Chi siamo
DI CHE È MANCANZA QUESTA MANCANZA, CUORE, CHE A UN TRATTO NE SEI PIENO?
Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?
Partecipa Mauro-Giuseppe Lepori, Abate Generale Ordine Cistercense. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.
EMILIA GUARNIERI:
Bentrovati. Oggi abbiamo con noi Padre Mauro Lepori, Abate Generale Ordine Cistercense, una grande autorità religiosa, un grande amico, un maestro che ringraziamo per aver accettato il nostro invito a introdurci nel titolo del Meeting di quest’anno. Padre Mauro Lepori è Abate Generale dell’ordine Cistercense dal 2 settembre 2010, plurilaureato in filosofia e teologia a Friburgo, è entrato nell’Abazia di Hauterive nel 1984 dove è diventato Abate. E’ autore di tanti testi di spiritualità, di catechesi ma preferirei dire testi di introduzione alla vita cristiana. L’intervento di Padre Lepori di oggi si inserisce in un Meeting iniziato all’insegna di incontri culturali di alto profilo, di una cultura che è sempre riflessione sulla realtà in un paragone con sé e con le proprie esigenze che riflettono sempre la drammaticità del presente e delle sfide dell’oggi. Così questo Meeting, iniziato all’insegna di una cultura alta, è un Meeting dove allo stesso livello di spessore si può parlare di Abramo e si può fare un minuto di silenzio per il direttore degli scavi di Siria barbaramente trucidato. Si può discutere di economia con la stessa passione all’uomo e al suo destino con cui si ascolta il capo dei vescovi italiani che parla della persona e del suo limite. Ci si può commuovere nello stesso modo di fronte a una donna grande e coraggiosa diventata first lady dell’Afghanistan così come ci si commuove di fronte alla testimonianza di un sacerdote che raccoglie i ragazzi di strada di Buenos Aires. L’unità di tutto questo è cultura. La cultura è perché tutte queste cose possano vivere in una unità e l’unità è data da questo esercizio del paragone del giudizio col sé. Credo che questa giornata di Meeting ci stia proprio mettendo davanti che cosa è cultura e siccome stiamo parlando di cultura e di sapere, mi permetto di introdurre l’intervento di Padre Mauro, utilizzando alcune frasi di Bernardo di Chiaravalle che sono proprio relative al desiderio di sapere. San Bernardo è all’origine della diffusione dell’ordine Cistercense in Europa, è il santo dell’ordine cistercense, se si può dire così. Queste frasi mi sono casualmente venute sott’occhio in questi giorni, e mi sono sembrate adeguate per introdurre questo intervento, perché mi pare mettano a fuoco la ragione ultima del sapere, la ragione ultima dell’approfondimento culturale. Allora vi leggo queste frasi sul sapere:
“Ci sono di quelli che vogliono sapere solo per sapere ed è spregevole curiosità, ci sono di quelli che vogliono sapere solo per mettersi in mostra, ed è spregevole vanità, ci sono quelli che vogliono sapere per vendere la propria scienza, per esempio per il danaro o per gli onori ed è turpe commercio, ma ci sono pure alcuni che vogliono sapere per educare ed è carità. Parimenti alcuni vogliono sapere per educarsi, ed è prudenza. Di tutti questi solo gli ultimi due non cadono nell’abuso della scienza proprio perché essi vogliono sapere per fare del bene”.
Anche noi oggi vogliamo sapere per educarci e per fare del bene. Ma consentitemi, prima di lasciare la parola a Padre Mauro, di leggere il testo integrale della poesia di Luzi da cui è tratto il titolo del Meeting di quest’anno.
“Di che è mancanza questa mancanza, / cuore, / che a un tratto ne sei pieno? / di che? / Rotta la diga / t’inonda e ti sommerge / la piena della tua indigenza… / Viene, / forse viene, / da oltre te / un richiamo / che ora perché agonizzi non ascolti. / Ma c’è, ne custodisce forza e canto / la musica perpetua… ritornerà. / Sii calmo”.
MAURO-GIUSEPPE LEPORI:
Da quando, qualche mese fa, mi è giunto l’inatteso e commovente invito a tenere questa relazione sul tema del Meeting, il verso di Mario Luzi non ha cessato di provocarmi, anche se forse, a tutt’oggi, non sono riuscito a memorizzarlo correttamente. Mi ha provocato con quel suo martellare la parola "mancanza", ma anche col suono stesso del verso, con tutte quelle "c" dure: che, ca, ca, cu, che, senza parlare delle zeta e delle ti… Un verso che si direbbe indispettito, risentito. Ma che pur si placa, alla fine, dopo la durissima parola "tratto", nel dolce e pacifico: "ne sei pieno", e nel punto di domanda – che, appunto, non è esclamativo -, nel punto di domanda che è come se Luzi, nelle quattordici parole di un solo verso fosse passato dal grido stizzito alla mendicanza che si arrende al fatto che a questa mancanza non si può sfuggire, perché riempie tutto il cuore come l’acqua gli abissi del mare.
