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DIETRO LE QUINTE DI EXOPLANETS: GIOVANI ITALIANI ALLE FRONTIERE DELLA SCIENZA
Partecipano: Stefano Facchini, Ricercatore all’Istituto Max Planck di Fisica Extraterrestre a Garching, Germania; Tommaso Fraccia, Ricercatore all’Università degli Studi di Milano e all’Università Telematica “San Raffaele” di Roma. Introduce Marco Bersanelli, Professore Ordinario di Fisica e Astrofisica all’Università degli Studi di Milano.
Dietro le quinte di Exoplanets: giovani italiani alle frontiere della scienza
Trascrizione non rivista dai relatori
Ore: 11.30 Salone Intesa Sanpaolo A3
DIETRO LE QUINTE DI EXOPLANETS: GIOVANI ITALIANI ALLE FRONTIERE DELLA SCIENZA
Partecipano: Stefano Facchini, Ricercatore all’Istituto Max Planck di Fisica Extraterrestre a Gar-ching, Germania; Tommaso Fraccia, Ricercatore all’Università degli Studi di Milano e all’Università Telematica “San Raffaele” di Roma. Introduce Marco Bersanelli, Professore Ordina-rio di Fisica e Astrofisica all’Università degli Studi di Milano.
MARCO BERSANELLI:
Buongiorno a tutti, benvenuti a questo incontro “Giovani italiani alla frontiera della scienza”. L’incontro di oggi è l’occasione di incontrare due ricercatori italiani giovani, come vedete, che vi-vono l’esperienza della ricerca scientifica a livello internazionale nei rispettivi campi di indagine di cui loro ci parleranno, per cui non sto a introdurre questo aspetto, li presento subito: Stefano Fac-chini, ricercatore presso l’Istituto Max Planck per la fisica extraterrestre a Garching, in Germania; e Tommaso Fraccia, ricercatore all’Università degli Studi di Milano nonché all’Università Telema-tica San Raffaele di Roma ed è in procinto di spostarsi a Parigi all’Institut de Naves a proseguire la sua ricerca. Dunque due giovani ricercatori italiani che hanno evidentemente un orizzonte inter-nazionale e la cui ricerca si muove su una delle linee più interessanti, più affascinanti che oggi muovono questo mondo della scienza, e che sono legate anche a tutta l’attività che quest’anno è stata presentata qui al Meeting dal punto di vista scientifico. Io credo che la loro testimonianza sia molto preziosa, ci possa far immedesimare con le difficoltà, le domande, le motivazioni, l’ampiezza di orizzonte e dunque anche il desiderio, l’entusiasmo di ricercare che muove la loro esperienza da un punto di vista sia umano che scientifico e vedremo appunto quanto questi due li-velli, ne sono certo, sono inseparabili, come lo sono per chiunque fa questo mestiere, ed è molto forse, inusuale, poterne parlare in modo così semplice ed esplicito, come sono certo loro ci aiute-ranno a fare. Dicevo che la loro ricerca si inserisce direttamente nel tema che con “Euresis” quest’anno abbiamo proposto al Meeting dal punto di vista scientifico, quindi anche in questo la-voro che con il supporto di Ceur abbiamo presentato sui pianeti extrasolari, sulla vita, sull’origine della vita sulla terra, la possibilità della vita altrove nell’universo. Vorrei solo dire questo, che sono appunto tanti anni che qui al Meeting il tema della scienza viene approfondito seguendo questa tentativo di sguardo unitario, senza separare l’umano dalla domanda strettamente, rigorosamente scientifica, perché questa nasce da quel terreno che è l’umano, la scienza, infatti, è un’attività umana. Ecco, in tanti anni abbiamo affrontato tanti temi, lo abbiamo sempre cercato di fare per condividere questo sguardo, e per impararlo noi nel dialogo con le persone che frequentano il Meeting. Quest’anno è accaduto qualcosa, per me personalmente, e credo per tutti quelli che lo hanno vissuto, di ancora più bello e cioè una nuova generazione di scienziati, di cui Stefano e Tommaso sono stati un po’ il punto di riferimento, hanno portato innanzitutto questo lavoro che è sfociato in quest’ “Area Exoplanets”. Anche per questo io ci tengo particolarmente a questo incon-tro, alla possibilità che abbiamo di dialogare con Tommaso e con Stefano. Bene, quindi direi che possiamo incominciare. Io incomincerei chiedendo loro sinteticamente di raccontarci di che cosa si occupano, qual è l’oggetto della loro ricerca, che percorso hanno fatto per arrivare al punto in cui sono oggi, e come anche eventualmente hanno messo a fuoco questo interesse, perché la deci-sione per la ricerca è in sé un cammino ad arrivare a prendere una decisione di questo tipo. Co-minci tu Tommaso?
TOMMASO FRACCIA:
Grazie mille Marco per questa introduzione e grazie per avermi invitato a parlare qua, per me è veramente un grandissimo onore. Io studio cristalli liquidi di Dna e la loro possibile implicazione per svelare i primi meccanismi che hanno portato alla formazione degli acidi nucleici del Dna e del Rna, i mattoni fondamentali della nascita della vita.
