Chi siamo
DESIDERIO E DESIDERI
Partecipano: Stanley Hauerwas, Docente di Etica Teologica alla Duke University; Carter Snead, Fellow at the Ethics and Public Policy Center and Associate Professor of Law at the University of Notre Dame. Introduce Carmine Di Martino, Docente di Propedeutica Filosofica all’Università degli Studi di Milano.
MODERATORE:
Benvenuti, iniziamo questo nostro incontro dal titolo “Desiderio e desideri” con due illustri ospiti: alla mia destra il Professor Stanley Hauerwas che insegna Etica Teologica alla Duke University in North Carolina e alla mia sinistra Carter Snead che insegna Diritto all’Università di Notre Dame nell’Indiana.
Il tema è cruciale, per indicarlo mi servo di una frase pronunciata in un intervento del 2005 da Julián Carrón, che dice: “Confondiamo il desiderio di totalità con i desideri e soccombiamo alla loro dittatura, cioè confondiamo le esigenze originali dell’uomo con le immagini prodotte dalla nostra fantasia o indotte dal mercato, dai poteri”. Vi è oggi un appiattimento del desiderio che passa in modo solo apparentemente paradossale proprio attraverso l’esasperazione dei desideri. Basti pensare a ciò che tutti conosciamo sotto il nome di clonazione, riproduzione assistita, matrimoni di fatto, adozioni di bambini anche per omosessuali. Per dire che si desidera tutto, si pretende la trasformazione in diritto di ogni desiderio, ma, al tempo stesso, si fanno sempre meno i conti con la profondità del desiderio umano. La delusione e la violenza sono le conseguenze più evidenti a livello personale e sociale di questa dinamica. Diceva Mauriac: “Mi sono sempre ingannato sull’oggetto dei miei desideri, non sappiamo quel che desideriamo, non amiamo quel che crediamo di amare”.
Allora ecco la questione: come si può riappropriarsi del proprio desiderio umano? Chi e che cosa ci può aiutare? E inoltre, si può ancora parlare oggi di esigenze originali dell’uomo, a fronte di un cosiddetto relativismo etico culturale che sembra ormai un ingrediente ovvio della nostra mentalità? Ne va, in questi interrogativi, non solo del destino di una cultura, di una civiltà, la nostra, ma della vita di ognuno di noi. Ora quelle dei due ospiti sono esemplificazioni importanti, che provano a segnalare dei punti delicati, controversi, in cui sono coinvolti i desideri, i bisogni umani e che appartengono ad aree particolarmente sensibili del dibattito attuale. In particolare, e qui vorrei solo annunciare una linea delle due proposte, provocazioni, in particolare Stanley Hauerwas affronta la questione della cura, perciò della malattia, del rapporto con la morte nell’attuale contesto in cui le scoperte, gli avanzamenti della medicina, le nuove frontiere che si aprono alla sopravvivenza e al desiderio di vita, di uscire vivi dalla vita, come dirà spesso, come dice spesso, devono fare i conti con sempre più rilevanti problemi di risorse e di distribuzioni delle risorse. Come decidere chi curare? Chi ha il diritto di essere curato? Con quali criteri stabilire l’ordine delle priorità, anche negli investimenti destinati alla ricerca in questo campo? E’ una questione di giustizia? È l’interrogativo con cui vedremo misurarsi il Professor Hauerwas. E ancora: quale immagine dell’uomo, del suo rapporto con la morte emerge dal modo di affrontare il problema della salute e della cura? Forse un desiderio come quello della salute va colto anche nel suo valore di sintomo rivelatore di una concezione del vivere e del morire. Carter Snead affronta invece il grande tema della normatività, dei limiti o dei confini in rapporto a tutte le grandi questioni etiche poste dagli sviluppi delle scienze biomediche e biogenetiche. Chi è deputato a decidere? Alcuni dicono: “La scienza stessa può e deve farlo, il suo punto di vista non ha bisogno o non tollera altri punti di vista”. Snead mostra i limiti di una tale posizione, la scienza non ci dice chi siamo, perché cosa siamo fatti e che cosa dobbiamo l’uno all’altro. Resta allora la domanda: in quale nuova prospettiva discutere dell’esperienza umana in termini razionali?
Bene, detto questo cedo la parola al Prof. Hauerwas.
STANLEY HAUERWAS:
Chiedo spesso di avere alle mie conferenze un pubblico laico, cioè persone che non siano in qualche modo legate alla medicina, “Come vuoi morire?” Le risposte a tale domanda sono quasi sempre le stesse. Vogliono morire velocemente, nel sonno, senza dolore, e senza essere “un peso”. Non vogliono essere un peso perché non si fidano dei loro figli. Vogliono morire velocemente, nel sonno, e senza dolore, perché quando muoiono non vogliono doversi rendere conto che stanno morendo.
Di conseguenza, ora ci aspettiamo che i dottori ci tengano in vita al punto che quando moriremo non sapremo che stiamo morendo, e poi rimproveriamo i dottori perché continuano a tenerci in vita.
Sarebbe piuttosto interessante paragonare questo modo di morire con il concetto della morte nel Medio Evo.
Le persone nel Medio Evo volevano ciò che la gente dei nostri tempi teme, ovvero, desideravano una morte lenta. Temevano una morte improvvisa. Questo perché temevano di morire senza aver tempo per riconciliarsi con i loro nemici, che spesso erano: la loro famiglia, la chiesa, e Dio. Oggi noi temiamo la morte. Loro temevano Dio.
Queste paure tanto diverse hanno a che fare con molti dei dilemmi che ci troviamo di fronte quando ci scontriamo con la medicina moderna. Molti pensano che lo sviluppo dell’etica medica, un fenomeno cominciato in America qualche anno fa, fosse un tentativo di rispondere al potere sempre più tecnologico della medicina moderna. Ciò potrebbe spiegare la creazione di un tale settore, ma io credo che l’etica medica fosse più che altro un tentativo di pensare attraverso un modo di praticare la medicina in una cultura moralmente frammentata.
Detta più brutalmente, penso che lo sviluppo dell’etica medica fosse uno sforzo di capire come la medicina potesse essere praticata in un mondo in cui non vengono più percepiti limiti – incluso il limite della morte. Di conseguenza la medicina moderna, e l’etica sviluppata per legittimare tale medicina si prese come compito quello di servire al desiderio delle persone dei tempi d’oggi che vogliono evitare la vita, vivendo. Prendersi cura del malato quando non puoi curare la loro malattia non è più lo scopo della medicina. I pazienti ora chiedono di essere guariti.
