluzione non la vedo nei prossimi anni. Ci sono altre considerazioni che abbiamo fatto a livello industriale, come proposta industriale al tavolo della Farmaceutica, è quella di creare delle fasce di reddito per cui sotto una soglia i tickets quanto meno non si pagano. Perché se immaginate, se noi dovessimo togliere i tickets, la popolazione che ha un reddito al di sotto di euro x, ha l’accesso gratuito a tutti i farmaci. Oggi questo non è, perché in alcune regioni bisogna pagare i tickets, ci sono delle limitazioni ecc. quindi questa è un’altra proposta che alla politica io ribadisco, ribadirei perché noi non possiamo tollerare che ci siano delle fasce, come abbiamo visto, di poloazione che sono in povertà e che non riescono a curarsi. Questo ripeto non è neanche ammissibile in uno stato che dichiari di avere una sanità universalistica, questa è una contraddizione in termini o la dai a tutti gratuitamente o non la dai. Evidentemente bisogna fare dei distinguo per questioni puramente di censo. Poi c’è un’altra considerazione che mi sorge soprattutto per quanto riguarda i pazienti anziani ed è quella della reperibilità e disponibilità dei farmaci. In alcune regioni, alcune province si è instaurato un sistema per cui l’anziano non può andare farmacia a prendersi il farmaco che il medico gli ha prescritto; devo andare all’Asl, molto spesso deve fare dei km, adesso non ricordo ma in regione ci sono stati dei casi emblematici, l’anno scorso mi pare qui in Romagna, dove ci sono state distorsioni molto molto molto pesanti, per cui un disagio enorme, in alcune regioni, ripeto, dove questo è accaduto. Cioè io sono del comparto industriale non faccio parte di Federfarm però ritengo che tutti i farmaci a disposizione degli italiani debbano rientrare nella farmacia, perché la farmacia come da sempre vediamo, è il primo presidio per quanto riguarda la risposta alla salute e quindi dovrebbero anche qui, tutte, non bisogna permettere che i cittadini debbano recarsi a destra, a sinistra per prendere dei farmaci di cui hanno il diritto. Quindi cerchiamo di ribadire questo e sempre mi rivolgo alla gentile signora che è accanto a me che si faccia carico di questa istanza. C’è un’altra signora laggiù che so di Federfarm a Torino.

SERGIO DANIOTTI:
Grazie, grazie Enrique. E ora do la parola, l’ha già introdotta Hasermann all’onorevole Maria Chiara Gadda che è deputata al parlamento italiano: è promotrice della legge che porta il suo nome. Io la riscriverei per l’utilizzo delle eccedenze alimentari e farmaceutiche perché è fisiologico che ci siano delle eccedenze che non devono essere sprecate, ma è fisiologico che ci siano le eccedenze. È anche segretaria della Commissione di inchiesta sull’immigrazione e quindi siamo felici di averla con noi. Prego.