Per introdurvi a questo tema ho preparato pochissime slides e le immagine che voi vedete sullo schermo sono cristalli liquidi fatti di Dna, visti al microscopio. La cosa che colpisce sono queste forme, questi colori, questi colori brillanti, che emergono da un fondo nero e vi racconterò di più di questo durante il mio intervento. Immagino che tutti voi quando sentite la parola cristalli liquidi, la prima cosa che pensate non è il Dna ma è il vostro smartphone o il vostro schermo televisivo, e in effetti è vero, all’interno dei nostri schermi sono presenti dei cristalli liquidi. Se voi aveste una lente di ingrandimento o depositaste una piccola goccia d’acqua sullo schermo del vostro telefono, piccola, riuscireste a vedere che all’interno del vostro specchio ci sono dei pixel ovvero dei qua-dratini in cui ci sono i tre diversi colori, rosso, blu e verde. Se voi a questo punto poteste guardare all’interno di questi quadratini cosa vedreste? Vedreste i cristalli liquidi. Ovvero i cristalli liquidi sono un fluido parzialmente ordinato costituito da molecole che hanno una forma particolare, hanno una forma allungata. Questa forma allungata permette loro di avere degli stati della mate-ria diversi da altri molecole. Per far capire semplicemente: se voi immaginate che un cristallo li-quidi sia uno stecchino, voi potete avere degli stuzzicadenti sparsi in giro in modo casuale, questo è uno stato liquido della materia per un fisico. Se voi aumentate il numero di questi stuzzicadenti oppure giocate sulla temperatura del sistema, ecco questi stuzzicadenti inizieranno a ordinarsi tut-ti nella stessa direzione, formando un sistema che è in parte ordinato, perché tutti guardano dalla stessa parte, ma rimane comunque liquido. E questo è proprio lo stato liquido cristallino: natural-mente se poi riempite tutta la scatola arrivate ad avere un solido, cristallino normale. La partico-larità dei cristalli liquidi che studio io nel laboratorio in cui faccio ricerca, è che sono fatti di Dna perché il Dna ha una forma molecolare che gli permette di fare cristalli liquidi, infatti è una dop-pia elica molto rigida per cui può ordinarsi in questo modo. Ma la cosa interessante è che il nostro lavoro è partito da frammenti di Dna e anche frammenti di Dna riescono a dare questo ordine li-quido cristallino e il modo in cui lo fanno è abbastanza sorprendente, cioè dei piccoli frammenti automaticamente si impilano uno sull’altro come se fossero delle scatolette di tonno che voi met-tete una sopra l’altra a formare delle colonne. E queste colonne possono mostrare questo ordine parziale liquido cristallino e quindi le immagini che avete visto prima. Perché questo c’entra o può c’entrare con l’origine della vita? Negli ultimi anni, questa è una scoperta di quest’anno super re-cente, abbiamo visto che anche le singole basi di Dna hanno questa proprietà: per cui se per esempio la A e la T si appaiano, formano queste colonne fisiche in cui i nucleotidi stanno esatta-mente nella posizione in cui si troverebbero all’interno di un polimero lungo di Dna. Per cui è co-me se la tendenza a fare questa stupenda molecole che è il Dna, fosse già scritta nelle proprietà dei suoi costituenti fondamentali. Appunto questo era per inquadrare quello che sto facendo, io ho studiato a Milano e fin dalla tesi ho iniziato a lavorare su questo argomento, poi ho fatto un dotto-rato sempre qui a Milano, un breve “post doct” e poi ho avuto un posto da ricercatore non all’Università di Milano ma in una università telematica di Roma, che mi ha permesso di continua-re questa ricerca nei laboratori di Milano del prof. Tommaso Bellini, che è pure qua presente e molti di voi conoscono. Per rispondere alla tua domanda Marco, per andare a vedere quali sono le motivazioni che hanno portato a scoprire su di me questo desiderio di fare scienza e mi hanno guidato in questo periodo, devo andare abbastanza lontano cioè a quando ero piccolo. In partico-lare i miei genitori hanno studiato entrambi materia scientifiche, mio papà è geologo e mia mamma ha studiato scienze naturali, per cui quando da piccolo andavo in montagna con loro, era uno spettacolo perché appunto si vedevano le montagne, i fiori, gli animali, i funghi e io ero molto curioso, facevo domande e loro avevano le competenze per rispondermi e riuscivano ad aumenta-re la mia curiosità, perché ovviamente ogni risposta che viene data ad un bambino crea una nuova domanda. Per cui si è sempre respirato un po’ aria di scienza in casa mia e mi ricordo che da pic-colo avevo delle domande anche un po’ scomode, cioè chiedevo: «Quanto è grande l’universo, co-sa vuol dire che è infinito, ci sarà qualcosa fuori?». Mi immaginavo come una scatola bianca con-tenente questo universo e chiedevo: «Ma fuori cosa c’è, c’è Dio? Quindi se vado in fondo all’universo posso arrivare a conoscere Dio». Queste sono un po’ le domande che da bambino sor-gevano e poi è curioso che nella mia storia ha giocato un ruolo molto fondamentale il Meeting di Rimini e in particolare una mostra organizzata da “Euresis”, che si intitolava “Pronti, partenza, vi-ta”. Ho