Il poeta, quando ci provoca, quando ci interroga, è profeta. Ci spinge oltre, oltre noi stessi, oltre la definizione definita di noi stessi. Ci spinge a riaprire il confine chiuso della definizione in cui ci siamo accomodati, o piuttosto imprigionati, della definizione che formuliamo noi su noi stessi, come se fossimo un animale o una pianta, un insetto, da catalogare in due o tre termini, magari latini per sentirci più importanti: Homo sapiens sapiens…
Il poeta è profeta quando un suo grido, a volte un suo sussurro, viene a riaprire la definizione definita che diamo di noi stessi, della vita, del mondo, di tutto, anche di Dio. La riapre al Mistero. Come se fossimo un fiume lento e fangoso che scorre al mare senza accorgersene, senza ostacoli, e poi d’un tratto all’orizzonte scorgiamo un’interruzione del corso normale, che non è un ostacolo, ma un abisso, un venir meno del fondo fangoso su cui scivoliamo con tendenze stagnanti, un abisso, una caduta improvvisa, una cascata come quelle del Niagara, e così quell’abisso all’orizzonte o nel quale stiamo precipitando, non può più restare fuori dalla definizione di noi stessi.
Il finito si infrange, la bella rifinitura che ci eravamo dati si rompe, e non sappiamo verso qual altro orizzonte continueremo a scorrere, eppure vi scorriamo più veloci, più liberi, strappati a tutto ciò a cui ci afferravamo per darci stabilità e sicurezza al di qua dell’abisso, al di qua del Mistero, al di qua del limite ormai infranto…
Il poeta ci provoca provocando in noi questa esperienza, che è la sua esperienza. E gli basta una parola, un verso, un tema musicale, un’immagine per dire tutto, per provocare tutto.
Nella mia giovinezza universitaria abbiamo inscenato i Cori da "La Rocca" di Eliot. All’inizio mi avevano attribuito il ruolo principale, ma poi, man mano che la mia inettitudine recitativa si evidenziava, mi hanno retrogradato fino al punto di dover apparire in scena urlando una sola frase, che ora non ricordo. Ma appunto, il poeta è un profeta che può sintetizzare il tutto in un frammento che riapre al tutto.
Il frammento di Mario Luzi ci martella con una domanda piena di stupore che ci ricorda che l’uomo è un cuore teso, o in equilibrio, fra due dimensioni: la mancanza e la pienezza. Mancanza, cuore, pienezza: sono le parole che, giustamente, il Meeting sottolinea graficamente nel verso di Luzi diventato suo titolo, cioè programma e provocazione, cioè la provocazione che il Meeting ha voluto avere come programma.
Una provocazione che però non si rivolge a un pubblico, o ai media, ma al cuore. Il pubblico del Meeting è il cuore, il mio cuore, il tuo cuore, il nostro cuore. Il cuore che è anche il vero "medium" di comunicazione, di trasmissione, di condivisione di una coscienza sperimentata e da sperimentare, da cuore a cuore, da coscienza di umanità a coscienza di umanità, da coscienza del Mistero a coscienza del Mistero: "Cor ad cor loquitur", era il motto del beato Cardinal Newman.
E infatti, penso che il primo aspetto su cui ci provoca il verso di Mario Luzi sia proprio il fatto di interrogare il proprio cuore. Interrogando il suo cuore, Luzi interroga il nostro, il cuore di tutti. E questo ci ridesta alla consapevolezza che il soggetto responsabile, che deve rispondere in noi e in tutti, è il cuore.
Ma chi interroga ancora il cuore oggi?! Chi tratta il cuore da soggetto responsabile?! I più lo ignorano, molti lo trattano come organo di istintiva e sentimentale reattività. Pochissimi aiutano l’uomo contemporaneo a mettere il cuore con le spalle al muro, chiedendogli conto del suo desiderio, rendendolo responsabile del suo desiderio. Non responsabile che desideri, perché questo è dato al cuore da Colui che lo fa. Ma responsabile di una coscienza di sé, di un sentimento cosciente di sé. Luzi, come Cristo, come Paolo, come Agostino, come Dante, come don Giussani, per fare solo cinque nomi, ci provoca ad interrogare il nostro cuore e, direi, a bloccarlo, come un cane punta la beccaccia, sotto la mira spietata della domanda a cui può e deve rispondere solo lui, di cui è il solo responsabile: la domanda sulla pienezza che desidera, la domanda sulla felicità, e quindi la domanda su quale sia mai la realtà, l’esperienza che brama con tutto se stesso, tanto da sentirsi pieno della sua mancanza.
Ma chi ci aiuta ancora ad affrontare la vita, a ricentrare la vita, ad impostare le scelte, o le rinunce, partendo da lì? Chi tratta il proprio "io" con questa serietà ultima, e quindi con questo amore che ama in se stessi e negli altri l’essenziale di ciò che si è? Chi parte da questo, diciamo così, processo al proprio cuore nell’uso della propria libertà di fronte a tutto, alle scelte grandi e a quelle banali, a tutte le circostanze, a tutti gli incontri che tessono l’esistenza?
Perché è da questa interrogazione del cuore, è da questo risveglio del cuore alla responsabilità nei confronti del bisogno, dell’indigenza che lo riempie, che nell’uomo sboccia la libertà.
È come prendere il cuore per il bavero, tenerlo incastrato in un angolo, finché non dia ragione del proprio vero desiderio, confessando che il 99% delle volte ci mente dicendoci che non manca di nulla, che quello che facciamo o abbiamo ci basta, che lui sta bene, che lui si accontenta, magari anche di non star bene. Il verso di Luzi è un capo di accusa. Il cuore è un reo che deve confessare, che deve confessarsi che sa, che sente, che soffre una mancanza abissale che nulla soddisfa se non… Se non cosa? "Di che è mancanza questa mancanza…?"