MARIA CHIARA GADDA:
Buongiorno . Io sono felice di partecipare per la seconda volta a un confronto, a un dibattito al Meeting di Rimini. Come è successo l’anno scorso per rappresentare questa iniziativa mi ha creato una qualche riflessione: la frase che tutti noi possiamo leggere: Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo per possederlo, Beh, intanto questa è una frase importante, perché significa intanto che c’è una consapevolezza di avere un’eredità e non sempre la nostra società, soprattutto negli anni in cui si pensava che si potesse consumare in modo illimitato forse, questa riflessione non l’abbiamo fatta a sufficienza. Riguadagnare significa assumersi una responsabilità e possedere significa non essere padroni. Non essere padroni significa possedere avendone appunto la consapevolezza e avere la consapevolezza del dover condividere. La legge 166 rientra in questo filone di pensiero, così come credo anche l’epoca storica in cui viviamo a cui certe volte si dà un’accezione negativa. Io credo che ciascuno di noi deve vivere nell’epoca storica in cui si trova a vivere. Probabilmente dobbiamo iniziare ad aprire una riflessione. Noi per tanti anni abbiamo pensato, abbiamo chiamato crisi quello che è successo dal 2007 in poi. Probabilmente quella parola nasconde qualcosa, nasconde un modello sociale, economico che ha iniziato a mostrare le sue criticità. Questo non significa però che nello stesso tempo questa società che ha vissuto e sta vivendo ancora gli effetti della crisi non abbia una voglia di condivisione. Se proprio ci pensiamo bene: i ragazzi presenti in sala mi comprenderanno forse di più , adesso userò qualche parola in inglese e poi ritornerò all’italiano, questa è la società della sharing economy, la società della condivisione. Si condivide tutto, si condividono gli alberghi, le macchine, le postazioni di lavoro, le modalità con cui si raccolgo i fondi anche per iniziative meritevoli. Questa è una società che ha bisogno della condivisione, che ha scoperto attraverso la condivisione forse un’anima e delle radice che aveva forse perso. E la condivisione si basa su due concetti a mio parere: sul concetto della fiducia e sul concetto della responsabilità. Non si può condividere se non si ha fiducia dell’altro. In questo senso credo che il titolo dello scorso anno del Meeting “Tu sei un bene per me”, rientri in un percorso interessante che in questa manifestazione si sta percorrendo e che riconosce i cambiamenti e i mutamenti che la nostra società sta avendo. E anche responsabilità è una parola importante. Ed è il cuore, assieme alla parola dono, della legge 166, la legge così chiamata anti sprechi: un nome che, devo dire, a me proprio non piace, ma è un nome che si comunica facilmente. Cercherò di spiegarvi perché a me proprio non piace questo nome, perché dobbiamo anche cambiare approccio culturale da questo punto di vista. L’impianto della legge 166, il cuore della legge 166 è la parola dono: il dono è uno scambio, lo è, ci sono tanti volontari in questa sala, ma è uno scambio che non parte da un concetto di utilità. Nell’enciclica di papa Francesco Laudato sii, si dà una spiegazione al tema dello spreco. Si dice, tutto sommato, che alla base dello spreco esiste un rapporto, di utilità tra l’uomo e le cose e anche talvolta tra gli uomini. Questo rapporto di utilità non va bene, non funziona. E il dono si basa su prodotti, su beni, non sui rifiuti ed è questo uno dei motivi per cui la parola sprechi non mi piace, si basa su beni che non hanno un valore legato al prezzo, ma hanno un valore legato a qualcosa di più, hanno un valore legato al senso di comunità, legato alla relazione. Io vi invito finito questo dibattito a visitare lo stand del Banco farmaceutico e soprattutto ad ascoltare alcuni video che io ho avuto occasione e modo di ascoltare prima di partecipare a questo dibattito. In quei due video si dicono delle cose interessanti, parlano due persone diverse. Intanto si pongono degli interrogativi: interrogativo tra il fare e l’essere. Questo momento di discussione questo dibattito è importante per tutti, soprattutto per chi fa attività di volontariato, soprattutto anche per il mondo delle imprese sensibili su questi temi per capire che all’interno dell’operatività, all’interno della pratica ogni tanto ci si deve fermare per capire cosa si sta facendo, in che direzione stiamo andando. Perché quando si parla di questi temi, l’aspetto quantitativo non è quello più rilevante. L’aspetto più rilevante è il come si fa volontariato, perché un’azienda dovrebbe all’interno delle sue politiche aziendali