controllato è di vent’anni fa, e proprio in quella mostra, per la prima volta, io sono venuto a conoscenza dell’esperimento di Miller, per chi ha visto la mostra è quello con cui simulando l’atmosfera primordiale vengono ottenuti i primi amminoacidi e poi c’era un pannello che parlava della probabilità che la vita si fosse generata sulla terra per caso e c’era questo esempio: immagi-nate che un tornado passi per un hangar in cui sono contenuti tutti i pezzi di un jumbo jet smontati e dopo il suo passaggio questo tornado lasci un aereo perfettamente funzionante; cioè la probabi-lità che la vita sia nata per caso è simile a questa. E questo mi ha subito stuzzicato, cioè dicevo: «Ok, mi piace il fatto che la vita possa non essere nata per caso, allora come è nata?» e poi anche al liceo c’era un professore di chimica molto bravo che aveva studiato con Natta e mi aveva fatto appassionare proprio alla chimica, tant’è che mi era subito piaciuto anche il Dna, avevo fatto un disegno il più preciso possibile per far vedere le eliche di Dna quando ero piccolo, non l’ho mai completato, però mi fa sorridere il fatto che adesso alla mostra di “Exoplanets” abbiamo un mo-dellino alto mezzo metro del Dna ed è quasi il realizzarsi di un sogno per me. Poi dopo il liceo mi sono iscritto a fisica e un po’ queste domande sull’origine della vita si sono assopite un attimo. Ar-rivato alla fine del terzo anno, cercavo una tesi, e mi ricordo che proprio nel cortile di fisica, un posto come tanti altri, anzi neanche troppo bello, ho incontrato Tommaso Bellini, professore all’Università di Milano, amico dei miei genitori, che però non avevo mai conosciuto e lui in quell’occasione mi propose di fare una tesi sui cristalli liquidi e la loro possibile implicazione sulla nascita della vita. Capite che da queste parole io non avevo capito niente, come probabilmente anche voi prima che ve lo spiegassi, spero che adesso sia chiaro invece e però subito hanno cattu-rato la mia attenzione per cui ho deciso di aderire a questa proposta e ho iniziato ad andare in la-boratorio da lui. Piano piano questo interesse iniziale si è approfondito sempre di più, guardando innanzitutto la bellezza di questo oggetto della ricerca, che per me poi, negli anni, è diventato una motivazione sempre maggiore, vedendo le cose che negli anni passo dopo passo emergevano da questo lavoro e che mostravano che era interessante continuare ad andare avanti a indagare que-sto aspetto. Sono stato a Milano per più di dieci anni e questa forse è una cosa un po’ inusuale per alcune carriere scientifiche. Molti miei amici sono andati da una parte a fare la tesi, da un’altra parte a fare il dottorato, poi hanno fatto diversi “post doct” nel mondo. Questo è un po’ il modo naturale con cui attualmente si svolge la carriera accademica. Per cui alcune volte mi sono anche chiesto: «Forse sto sbagliando qualcosa», però non è stato così, anzi tutte le volte che me lo chie-devo riscoprivo dei punti di forza per essere stato per così tanto tempo nello stesso posto e nello stesso luogo, innanzitutto il fatto che qui io ho trovato un maestro e dei maestri, in primis appunto Tommaso, e in secondo luogo anche un professore americano che si chiama Noel, che sta in Colo-rado dove sono stato diversi mesi in questi anni. Avere dei maestri veri da seguire in cui vedi che seguendo puoi crescere sono stati una delle motivazioni che mi hanno fatto dire «segui questo percorso qua». Poi ho imparato un metodo di guardare alla realtà scientifica, alla ricerca scienti-fica che per me era totalmente nuovo. Mi piace fare questo esempio, che avevo sentito da un caro amico, che diceva: «La differenza tra Sherlock Holmes e il commissario Maigret è il fatto che Co-nan Doyle è protestante mentre Simenon è cattolico; e questo si vede nel modo in cui svolgono le loro inchieste, no? Sherlock Holmes mette in serie tutti gli aspetti della realtà, con la lente d’ingrandimento va a sminuzzare le scene del delitto per trovare il colpevole; Maigret ha un modo diverso: lui si immerge in una realtà, fino ad assorbire su di sé l’atmosfera del caso in cui si sta inoltrando. E via via che fa questo percorso – lui ha un carattere burbero – diventa sempre più chiuso, quasi somatizza questo suo sforzo per capire la verità». E questo io ho visto che è un paral-lelo che posso quasi fare con il metodo che ho imparato in laboratorio: uno si immagina che lo scienziato lavori come Sherlock Holmes, misuri, sminuzzi la realtà. E invece io, da loro, ho scoper-to che la cosa più interessante è immergersi nella totalità del fenomeno che si sta studiando, e usare quasi l’istinto, l’intuito, per iniziare a capire come funziona quel fenomeno lì. Per cui prima di fare tutte le misure – che poi vanno fatte, perché facciamo scienza – l’osservazione, l’intuizione, sono la cosa che ho imparato essere importante, fondamentale, e per cui li ringrazio molto.
MARCO BERSANELLI:
Grazie, Tommaso. E adesso rivolgo la stessa domanda anche a Stefano: come sei arrivato a mette-re a fuoco il tuo interesse, e qual è il punto di lavoro della tua ricerca, sinteticamente?