Lasciate che provi a esemplificare queste osservazioni chiamando all’attenzione una discussione di cui diventai consapevole quando mi iscrissi alla facoltà della Divinity School alla Duke University nel 1984. Era in atto un dibattito al Duke Medical Center incentrato sulle questioni riguardanti i trapianti degli organi. Il centro medico era in procinto di avviare trapianti del fegato che dovevano venire a costare 140,000 dollari a operazione. Il Dottor Harvey Estes, presidente del dipartimento di medicina della comunità e della famiglia a Duke, domandò se i soldi impiegati per i trapianti degli organi non potessero essere spesi meglio in altri modi. Come risposta, Clark Havighurst, professore della Duke School della facoltà di Legge, osservò: “E’ davvero dura per la società affrontare la morte di qualcuno che potrebbe essere salvato, ma dovremo farci i conti assieme a molto altro”.[1]
Ripongo attenzione su questo breve tafferuglio a Duke nel 1984, poiché credo che gli esiti permangano ancora oggi, ma contrariamente a Havighurst, noi non vi abbiamo ancora fatto i conti. Infatti, così i problemi sono andati peggiorando. Ogni centro che si dedica all’alta tecnologia medica sa che è necessario competere con altri centri se bisogna controllare i fondi di ricerca che richiedono lo sviluppo di forme più esotiche delle cure. Proprio mentre uno che sta affrontando un intervento vuole credere che c’è a disposizione il chirurgo migliore, così pare che ogni scuola e centro medico debba dare l’impressione di rappresentare la “lama affilata” della ricerca medica.
Il risultato, come ha suggerito Estes, crea un mondo bizzarro. Perché dovremmo sviluppare forme straordinarie di terapia quando siamo sempre meno capaci di dare per fino la minima cura medica ai poveri? Il risultato è un sistema ultra-affaticato per la distribuzione di medicinali—una per le persone che posseggono l’assicurazione contro le malattie e l’altra per coloro che non sono provvisti di tale assicurazione. Visto questo tipo di discrepanza assumiamo qualcuno a cui dare la colpa. Non voglio escludere tale possibilità, ma voglio in primis cercare di capire perché sembra che siamo presi in questo triste dilemma.
Paul Ramsey, io credo, sollevò il medesimo problema così come può essere sollevato nel 1970 nel suo libro The Patient as Person[2]. Ramsey osservò:
Con risorse sufficienti di soldi e personale, uno o più rimedi potrebbe essere esteso a tutti nel momento del bisogno. Ma non tutti i rimedi possono insieme essere effettivamente estesi nella pratica sociale della medicina in questo periodo di trattamenti straordinari. Poiché i bisogni sanitari sono quasi per definizione illimitati in ogni società, e poiché i bisogni sanitari del mondo come un insieme sono infiniti, le scelte devono essere in qualche modo prese fra queste. Le scarse risorse mediche come possono essere distribuite? A quali bisogni si dovrebbe dare la priorità nella pratica medica e più in generale nelle istituzioni mediche? Oltre a ciò, c’è una domanda di priorità che dovrebbe essere posta ai bisogni medici fra le tante cause sociali che possiedono richieste valide sulle risorse di una nazione. Idealmente, ognuno di questi potrebbe esser soddisfatto, ma non tutti allo stesso tempo o in un ordine di priorità. I bisogni dell’uomo (di cui la salute ne rappresenta solo uno) sono certamente illimitati; e, dal paragone con i bisogni percepiti o la richiesta, i rifornimenti delle risorse di ogni società sono irrimediabilmente esigui. Non c’è modo di evitare questo problema di scegliere le priorità sociali. Dobbiamo scegliere come poterci muovere sulla scelta e come poter ordinare i nostri scopi medici e sociali[3].
Ramsey sostiene che queste domande siano anche più complicati della sfida su come fare per scegliere chi deve vivere e chi deve morire quando, per esempio, esiste un numero limitato di macchine per la dialisi per le persone affette da collasso renale. Dovendo fare i conti con una scelta tale possiamo dire se un sorteggio o qualche altra procedura di selezione sia appropriata. Ma Ramsey sostiene che non abbiamo modo di determinare se dobbiamo o non dobbiamo sviluppare al primo posto la tecnologia della dialisi. Alle prese con questa domanda Ramsey nota che “le domande più complicate riguardo alle priorità mediche e sociali sono quasi, se non del tutto, incorreggibili per il ragionamento morale”.[4]
Ramsey illustra questo dilemma discutendo l’articolo satirico del Dottor Warren Warwick sui trapianti d’organi che mostrava il sottotitolo: “Una proposta modesta”. Il sottotitolo vuole suggerire il celebre articolo di Swift che suggeriva che gli abitanti dell’Irlanda potessero incrementare il loro rifornimento di cibo mangiando i loro figli. Nello stesso spirito il Dottor Warwick suggerisce che dovrebbero esser formati “club di controllo degli incidenti” per fornire elicotteri in grado di raggiungere velocemente i luoghi degli incidenti in modo da assicurare gli organi alle vittime delle disgrazie. Tali club devono inoltre fare pressione per proibire l’uso delle cinture e altre disposizioni di sicurezza. Se tutti obiettassero che tale politica è deliberatamente designata per uccidere le persone li lascerebbero riflettere su come il metodo medico moderno possa rispondere controllando le logistiche di molti usi degli organi di una singola vittima per il bene di cinque o sei che hanno bisogno degli organi che ne risultano.
Tale procedura può essere giustificata da calcoli utilitaristici di base.
Ramsey riporta che il commento di Warwick sul fatto che non solo abbiamo bisogno di una nuova definizione per la morte in modo da raccogliere organi più efficientemente, ma anche di una nuova filosofia del corpo. “La Società dovrebbe avere il diritto di tassare il corpo di un uomo reclamando i suoi organi, dal momento che le risorse sociali hanno mantenuto la sua salute—proprio come abbiamo tassato il suo podere sull’appezzamento di terreno con cui la prosperità comune aveva a che fare attraverso il benessere che un uomo raggiunge”[5]. Se necessario questa condizione del corpo potrebbe essere estesa per incoraggiare, ad esempio, le donne che ricercano l’aborto, per permettere al feto di sviluppare lo stadio per cui poi le stesse potrebbero essere usate per fornire organi.
Ramsey riporta la conclusione del Dottor Warwick che nel il suo articolo lancia una petizione: i dottori, dal momento in cui il trapianto degli organi ha chiaramente conquistato i cuori degli americani, non devono sostenere “perdenti provati,” come ad esempio la nozione arcaica che la medicina preventiva sia migliore di un trattamento a posteriori. I fondi per imparare di più su come dovremmo vivere per prevenire una malattia del cuore o una malattia renale non sono in programma, ma la ricerca che si fonda sul trapianto di questi organi sarà supportata dalle persone d’oggigiorno. Gli studenti di medicina dovrebbero imparare velocemente che l’azione non consiste in cura preventiva ma in un intervento nel momento di crisi.
Ramsey riconosce che non può non astenersi dal chiamare all’attenzione l’articolo di Warwick per “un puro divertimento”, ma piuttosto pensa che l’articolo sollevi problemi importanti. Infatti l’articolo solleva giustamente la domanda su come il riuscire ad ordinare le nostre priorità mediche possa essere soggetto a un qualche schema razionale. Ramsey si chiede, “chi potrebbe dire o in che modo che noi ci muoviamo nei confronti della decisione riguardo a quale sorta di medicinali dovrebbe esser data priorità sugli altri, e riguardo a quante risorse di una nazione dovrebbero esser spese in cure mediche rispetto ad altri reclami e bisogni?”[6].