concepire il tema della donazione. E il valore si fonda appunto su quelle cose, su quelle parole semplici che in quei video sono presenti. Il dono presuppone una relazione, presuppone senso di comunità, presuppone un sistema di welfare diverso. Le associazioni di volontariato non rispondono a mio parere al soddisfacimento di un bisogno fisiologico o materiale anche attraverso la distribuzione, la somministrazione di beni materiali si dà una risposta alla povertà farmaceutica, alla povertà alimentare, ma si fa una cosa più grande. Si offre una relazione e soprattutto questa legge in questi 4 anni di lavoro è stato un percorso molto interessante, a me ha fatto comprendere che molto spesso osserviamo le parole in modo banale. E’ stato detto prima: la parola povertà ha tante sfaccettature, ha tanti punti di contatto, punti di contatto che in questa legislatura abbiamo provato a mettere insieme. C’è la legge 166, la cosiddetta legge antisprechi, ma in questa legislatura un po’ strana, un po’ dagli alti e bassi, sono stati messi in campo e sono stati approvati dei provvedimenti di cui si è parlato troppo poco e che hanno un nesso tra loro. Parlare di riforma del terzo settore, parlare di delega sulla povertà, parlare di reddito di inclusione sociale. Questo è competenza del governo. Ma se mettiamo l’attenzione anche sui provvedimenti di iniziativa parlamentare, la legge sul dopo e durante di noi, la legge 166 antisprechi, la legge sull’agricoltura sociale, io vi invito a pensare che esiste un nesso tra tutti questi provvedimenti, hanno delle parole chiave comune. Ambiti di applicazioni diversi ma hanno in comune la cura, l’attenzione particolare, noi abbiamo bisogno di servizi universali, universalistici, ma anche di un’attenzione al singolo, al bisogno singolo, proprio perché le forme di povertà sono differenti. Dietro la povertà alimentare, la povertà sanitaria esistono tanti altri tipi di povertà. Prima di tutto la povertà legata all’emarginazione, alla solitudine e qui il ruolo del terzo settore è fondamentale, per rispondere anche a questo tipo di necessità. La povertà alimentare non è scollegata alla povertà sanitaria, perché non avere accesso e ci sono moltissimi minori, anche nel nostro paese che non hanno accesso a una dieta sana ed equilibrata nemmeno la colazione, questo non consente di poter sviluppare la propria dignità così come gli altri ragazzi. Allo stesso modo il tema della cura e della dignità si pone nelle politiche che riguardano la cura del territorio, che riguardano l’attenzione nei confronti delle periferie. E’ un tutt’uno che si mette assieme, è un tutt’uno che ha un senso e che ha avuto un senso in questa legislatura e che forse dovremmo imparare a spiegare un po’ di più. E quindi la legge 166 che è entrata in vigore il 14 settembre 2016, quindi tra pochi giorni ne festeggeremo il compleanno, ha un’ambizione. Intanto non creare un fatto sociale, il banco farmaceutico, il banco alimentare, le Caritas esistono da decenni, esistono da ben prima e indipendentemente dalla legge 166 ed è proprio questo il senso della legge 166 e forse il senso che la politica dovrebbe dare alla sua ragione d’essere. Osservare quello che esiste nella società e provare a guidarlo. Provare a mettere i diversi soggetti coinvolti nelle condizioni di poter operare per rispondere a un bisogno sociale, ciascuno ha la propria responsabilità: la politica ne ha molte, in tema sanitario è chiaro, la politica e i diversi livelli istituzionali devono essere in grado di garantire in modo omogeneo, in modo universalistico l’accesso alle cure, perché questo attiene anche alla dignità della persona. Ma esiste un principio non tanto di delega, perché la politica non deve fare lo scaricabarile, ne abbiamo discusso prima, chiacchierando prima di questo evento, ma esiste appunto un principio di responsabilità assegnare alla parola sussidiarietà il suo senso vero, per rispondere a un bisogno sociale è necessario creare un walfare di comunità dove i diversi soggetti che hanno una responsabilità istituzioni, enti locali, mondo del terzo settore, imprese, questa responsabilità se la assumono e il grado e il senso della politica è riconoscere questo e provare a mettere nelle condizioni. La legge 166 fa questo: prova a restituire un quadro di regole omogeneo e a rendere più semplice la vita di chi poi decide all’interno delle proprie politiche aziendali e all’interno della propria attività di ente del terzo settore di poterlo fare meglio, di poterlo fare con maggiore professionalità. Proviamo a cogliere anche la sfida che sta dietro la legge 166, ma