Il cuore potrebbe confessare, se è onesto, che non lo sa, che non sa rispondere, che non sa rispondersi, che non sa cos’è, chi è quel "quid" della cui mancanza si sente pieno. La menzogna del cuore non è là dove non sa che volto abbia ciò di cui manca. La menzogna scatta là dove il cuore inganna la mancanza che lo riempie con idoli che non lo riempiono. La menzogna è quando il cuore si dice soddisfatto, o lascia dire a tutti che è soddisfatto, censurando i margini infiniti della mancanza che lo riempie. "Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni, riposati, mangia, bevi e divertiti!". Ecco la grande menzogna, e la grande stoltezza, la grande mancanza di ragione di fronte alla realtà totale della vita: "Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita!" (Lc 12,19-20).
L’Innominato del Manzoni passa la notte a pensare a cosa potrebbe ancora soddisfarlo come in passato. Ma il suo cuore ferito, stanco, deluso, non lo lusinga più, non gli mente più. Che miracolo un cuore che non si mente! Ma bisogna proprio aspettare la fine di una vita, il fallimento di tutto il resto, per rendersene conto?
Cristo, la Chiesa, ma anche le tradizioni religiose o sapienziali più pure, cioè più povere di fronte al Mistero, anzitutto al mistero dell’uomo, ci aiutano a capire che questo miracolo può essere anche un lavoro, il frutto di un cammino. Ed è qui che il confrontarsi del cuore con la mancanza è fondamentale.
Che mancanza di verità, di ragionevolezza, di onestà verso se stesso, un cuore che non si confronta con ciò di cui è pieno! Che tradimento di sé consuma un cuore che censura la realtà che lo riempie!
Ma perché il cuore si censura? Si censura proprio perché è pieno di mancanza, e la mancanza è un vuoto, è un’assenza, una privazione. Perché il cuore dovrebbe star attento ad essa, farle caso? Meglio occuparsi di altro, meglio una piccola pienezza a portata di mano, di sguardo, di bocca, ma anche di pensiero, di immaginazione, di sentimento, meglio una piccola pienezza afferrabile che star di fronte ad una mancanza senza fondo…
Ma c’è quel "tratto", come dice Luzi, quel tratto, quell’istante, che fa crollare i paraventi dietro i quali il cuore si censura, censurando la mancanza di cui è pieno.
Non si tratta, non si può trattare, credo, di un sussulto che viene dal cuore stesso. Non è possibile che la mancanza, il vuoto che langue nel nostro cuore d’un tratto ci sorprenda. Ci vorrebbe, ci vuole qualcosa che faccia sussultare in noi la coscienza della mancanza che ci invade, che ci affoga. Deve accadere ad un tratto un richiamo, un lampo nella notte, un tuono nel silenzio, un volto, uno sguardo, una parola nella nebbia della solitudine che riempie il cuore. È come una freccia che qualcuno scocca e che viene a trafiggere il cuore e a ridestarlo, a svegliarlo dall’anestesia al suo dolore, al dolore che è suo, solo suo, al dolore che solo il cuore prova: quello della solitudine, della mancanza di un Altro.
Sì, ci vuole come una ferita affinché il bisogno vago che ci invade, che ci invade vagamente, come una nausea, si concentri in desiderio, un ardente desiderio. La ferità inferta da una freccia non è un malessere indefinito: è un dolore che attira e concentra l’attenzione del cuore su un desiderio di guarigione, di salvezza. Il cuore ferito, di colpo, d’un tratto, diventa cosciente della sua mancanza. Quando si diagnostica dov’è l’emorragia, si diventa coscienti della ragione della fiacchezza che si provava, del malessere generale che si provava, e anche si scopre dov’è il punto su cui si dovrebbe intervenire.
Quando all’età di 17 anni ho incontrato in una fredda e umida sera di febbraio la comunità, le persone che mi hanno rivelato il volto vivo della Chiesa, cioè di Cristo, la reazione immediata del mio cuore fu una lancinante tristezza, come forse non ne ho mai provato; ma, subito dopo, da quella ferita è sgorgata, o meglio: è entrata in me la gioia più sorprendente che io abbia mai percepito.
Cosa è successo? Un incontro! Un incontro che veniva a rivelarmi a un tratto che ero solo, che vivevo nella solitudine, che ero pieno di solitudine. E ne provavo malessere, da anni, da sempre, ma fino a quel momento non riuscivo a definire la mancanza che riempiva il mio cuore. Ci voleva una ferita definita e definitiva. E quando è venuta, la sorpresa fu che essa non era inferta da qualcosa di negativo, di brutto, di triste, da qualcosa che mi odiava. La ferita mi era inferta da una realtà positiva, da una bellezza, da una letizia che mi amava come mai mi ero accorto di essere amato. È come uno che vive tutta la vita in fondo a una caverna e d’un tratto lo raggiunge un raggio di sole, e gli occhi si sentono feriti dalla luce, dalla bellezza, dal bel giorno che inizia, che diventa esperienza. Il cuore è ferito dall’incontro con ciò che gli manca, che ferendolo si rivela, e quindi lo attira.
Forse è questa l’esperienza che ha fatto il giovane ricco del Vangelo. Aveva tutto, ed era anche uno che faceva bene tutto, era religioso, osservava tutti i comandamenti, fin dall’infanzia. Ma incontrando Gesù questa sua vita tutta "a posto" viene ferita e attirata da un orizzonte nuovo che corrisponde al suo cuore come niente finora. Ed è così vero con la sua umanità da giungere ad esprimere davanti al Signore tutta la mancanza del suo cuore, quella mancanza che mai nulla ha soddisfatto, né i beni né l’onestà religiosa. "Tutte queste cose le ho osservate: che altro mi manca?" (Mt 19,20).