Ramsey argomenta che una volta che sorgono tali domande non ci sono ragioni per abolirle causa l’indecisione, ma quello è il modo che sembra abbiamo scelto per procedere. Cioè che, scegliamo di ordinare le nostre priorità non riordinandole—o forse per meglio dire, non dobbiamo rendere esplicito o riconoscere le forze che stanno ordinando le nostre priorità. Diciamo a noi stessi di non voler nient’altro se non la migliore cura medica per ogni paziente—“non puoi dare un valore monetario alla vita umana”- ma di fatto sappiamo di partecipare a, così come supporto, istituzioni sociali che danno una somma di denaro alla vita umana. I medici imparano ad organizzare la loro pratica in un modo che non possiedono per venire a conoscenza che certe popolazioni di pazienti si nascondono da loro – non puoi ignorare pazienti che non hai mai visto.
Certamente c’è una concezione di giustizia che determina la distribuzione della cura sanitaria nelle società più industriali come l’America. Si suppone che la giustizia sia raggiunta dalla soddisfazione dei bisogni e voleri degli individui in un mercato aperto di rifornimento e richiesta.
La giustizia è determinata dalla nostra abilità di pagare. Di conseguenza non esiste un diritto generale per la cura della salute. La capacità professionale che un medico possiede è una proprietà che questo sistema crea solo per rinforzare il suo ruolo perché infatti non si tratta d’altro che di sussidi pubblici per mercati privati.
Inoltre, molti pensano che il mercato della giustizia sia inappropriato per determinare la distribuzione di cure mediche. Quindi, quando siamo malati non siamo nella posizione di negoziare. Perciò il mercato per lavorare bene presume che ognuno sia un libero e razionale operatore in grado di barattare e scegliere intelligentemente il servizio offerto. Ma quando siamo malati la nostra capacità di giudicare è compromessa e le nostre scelte sono severamente limitate. Inoltre, in termini di cura medica le assunzioni di rifornimento e richiesta sono congetturate sul modello del mercato che semplicemente non applica. La generale presunzione che i dottori siano esperti che decidono cosa costituisca una malattia che necessita un intervento così come i beneficiari delle ricompense per un intervento tale, significa che non c’è incentivo per il controllo dei costi. Ad esempio quando e chi ha pensato che la calvizie è una malattia che richieda un intervento medico?
Questa giustizia prodotta dal mercato, in particolare un mercato in cui la gente è incoraggiata a credere che qualunque cosa voglia sia legittima, risulta in saldo per coloro che hanno bisogno di una cura di base che io penso sia fuori discussione. Ma credo che il problema abbia una implicazione più profonda rispetto alla domanda su come un tale valore della giustizia possa distorcere il reale ruolo della medicina stessa. Quindi come ho suggerito in precedenza, tale veduta incoraggia i medici a guardare alle capacità come loro proprietà, ma un medico non possiede la loro maestria–loro stessi sono il loro maestro. Essere un medico non significa avere un mestiere, ma essere legato ad una pratica che costituisce il bene comune di una comunità. La fiducia di cui un medico gode si basa sull’ipotesi che il medico sia legato alla cura del paziente in un modo che vince tutte le altre considerazioni. Questa fiducia costituisce un bene che va comunemente diviso.
Il bene che si trova nel cuore morale della medicina, il bene che dà forma a tutto ciò che un medico è e che fa, credo rappresenti l’impegno di un medico di prendersi cura del paziente in modo che ogni giudizio riguardo al paziente sia un’altra controversa questione rispetto a ciò che è necessario fare per prendersi cura del paziente. Un paziente potrebbe esser qualcuno che maltratta i bambini, ma se ha una brutta vescica biliare bisogna prendersi cura di lui. Chiamo all’attenzione questi impegni comuni che ci aspettiamo dalla medicina perché se non riusciamo a renderli chiari, rischiamo di perdere il loro significato.
Che trattiamo coloro di cui potremmo pensare che non meritino assistenza, è perché i problemi di distribuzione della cura medica, nei termini di Ramsey, sono estremamente insolubili. L’impegno di questi in cure mediche è per assistere il paziente senza attendere che il suo valore individuale crei un bisogno quasi interminabile. Per questo, in un tentativo di assistere un singolo paziente, ad esempio, con la leucemia vengono scoperte modalità di cura per aiutare un’ampia serie di pazienti che in passato non sarebbero potuti essere assistiti o neppure riconosciuti come bisognosi di assistenza. In altre parole lo sforzo della cura per un singolo paziente crea possibilità che ci incoraggiano ad avere bisogni che altrimenti non avremmo. Come conseguenza la medicina crea un mondo bizzarro in cui alcuni riceveranno trapianti di cuore mentre altri moriranno di polmonite.
Quindi la discussione per molti che ne hanno bisogno dovrebbe determinare il ruolo della giustizia nel garantire la distribuzione di cure sanitarie. La sanità è ripartita irregolarmente e possiamo esercitare solo un controllo ridotto su ciò che ci rende sani o malati. La malattia non è solo un peso fra tanti, ma essere malati è piuttosto una possibile disposizione della compromessa condizione umana.
Relegare la vita dei malati nel lato buio della condizione umana e negare loro cure mediche è tagliare fuori la loro esistenza. Questo è il motivo per cui la nostra cura vicendevole attraverso la condizione di quelli preparati alla medicina è fondamentale se dobbiamo riconoscere i beni che mettiamo in comune.
Ma anche se questo problema per il bisogno-base del valore della giustizia fosse giusto, non decide o risolve le domande incorreggibili nate da Ramsey. Noi non sappiamo se spendiamo giustamente così tanto delle nostre risorse su coloro che sono nel loro ultimo anno di vita. Certamente spesso non conosciamo chi è nel suo ultimo anno di vita. Infatti uno dei problemi per la celebrazione del potere della medicina moderna è che i pazienti sono incoraggiati a credere che abbiano il diritto ad ogni procedura che possa aiutarli nel mantenerli in vita. Di conseguenza corrompiamo loro stessi così come il ruolo della medicina cercando il modo che questa faccia sempre di più di ciò che è in grado di fare.
Perciò sospetto che le domande su come la cura medica dovrebbe essere distribuita non possono essere chiuse sviluppando valori di giustizia più sofisticati. Infatti immagino che uno dei problemi riguardo a tali valori sia che la giustizia è separata da altre virtù che sono cruciali per riconoscere ciò che è e ciò che non lo è. In modo particolare, la giustizia deve attingere alla virtù del coraggio se dobbiamo sapere come affrontare la nostra morte così come la morte di coloro che amiamo. La distribuzione della malattia delle nostre risorse di cura sanitaria credo rifletta l’inabilità generale delle persone che realizzano le società moderne per arrivare alla fine con la morte. Perciò se mettiamo in comune ogni cosa come un popolo significa che la morte deve essere annullata nella speranza che possiamo finalmente andarcene dalla vita vivendo. Di conseguenza quelli con la forza economica e sociale sono in grado di controllare le risorse per tenere a bada le loro morti dal detrimento di coloro che non stanno affrontando la morte.
Ad esempio, Ramsey, indica che quando fu fatto il primo trapianto di cuore nel Regno Unito hanno dovuto posporre una dozzina di operazioni a causa di attrezzature limitate del National Heart Hospital. Potremmo quindi pensare che l’Inghilterra e altre società non sono soggette a tali limiti. Ramsey, tuttavia, sottolinea che questo esempio sia un prisma attraverso cui possiamo comprendere il realismo della situazione che si è dovuta misurare con il bisogno umano di ogni nazione di risorse mediche che sono per di più scarse. Inoltre la verità è che la condizione umana continua a peggiorare con i tempi moderni quando la paura della morte sembra essere diventata molto diffusa con i secolarismi[7].