soprattutto anche alla riforma del terzo settore. Ogni tanto serve mettersi in discussione, perché il bene, qualcuno mi ha detto una volta, deve essere fatto bene, deve essere fatto in modo professionale, deve essere fatto in un modo strutturato, in sinergia. E l’obiettivo della legge 166 è questo. E le leggi non sono immutabili, le leggi vivono, soprattutto quando hanno un’anima e io credo che le leggi hanno un’anima se la si vuole guardare in questo modo, le leggi vivono se continuano ad avere un continuo contatto con la realtà, se vengono messe in pratica. Il 14 settembre sarà un anno dall’entrata in vigore della legge . Non è stata irrilevante questa legge, si sono messe in campo iniziative nuove, si è creata un’attenzione anche nel mondo delle imprese. Abbiamo messo in campo progetti e iniziative che prima non esistevano e questo è importante per quanto riguarda il tema della donazione dei farmaci ci serve la chiusura del cerchio, ci serve proprio quel decreto attuativo che è stato citato e che deve appunto mettere nelle condizioni le imprese da un lato e le associazioni di volontariato dall’altro di poter assumersi la propria responsabilità con trasparenza e soprattutto con tranquillità, perché quando le regole sono chiare, quando la burocrazia viene tolta, io credo che l’iniziativa privata nel momento in cui si lavorava dal punto di vista culturale viene da sé e per rispondere appunto a quel bisogno sociale sono in grado di rispondere anche altri soggetti che fanno parte di questa comunità. E quindi quel decreto dovrà avere a mio parere soprattutto, credo nel parere delle associazioni di volontariato e delle imprese che hanno contribuito alla scrittura della legge a, alcuni requisiti fondamentali. Beh intanto rispettare l’impianto della legge, la legge 166 si basa sull’impianto di una legge e che aveva un nome molto evocativo, la legge del buon samaritano, la legge 155 del 2003, quella legge epocale aveva fatto una cosa molto intelligente. Aveva inserito nel mondo del volontariato il criterio di proporzionalità. Non puoi chiedere, non devi chiedere all’associazione di volontariato di rispettare gli stessi requisiti, gli stessi carichi burocratici che si richiede a chi fa quella come attività di impresa. Quindi questo criterio di proporzionalità, tenendo garanzie di tracciabilità, di correttezza e di idoneità nella gestione delle eccedenze è importante ed è fondamentale. Quindi noi nei prossimi mesi e questo è un impegno che il parlamento ha assunto e credo, poi ascolteremo il sottosegretario Faraone, che questo impegno lo potrà assumere anche il governo, abbiamo diversi appuntamenti. Portare a termine il decreto attuativo della legge 166, ma soprattutto tenere questo cantiere aperto. Abbiamo la legge di bilancio, abbiamo i decreti corretti del terzo settore, quindi, l’interlocuzione che abbiamo avviato in questi mesi deve continuamente continuare, ma deve continuare nella filosofia e nell’approccio che abbiamo avuto, non chiedersi soltanto quanto abbiamo recuperato di più. Questa è una domanda che sono sicura, non so se c’è qualche giornalista in sala, sono sicura che il 14 settembre mi faranno. Quanto si è raccolto in più da un anno dall’entrata in vigore della legge. Ecco proviamo a farci altre domande, ciascuno di noi nel nostro approccio in confronti delle cose, ma anche nella gestione di queste attività. Perché e come. L’importante è il come. E la legge 166 prova a rimettere in carreggiata, prova a mettere a sistema le esperienze migliori che il nostro paese ha avuto. Mi dicono questa essere la prima legge al mondo organica, che include la donazione dei farmaci, la donazione del cibo e dei prodotti diversi. Questo è importante perché appunto è legato a quel concetto di povertà a quel concetto di soddisfacimento di quel bisogno che è fondamentale. Quindi io vi ringrazio per questa opportunità perché questa legge l’ho pensata, l’ho proposta ma credo che oggi si possa dire che questa legge porta la firma e il nome di tutti coloro che hanno contribuito a scriverla parola per parola e soprattutto che la concretizzano ogni giorno nella loro attività di volontariato. Perché questa legge senza la scelta volontaria dei cittadini, dei pensionati, dei ragazzi che si mettono a disposizione, senza la scelta volontaria di imprese che all’interno delle loro politiche aziendali decidono di inserire la donazione all’interno delle loro politiche, questa legge semplicemente non si applica e quindi credo che appunto sia una occasione importante dove la politica ma anche la società in senso lato si è assunta una responsabilità.