"Che altro mi manca?". È il verso di Luzi che risuona nel Vangelo da duemila anni. Non so se l’incontro dell’uomo col Mistero abbia mai trovato espressione altrettanto essenziale e drammatica come quando questo giovane ricco e onesto ha espresso davanti al Signore la mancanza insaziabile che percepiva nel suo cuore. Finora questa domanda, questo anelito, aveva condotto questo giovane da appagamento ad appagamento, nei beni sempre più abbondanti o nella moralità sempre più virtuosa. E ogni volta il cuore gridava in lui, come lo ha espresso un altro grande poeta italiano: "Non è per questo, non è per questo!" (Clemente Rebora, Sacchi a terra per gli occhi).
Ed ecco che quel giorno il malessere vago si trova al cospetto di uno sguardo che lo porta ad esprimere, o forse semplicemente a tradire, tutto l’abisso della mancanza che lo riempie come domanda a Colui che solo può dare risposta alla sete del suo cuore. Non so se c’è nel Vangelo, e quindi in tutta la storia dell’umanità, un esempio più essenziale del senso religioso di un uomo espresso di fronte a Gesù Cristo. Tanto è vero che di nessun altro si dice così esplicitamente che Gesù "fissò lo sguardo su di lui e lo amò" (Mc 10,21).
Ma cosa risponde Gesù a questa mancanza che si esprime in domanda? Risponde con una parola che in fondo è anch’essa una domanda: "Seguimi!". Il "Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri" non è ancora la risposta alla domanda del giovane, perché questo potrebbe essere ridotto ad un’ennesima buona azione che di per sé non soddisferebbe ancora la mancanza che riempie il cuore. La risposta al "Che altro mi manca?" è Gesù che gli dice "Seguimi!", perché "Seguimi!" vuol dire: "Quello che ti manca ancora, quello che ti manca sempre, oltre il limite di quello che hai e di quello che fai, anche di quello che fai per Dio, quello che ti manca sono io! Lascia tutto e seguimi perché ti manco solo io!".
Notiamo per inciso che i grandi carismi ecclesiali, sono sempre quelli che permettono il riprodursi di questa esperienza, di questo incontro della sete di pienezza che emerge sempre più dal cuore attraverso tutti i tentativi umani e deludenti di appagamento, con la presenza del Signore che amandoci personalmente ci offre di seguirlo verso la pienezza di vita che solo Lui può dare, che solo Lui è. I carismi che lo Spirito suscita sempre di nuovo sono autentici se riattualizzano questa esperienza, se la rendono possibile oggi, realmente possibile. Ridestano e orientano il senso religioso e permettono l’incontro con la reale presenza di Cristo che soddisfa il cuore umano offrendo un cammino di sequela con Lui. Solo così si rispetta e si esalta la libertà dell’uomo, fino al punto di permettergli, come ha fatto Gesù, anche di dire di no, di non seguire, di rifiutare la felicità. Vi sfido a trovare un carisma nella storia della Chiesa che sia fecondo al di fuori di questi elementi essenziali.
E questo vale per tutti. Il consiglio di lasciare effettivamente tutto per seguire Gesù è solo per esprimere il fatto ontologico che ci manca solo Lui. Chi è chiamato da Cristo a seguirlo radicalmente è tenuto al distacco da tutto per essere un segno effettivo di una realtà ontologica che vale per tutti: che solo Gesù Cristo manca al cuore dell’uomo, alla vita dell’uomo, al desiderio di pienezza e felicità di ogni essere umano. Così la povertà casta e obbediente del distacco da se stessi, da tutti e da tutto non è che corrispondenza esistenziale al fatto che Colui che solo manca al cuore umano si è fatto carne, è presente, è una Persona che incontro, che ascolto, che mi parla, mi guarda, mi ama, mi chiama, e con cui posso restare sempre, con cui posso camminare tutta la vita. E tutta la mia vita non esaurirà il cammino con Lui, perché Lui e Lui solo è e sarà sempre quello che manca alla pienezza della mia vita, e quello che manca alla pienezza della vita di tutti.
E questo vale per tutti, come lo esprime poeticamente sant’Agostino in un sermone su san Lorenzo per rendere coscienti i fedeli che tutti, in ogni stato di vita, siamo chiamati a seguire il Signore che ha dato la vita per noi: "Il bel giardino del Signore, o fratelli, possiede, non solo le rose dei martiri, ma anche i gigli dei vergini, l’edera di quelli che vivono nel matrimonio, le viole delle vedove. Nessuna categoria di persone deve dubitare della propria chiamata: Cristo ha sofferto per tutti." (Discorsi, 304,3).
Ma l’incontro di Gesù col giovane ricco ribadisce un aspetto della risposta che Cristo è alla sete del cuore umano che non possiamo trascurare. Come abbiamo visto la risposta di Gesù alla domanda: "Cosa manca sempre e radicalmente al mio cuore?", non fu un esplicito: "Ti manco io!", ma una chiamata: "Seguimi!". E "Seguimi!" vuol dire un cammino, un cammino con Gesù, in compagnia e nella compagnia di Cristo, un cammino con Gesù che percorre una strada che ha una direzione. Quando Cristo dice "Seguimi!", non è per dirci: stai con me per andare non importa dove. Il cammino di Cristo nel mondo non è una passeggiata. La via di Cristo è la sua missione, la direzione di Cristo è la missione per la quale il Padre lo ha mandato nel mondo. E questo non è accidentale alla sua presenza, alla sua presenza che soddisfa la mancanza ultima che sente il nostro cuore. Anche per questo il giovane ricco doveva lasciare tutto, perché tutto quello che aveva e faceva avrebbe intralciato il suo camminare con Cristo, il suo stare con Cristo che percorre nel mondo la missione voluta dal Padre.
