DANZICA 1980. SOLIDARNOSC

Danzica 1980.Solidarnosc

Presentazione della mostra. Partecipano: Luigi Geninazzi, Giornalista di Avvenire; Chris Niedenthal, Fotografo; Rafał Wieczyński, Regista. Introduce Sandro Chierici, Curatore della mostra.

 

SANDRO CHIERICI:
Buonasera a tutti e benvenuti a questo incontro di presentazione della mostra: Danzica 1980. Solidarnosc. Come sapete proprio in questi giorni, nella seconda metà di agosto, 30 anni fa, ebbe luogo lo sciopero nei cantieri navali di Danzica che segnò la nascita del movimento di Solidarnosc, una esperienza che andò ben oltre la rivendicazione sindacale da cui tutto prese le mosse, per proporsi come l’affermazione, la proposta di un modo di guardare all’uomo e soprattutto al lavoro, come lo strumento attraverso cui l’uomo dà forma al suo desiderio di costruire una società, di costruire il bene comune e quindi ultimamente dà forma al suo desiderio di rispondere alla sua vocazione ultima in quanto uomo. Erano quelli anche i giorni in cui si svolgeva la prima edizione del Meeting per l’amicizia fra in popoli. Chi c’era si ricorda bene la curiosità, la sete di conoscere ciò che stava accadendo in Polonia, la preoccupazione per gli amici che avevamo là e la consapevolezza che comunque stava accadendo qualcosa che ci toccava da vicino e che avrebbe cambiato anche il nostro modo di vivere. Allora l’idea di dedicare quest’anno una mostra a quegli eventi, va oltre la celebrazione di un anniversario, pure importante, per offrirci l’occasione di portare in evidenza cosa ha da dire oggi a noi l’esperienza di Solidarnosc, in un momento in cui anche la congiuntura economica mondiale pone con rinnovata evidenza il fatto che senza significato, senza un significato, il lavoro non ha senso e l’uomo non può costruire. Ci accompagneranno in questa lettura alcuni personaggi che a livelli diversi hanno avuto parte diretta o indiretta in questo pezzetto di storia del ’900; nell’ordine, alla mia destra Luigi Geninazzi, giornalista, che allora, all’inizio della carriera, fu inviato a seguire sul campo gli avvenimenti di Danzica; alla mia sinistra, Chris Niedenthal, fotografo, al quale si devono le immagini della mostra. Niedenthal fu uno dei primi reporter occidentali che poterono entrare nei cantieri e documentare visivamente lo sciopero e ha proseguito negli anni la sua attività in Polonia, documentando fra l’altro anche il periodo della legge marziale dopo il 13 dicembre 1981, che costituisce la seconda parte della mostra. Infine ancora alla mia destra Rafał Wieczyński, regista del film su Padre Jerzy Popiełuszko. Dal vostro applauso si capisce che ha lasciato già un segno fra di noi. Accanto a lui, Annalia Guglielmi, che ha curato con me e con Daria Rescaldani la mostra, e che gentilmente ci aiuterà stasera fungendo da interprete dal polacco. Prima di iniziare la nostra presentazione abbiamo la gradita opportunità di avere in sala il dottore Wojtek Hunolot, in rappresentanza dell’ambasciatore polacco in Italia e vorrei invitarlo sul palco a portare il proprio saluto.

WOJTEK HUNOLOT:
Grazie, buonasera… Molto brevemente, per non rubare tempo ai relatori. Quando abbiamo ricevuto in Ambasciata l’invito a visitare il Meeting, invito per il quale ringrazio i curatori, ho subito pensato che non potessimo mancare, soprattutto all’evento di questa sera, all’apertura della mostra dedicata a Solidarnosc e agli scioperi di Danzica. Non potevamo mancare soprattutto per esprimere gratitudine e apprezzamento agli ideatori di questa mostra, soprattutto al signor Sandro Chierici, curatore della mostra e al fotoreporter Chris Niedenthal, l’autore della maggior parte delle foto, e ai relatori, Luigi Geninazzi e Rafal Wieczyński, che hanno voluto arricchire questa serata. Ma non solo per questo; vorrei condividere con voi solo una piccola considerazione: se sono contento e sono felice di essere qui non è perché la mostra qui allestita ricorda un evento importante della storia del mio paese. Se fosse soltanto questo, probabilmente non meriterebbe tanta attenzione. Sono felice di essere qui perché penso che quella mostra, il fatto che questa mostra è stata allestita qui al Meeting di Rimini, esprime una convinzione, che Solidarnosc è stata ed è ancora qualcosa di più importante di un semplice fatto storico ormai remoto nella storia di un solo paese. La mostra in sé, le foto che avete visto, che potete vedere di Niedenthal, si riferisce ad un fatto del 1980-1981, cioè la cosiddetta prima Solidarnosc e poi alla legge marziale, che per un certo tempo ha soppresso Solidarnosc. Però guardando quelle immagini, bisogna tenere in mente quello che è successo alcuni anni dopo, nel 1989 e cioè a questa grande esplosione di libertà che ha cambiato il volto non solo della Polonia, ma anche dell’intera Europa e del mondo. Solidarnosc è stata proprio questo: uno dei pochissimi esempi del XX secolo di una vittoria pacifica del bene sul male e questo contro ogni speranza; in quanto tale, Solidarnosc merita di essere ricordata e celebrata e vale la pena trarne anche ispirazione per oggi e per domani. Solidarnosc è stata un grande paradigma, un modello di come agire per raggiungere tale vittoria. Questo paradigma sono pochi, semplici principi racchiusi in quello che viene chiamata l’etica o l’Ethos di Solidarnosc. Pochi principi: ancoraggio nei valori, nei valori cristiani (questo lo possiamo dire almeno qui), rifiuto della violenza, dell’odio, dialogo e perdono. Questa è stata ed è Solidarnosc. E per questo merita di essere ricordata e celebrata. Del resto credo che sia stata questa l’intuizione e il motivo per cui i promotori del Meeting di Rimini hanno voluto allestire questa mostra, proprio nel contesto del Meeting, il cui titolo parla di grandi cose che desidera il cuore umano. Solidarnosc ha fatto vedere e può ancora far vedere in tante altre situazioni come si possono raggiungere grandi cose, davvero. Bene. Detto questo, vi ringrazio dell’attenzione, vi auguro una interessante e fruttuosa serata. Grazie.