SERGIO DANIOTTI:
Grazie, ora darei la parola al Sottosegretario al ministero della salute, Davide Faraone, che dovrebbe essere collegato per telefono.

DAVIDE FARAONE:
[…]

SERGIO DANIOTTI:
Scusa, Davide, mi senti? Purtroppo la qualità dell’audio che riceviamo è a dir poco pessima, quindi si capisce a tratti e abbiamo capito a grandi linee, ma poco. Siccome poi il tempo stringe anche e vedo che molte persone poi se ne vanno perché non si capisce, non sentono, c’è una domanda che a me e credo a tutti sta un po’ a cuore e che è questa sui decreti della legge 166, cioè dal punto di vista governativo qual è l’impegno?

DAVIDE FARAONE:
[…]

SERGIO DANIOTTI:
Bene, bene. Ci auguriamo che nei prossimi mesi escano i decreti. Adesso avremmo un quarto d’ora, credo, per fare un secondo giro di brevissimi interventi e darei la parola ancora a Mons. Carmine Arice.

CARMINE ARICE:
Vorrei condividere con voi alcuni pensieri che mi sono venuti ascoltando le varie relazioni e partendo da quello che invece è stata la mia riflessione non di oggi, ma di questi giorni su questi temi. Intanto, richiamare a me e a voi che quando parliamo di 12 milioni di persone che non accedono più alle cure perché in qualche modo non possono permettersele o per un motivo o per l’altro, si sta parlando di una situazione per la quale la situazione andrà a peggiorarsi ulteriormente, cioè la domanda di spesa sanitaria non diminuirà perché queste 12 milioni di persone non vi accedono, ma peggiorerà. E allora l’impressione che ho è che noi facciamo diventare la nostra riflessione molto su questioni di principio, ma molto poco su alcune scelte molto concrete e di fatto. Sono 12 milioni di famiglie, sono 12 milioni di storie e quella domanda: “Chi è tuo fratello? Dove sta tuo fratello?” è una domanda che mi sta particolarmente a cuore. Seconda cosa, io giro l’Italia da Nord a Sud in continuazione, mi trovo in dibattiti del genere, tutti parlano di questa benedetta riforma del Titolo V che non ha soddisfatto, non è piaciuto e nessuno si muove a far qualcosa. Ma è proprio vero che poi tutti questi amici anche che ruotano attorno alla politica condannano questa riforma del Titolo V perché ha creato ventidue sanità in Italia? Provate al Sud ad avere una peritonite, può essere veramente pericoloso. Io spero che non mi venga, ma se mi dovesse venire che stia a fare una conferenza a Milano. Però, capite, io continuo a sentire questo ripetere e non devo dire solo dalle sinistre, anche dal centro e da destra. Quindi una riflessione su questa questione del Titolo V della Costituzione, ci ha detto prima il sottosegretario che i LEA hanno voluto un attimino correggere questa questione però. E una terza riflessione mi va in questo senso e concludo: un’applicazione a mio parere in questo contesto del principio di sussidiarietà reale e sto pensando in questo momento alle istituzioni religiose che sono diffuse sul territorio, sono diffuse capillarmente sul territorio e noi a oggi abbiamo trecento ospedali chiamiamoli così cattolici o di ispirazione cristiana. Ma se noi andiamo a prendere un censimento che abbiamo fatto con Caritas italiana sui servizi sanitari e socio-assistenziali in Italia di ispirazione cristiana, fra ambulatori, eccetera arriviamo a migliaia e migliaia di servizi censiti. Allora, anche da questo punto di vista qui, l’applicazione del principio di sussidiarietà significa possibilità di vivere nella giustizia, nella verità per tutte queste presenze. E così non è: si interpreta più che altro come una supplenza più che come una possibilità di alimentare e favorire l’iniziativa per il bene comune di ciascuno. Questo è un altro tema molto importante, molto serio che a mio parere va affrontato, ed è infine concludo come ho iniziato non dimentichiamoci, se c’è una cosa che mi ha sempre benevolmente impressionato di Giussani è la sua insistenza al tema dell’incarnazione, la sua insistenza al tema delle opere, la caritativa che devono fare i membri del movimento per dare carne al Vangelo significa che mentre parliamo per favore almeno su quei malcapitati in cui inciampiamo perché non è possibile che a Roma si continuino ad avere anziani che sono morti da parecchi giorni e che non si sa che sono morti. Non è possibile continuare ad avere persone che vivono nell’indigenza massima e che non hanno risposte altro che salute per tutti, non solo talvolta da quelli che sono i servizi sociali ma dalla stessa comunità cristiana.