Persino Maria, con Giuseppe, ha dovuto prendere coscienza di questo. Quando hanno perso Gesù, figuriamoci che tremenda mancanza di Lui hanno provato per tre giorni! E quando Lo ritrovano nel Tempio, Maria rimprovera al Figlio di averli angosciati con una mancanza che non sapeva più dove colmarsi di Lui. La risposta che dà ai suoi genitori è una rivelazione del vero luogo in cui Cristo non ci verrà mai a mancare: "Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?" (Lc 2,49). E qual è la cosa del Padre di cui il Figlio deve occuparsi? Appunto, la missione per cui il Padre Lo ha mandato nel mondo, la redenzione, la salvezza del mondo.
L’estrema mancanza del cuore, Cristo la soddisfa attirandoci a seguirlo nella sua missione di salvezza. Su questo, Gesù non ha esitato a correggere sua Madre, ma ancor più severamente Pietro che voleva soddisfarsi della Sua presenza dissociandola dalla Sua missione verso e attraverso la morte in Croce. Quando Cristo si dona come pienezza del cuore, lo fa coinvolgendoci nella missione che riceve dal Padre e che persegue con carità infinità fino alla fine del mondo. Per questo nessuno può abbracciare Cristo senza seguirlo e senza partecipare, nella modalità e forma che Dio decide, alla sua missione di salvezza.
Quando un tale a cui Gesù ha detto a bruciapelo: "Seguimi!" risponde: "Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre", Cristo ribatte: "Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio" (Lc 9,59-60). È come se fra il "Seguimi!" e il "Va’ e annuncia il regno di Dio!" non ci fosse nessuna distinzione. Chi segue Cristo, immediatamente va e annuncia il Regno, anche se lo segue ritirandosi dal mondo o nella quotidianità banale e ordinaria di Nazareth. Perché la missione coincide con Cristo stesso, con la sua Persona inviata dal Padre nel mondo.
Il Cristo che risponde "Seguimi!" alla mancanza che riempie il cuore del giovane ricco che giunge come un naufrago sulla riva del suo Cuore, è il Servo di Dio che già due volte ha annunciato la sua Passione e che ormai ha preso la direzione verso Gerusalemme per consumare la sua Pasqua, portando ora nella memoria il volto del giovane che ha cominciato ad amare per sempre e che si è chiuso alla pienezza.
Lui è venuto per soddisfare la mancanza di amore eterno che riempie il cuore dell’uomo. Ma ancora una volta Gesù non ha trovato corrispondenza al suo offrirsi alla sete dell’uomo. È questa l’agonia di Cristo, e forse l’estrema tentazione a cui il demonio sottopone il suo cuore: "È proprio vero che sei tu che manchi al cuore dell’uomo? Sei sempre convinto che gli uomini desiderano Dio? Forse che il primo peccato in cui Adamo ha desiderato altro che Dio, e contro Dio, non è la parola definitiva sul destino dell’umanità? Tu puoi perdonare tutto, amare l’uomo fin che vuoi, morire per lui… Ma non ti sembra ormai evidente che l’uomo ha scelto di non riamarti, di preferire la libertà di mancare alla schiavitù di una pienezza che viene solo da te? La tua missione è fallita, e fallita in anticipo è la tua passione, la tua morte. Sei venuto nel mondo per constatare che in fondo tu non manchi all’uomo…"
Ho l’impressione che questa sia la più grande tentazione anche per noi. Lo provo nel mio ministero. La tentazione più insidiosa non è lo scoraggiamento di fronte alla fragilità umana, al peccato, alla meschinità, in noi stessi e negli altri. La vera tentazione è quella di dover chiedersi se Cristo manchi veramente a coloro a cui lo annunciamo, se manchi veramente alle persone e comunità, anche monastiche, anche contemplative, anche impegnate nella Chiesa, che accompagniamo. Infatti, spesso ci sembra di constatare che l’attrattiva di Cristo non sia veramente per chi Lo incontra la risposta esauriente alla mancanza che riempie il cuore.
La tentazione, l’agonia di Cristo stesso e di chi lo annuncia, di chi lo annuncia magari semplicemente alla moglie o al marito, ai figli, agli amici, ai colleghi, ai propri confratelli, è quella di accorgersi che Gesù non riscontra veramente una preferenza, che sembra non sia veramente Lui a riempire il cuore delle persone.
È forse quello che provò il cuore di Cristo alla fine del suo discorso a Cafarnao (cfr. Gv 6,26ss). Aveva detto e ripetuto, come un disco rotto, che senza mangiare la sua carne e bere il suo sangue, cioè senza riempirsi di Lui, l’uomo non vive, non ha la vita, è vuoto di senso, di vita, di felicità. E proprio per questo tutti se ne vanno. E Gesù si ritrova solo di fronte ai Dodici, di cui conosce tutta la miseria e fragilità. Non li vuole trattenere; se non c’è un desiderio non li vuole trattenere: "Volete andarvene anche voi?". E Pietro che esprime la posizione del cuore più vera e umana di fronte a Cristo che mai nessuno ha espresso: "Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna!" (Gv 6,67-68), che tradotto vuol dire: "Signore, come possiamo staccarci da te? Se ci manchi tu, ci manca tutto, ci manca la vita!". Pietro tradirà, rinnegherà, peccherà, ma non potrà mai venir meno alla confessione di questo desiderio di pienezza. Ed è questo, solo questo, che sconfigge la tentazione suprema contro l’avvenimento cristiano. Che ci sia anche solo un uomo, una donna, che permetta al proprio cuore di gridare che in tutto e sempre gli manca solo Cristo e la vita che Egli dà.