STEFANO FACCHINI:
Grazie, Marco. Sono molto contento di essere qua e dell’occasione che è questo incontro per poter focalizzare, mettere a fuoco di più certi elementi di quello che è stato il mio percorso. Parto velo-cemente da quello di cui mi occupo: come diceva Marco introducendo, io sono un Research fellow al Max Planck Institut a Garching, e sono un astrofisico, quindi sono partito studiando all’Università degli Studi di Milano, dove mi sono laureato, poi mi sono spostato in Inghilterra, per un dottorato all’Università di Cambridge, per poi spostarmi a Monaco tre anni fa. E, molto sinteticamente, quello che è il mio campo di ricerca è la formazione planetaria. Questo perché, diciamo dagli inizi degli anni Novanta, si hanno delle osservazioni molto chiare di sistemi di stelle che stanno nascen-do, perché in questo momento ancora all’intero della nostra galassia ci sono stelle, mondi, che stanno sorgendo, stelle attorno alle quali si collocano dei piccoli dischi di materiali, relativamente piccoli – dove per “piccoli” intendo cento volte la distanza tra la Terra e il Sole – dentro cui abbia-mo ormai credo evidenza diretta, in questi ultimi due anni, che si stanno formando nuovi pianeti in questi sistemi. Io sono prevalentemente teorico di formazione, cioè faccio modelli matematico-fisici e chimici di quella che è l’evoluzione di questi sistemi e di come questa evoluzione vada a de-terminare, vada a inficiare quelle che sono le proprietà finali dei pianeti che si sono formati. Per-ché le proprietà dei pianeti, le proprietà stesse della Terra, la composizione dell’atmosfera e alla fine, come diciamo nella mostra, la possibilità che ci sia potuta essere vita qua, sono determinate dagli istanti – dove per “istanti” intendo milioni di anni, sono istanti astrofisici -, sono determinate nei primi istanti in cui i pianeti si formano. Questi primi momenti sono quelli che determinano l’evoluzione e la potenziale abitabilità, come abbiamo visto in questi giorni. E ultimamente devo dire che mi sto spostando sempre di più da un aspetto teorico a un aspetto osservativo: mi faccio arrivare dei dati da dei telescopi che sono prevalentemente locati in Cile, in un deserto, un alto-piano tra i quattromila e i cinquemila metri, in particolare il deserto di Atacama – che è un posto stupendo, uno dei posti più belli al mondo secondo me – e, appunto, mi sono spostato anche sul la-to più osservativo. Ma per dire quello che è per me il punto più affascinante di questa ricerca, par-to anch’io, molto brevemente, da come sono arrivato a fare ricerca in questo campo; e anch’io devo per forza partire dalla mia infanzia, perché fin da piccolo ho avuto una passione innata per la matematica e per le scienze in generale – e questo è un dato di fatto oggettivo evidente fin dal primo anno delle elementari. La cosa che più mi ha appassionato, e che più mi ha colpito, è la possibilità che abbiamo, che ha l’uomo, che ho io, di riconoscere e descrivere un ordine che c’è nel reale. E questa capacità, che è un dono, credo, è veramente impressionante, e ci sono stati dei momenti molto precisi, come durante il mio quarto anno di scuola superiore, mentre mi trovavo in America, in cui ho potuto constatare questo fatto evidente: che noi possiamo riuscire a descri-vere, con eleganza, finezza e precisione certi elementi della realtà che, altrimenti, sarebbero in-formi, senza nome. Ed è dentro questa scoperta, dentro questa realizzazione che io ho deciso di fare fisica. Un altro passaggio, anche questo da bambino, è un momento che mi torna spesso alla mente soprattutto in questi ultimi anni, ed è stato quando, da bambino, mi trovavo nel lecchese, a casa di un altro amico, dove c’era suo padre che la sera ci ha portato fuori e ci ha fatto vedere le stelle e ha iniziato a dire i nomi delle costellazioni. E io ricordo il gusto di sentire, di vedere qual-cuno che riusciva a dare il nome a quelle costellazioni che prima erano un ammasso stupendo, vertiginoso, bellissimo, ma distante da me. E per me questo è un altro elemento che è stato molto importante, ed è la possibilità che io ho di poter dare un nome alle cose, cioè riconoscerle, acco-glierle e poterle descrivere e, io credo, in questa descrizione creare un legame con esse che al-trimenti non sarebbe possibile, così come avviene quando sappiamo il nome di una persona, che scatta un legame molto più forte di prima. C’è quel passaggio famosissimo della Genesi, in cui si dice: «Allora il Signore plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche, tutti gli uccelli del cielo, e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati. In qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome»; cioè, fin dall’inizio – ed è riconosciuto in questi primi passi della Genesi – all’uomo è dato questo potere, questa responsabi-lità potremmo forse dire, di dare il nome, cioè di poter descrivere, riconoscere ed accogliere quel-lo che altrimenti sarebbe un reale informe. Un ultimo passaggio riguarda il fatto che io ho avuto tra il dottorato e il “post-doct”, una posizione di ricerca a tempo determinato che ho iniziato tre anni fa. Come in ogni storia normalissima, questo percorso è fatto anche di molti dubbi, esitazioni, fatiche. Nel nostro lavoro, come forse vedremo dopo – Tommaso in qualche modo è un’eccezione perché è rimasto per dieci anni nello stesso posto – in qualche modo è richiesto che ci si sposti continuamente. Ogni due, tre anni, di fatto, adesso, uno scienziato all’inizio della sua carriera deve cambiare città, stato, continente, e quindi rapporti, lingua, cultura, e questo dentro una potenziali-tà enorme di scoprire nuove cose nel mondo. Nel momento in cui dovevo scegliere se continuare o no, dopo il dottorato, ho deciso di continuare perché si era presentata un’occasione unica, di lavo-rare in un gruppo molto forte, che aveva un approccio molto diverso dal mio. E per me c’è stato quest’altro passaggio di maturità in quello che è il mio percorso scientifico, e che mi dà un gusto che è unico, ed è quello, finalmente, di poter collocare quello che è stato il particolare della mia ricerca a Cambridge – che è minuscolo, c’è bisogno di questa iper-specializzazione in qualche mo-do – su un orizzonte che è molto più ampio. Sentivo, alla fine del mio dottorato, il peso di non capi-re come quel particolare fosse collegato con il resto del mondo astrofisico. Come lo studio di que-sti dischi protoplanetari fosse connesso con il resto. E per me è stato affascinante, in questi primi anni di ricerca, poter continuare a studiare, e in questo continuo studio, conoscenza, a un certo punto accade di cogliere il nesso che il proprio particolare ha un orizzonte più ampio; il nesso che una formazione ha con la formazione stellare, con l’evoluzione galattica, con la metallicità delle galassie, con la chimica, col come si è formata la chimica: tutto questo è interconnesso. Uno dei punti di gusto più importanti nella mia ricerca è poter cogliere il nesso tra il mio piccolo particola-re e questo orizzonte amplissimo. In questo mio cammino, l’accorgermi di questo, il vivere questo nella mia ricerca è una delle cose che più mi soddisfa. Grazie.