Ramsey sostiene, inoltre, che prima di domandarci chi vivrà e chi morirà, ci sono domande fondamentali da esser sollevate riguardo alla priorità medica di esser consegnati allo sviluppo di procedure mediche sempre più esotiche.
Dietro a queste domande, inoltre, si cela una domanda molto più provocatoria su come la professione medica e la società in generale decida tali domande e l’immortalità di lasciare tali domande in balia dell’indecisione professionale e sociale.
Ma immagino che tale “indecisione professionale e sociale” deciderà i giorni come il saldo che risulta non essere colpa di nessuno. Coloro che sono poveri finiscono per non avere neppure il minimo delle cure mediche il ché può esser interpretato come un fatto di sfortuna – non di politica sociale. Il presupposto che non esista niente che possiamo fare riguardo a tali problemi lavora a favore di coloro che hanno la forza economica e sociale di rispondere al desiderio febbrile di andarsene dalla vita vivendo. Forse l’unica consolazione del povero è la visione Biblica secondo la quale coloro che controllerebbero le forze per fare il loro volere finiscono per esser soggetto di coloro che possiedono le forze vere. Ovvero, potrebbe essere che i peccatori non temono più di cadere nelle mani di un dio adirato. Al contrario ora cadono nelle mani di una apparentemente benevola fondazione medica i cui interessi personali sono diretti dalla nostra paura della morte.
Ma certamente tale prospettiva non è tutto ciò che si può dire. Coloro che sostengono lo sviluppo della medicina moderna potrebbero rappresentare un pericolo per la nostra sanità morale il che potrebbe essere giusto, ma questo aiuta i bambini che hanno bisogno di cure mediche. Cosa può essere fatto per assicurare un’adeguata cura medica per i poveri? Non ho proposte concrete, ma spero che chiamando all’attenzione l’analisi di Ramsey possa per lo meno suggerire da dove potremmo iniziare. Quindi, se [Ramsey] non si sbaglia i nostri problemi sono di natura teologica. Il problema è semplicemente che la medicina è stata messa al servizio di una morte ingannevole da un popolo che non crede più che la morte possa avere un qualche significato.
Non propongo questo punto per suggerire che un recupero della fede in Dio sia necessario per assicurare quasi una distribuzione delle cure mediche. Uno dovrebbe solo credere in Dio se pensa che tale fede sia vera. In più non credo, anche se ci fosse un forte ritorno alla fede in Dio, che i nostri problemi sarebbero conclusi. Specialmente questo non è il caso in grado di dare le aspettative che ora sono in gioco.
Tuttavia, non credo che il significato di tutto ciò sia che nulla possa esser fatto in particolare dalle persone che dicono di essere Cristiane. Infatti presumo siano una comunità di gente che ha imparato che la loro stessa morte non è un disastro assoluto. Ciò che è più importante è che sono, o dovrebbero essere, un popolo che ha imparato che assistersi vicendevolmente è più importante della vita in sé. Di conseguenza, possono prevedere forme di cura da cui i poveri non sono esclusi. Dobbiamo ricordare che quella grande invenzione fantasiosa che ora chiamiamo ospedale fu il risultato di un popolo, e monaci, che hanno creduto anche tra le ingiustizie del mondo che si può prendere del tempo per stare di fronte alla morte. Si preoccupavano della morte con l’essere presenti anche quando non potevano guarire. Segno che la medicina non è giustificata dalla sua capacità di guarigione, ma dal rifiuto ad abbandonare coloro che soffrono anche quando è poco quello che si può fare oltre che essere presenti.
Se ho ragione riguardo a ciò, credo poi che gli ospedali che sono finanziati allo stesso modo dal servizio delle persone che si dicono Cristiani potrebbero essere richiamati a prendere una posizione che li distingua maggiormente rispetto a ciò che possono immaginarsi ora. L’impegno nel cercare più risorse per assistere i poveri è ben accetto. Ma più importante è la possibilità che i Cristiani debbano imparare a negare a se stessi forme di cura straordinaria che la medicina pare determinata a voler sviluppare.
Sono cosciente che tale suggerimento potrebbe sembrare oltraggioso. Per tanto, se lo scetticismo è il nostro problema sembra dunque di trovarci di fronte ad un problema intrattabile. I Cristiani hanno a lungo seguito strategie sociali, non appena nella cura medica, che presumono la fede in Dio che può o non dovrebbe fare nessuna differenza sulla nostra idea di giustizia. Nel nome della carità o giustizia cerchiamo politiche sociali che speriamo possano essere un bene per i poveri. Non intendo screditare nessun modo il bene che è nato da questi tentativi, ma temo che tali strategie non siano più sufficienti per la cura che offriamo l’uno all’altro attraverso il buon servizio della medicina.
Perciò, il problema con concetti astratti di giustizia, qualora siano il mercato, il merito, il valore sociale, o il bisogno, è che effettivamente sono solo questo—astrazioni. Nessun valore di giustizia può essere comprensibile senza attingere alle profonde convinzioni e pratiche di una comunità e delle sue tradizioni. Infatti, il vero sforzo è per sviluppare da tali comunità concezioni di giustizia astratte, ma si manifesta nelle concezioni di comunità che presumono che siamo individui liberi di tali tradizioni. Contrariamente, sto suggerendo che i Cristiani devono recuperare il nostro senso della cura e collaborare vicendevolmente come risorsa per aiutarci a raggiungere una conoscenza migliore sul perché tutto ciò che possiamo fare per prevenire la nostra morte non potrebbe essere fatto se tale progetto rende impossibile curare il membro più malato della nostra comunità. Solo quando riusciremo a riacquisire un senso di noi stessi come creature determinate dalla morte sapremo che cosa siamo quando invochiamo una società affinché impieghi le sue scarse risorse di cure medicinali da un servizio ad un altro.
MODERATORE:
La parola ora al professor Snead
CARTER SNEAD:
Innanzitutto ringrazio coloro che hanno reso possibile la mia venuta qui a questo evento straordinario. È un’opportunità eccezionale per me trovarmi a questo dibattito. In particolare desidero ringraziare Lorenzo Violini, Marta, Stefania, Marco Aluigi, Matteo Turchi, Andrea Rovagnati e anche il collega Paolo Corazza della Notre Dame. È veramente un grande onore per me essere qui insieme a Stanley Hauerwas, che come sapete è un teologo molto stimato in tutto il mondo. Tra l’altro è molto bello per me essere qui in Italia, perché mia mamma viene da San Giovanni in Fiore, vicino a Cosenza in Calabria, quindi per me venire in Italia è come venire a casa.