Dicevo che il Figlio di Dio si offre a noi come soddisfazione di ciò che manca al cuore chiedendoci di seguirlo nella missione che il Padre Gli affida. Ma non possiamo dimenticare che la sostanza di questa missione è la misericordia. San Giovanni Paolo II scriveva nella Dives in misericordia, che Cristo incarna e personifica la misericordia del Padre (cfr. § 2).
La tentazione di cui parlavo prima, Gesù l’ha contraddetta soprattutto riaffermando l’origine, il Padre che lo manda, il Padre che non rinuncia alla misericordia. La coscienza dell’origine della missione è più potente dell’esito apparente. La carità, la fede e la speranza scaturiscono dall’origine, e attingono in essa tutta la invincibilità della missione.
Gesù, nell’agonia del Getsemani, non si è opposto alla tentazione di donarsi invano a un mondo che non lo avrebbe accolto cercando argomenti nell’umanità che ha frequentato da più di trent’anni. Anche Pietro, Giacomo e Giovanni lo stanno deludendo dormendo mentre Lui soffre e veglia, e presto lo deluderanno ancor più fuggendo e rinnegandolo. Ciò che vince la tentazione non è un giudizio sull’umanità, un’analisi della situazione morale delle persone, della Chiesa, del mondo. Ciò che la vince è il riferimento al Padre: "Abbà! Padre! Tutto è possibile a te (…). Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu" (Mc 14,36). Dicendo al Padre "Tutto è possibile a te", Gesù non poteva non pensare a quello che disse subito dopo il triste abbandono del giovane ricco: "Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze [cioè che credono di non mancare di nulla], entrare nel regno di Dio!". "E chi può essere salvato?", domandano angosciati i discepoli. Allora Gesù "guardandoli in faccia" anticipa quello che dirà al Padre nel Getsemani: "Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio" (cfr. Mc 10,23-27).
Ma cosa vuole il Padre? A Lui tutto è possibile; ma cosa vuole veramente, cosa realizzerà veramente la sua onnipotenza? Cosa rende possibile Dio mandando il Figlio nel mondo? Cosa ha voluto realizzare mandandolo ad obbedire fino alla morte, e alla morte di Croce? Cosa ha mandato il Padre incontro alla mancanza instabile, incostante e deludente dell’uomo?
Ciò che ha mandato il Padre nel Figlio è fondamentalmente una grande rivelazione, una grande rivelazione di Se stesso, del suo Cuore. In Cristo, Dio ha rivelato e sta rivelando a tutta l’umanità che l’uomo manca al Padre infinitamente di più di quanto il Padre possa mancare all’uomo.
"Mi manchi!". È il ritornello drammatico dei rapporti umani. Quanto è presente questa espressione nella letteratura, nelle canzoni, nei film! È la grande ferita dei cuori umani, perché creati per compiersi nella relazione, nell’amicizia. Misuriamo l’amore da quanto l’altro ci manchi o da quanto manchiamo all’altro.
Ma tutto il mancarci profondo o superficiale fra di noi, anche il mancare struggente della morte di chi ci è caro, non è che il simbolo del fatto che ci manca Dio.
Ma che mistero è mai questo che tutta la mia consistenza sia Uno che mi manca? Che mistero è questo che io continui a vivere, anche quando mi manca tutto, perché mi manca il Solo senza il quale non posso vivere? Come è possibile che viva ancora se mi manca Colui che è tutta, tutta!, la consistenza del mio esistere?
La risposta, appunto, è venuta a darcela Lui stesso, ce l’ha rivelata Lui stesso. La risposta è che Colui che ci manca è Uno a cui manchiamo noi! È la grande rivelazione che Gesù ha condensato nella parabola del figlio prodigo: il figlio manca al padre più di quanto il padre manchi al figlio.
La mancanza che riempie il nostro cuore, la ferita del nostro cuore, non è che il riflesso, e quanto impreciso!, quanto torbido!, di una mancanza infinita, misteriosa, eterna: che noi manchiamo a Colui che ci fa, che noi manchiamo a Colui che abbiamo abbandonato. Ci ha fatti con una libertà che ferisce in Lui un’attesa, un’aspettativa, un’ansia, una solitudine, un abbandono, una mancanza di noi a Lui che è messa nelle nostre mani, nel nostro cuore, nella nostra decisione o meno di tornare a Lui, di rispondergli.
E questa è la misericordia! È il grande annuncio di Cristo, la grande rivelazione che è Cristo: la misericordia è che noi manchiamo al Padre, che nel cuore di Dio c’è uno spazio di amore al quale manchiamo, che ci attende, che ci attende da sempre, eternamente.
Le tre parabole sulla misericordia nel capitolo 15 del Vangelo di Luca, prima che illustrare il modo con cui Dio cerca, perdona, accoglie ciò che si è perso, illustrano il dramma del cuore divino a cui manca l’uomo. Non è la pecora che sente di essere perduta, e tantomeno la moneta; e pure il figlio prodigo torna a casa soprattutto perché ha fame. Ciò che è perduto non pensa al dolore di Colui che non lo trova. La passione è tutta nel cuore del pastore che ha perso la pecora, della donna che ha perso la moneta, del padre che ha visto partire il figlio minore e vive scrutando l’orizzonte finché non torni, e che poi esce a supplicare il figlio maggiore arrabbiato. Il dolore della mancanza e la festa del ritrovamento sono anzitutto nel cuore di Dio.