MARCO BERSANELLI:
Grazie. Io chiederei adesso a loro due qual è la motivazione che oggi vi sostiene nel lavoro, nella prospettiva, dentro le difficoltà, i sacrifici che questo tipo di lavoro comporta. Che cosa sostiene la vostra prospettiva? E poi vorrei anche chiedervi, a voi che con altri avete condiviso l’esperienza di “Exoplanets”, cosa questa esperienza ha suggerito, ha aperto, in quanto a motivazione, a orizzonte in cui si muove il vostro percorso?
TOMMASO FRACCIA:
Allora, per rispondere a questa domanda sicuramente vengono in mente molte motivazioni che guidano il lavoro. In primis la passione per quello che fai. Come hai detto prima: se non ci fosse questa passione, probabilmente non sarebbe ragionevole continuare a fare questo lavoro. E una cosa che mi ha sempre sostenuto è anche la bellezza delle cose che sto andando a studiare. In par-ticolare, quando la realtà si svela, quando mostra a te, che puoi capire, come sta funzionando, è un momento molto bello del lavoro del ricercatore. Perché è quasi un momento sacro: vedi per la prima volta, da solo, nel tuo laboratorio, una cosa che nessuno ha mai visto. E la mia prima rea-zione è quella di fermarmi un attimo, in silenzio, quasi rispettoso di quello che sta succedendo. E poi la mia seconda reazione è quella di dirlo a tutti – chi è stato in laboratorio con me e ha visto una scena del genere lo sa, inizio a saltellare da tutte le parti e vorrei dirlo a chiunque. Però se devo andare a vedere qual è la motivazione principale che mi sostiene, la scopro più nei momenti di difficoltà, che sono tanti, e spesso, la nobiltà, la grande domanda della nostra ricerca nella quo-tidianità si deve scontrare con un particolare che spesso sfugge, anche per motivi banali, o che ri-chiede molto lavoro e magari dà esiti infruttuosi. Spesso sembra di buttare via le energie, di but-tare via il tempo, di non fare un passo avanti. Ad esempio, io per fare i miei campioni devo taglia-re dei vetrini di vetro, per fare dei vetrini da microscopio e negli anni questa cosa a un certo punto ha iniziato a pesarmi, perché dicevo: «Cavoli, fai il ricercatore, lo scienziato e sei qua a tagliare del vetro». E mi venivano in mente altri miei amici che nel frattempo erano dall’altra parte del mondo e lavoravano e stavano facendo qualcosa di importante e io, pensavo, sto tagliando del ve-tro. In questi momenti, oppure in quelli in cui non vedi molto il risultato di quello che stai facendo, io ho visto che su di me iniziano molte domande. Mi chiedo: «Va bene ma sto facendo la cosa giu-sta? Forse dovrei cambiare, forse dovrei fare altro». E spesso vorrei capire come posso essere uti-le, qual è il mio compito. E vedo che spesso, quando questa domanda è emersa, io ho tentato di rispondere in modo astratto, cioè slegato dalla realtà che avevo di fronte, semplicemente usando l’immagine di me, di come dovrebbe essere il lavoro, una vita lavorativa. Per fortuna ogni volta che questo succedeva, c’erano degli amici che mi hanno aiutato a non farmi trascinare da queste obiezioni, che mi hanno letteralmente ripescato e mi hanno costretto invece a stare di fronte alla realtà, mostrandomi che la domanda di qual è il mio compito si gioca letteralmente nella realtà, non su un piano diverso, staccato da essa. E mi hanno anche sfidato a porre questa domanda di fronte al lavoro che sto facendo e così ho scoperto che la realtà risponde in maniera anche molto concreta. Per esempio, due anni fa, in un momento un po’ critico in cui alcuni risultati non mi sembrava che arrivassero, stavo pensando anche a cambiare mestiere. Nel frattempo avevo an-che un po’ insegnato, per cui mi ero detto forse posso andare a insegnare. A un certo punto avevo fatto una richiesta di fondi, e due anni fa ad un certo punto mi arriva questa mail in cui dicevano che era stato accettata la mia proposta. Avevo fatto un progetto e questo progetto mi era stato ri-conosciuto, cioè qualcuno mi ha detto: «Questo tuo progetto vale, per cui fallo». Era la realtà stes-sa che mi diceva che quello che stavo facendo valeva, per cui era ragionevole smetterla di pensa-re ad altre cose e usare tutte le energie su quell’aspetto lì. Adesso da settembre mi sposterò a Pa-rigi, dove ho la possibilità di iniziare un nuovo laboratorio, piccolino, in cui continuare questa ri-cerca e imparare tecniche nuove, ampliare anche i rapporti che sono nati nella ricerca. Di fronte a questa possibilità, sono stato costretto a starci di fronte utilizzando questo stesso metodo, cioè di guardare cosa la realtà stava dicendo in quel momento lì, cosa stava dicendo del mio percorso. E per fare questo, appunto, insieme a mia moglie, abbiamo guardato tutti i dettagli, da quello eco-nomico a quello dei figli, a quello del lavoro di mia moglie, per vedere se questa cosa qua era ve-ramente ragionevole o no. Ed è stato molto interessante, perché l’idea di spostarsi, anche se in un posto vicino, ò inizialmente metteva un po’ di paura. Però andando a fondo di tutti i dettagli, vede-vamo che era una proposta ragionevole fatta a noi, per cui valeva la pena seguirla. Per cui ulti-mamente la motivazione principale che mi sostiene nelle fatiche di questo lavoro (e sottolineo an-che che noi siamo dei giovani ricercatori, facciamo ricerca da pochissimo tempo, per cui non pos-siamo dire di essere giunti a una definitività della nostra storia accademica o lavorativa, ma siamo continuamente in moto a tentare di capire cosa ci è chiesto, passo dopo passo) è vedere che c’è una strada preparata per me.