Il tema di questo Meeting, O protagonisti o nessuno, sembra riguardare la persona umana e il percorso dell’uomo, deve esplorare problemi fondamentali, chi siamo, perché siamo stati creati, come dobbiamo vivere, cosa dobbiamo gli uni agli altri. Questo nostro tema, Desiderio e desideri, ci invita a considerare a chi, dove e come guardare per orientare i nostri sforzi, per perseguire determinate cose, per evitare anche la confusione, la tentazione, l’inganno da parte di altri e di noi stessi per quanto riguarda queste questioni. Cosa significa essere un uomo, che cosa significa vivere come uomini, deve sollevare veramente tanti quesiti. Quesiti che sono molto profondi e grandi menti li hanno esaminati. E’ con tanta umiltà che dobbiamo quindi affrontare questi problemi che sono di tanta vastità che forse siamo tentati di concentrarci su problemi più quotidiani, perché molto spesso rischiamo banalità o rischiamo magari di fuorviare e confondere gli altri con i nostri stessi errori e concezioni sbagliate. Sono dei quesiti a cui dobbiamo rispondere noi tutti individualmente e in maniera collettiva. Nessuno può prendere dei cliché dal contesto, per esempio, della politica americana. Ognuno è un protagonista in questo tema, i filosofi e non, gli eruditi e i non eruditi, siamo tutti esseri umani, tutti facciamo parte della famiglia umana. Vorrei solo fare alcune osservazioni, sollevare alcuni quesiti per stimolare la discussione, anche se i tempi sono limitati questa sera.
Parlerò di un aspetto in particolare, tanto per cominciare, del dibattito tra i funzionari governativi sia nel mio paese che altrove, per quanto riguarda i progressi della biotecnologia e delle scienze biomediche. Io direi che molto spesso possiamo parlare anche di bioetica pubblica, per come si è sviluppato il discorso. La scienza moderna direi deve essere l’unica risorsa a cui ci possiamo appellare quando parliamo di bioetica.
Questo sembra essere abbastanza condiviso a livello pubblico, ma questo concetto può essere forviante ed essere un po’ corrosivo. Per riuscire invece a perseguire uno sviluppo idoneo dell’uomo, direi subito alcune cose che servono per esplorare bene il tema.
Prima di tutto ritengo che la questione etica sollevata dalle scienze bioetiche, dai progressi biotecnologici, costituisca un punto fondamentale anche per questo Meeting. Negli ultimi anni c’è stata una grossa proliferazione delle scienze con grosse implicazioni a livello umanistico. Nuove capacita di sviluppare embrioni geneticamente modificati con combinazioni di materiale cellulare umano ed animale, ad esempio, tutto questo crea problemi a livello di procreazione, di che cosa significhi essere membro appartenente alla specie umana. Le cellule pur potenti, le cellule staminali derivate dagli embrioni, ci pongono dei problemi relativamente agli embrioni che vanno distrutti in questo processo, e , naturalmente bisogna considerare il possibile vantaggio che un giorno potrà derivare da tutte queste tecniche, oppure bisognerà capire se è un esercizio soltanto fine a se stesso.
Lo sviluppo delle tecniche per aumentare la vita dell’individuo, per esempio, oltre il normale, ci pone dei problemi relativamente alla vita dell’uomo ed alla sua finitezza;
le scoperte circa la mente, il comportamento e il cervello, le nuove tecniche di visualizzazione delle funzioni celebrali pongono dei problemi al libero arbitrio, alla responsabilità morale e a tutti gli istituti morali che si basano su questo concetto.
Il continuo sviluppo di tecniche mediche che riguardano, appunto, la funzione biologica, sollevano delle problematiche relative all’autonomia e alla dignità della fine della propria vita.
Il campo della bioetica, sicuramente, solleva dei problemi relativamente a chi siamo, cosa siamo, come possiamo vivere e cosa dobbiamo gli uni agli altri.
Un altro punto che vorrei sollevare è che, secondo me, i disaccordi politici, legali, relativamente a questo aspetto, devono essere considerati un angolo di vista privilegiato per valutare questi problemi; sappiamo che molto spesso ci sono certi concetti predeterminati, per esempio Steven D. Smith ha identificato tre funzioni che possono essere molto indicative.
Le prime due sono importanti, ma ce ne è una terza, che forse è più importante, per valutare la profondità del tema.
Per ragioni di completezza parlerò di tutte e tre, comunque, prima di tutto la legge offre un contesto entro cui i cittadini vivono la propria vita, quindi un regime stabile, prevedibile, all’interno del quale gli individui possono organizzare la propria vita in rapporto agli altri, si potrebbe anche aggiungere che la legge raggiunge questo obbiettivo con la mediazione dei rapporti, rapporti tra persone, tra gli individui ed il governo, tra individui ed individui etc.
Una forma particolare di questa mediazione sarebbe la secondo funzione della legge, cioè la risoluzione delle dispute, delle controversie, Smith ripete le osservazioni di Karl Llewellyn, che dicono che appunto riuscire a riesaminare le controversie è proprio oggetto della Legge, che dirime le controversie.
Terza funzione. Smith dice che la Legge stabilisce delle politiche per la società, forgiando la società verso condizioni più giuste. In una democrazia liberale, il popolo, attraverso i propri rappresentanti eletti, identifica determinati beni che vanno difesi, perseguiti e cose che vanno evitate, specificando quali sono i mezzi per raggiungere questi obbiettivi. Sono mezzi diciamo molto vasti per esempio il permesso per attività di un certo tipo, sorveglianza, azione specifica, autorizzazione per esempio per praticare la medicina, oppure divieto di effettuare determinate cose. Quindi la legge che proibisce certi comportamenti, ha anche uno scopo pedagogico, riflette determinate regole e le insegna.
Vorrei sottolineare e ripetere che le delibere politiche relativamente alla bioetica pubblica vengono intese, come aspirazioni, come sforzi per perseguire dei beni sociali ed evitare il più possibile un danno sociale.
Queste leggi servono anche ad educare il pubblico relativamente a determinate visioni e punti di vista.
Noi dobbiamo ad un certo punto resistere a certi dogmi sulla bioetica pubblica, secondo i quali la scienza moderna sarebbe l’unico strumento per risolvere le questioni di bioetica pubblica.
In america, ma anche a livello di Nazioni Unite, Unesco, Consiglio d’Europa, regolarmente sento dire la stessa cosa, cioè, la scienza deve essere nostra guida. Quale deve essere la legge per la distruzione degli embrioni? Lasciamo decidere alla scienza; la clonazione per esempio deve essere abbracciata? scelga la scienza; dobbiamo creare per esempio delle chimere, degli organismi ibridi per la ricerca? facciamo decidere alla scienza che crea il contesto legittimo per questo; dobbiamo promuovere la disaggregazione della procreazione umana? facciamo decidere alla scienza. Potrei fare un elenco lunghissimo, non ci sorprende il fatto che la scienza moderna viene invocata come l’unica scienza che possa deliberare.
I professionisti, gli scienziati vengono tenuti in altissima reputazione, perché sono persone ritenute oneste, integre nella propria comunità e tra l’altro vengono reclutati proprio per perseguire il sapere, le conoscenze. Quindi perché mettere in dubbio la scienza?
C’è una incommensurabilità immensa tra gli assiomi umanistici e la scienza. La scienza moderna, proprio per sua natura, non ha niente da dire relativamente a concetti umani, tipo libertà, giustizia, uguaglianza, dignità che sono alla base della nostra essenza come uomini. Queste parole non sono nel lessico scientifico, non si riescono a capire dal punto di vista scientifico.
La scienza non riconosce questi concetti e non è interessata nemmeno alla loro elaborazione ed esposizione. La scienza moderna, allora, non è lo strumento giusto di cui ci dobbiamo avvalere, altrimenti otteniamo dei risultati insoddisfacenti o addirittura mostruosi nel peggiore dei casi.