SALVATORE GERACI:
Io in realtà ho poco da aggiungere rispetto a quello che è stato detto ma siccome ho portato delle diapositive ve le faccio vedere, che riassumono un po’ i temi. Quali risposte era la domanda di questa tavola rotonda; va ben, un impegno attivo nei confronti della povertà, politiche di welfare. A questo devo dire che l’onorevole Gadda ha risposto molto, molto bene, ha dato un quadro sicuramente in quella logica di stato sociale o welfare generativo. Devo dire che però ancora tante cose, forse troppe ci sono ancora da fare. Quindi, l’orientamento mi sembra assolutamente corretto e anche molto concreto su quello che è stato fatto, ma ci sono ancora altri ambiti di intervento. Più ambiti di intervento però ci sono in ambito sanitario. Io purtroppo non sono riuscito a seguire – non per mia volontà – quello che ha detto il Sottosegretario, ogni tanto captavo delle parole e mi sembravano diciamo assonanti rispetto a quello che volevo dire, però non sono riuscito a capire. Però certamente il servizio sanitario nazionale deve aumentare il proprio impegno contro le disuguaglianze che è il vero punto critico che noi adesso abbiamo. Le disuguaglianze sono delle differenze non necessarie ed evitabili e quindi sono ingiuste. Perché una persona che nasce in un posto deve avere più rischi rispetto ad un’altra persona che nasce in un altro posto in Italia? Perché un bambino che nasce al Sud deve avere il rischio che ne so di diventare obeso di più rispetto che ne so ad un altro bambino che nasce da un’altra parte? Ecco, queste sono delle disuguaglianze e su queste bisogna fare degli interventi attivi, non semplicemente delle situazioni di normale politica. E quindi interventi sull’accesso, sull’antidiscriminazione e sull’equità. Anche lì l’equità ha un termine preciso: equità non è distribuire tutto a tutti allo stesso modo, ma è dare a tutti pari opportunità, cioè significa garantire forse delle cose in più per chi è più debole, allocare più risorse laddove ci sono situazioni di discriminazione e soprattutto di disuguaglianza. Il tema della governance nazionale è stato detto più volte, quindi anch’io c’ho lo stesso interrogativo che ha detto don Carmine, devo dire che qualche occasione per cercare di fare qualche modifica è già stata fatta, ma poi non è andata a buon fine e però ad esempio, cioè per essere molto concreti c’è una riforma delle politiche dei ticket che veramente è da fare, in questo momento abbiamo delle leggi contradditorie. Il Jobs Act ha tolto la distinzione tra inoccupati e disoccupati, le politiche di ticket sono basate sulla distinzione tra inoccupati e disoccupati, e questo significa che centinaia di migliaia di persone sono escluse dall’accesso ai servizi, in particolare situazioni più fragili, cioè quella categoria che abbiamo visto all’inizio: i giovani, i disoccupati o che magari hanno lavoretti piccoli eccetera eccetera che però non riescono ad accedere. Infine, non va avanti scusate, l’ultima diapositiva non compare, comunque sostanzialmente era tutto il tema della sussidiarietà che già è stato declinato per cui non entro troppo nel merito. A me piace pensare, per quello che è del nostro settore, cioè quindi dell’intervento nelle persone più fragili, a volte della povertà estrema, di creare e valorizzare quello che ho chiamato un sistema recettoriale di prossimità. Le Caritas o altre strutture, le stesse cappellanie che stanno dentro gli ospedali di fatto sono dei ricettori e sono delle terminazioni che sono in grado di recepire in termini anche abbastanza precoci situazioni di sofferenza e di disagio, perché sono prossimi, sono proprio vicini, attaccati, li incontrano, c’è quella relazione che è tipica del volontariato che ci dava l’onorevole Gadda. Bene, secondo me la valorizzazione, la messa a sistema che non significa un governo strutturato, ma deve essere chiaramente della parte della flessibilità e questo non so fino a che punto la riforma del terzo settore riesce ad entrare. Probabilmente potenzialmente può, però è da sistemare in alcuni passaggi, sicuramente questo può farlo, ma non solo in termini di servizi, cioè non solo in termini di azione, ma anche in termini di proposte, se vogliamo anche in termine che per me è altro, in termine di politica; quindi, nella logica della programmazione, della partecipazione, si parlava dei decreti attuativi, avevamo cominciato a fare un lavoro per dare il nostro contributo che può essere anche nel fare sì che un decreto attuativo potesse essere realmente efficace poi nella quotidianità del lavoro di ciascuno di noi, ecco in questo senso, ma mi sembra che c’è questa sensibilità anche nel come è stata costruita la legge. E infine l’ultima diapositiva che non è altro che quello che ha già, è stato detto da don Carmine, eccolo qua, nella citazione che lui più volte ha fatto, sempre tornando in quelle cose che noi ereditiamo dai nostri padri che dobbiamo riguadagnarlo, per possederlo, per donarlo, per condividerlo, abbiamo detto dignità prima, poi è stato detto condivisione, è stata detta fiducia e io aggiungerei un’altra parola che è la corresponsabilità, noi siamo responsabili di nostro fratello. Grazie.