È questa la misericordia: manchiamo a Dio più di quanto ci manchi Lui. E solo facendo esperienza, come il figlio prodigo, riabbracciato e festeggiato, di questo mancare a Dio totalmente gratuito, senza ragione in noi, l’uomo scopre "di che è mancanza questa mancanza" che a un tratto, furtivamente, riempie il suo cuore distratto e infedele. L’essere mancati a Dio è più doloroso al suo cuore di Padre che il nostro aver mancato contro di Lui. È questa scoperta che ci rende coscienti della misericordia del Padre che in Cristo si rivela.
Il cuore dell’uomo infatti è la coscienza improvvisa, stupefacente, della nostra mancanza a Dio. È il riflesso dell’attesa del Padre. Il riflesso nello stupore della nostra coscienza della festa che il Padre riserva al nostro ritorno a Lui. La mancanza del nostro cuore è l’eco della ferita del Padre che vede il Figlio crocifisso immerso nel nostro sentimento di essere abbandonati da Dio.
Allora capiamo che anche la Risurrezione è un grande ritorno al Padre del Figlio che Gli manca, e in Lui di tutti noi, di tutti i figli che mancano al Padre. Vivere della risurrezione di Cristo vuol dire vivere la guarigione della ferita del mancarsi fra Dio e l’uomo.
Ed è proprio da lì, da questa esperienza, che possiamo fare solo quando ci lasciamo riabbracciare dal perdono di Dio, che nasce la nostra partecipazione alla missione di Cristo morto e risorto, e quindi la diffusione nel mondo del regno di Dio. Quando il pastore torna dopo aver ritrovato la centesima pecora che si era perduta, fa festa con gli amici e i vicini (Lc 15,6). Quando la donna ha ritrovato la decima moneta perduta, fa festa con le sue amiche e vicine (Lc 15,9). Ma è soprattutto il padre che ha ritrovato il figlio perduto e morto che vuole festeggiare con tutti: coi servi, col figlio ritrovato e col figlio maggiore (Lc 15,32). La missione di Cristo, la diffusione del Regno, è croce e resurrezione, perché partecipa all’ansia del Padre che cerca ciò che è perduto, ma anche alla letizia di festeggiarne il ritrovamento. Ma quando la missione parte dal lasciarci ritrovare noi stessi da Colui a cui manchiamo, è come se non ci fosse che la festa della risurrezione da diffondere, da testimoniare, da condividere con tutti. Non si può più vivere che per diffondere la testimonianza della misericordia del Padre, cioè della scoperta che anche l’ultimo dei perduti, soprattutto l’ultimo dei perduti, ha nel cuore di Dio uno spazio infinito di attesa, di desiderio, una abisso di amore misericordioso che arde di abbracciare, baciare, chi è perduto.
Gesù ha detto alla Samaritana che il Padre cerca adoratori (cfr. Gv 4,23). In latino "adorare" ha l’etimologia della tensione alla bocca, ad os, cioè comporta anche l’idea del bacio. É proprio questo che fa il padre della parabola col figlio appena tornato: lo stringe al collo e lo bacia (Lc 15,20). L’adorazione cristiana non è uno stare di fronte a un mistero indifferente, ma lo starci all’abbraccio e al bacio di un Dio a cui si ritorna, e i Padri della Chiesa non hanno mancato di far notare che il bacio di Dio è la comunicazione all’uomo dello Spirito Santo, della vita e comunione amante della Trinità. Tutta la mistica cristiana sta in questo bacio del Padre misericordioso che ci trasmette lo Spirito dell’adozione filiale in Cristo. La mistica cristiana è una mistica di peccatori abbracciati e baciati dal Padre.
Che cultura nuova, che mondo nuovo, che soluzione diversa dei mille e tragici problemi del mondo d’oggi, si diffonderebbero se imparassimo dall’abbraccio di Dio ad andare verso tutti, e accogliere tutti, con la coscienza e quindi la testimonianza che ogni persona umana sta mancando al Padre, all’abbraccio e al bacio di un Dio che comunica Se stesso come Amore, come Misericordia! Che rivoluzione in ogni lotta per la verità, la giustizia, la pace!
C’è un profondo bisogno di mistica della misericordia nel mondo d’oggi.
Penso al re Giosafat che, illuminato dal profeta Iacazièl, decide di andare a combattere contro i nemici potenti che minacciano il popolo mettendo "i cantori del Signore e i salmisti, vestiti con paramenti sacri, davanti agli uomini in armi, perché lodassero il Signore dicendo: ‘Lodate il Signore, perché eterna è la sua misericordia’." (2 Cr 20,21). E l’esercito vince senza neppure combattere.
La missione cristiana è vittoriosa della vittoria di Cristo, e il suo metodo è di inoltrarsi verso tutti e tutto, anche il peggior nemico, lasciandosi precedere dalla coscienza, cioè dall’esperienza, e dalla celebrazione della misericordia eterna di Dio. È la testimonianza di tanti martiri, oggi come sempre.
San Paolo scrive agli Efesini che anche noi, come il mondo, "siamo vissuti nelle nostre passioni carnali seguendo le voglie della carne e dei pensieri cattivi", e che "eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri", come tutti (Ef 2,3). Cioè infedeli come tutti al desiderio di infinito che abita il cuore dell’uomo.
"Ma Dio [il grande "ma" che capovolge tutto, che rigenera tutto, che vince ogni tentazione di scoraggiamento, è un’iniziativa di Dio], ma Dio, ricco di misericordia [non solo di beni, non di sola giustizia come il giovane ricco], per il grande amore con il quale ci ha amati [la misericordia vuol dire che la carità di Dio è la ragione di tutto, l’origine di tutto!], da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatti rivivere con Cristo" (Ef 2,4-5).