STEFANO FACCHINI:
Io per rispondere, parto da un dato di fatto ed è il come sia nata questa mostra. Ed è che circa un anno è sorto in noi il bisogno di aiutarci a mettere a fuoco quale fosse ultimamente il valore del nostro lavoro e come questo si ponesse di fronte a tutte le incertezze, sacrifici, fatiche, che il no-stro lavoro richiede nelle sue particolarità. E questo nasce anche dal fatto che c’è questa strana anomalia statistica, direi, ovvero che siamo quasi una decina di amici, che più o meno abbiamo fatto l’università insieme a Milano e che ora siamo sparsi per il mondo tra Cambridge, Monaco, Belgio, Tucson, California, Milano e lavoriamo circa sugli stessi temi, in particolare sulla forma-zione planetaria e parliamo molto spesso tra di noi, soprattutto tra alcuni di noi, di queste temati-che. In particolare cerchiamo di aiutarci in quelli che sono dei passi importanti del nostro cammi-no professionale, ma che ovviamente ha implicazioni sulla vita intera. Anche a partire dal rappor-to con alcuni di loro è nato il bisogno di poter guardare dentro quella che è la tematica della no-stra ricerca, per poter essere aiutati e fare un percorso per cogliere e scoprire qual è il nesso tra noi, tra la vita tutta, non solo l’aspetto lavorativo, e il nostro lavoro, la nostra tipologia di lavoro, inteso anche come contenuto di quello che noi studiamo, che è la formazione planetaria, il cosmo e pianeti extrasolari (da cui “Exoplanets”). La prima cosa che devo dire è che per me il lavoro su questa mostra è stato ben al di là di quello che io avrei pensato. Come primo dato di esperienza devo riportare quanto sia per me decisivo e fondamentale avere un luogo, uno spazio in cui si dà la possibilità di esprimere liberamente le proprie domande, senza avere il problema di averle, senza avere il problema che nonostante sia sei anni che faccio ricerca, ho ancora delle domande molto aperte sul mio lavoro e sul mio futuro. Mi ha colpito ieri, mentre pranzavamo con alcune delle guide, quello che una ragazza diceva: «Mi ha impressionato trovare un posto dove non si aveva paura di avere delle domande senza ancora avere delle risposte e mi sono rilassata, perché per me è molto difficile da sola, poter rimanere sulla sospensione che è avere delle domande sulla propria carriera, sul proprio posto nel mondo, sui temi di lavoro, è molto difficile rimanere su questa sospensione se, come è accaduto questa settimana, non c’è, non accade di avere, di trova-re un posto, come è stato quello della mostra, anche fisicamente, in cui queste domande si posso-no porre liberamente, non sono guardate male». Non è strano di averle ancora dopo sei anni, per-ché la vita è un cammino. E questo è il primo dato, come la premessa. Poi ci sono le scoperte che io ho fatto per rispondere a qual è la motivazione principale che mi sostiene in questo lavoro. Il primo punto è che il mio lavoro è osservare e guardare e studiare cose che sono di una bellezza unica. Come lavoro io ho la possibilità di guardare il cielo, guardare le profondità del cosmo e ve-dere degli elementi di realtà, delle strutture che si formano nello spazio interstellare, nel vuoto, che sono di una bellezza unica. Come lavoro io guardo questa bellezza. E non solo la guardo, ma posso essere la prima persona della storia dell’umanità che fissa gli occhi su quel dato, posso esse-re il primo a vedere questi sistemi, dove si stanno formando nuovi pianeti ed è appassionante. Ma per me c’è un altro passo che è molto importante e ne ho presa molto più consapevolezza in que-sti giorni: lo stupore da solo, di un dato per quanto bello, se in me non riesco ad accorgermi di un nesso che ha con l’interezza della mia persona e della mia vita, a un certo punto può stancare, an-zi direi che stanca, per cui dopo un po’ di anni, di mesi o di giorni, la passione muore, e questo è un dato di fatto che credo sia accaduto a chiunque abbia fatto ricerca. E proprio da qui nasce il desiderio e il tentativo di questa mostra, quello di andare oltre questo passo, e mi colpisce tantis-simo una citazione di Schrödinger, grandissimo fisico, uno dei due padri fondatori della meccanica quantistica, che dice: «Cerchiamo di scoprire quanto possiamo sull’intorno spaziale e temporale del luogo nel quale ci troviamo posti dalla nascita, e nel tentativo proviamo un piacere, lo trovia-mo estremamente interessante, appare ovvio ed evidente, ma pure va detto, le conoscenze isolate ottenute da un gruppo di specialisti in un dominio ristretto non hanno affatto valore in sé, ma sol-tanto nella loro sintesi con tutto il resto del conoscere, soltanto in quanto esse in questa sintesi realmente contribuiscono per qualche cosa a rispondere alla domanda chi siamo noi». Questo vale sia come interdisciplinarietà scientifica, sia ancora a un livello successivo, quello di avere, di poter accorgersi del nesso che queste scoperte, che queste evidenze scientifiche, come sull’inizio della vita, come sull’abbondanza di pianeti extrasolari, hanno con quello che io sono, con la mia perso-na, con quello che di più caro, di più sanguigno ho. E qui un altro passo, che per me è un passaggio che è di un’importanza unica, anche nella mia storia personale, ed è condensato in una brevissima citazione di don Giussani dal Senso Religioso: «Quando è risvegliato nel suo essere dalla “presen-za”, dai dati, l’uomo prende coscienza di sé come io e riprende lo stupore originale con una pro-fondità che stabilisce la portata, la statura della sua identità». Per me questo è uno dei punti di consapevolezza che ci siamo aiutati a fare quest’anno, che è fondamentale. Ed è commovente, e impressionante, innanzitutto, che noi così piccoli possiamo accorgerci, possiamo stupirci della bel-lezza che abbiamo davanti, possiamo stupirci di un