ENRIQUE HAUSERMANN:
Solo una precisazione per evitare ipocrisie da un lato e che una volta per tutte almeno in questo contesto si capisca una cosa: per quanto riguarda la riforma del Titolo V, la riforma del Titolo V è stata bocciata con il referendum. Con il se non si risolve un tubo, però oggi non staremmo a parlare che in una regione si sta meglio, in quell’latra si sta peggio. Poco fa ho detto che io la riforma non la vedrò, anche perché il Titolo V è stato introdotto nel 2001, sono passati quindici anni nel 2016, se tanto mi dà tanto ci vogliono altri quindici anni perché se ne riparli. Quindi, abbiate pazienza e fiducia.

SERGIO DANIOTTI:
Se il Sottosegretario è ancora collegato… Mi dicono che… Se vuoi reintervenire e dire qualcosa, un altro piccolo contributo, prego. Se vuoi reintervenire… Direi, per il momento non è possibile, io ridarei la parola all’onorevole Gadda.

MARIA CHIARA GADDA:
Mi spetta un po’ l’opportunità di chiudere e fare alcune considerazioni che mi porto a casa come obiettivo, come percorso da intraprendere. Io credo che ciascuno di noi secondo la sua specifica responsabilità deve porsi due obiettivi, il primo è quello di governare la contingenza perché la povertà e i bisogni esistono oggi, non domani, la povertà è nelle nostre città e il contenuto del dibattito di oggi ci ha detto questo, però noi abbiamo un altro dovere, quello di guardare alla prospettiva, lavorare dal punto di vista culturale. Parlare di spreco e parlare di eccedenza è un concetto culturale differente, gestire l’eccedenza significa assegnare ai prodotti recuperati e redistribuiti un valore e un concetto di bene, non di rifiuto, non di attività residuale e significa anche lavorare dal punto di vista educativo. Perché non mi piace chiamare questa legge “legge anti spreco”? Perché nessuno decide di essere uno sprecone. Talvolta l’eccedenza è fisiologica, la si deve gestire. Talvolta si genera spreco, perché ciascuno di noi come cittadino singolo, come cittadino aggregato nelle forme di impresa e persino nel mondo del terzo settore non ha le informazioni corrette perché non si è creata una consapevolezza e una cultura condivisa; non sprecare è un percorso continuo, che si deve fare dalle giovani generazioni ma questo non significa che anche chi ha un’età più avanzata oggi non sprechi. Quindi significa riassegnare valore alle cose e inserirle in un processo di normalità, perché altrimenti si rischia che questi temi siano per addetti ai lavori o per chi si può permettere di non sprecare, di fare politiche anti spreco. Invece deve diventare parte del nostro DNA: ciascuno di noi ha una responsabilità e – per quanto riguarda gli obiettivi importanti e strategici che credo la politica si debba porre – noi dobbiamo anche metterci nella condizione che partendo dalla consapevolezza di che cosa è la povertà – definire il quadro è fondamentale per trovare le misure corrette – ecco noi non dobbiamo rassegnarci ad osservare la povertà; le politiche che sono state messe in campo ma che devono essere messe in campo con maggiore vigore, devono puntare all’autonomia della persona, all’uscita da quella condizione di povertà e quindi quando si parla di servizi, si deve parlare di servizi integrati alla persona, di un modello di welfare differente; si deve parlare non tanto e non solo di erogazione di denaro ma proprio di un’attenzione, una cura alla persona differente. Quindi, credo che gli obiettivi che ciascuno di noi ha per la propria agenda personale e per la propria agenda politica siano tanti, ma non è irrilevante aver definito un quadro normativo. Quando esiste un quadro di regole precise, certe, omogenee, questo vale per la delega sul terzo settore, per le misure legate al contrasto, alla povertà, ciascuno si può inserire in un percorso virtuoso. Quando non ci sono le regole, quando non c’è un quadro omogeneo, è difficile incanalare. Credo che un percorso è stato avviato ma, come capita nella vita e come deve capitare nella Politica con la P maiuscola, perché la politica – mi consento di dirlo – per me ha un senso, ed ha un senso elevatissimo, la Politica serve per dare le risposte alle persone, non per prender consapevolezza di quello che esiste e rassegnarsi all’esistente. Quindi credo che il percorso da fare è tanto, ma ogni tanto qualche punta di orgoglio sul percorso avviato debba essere fatta. Chiudo quindi con un grazie, l’ho detto prima, ma voglio ribadirlo ancora: questa legge, così come i tanti altri provvedimenti che ho citato, sono possibili nel momento in cui la società civile, le imprese, le istituzioni, il mondo del terzo settore ricominciamo a parlarsi, a mettersi in discussione, a mettere in comune buone pratiche. Quando abbiamo iniziato a discutere la legge 166, se ognuno avesse messo sul tavolo soltanto le proprie questioni di interesse, noi questa legge non l’avremmo mai portata a termine; l’abbiamo portata a termine perché si è messo in comune un percorso, un obiettivo comune e quindi credo che si debba continuare così e vi ringrazio.