L’effetto in noi della misericordia del Padre, l’effetto del bacio in cui ci ridona il Soffio della vita, è che riviviamo con Cristo. Letteralmente la parola usata da san Paolo non è veramente "rivivere", ma "fatti vivi": da morti che eravamo il Padre ci ha fatti vivi con Cristo, ci ha fatti "conviventi" con Cristo. La vita nuova, risorta, redenta, rifatta, ricreata, rigenerata è la vita con Cristo, cioè vivere la comunione con Cristo. La nostra vita rinasce come rapporto con Gesù, come comunione con Lui. Nella relazione con Cristo la vita umana che per natura è relazione, come ha messo bene in risalto il filosofo ebreo Martin Buber, rivive, rivive come vita e come relazione. Viviamo veramente vivendo con Cristo. La vita nuova in Cristo, prima di essere chissà che altra vita, è la nostra vita con Lui, vivere in comunione con Lui.
È a questo che Gesù chiamava il giovane ricco dicendogli "Seguimi!": non lo chiamava anzitutto a "cambiar vita", ma a vivere con Lui, perché è questo che cambia veramente la vita, la vita reale, la mia vita.
Ed è proprio in questo che si manifesta in noi la misericordia del Padre: "Questo mio figlio, questo tuo fratello era morto ed è tornato alla vita" (cfr. Lc 15,24.32). Perché? Perché è con Lui. Semplicemente con lui. E noi siamo con Cristo, e in Lui col Padre.
Confesso che la poesia di Mario Luzi che più mi ha commosso e mi accompagna è quella in cui uno dei due discepoli di Emmaus descrive il loro incontro col Risorto:
Ci segue, ci sopravanza,
si accompagna con noi,
per lunghi tratti
ci respira al fianco,
seminascosto dalla tarda luce,
occultato dalla sua presenza
l’uomo soprapensiero e taciturno
eppure innaturalmente attento.
A che? ci scorta forse
sulla strada dolorosa
della rotta e del rientro
qui tra i monti
o ci chiede protezione
lui stesso pel viaggio che l’attende?
lo sogguarda il mio compagno, io pure
senza parere non tralascio
di scrutarlo. Ancora non sappiamo niente
quando a notte quasi fatta
entriamo tutti insieme
nella semioscurità della taverna.
Quel pane, quelle mani che lo frangono,
lo sguardo, il troppo lesto addio. Sarebbe
stata poi – lo sapevamo
noi di Emmaus – questa la materia del racconto.
Vennero e se ne andarono al primo far del giorno.
Ecco. La misericordia del Padre è il Risorto che viene gratuitamente ad accompagnarsi al nostro cammino, "convivificandoci" con Lui. La vita cristiana è sempre missione perché ciò che salva è vivere con Cristo, la comunione con Lui. La missione è la comunione: poter vivere tutto con Cristo, poter vivere con Cristo con tutti. E la nostra vita reale, la nostra vita umana, la nostra povera vita quotidiana, diventa il dramma esplicito, il mistero svelato, della comunione con Lui, in tutto, con tutti, sempre. Con Lui da seguire, con Lui che ci è dato e che ci manca, come se ogni passo fosse un respiro, un battito del cuore che rigenera la vita.
EMILIA GUARNIERI:
Grazie Padre Mauro. Due battute, solo due parole non per ringraziarti perché credo che questo applauso dica più di ogni mia parola, ma mi è tornato alla mente quello che diceva il messaggio di Papa Francesco che ieri abbiamo letto. Il messaggio del Papa diceva tra l’altro che il Meeting può contribuire allo scopo della Chiesa, rinnovando la provocazione affinché non ci si si accontenti di poco, affinché ogni uomo non si accontenti di poco, e questo è il contributo che l’esperienza cristiana porta a tutti, non solo ai cristiani. Io credo che oggi di fronte a quello che abbiamo ascoltato, chiunque abbia provato la commozione di poter non accontentarsi di poco, cioè di vedere di fronte a sé la possibilità di non accontentarsi di poco. Ti ringrazio moltissimo di questo e aggiungo anche che se il Meeting è questo tentativo ironico che da 36 anni proviamo a costruire, se il meeting può minimamente servire a questo scopo, che in questo mondo gli uomini non si accontentino di poco ma possano almeno guardare con stupore e desiderio alla prospettiva che tu oggi ci hai rilanciato, io dico che se il Meeting minimamente serve a questo, allora vogliamo continuare a costruirlo. Vi leggo ora questo avviso che risentirete probabilmente in questi giorni. E’ l’avviso sul fund raising. Ci ho pensato e ripensato se darlo o non darlo e ho pensato che vale la pena darlo solo perché, se il meeting può servire a questo scopo, ha un senso che continuiamo ad aiutarci a costruirlo: “Prosegue la campagna di fund raising, raccolta fondi, per sostenere la costruzione del Meeting, un luogo che da oltre 30 anni testimonia e racconta una cultura dell’incontro e dell’amicizia. Con la propria donazione si entra a far parte della Community Meeting. Si può donare in vari punti della fiera : padiglione C1, padiglione A1, padiglione A3, padiglione C5, oppure andando sul sito del Meeting nella sezione sostienici. Con la propria donazione si riceverà la card della Community Meeting che permette di avere alcune agevolazioni legate al noleggio delle mostre itineranti del Meeting”. Ringraziando ancora immensamente e affettuosamente Padre Mauro, buona continuazione.