universo intero, enorme, inimmaginabilmente grande; noi, questo piccolissimo dato di realtà insignificante nel panorama spazio-temporale co-smico, abbiamo la capacità di poterci stupire di questo. Questa possibilità di stupirmi dice anche del valore irriducibile che io ho, valore irriducibile che è legato a questa mia capacità, data, di ac-cogliere ciò che è fuori da me, e di poter vedere un nesso con quello che desidero, con la forza che muove il mio cuore, riecheggiando il titolo del Meeting. E in questo, rileggo un’altra citazione, forse tanti di voi l’hanno sentita, che leggo sempre quando finisco il percorso di “Exoplanets”, e che è clamorosa nella sua genialità, nella sua profezia. È un passo dello Zibaldone di Giacomo Leopardi, che dice: «Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano in-telletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprende-re e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli, considerando la pluralità dÈ mondi, si sen-te essere infinitesima parte di un globo ch’é minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compon-gono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente senten-dola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensie-ro della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intendere cos’è tanto superiore alla natura di lui e può abbracciare e contenere con il pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose». Scusate se l’ho letta tutta ma penso che valga la pensa sentirla e risentirla. Per me è questo nesso tra la bellezza e la vastità e la comprensibilità del reale, dell’astrofisica, della forma-zione planetaria nel mio caso, e me stesso è ciò che rende veramente valida la ricerca, degna di essere compiuta, di farla come professione. Per me sta diventando sempre più chiaro che il punto più interessante in questa ricerca sono io che sto ricercando ed è in questo nesso fatto di stupore, di smarrimento, di vertigine, di gioia, di sacrifico con questo dato di realtà che io sempre di più posso capire chi sono e qual è il mio posto. E basta, grazie.
MARCO BERSANELLI:
Un’ultima domanda a Tommaso e a Stefano. Che cosa vi sentireste di dire a qualche giovane, an-cor più giovane di voi magari, diciamo studente o ragazzo, che come voi, a diversi livelli, sente af-fiorare questo desiderio, questa possibilità di un percorso nella direzione che voi state perseguen-do?
TOMMASO FRACCIA:
Beh, quello che mi sentirei di dire è, innanzitutto, di essere curiosi. Sembra un po’ una banalità, però se voi avete questa intuizione iniziale, questa curiosità iniziale, approfonditela, non lasciatela perdere, mantenetela viva. E la seconda è: cercate dei maestri veri che vi possano aiutare ad an-dare a fondo di questa intuizione iniziale. Come dicevo prima, è uno degli aspetti di cui sono più grato della storia che ho vissuto fino a qua in ambito lavorativo nella ricerca. E di non aver paura delle sfide ma provare ad affrontare la realtà senza paura, perché la realtà poi dà una risposta che può essere positiva, può essere negativa, ma è la cosa più interessante. perché è il punto in cui si scopre la propria strada, la propria storia personale. Riprendo anche la domanda che mi hai fatto prima a cui non ho risposto su questa settimana di Meeting e sul lavoro fatto per realizzare lo spazio. Una delle cose che ho imparato di più è stato dover riguardare a quello che faccio io come parte di quello che altri fanno, vivere questa possibilità di confronto con questi altri amici che vengono da ambiti diversi. Io penso che anche per la nostra professione, questo sia stato un punto molto prezioso, un punto di crescita proprio professionale che spero che rimanga anche in futuro. Poi devo dire che lavorare con le numerose guide, le numerose persone che si sono impli-cate nella preparazione, è stato molto prezioso, perché mi hanno aiutato a riscoprire la bellezza di quello che stavo facendo, l’interesse per quello che stavo facendo. Un esempio è stato, circa un mese fa, quando alcune giovani sono venute in laboratorio da me e abbiamo guardato insieme questi cristalli liquidi. Gli mostravo gli esperimenti che facciamo perché volevano capire di più, perché serviva anche per la mostra. Allora mi ricordo che appunto sono entrate, gli ho spiegato un po’ alcune cose, le ho messe vicino al microscopio, ho messo su un vetrino e poi ho messo una goccia di acqua e Dna dicendo loro: guardate, adesso, senza fare niente, quasi per magia, si for-mano cristalli liquidi. E sono comparsi. E ho visto che proprio avevano la bocca spalancata di fron-te a uno dei gesti che faccio quasi tutti i giorni e di cui avevo quasi perso lo stupore. Per cui loro, in quel momento lì, mi hanno rimostrato questo stupore, mi hanno rimostrato il valore di quello che stavo facendo e questo è stato veramente un aiuto fondamentale per me. Poi, un’altra cosa che mi ha colpito molto e che ha colpito anche gli ospiti che sono stati invitati alla mostra, è quello che mi ha confessato Antonio Lazcano, che non conosceva per niente il Meeting, che viene da una storia totalmente diversa da noi, da un ateismo molto forte, e che pura ha detto: «Non mi sono mai sentito così non estraneo in un posto. Qui ho trovato tanti amici». Era rimasto proprio impres-sionato dal fatto che così tanta gente qua al Meeting venisse a guardare la mostra, venissero a guardare lo spazio, fosse interessata a una tematica scientifica e che noi fossimo così propensi a fare, a comunicare cose di frontiera ad un pubblico molto variegato. Lui riconosceva il valore di questo ed era la cosa che più lo colpiva per cui, anche per me, anche per i giovani che possono es-sere interessati alla scienza, questo ha un valore enorme, per cui dobbiamo tenerlo molto caro e coltivarlo con gratitudine.