Una breve descrizione delle premesse, dei metodi della scienza moderna confermerà il mio assunto. Probabilmente avrete sentito sempre che io ho parlato di scienza moderna e non di scienza, perché direi che la scienza antica aveva delle premesse e dei metodi diversi, cioè si chiedeva che cosa erano le cose, che cosa fossero le cose naturali, invece con la scienza moderna, a partire da Bacone nel XVII secolo, si è cominciato a chiedere come funzionano le cose, come possono funzionare per noi, cioè come i fenomeni naturali possano essere utilizzati ai fini dell’uomo.
La metodologia razionalista, per esempio, ha cercato di produrre una conoscenza più ristretta, ma forse, più produttiva.
Ecco quello che intendo per scienza moderna. Capire proprio le caratteristiche della scienza moderna ci fa capire perché non è lo strumento giusto per esaminare i problemi umanistici, in rapporto anche alla bioetica moderna.
Per sua natura, la scienza moderna è basata sulla fisica, meccanica, è riduttiva e diciamo che è oggettivista, esclusivista e antiteleologica.
Valuterò ognuno di questi aspetti nel prosieguo della mia relazione.
Alex Rosenberg ha detto che si suppone che possa esistere solo una sostanza nell’universo, detto in altre parole che non c’è nulla se non la materia fisica nell’universo. L’altra premessa della scienza moderna, molto correlata a questa, è quella del meccanicismo, cioè i fenomeni devono essere descritti in termini di struttura, funzione della materia fisica, quindi i fenomeni naturali vengono intesi in termini di movimento e riposo tra entità materiali.
Su queste premesse gli scienziati dicono che la mente non è altro se non la funzione e la struttura del cervello. Poi c’è il riduzionismo che dice che la migliore spiegazione dei fenomeni è data dall’interazione di particelle elementari. Come dice Rosenberg per la biologia, il riduzionismo dice che le teorie si devono basare tutte sulla biologia molecolare e sulla scienza fisica, soltanto in questo modo possono essere migliorate, corrette, perfezionate rese più adeguate e complete.
Con l’avvento della teoria dei quanti Erwin Schroedinger, per esempio, ha aspirato a descrivere tutti i fenomeni biologici in termini di rapporti molecolari. Nella filosofia della scienza c’è qualche controversia relativamente a questa capacità di riduzione, però molti mirano a questa riduzione completa, più completa possibile.
L’oggettivismo nella scienza moderna è una concezione matematica, la capacità di tradurre tutto in matematica, in equazioni, ai fini della misurabilità, prevedibilità e del controllo misurabile.
Quindi la scienza moderna produce piuttosto che non scopre il sapere in maniera attiva.
Questa matematica ordina un ordine innaturale, che viene proiettato davanti al soggetto come estensione, come possibilità da parte del mondo di essere afferrato attraverso questa tecnica soltanto. Questa traduzione del mondo in termini matematici prevede che possiamo utilizzare certi valori come la quantità per misurare le cose, poi si è arrivati all’aritmetica, allo studio delle moltitudini, alla geometria, quindi allo studio delle grandezze. Lo spazio cartesiano è il veicolo migliore per misurare tutto, spazio, massa, volume, pressione, addirittura anche lo stato di ebbrezza o i risultati dei profitti scolastici; tutto può essere misurato in altre parole.
Punto quinto. La scienza moderna è epistemologicamente esclusionista e esplicitamente antiteleologica.
Sulla base di quello che abbiamo già detto prima, ci sono dei concetti che non vengono riconosciuti se esulano da certi domini, ad esempio il bene ed il male vengono esclusi. Diversamente dalla scienza antica, la scienza moderna non riconosce i fini. Non riesce neanche a capire a cosa serva la scienza stessa e perché servano le scienze in generale. Anche l’appello al sapere, come fine a se stesso, non è comprensibile in termini scientifici, poi la scienza non riconosce le virtù umane dei suoi addetti.
Vale la pena anche parlare di alcune limitazioni epistemologiche della scienza moderna: non è una scienza completamente neutra, come spesso si asserisce. Gli scienziati devono fare delle distinzioni, devono operare dei giudizi relativamente a fenomeni naturali da valutare, devono giudicare, devono valutare quali fenomeni sono significativi e quali no. Queste valutazioni non sono scientifiche ma come detto Philip Kitcher, sono normative e pragmatiche. La scienza è in funzione della capacità tecnica dell’interesse umano, anche le categorie per classificare il mondo naturale tra cui la tassonomia per le piante ed gli animali sono in funzione della capacità degli interessi personali e anche le preferenze della scienza non sono scevre da assiomi. C’è il tentativo, da parte della scienza moderna, appunto, di partire da certi postulati, come ad esempio che la natura è inintelligibile, uniforme ed irregolare e chiaramente questo può valere per certi ambiti non osservabili. Ci sono poi delle relazioni fra le spiegazioni e i fenomeni osservabili, ci sono assiomi che rappresentano i motori della scienza moderna, ci sono strumenti scientifici che producono le misurazioni che sono alla base di determinate teorie. Ecco, non sono qui a parlare a favore o contro quello che dicono i post-modernisti, cioè che la scienza è un concetto linguistico per perpetuare quello che è il volere del gruppo dominante, dico che comunque la scienza non è nemmeno quella scienza neutra che ci permette di scoprire il mondo. C’è tanto ancora da dover dibattere sulla scienza moderna, non voglio nemmeno dire che la scienza sia male, sia qualcosa di cattivo, al contrario l’uomo ha potuto, grazie alla scienza, controllare il mondo, per certi versi è riuscito a sradicare certe malattie, ad alleviare le sofferenze umane. Non voglio nemmeno dire che gli scienziati di regola siano mostri, siano indifferenti a quelli che sono i più profondi temi dell’uomo, dico però che molto spesso non sono interessati a determinate questioni.
I sostenitori della scienza moderna devono rendersi conto che dire facciamo tutto questo perché lo dice la scienza non basta. Parliamo per esempio delle cellule staminali, della ricerca sugli embrioni: nel mio paese ci chiediamo se il governo federale deve sovvenzionare le ricerche che mirano alla distruzione degli embrioni umani per ottenere quello che domani sarà la cura per determinate patologie.
Il problema qui è molto umanistico: l’embrione merita rispetto o va soppresso a beneficio di qualche cos’altro? Gli embrioni vanno privati della stima dell’uomo proprio perché non hanno autocoscienza o dobbiamo eliminare alcuni membri della specie umana perché comunque altri morirebbero per altri motivi? Ecco, per valutare in maniera responsabile il problema, bisogna capire cosa succede all’embrione, bisogna capire il momento del concepimento etc.; però, conoscere tutti i dettagli dell’embriologia non risponde comunque al quesito del nostro obbligo nei confronti dell’embrione stesso. Il principio di uguaglianza, libertà e dignità non fanno parte del contesto scientifico e il concetto di persona di per sé non è inteso come categoria scientifica. La scienza può permettersi soltanto di capire dei predicati effettivi di fatto ma non riesce a dare risposta ad altri quesiti.