SERGIO DANIOTTI:
Io ringrazio tutti i relatori perché hanno partecipato. Io mi porto a casa alcune cose molto importanti. Credo che qui presenti ci siano molti volontari del Banco Farmaceutico e credo per tutti noi che siano importanti alcune riflessioni che abbiamo sentito. Questa domanda innanzitutto io la metto al personale per me; dov’è mio fratello? Chi è mio fratello? Dovremmo chiedercelo, dovrei chiedermelo ogni mattina e ogni sera. E a questo proposito, don Carmine accennava anche al tema di alcuni paesi in cui la povertà è ben più alta che qui. Mi risuonano sempre le parole di Paolo VI: “come misuriamo il nostro superfluo? Sul bisogno dell’altro”. E ogni volta che partecipo a questi dibattiti, veramente queste parole mi tornano alla mente e sono tremende, perché se misuro la mia eccedenza, il mio superfluo sul bisogno dell’altro e associo quello che un altro amico diceva: quello che noi riceviamo non è che dobbiamo usarlo per i poveri, è dei poveri. Quindi si potrebbe applicare anche al superfluo, il superfluo non è mio ma è dei poveri. Quindi credo che ci sia da riflettere su tante cose, su molti aspetti, credo che ci siano degli impegni concreti per tutti noi, di sicuro per la politica ma anche per noi associazioni di volontariato. Questo richiamo che faceva alla fine l’onorevole Gadda sul mettersi insieme e lavorare insieme, credo davvero dobbiamo imparare a farlo, soprattutto per chi si dice discepolo di qualcuno che diceva che capiranno che siete miei discepoli dall’amore che avrete gli uni per gli altri, dobbiamo imparare veramente a lavorare insieme, molto più insieme per risolvere i problemi. Alla fine vorrei ringraziare il Meeting per averci dato la possibilità di questo incontro insieme, vi ricordo che anche quest’anno è possibile contribuire alla costruzione del Meeting, di questo evento facendo delle donazioni, le donazioni si possono fare nei vari padiglioni dove c’è una postazione Dona Ora e le donazioni vengono fatte solo attraverso dei volontari che indossano una maglietta verde con scritto Dona Ora. Anche questo è un modo per sostenere il Meeting a cui va ancora il mio grazie, oltre che ai relatori, per averci ospitati e a voi tutti che avete avuto la pazienza di stare a sentirci. Grazie.

Data

24 Agosto 2017

Ora

15:00

Edizione

2017
Categoria
Incontri