STEFANO FACCHINI:
Molto brevemente, molte cose le ha già accennate Tommaso e quindi non le ridico. Per quello che io ho visto in me, nel mio percorso e in quello di altri, anche perché si impara, ovviamente, anche dal percorso di altri, direi quattro cose molto rapide. La prima è che, chi vede affiorare in sé un interesse particolare per la ricerca, provi a guardarlo, a seguirlo, in qualche modo a coltivarlo, andando anche a incontrare persone che fanno questo di mestiere. Per me questo è stato fonda-mentale ed è ancora fondamentale adesso. Questo poter vedere come altri che, con sensibilità di-verse, più avanti di me, o più indietro di me, ma comunque come altri vivono questo interesse par-ticolare, è importante perché questo può aprire a strade, a modalità di seguirlo che altrimenti non potremmo pensare noi a priori. La seconda cosa è di non porre limiti a priori e faccio degli esempi molto veloci perché questo succede spesso, secondo me. Ad esempio ho alcuni amici in università che dicono: io ho il desiderio di andare a lavorare con quel gruppo ma è impossibile. Cioè decido-no a priori che questo non sia possibile, perché quel gruppo si trova ad Harvard, quel gruppo si trova a Caltech, è composto di grandi nomi che sembrano irraggiungibili. In tantissimi di questi casi, invece, avviene il contrario. Ad esempio un mio amico che ha mandato una mail a uno dei più grandi gruppi di Caltech, che fa quello che studia lui, che voleva studiare lui, un perfetto sco-nosciuto studente italiano, immediatamente l’hanno preso a fare la tesi, ha fatto il dottorato all’Eth, adesso sta lavorando a Caltech che è una delle top quattro università americane sulla scienza. Oppure un’altra amica che scrive a un premio Nobel e la prende a Berkeley a fare la tesi con lui. Oppure un altro amico di cui si parlava ieri che, molto deciso a fare l’astronauta, ha ri-schiato su questo, e adesso lavora alla Nasa. L’ho visto un mese fa in California. Sono tutti esempi di gente che ha rischiato senza porre dei limiti a priori. E, poi non è che per forza funziona e si va, però accade che la realtà apra a delle possibilità altrimenti impensabili e questo, secondo me, è molto bello. Vale la pena di rischiare. E l’ultima cosa, salto la quarta, è di non avere paura di ave-re delle domande. Io, di interessi ne ho tanti, non c’è solo la scienza. Non bisogna avere il proble-ma di chiudere queste domande prima di averle affrontate, di esserci entrati dentro, di aver esplorato le diverse possibilità di una vostra strada con queste domande aperte. Dopo sei anni che faccio ricerca, ho ancora domande aperte e non è un problema se queste domande continuano a seguirmi. Piano piano la risposta arriverà. Grazie.
MARCO BERSANELLI:
Beh, credo che raramente abbiamo una ricchezza di spunti così ampia e così profonda a valle di un incontro. È stata proprio, credo, la testimonianza viva, trepidante e a tratti commuovente di un cammino in corso, di un cammino umanamene serio e lieto in un campo particolare. Una vera te-stimonianza che, penso, in quest’ultima battuta che adesso Stefano stava facendo, abbia uno dei suoi punti, almeno per me, anche proprio dentro il percorso di questi giorni al Meeting, dei punti più affascinanti come ulteriore consapevolezza. Questo gusto della domanda che rimane tale, che rimane aperta, che ancora attende di essere corrisposta da un evidenza e in questa attesa, in que-sta attesa c’è l’umano. Abbiamo visto in questi giorni come per esempio di fronte alla grande do-manda «la vita può esserci anche altrove nell’universo?», noi non abbiamo risposta ed è bello po-tersi entusiasmare di come questa domanda si arricchisca di elementi che potranno condurre ad una risposta ed essere dunque aperti a questa risposta che ancora non c’è. Mi viene in mente quando tu Tommaso dicevi come da bambino, andando in montagna con i tuoi genitori, ad ogni risposta che ti davano cresceva la curiosità. Mi chiedo «che cosa può generare questa posizione per cui uno, anziché temere la domanda aperta, ne gode di più?» E credo che abbia a che fare con qualcosa che dicevate, con quel nesso con la totalità, con quella consapevolezza che ogni partico-lare è inserito dentro un ordine, dentro una totalità misteriosa, ma reale, con cui sono in rapporto. E allora a ogni particolare è possibile guardare con affezione, con attesa, così che quando arriva un nuovo dato, guardare per la prima volta quel dato è come il compiersi del dare il nome a quel-la cosa che ancora era nel contorno dell’ignoto e affiora, come affiorasse all’umano per la prima volta. E questo non è solo un aspetto di interdisciplinarietà, è proprio un assetto di unità della per-sone e credo che la loro testimonianza ce lo abbia fatto vedere in un modo veramente convincen-te e che apre a una prospettiva, soprattutto per i giovani, ma, mi verrebbe da dire, ancora di più per chi, come me, non è più giovane, perché la cosa più bella nel crescere, nel passare degli anni è accorgersi che si impara sempre di più, a cominciare da chi è più giovane di noi. Quindi ringra-zio moltissimo Tommaso e Stefano.