Filosofi, scienziati, politici invocano che nient’altro al di fuori della scienza deve essere considerato legittimo, quindi la libertà, la dignità, l’eguaglianza non devono essere chiamate in causa per valutare la ricerca sugli embrioni e le cellule staminali. Però il discorso della persona umana sarebbe privo di qualsiasi contenuto. Come diceva Steve Smith, “il parere scientifico dissolve la persona come categoria ontologica, la persona alla fine è solo un sistema di particelle” e applicando soltanto i principi della scienza moderna si capisce perché Francois Jacob Vincitore di un premio Nobel, conclude che la biologia ha dimostrato che non c’è una entità metafisica dietro la vita dell’uomo. Dalle particelle all’uomo c’è tutta una continuità e non c’è nessuna alterazione di essenza dall’una all’altra, quindi la scienza è incapace di distinguere le cose viventi da quelle non viventi, fatta eccezione per una descrizione pura e semplice della funzione delle cose. Questo potrebbe portare a dei risultati mostruosi, tutte le argomentazioni sulla dignità dell’essere umano risulterebbero insostenibili.
Torniamo al concetto del desiderio. Io sono persuaso del fatto che in ultima analisi sia il desiderio che porta l’uomo all’azione. Però i desideri sono orientati ai fini, il nostro obbiettivo collettivamente, individualmente, è orientarci verso certi obiettivi, il nostro compito è imparare a desiderare il bene, questo è il nostro compito mentre, appunto, cerchiamo di districarci tra le problematiche di etica e di scienza. Questo è quello che dobbiamo fare nella nostra vita.
La scienza moderna ci dà degli strumenti potenti per raggiungere questi obiettivi, ma non ci può mai dire quali devono essere questi obiettivi. Questa verità la dobbiamo avere ben chiara in testa mentre cerchiamo di diventare quello per cui che siamo stati creati
MODERATORE:
Mi permetto di rivolgere due domande secche ai nostri ospiti prima di concludere.
La prima al prof. Hauerwas: lei ha affermato nella sua relazione che assistiamo ad una sorta di esasperazione del desiderio di sopravvivenza, che conduce a una ricerca della cura che dà luogo ad un mondo strano in cui potremmo assistere alla simultanea presenza di persone che ottengono il trapianto di cuore e altre che muoiono di polmonite. Ora ha fatto cenno al fatto che una tale perversione del desiderio è un problema di natura teologica. Vorrei chiederle in che senso la fede ha a che fare con la verità del proprio desiderio, con un recupero di una originalità o di una profondità del desiderio umano.
STANLEY HAUERWAS:
Ipotizzo che il cristianesimo sia una formazione continua e riguardi il come vivere e il come morire, perché i cristiani hanno dei concetti, delle convinzioni che fanno sì che noi accettiamo di perdere la nostra vita piuttosto che compiere un atto immorale, il che significa che il Vangelo è un’opera di formazione continua, affinché noi ci mettiamo al servizio gli uni degli altri in un modo che ci consenta di prenderci cura gli uni degli altri senza ipotizzare che la parola assistenza implichi che si debba compiere ogni sorta di intervento per prolungare la vita. E’ questo il nucleo, secondo me, della medicina. In altre parole noi chiediamo ad alcuni di essere presenti, di dare una presenza a fianco del malato e la presenza è questa forma di assistenza; io non credo semplicemente che viviamo in società che ci diano un quadro morale a favore di un tale impegno; non le abbiamo più queste società, ecco perché ho detto che la medicina è parte di un bene comune, un bene che va a sostenere la fiducia, la fiducia nei confronti di coloro che tramite l’agire della medicina ci consentono di darci gli uni agli altri in modo che questa fiducia possa essere alimentata e sostenuta. Non credo quindi che questa comprensione sia possibile all’interno di società in cui i desideri siano smodati ed eccessivi. Ecco perché è cruciale per i cristiani recuperare, ritrovare il senso di quanto sia straordinario prenderci cura gli uni degli altri tramite l’agire della medicina, là dove non è funzione della medicina salvarci dalla morte. I temi sui quali ha attirato la nostra attenzione Carter, quando ha parlato di una sopravvalutazione della scienza, ecco, temi di questo tipo riguardano proprio il fatto che si crede che la scienza rappresenti la strada che ci consentirà di superare quella che è la condizione umana.
MODERATORE:
Grazie al prof. Snead. Nella parte conclusiva della sua relazione, riprendendo il tema del desiderio, lei ha accennato al fatto che i desideri sono orientati ai fini e ha recuperato una nozione classica della nostra tradizione che dice che noi siamo desiderio del bene. Ecco vorrei farle questa domanda: ma che cosa ci aiuta a desiderare il bene? In secondo luogo: il bene e il desiderio del bene possono essere l’oggetto di un discorso razionale?
CARTER SNEAD:
Grazie per questa domanda. Come ho detto alla fine della mia presentazione, il nostro compito è quello di prepararci a desiderare il bene, dobbiamo abituarci a volere, dobbiamo abituare il nostro appetito a volere il bene. Lei mi ha chiesto a questo punto se è possibile trovare uno strumento razionale che ci possa consentire di acquisire questa abitudine. Credo che tutto dipenda da che cosa intendiamo con razionale; non credo che all’interno del contesto scientifico ci sia nulla che ci consenta di arrivare e di acquisire questa abitudine. Se diamo una interpretazione più ampia del termine razionale, così come per altro fa anche il cristianesimo, questa interpretazione va ben al di là di quelli che sono i limiti rigorosi del metodo scientifico moderno e pertanto se diamo una lettura corretta e se siamo aperti a quelli che sono tutti gli aspetti della realtà, io credo che sia possibile, credo che l’intelletto possa razionalmente arrivare alla comprensione di questo desiderio. Ma il desiderio, in ultima analisi, è un po’ l’opposizione, l’opposto della razionalità, quindi quando ho detto che siamo mossi dal desiderio, io non credo che noi siamo mossi dalle argomentazioni, non siamo mossi dai principi, siamo mossi dal desiderio, siamo mossi dall’amore per il bene. Quello che ci ha detto il prof. Hauerwas quando ha detto che dobbiamo attingere ai rapporti umani per vedere che cosa emerge da questi rapporti umani, ci costringe a guardare a quelle fonti che hanno le loro radici nella teologia. Spesso si respinge questo concetto ma credo, come giurista, io credo che la legge nel giusto contesto sia uno strumento pedagogico e possa andare a plasmare i desideri dell’individuo, possa mostrare alla comunità quali sono i valori da sostenere. Questa è un po’ l’aspirazione della legge. Chiaramente la legge deve essere ben formulata e ben applicata ma esiste la possibilità che la legge in quanto tale possa insegnare all’individuo cos’è il bene; forse non insegnare, non è il termine giusto, ma possa comunque far capire qual è il bene. Una cosa consentitemi dopo questa risposta di Stanley; la natura apocrifa della morte di Francesco Bacone ci insegna proprio quello che lei ha detto, ovvero il mito dice che Francesco Bacone è morto nel tentativo di seppellire una gallina nella neve per condurre esperimenti sulla natura triogenica di eventuali terapie che potessero prolungare la vita; c’è un po’ un mito in questa storia e Cartesio, altro padre della scienza moderna, alla fine del suo lavoro aveva sempre l’idea dell’immortalità. Il che conferma quello che ci ha detto il prof. Hauerwas ovvero che questi desideri hanno condotto a questo artificio della scienza che poi chiude gli occhi sui problemi dell’uomo.
MODERATORE:
Ringrazio molto i nostri ospiti delle relazioni ricchissime e delle risposte. Io mi permetto di fare qualche osservazione conclusiva riportando ad un aspetto del tema Desiderio e Desideri. L’invito ad insistere su questo punto viene anche da quell’espressione del prof. Hauerwas sui desideri smodati ed eccessivi.
Io penso che non si tratti di opporre il desiderio ai desideri o viceversa o di castigare i desideri per far emergere in una sorta di trasparenza assoluta il desiderio al singolare. Mi pare si tratti di riscoprire la profondità dei desideri e ciò che chiamiamo desiderio al singolare è precisamente la profondità di ogni desiderio determinato ed è al tempo stesso ciò che svela il limite di ogni immagine del desiderio.
Oggi, e sono d’accordo con i due ospiti, il tentativo è quello di esaurire il desiderio umano nei desideri cioè in immagini codificate, esasperate, preconfezionate, decise da altri, dal contesto, Pasolini l’avrebbe chiamato Potere, con la maiuscola.
Il desiderio è ciò in cui si gioca la verità della nostra umanità ed è un fenomeno esclusivamente umano; il desiderio non è la pulsione e nemmeno il bisogno animale, senza offesa per gli animali. Appartiene all’uomo nella sua differenza specifica. Pavese ha un’espressione che ci fa cogliere la peculiarità del desiderio, dice: “Ciò che un uomo cerca nei piaceri è un infinito e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questa infinità”.
E Claudel ha un’altra espressione molto potente, sintetica, dice: “L’uomo è desiderio insaziabile di un inestinguibile”.
L’eccesso è la misura del desiderio e in questo senso si comprende anche perché vi siano desideri smodati, che in qualche misura perdono la strada, si pervertono. Ma il desiderio stesso porta con sé il desiderio umano, il suo essere in infinitum; la dismisura è l’unica misura del desiderio e per questo che in un certo senso comprimere il desiderio in immagini codificate è un’impresa sempre tentata ma impossibile. Il desiderio contesterà sempre tutte le immagini che esso via via prende o per via endogena o per influenza del contesto, del potere.
Quando noi diciamo desiderio di verità, di giustizia, di felicità, di amore, diciamo forme del desiderio infinito dell’infinito; per aver senso questi desideri, queste forme originali del desiderio, per avere senso, debbono implicare l’oltre misura.
Vorrei dire, seconda osservazione, che il desiderio oltre ad essere il motore di ogni mossa, sono d’accordo con Snead, è al tempo stesso il principio critico immanente alla struttura dell’io. Luigi Giussani usa un’espressione molto originale per dire il desiderio: esperienza elementare, che è lo strumento dell’universale confronto che l’uomo stabilisce con ogni proposta, in ogni rapporto con la realtà. Quindi, quando parliamo del desiderio nelle sue declinazioni, ma le parole possono essere altre per dire la stessa esperienza o lo stesso evento umano, noi parliamo dell’unica arma critica di cui l’uomo sia in possesso per valutare ciò che dalla realtà lo raggiunge. Non c’è capacità di intelligenza senza questo anche implicito confronto della realtà con il desiderio umano nella sua originale profondità. E qui avviene, si manifesta meglio, perché sta all’origine, l’intreccio di ragione e desiderio. Il desiderio è il motore della ragione stessa, come di ogni atto ed è anche l’arma che la ragione è costretta ad usare se vuole esercitare la critica.
Terza osservazione che propongo rapidamente. Il desiderio sembra essere l’elemento che divide; noi siamo diversi perché desideriamo cose diverse e tuttavia il desiderio nella sua profondità originale può assumere espressioni o traduzioni anche molto diverse tra di loro, Giussani diceva persino opposte apparentemente, apparentemente. Il desiderio invece che caratterizza l’umano è una oggettività nella soggettività. L’uomo se lo trova addosso o, si può dire anche così, tra i piedi, senza poterlo manipolare, né dipende dalla sua deliberazione, in qualche modo è costretto ad obbedire al desiderio profondo anche quando lo combatte. Non si può non desiderare secondo la dismisura originale. Non si può non desiderare la verità anche se si cambia parola, non si può non desiderare di amare e di essere amati. Bisogna dire di fronte al desiderio: qui io non ci posso fare nulla e in questo senso il desiderio testimonia l’alterità di cui noi siamo costituiti. E’ un’oggettività dicevo, quindi un fattore comune che ci permetti di riconoscerci, è l’identità ultima dell’umano a tutte le latitudini. E, tuttavia, tutto ciò è sempre anche misconosciuto, perciò occorre un lavoro per smascherare una incrostazione, per contestare le immagini che sul desiderio vengono a stratificarsi. Oggi è vero che si tende a coprire l’originalità del desiderio umano per mettere mano al governo dei desideri. L’enfasi dei desideri è direttamente proporzionale al tentativo di tacitare o negare il desiderio che vi si esprime, che ne è la radice profonda. Per questo occorre perforare le immagini, indotti dal clima culturale in cui si è immersi, scendere a prendere in mano le proprie esigenze originali e in base a queste giudicare e vagliare ogni proposta.
Si tratta di un lavoro però, di una lotta, di una sfida e che cosa rende possibile, rende praticabile questo lavoro? Che cosa ci aiuta a ritrovare il desiderio da cui sorgono anche tutte le immagini?
Io lo direi così: bisogna che accadano figure di umanità in cui si veda all’opera una ampiezza coscientemente vissuta del desiderio. Si veda all’opera la statura dell’umano, la convenienza di una fedeltà al respiro originario del nostro desiderio.
Come rinasce allora il desiderio? Vorrei usare una espressione che appartiene a Luigi Giussani. Il desiderio rinasce da un incontro e rinasce sempre da un incontro.
Vedendo qualcuno, sentendo qualcuno, un incontro che è capace di rompere la misura, di liberarci dalle immagini che imprigionano la profondità della nostra umanità. Vorrei dire: non sarà un supplemento di moralismo, di richiamo alla equità, alla misura o all’equilibrio, la via di un cambiamento. Non è un richiamo alla misura ma casomai, per utilizzare la parola che ho utilizzato prima, la scoperta della dismisura del desiderio, ciò che potrà portare un cambiamento. Non si tratta perciò di amministrare i desideri ma di suscitare il desiderio, di liberarlo dalle immagini che vorrebbero comprimerlo. E chi è capace di suscitare il desiderio? Solo chi sperimenta una vera soddisfazione, una riuscita umana che supera in tutti i sensi le codificazioni del desiderio e della soddisfazione che la mentalità consacra. La battaglia va vinta sul terreno del desiderio, non della privazione. Ciò che persuade è sempre il più, mai il meno. Perciò occorre incontrare qualcuno in cui questo più si manifesti in modo da far emergere ed educare la nostra stessa umanità, e occorrono perciò luoghi di riabilitazione al desiderio, di affermazione pura e di investimento puro su quello che ci caratterizza come uomini e che ci accomuna al di là di tutte le nostre differenze. Vi ringrazio dell’attenzione e ringrazio soprattutto i nostri ospiti.
[2] Paul Ramsey, The Patient as Person: Exploration in Medical Ethics (New Haven: Yale University Press, 1970).