SANDRO CHIERICI:
Ringrazio il dottor Wojtek Hunolot per le Sue parole che ci hanno anche aiutato a collocare più a fondo nel contesto del Meeting, della nostra esperienza del Meeting e di questo Meeting in particolare, l’esperienza di Solidarnosc. Do inizio allora a questa presentazione che avverrà sotto forma di alcune domande che io porrò ai nostri oratori. E comincerei da Luigi Geninazzi, a cui chiederei in primo luogo un po’ di cronaca, di portarci dentro al cantiere. Tu che arrivavi dall’Italia che cosa hai incontrato, che aria si respirava a Danzica in quei giorni?

LUIGI GENINAZZI:
Devo cominciare cl dire che, ad essere sincero, quando arrivai a Danzica ero pieno di molte paure. Era il mio primo servizio giornalistico all’estero, mi sentivo del tutto impreparato a seguire una rivolta che in Occidente tutti davano per scontato sarebbe finita in tragedia, in un bagno di sangue. Io ero lì per il Sabato, mitico settimanale che molti di voi ricorderanno, e mi ricordo ancora quel che mi disse prima di partire per Danzica Fiorenzo Tagliabue, l’allora direttore: “Quando arriveranno i carri armati russi – perché sicuramente arriveranno – mi raccomando nasconditi, stai lì, che poi ci mandi un favoloso reportage”. Quindi potete immaginarvi come stavo! Invece, devo dire che tutti i brutti pensieri, tutte le mie angosce, sparirono di colpo appena entrai nei cantieri di Danzica, occupati dagli operai in sciopero.
Varcato il famoso cancello d’ingresso, quello che vedete riprodotto qui alla mostra, che era stato trasformato in una parete di fiori e di bandiere, mi sono ritrovato come catapultato in un altro mondo. Non si respirava affatto un clima di scontro e di rivendicazione rabbiosa, come avevamo visto tante volte in Italia, in Europa, durante le manifestazioni sindacali; c’era piuttosto un clima di festa, una festa di popolo.
La prima cosa che mi colpì – devo dire – non furono tanto gli operai, ma i poliziotti, perché i poliziotti che sorvegliavano la zona erano per niente arroganti, erano impacciati, anzi erano quasi intimiditi da una protesta che andava al di là di ogni immaginazione, perché si svolgeva in modo determinato, ma pacifico. Giorno e notte c’era una gran ressa di gente che si accalcava per incoraggiare gli operai (che poi, molti, erano loro familiari) e si passava di mano in mano dei foglietti ciclostilati con su scritti i ventuno Tak, cioè le ventuno richieste. Intanto vorrei ricordare che le ventuno richieste, che potete ammirare nella mostra, adesso sono diventate patrimonio culturale dell’umanità – così sono state riconosciute dall’Unesco, qualche anno fa -. C’erano rivendicazioni importanti. La prima era un sindacato indipendente, cioè una organizzazione che difendesse i lavoratori senza però essere strettamente dipendente dal partito di regime, dal partito comunista. E poi c’erano tanti altri punti interessanti, di rivendicazioni salariali, ovviamente, ma c’era, ad esempio, la precisa e netta richiesta di trasmettere la Messa via radio e via TV tutte le domeniche. Per un regime comunista, capite che era una richiesta – per un regime ateo -, praticamente irricevibile.
C’erano anche molte scritte ironiche. Mi ricordo, ad esempio – i cantieri navali si chiamavano Lenin e avevano dappertutto degli slogan, tipici dei regimi comunisti che si ispiravano soprattutto a Marx e Engels – che c’era una grande scritta, un grande cartellone con su la scritta: “Proletari di tutto il mondo, unitevi”, di Karl Marx e una mano maliziosa aveva corretto: “Proletari di tutto il mondo… scusateci tanto”.
Solidarnosc adesso ormai è entrata nella leggenda: è stato il primo sindacato libero in un paese del blocco sovietico, possiamo dire che è stata la prima breccia nel muro che sarebbe crollato definitivamente a Berlino, nove anni dopo e potremmo dire tante cose su questo. Ma un po’ le sappiamo e un po’ nell’intervento che Sandro mi richiamerà ad essere breve a conciso vorrei soprattutto dire un concetto: l’importanza di quella esperienza, l’importanza di Solidarnosc non si limita al ruolo che ha avuto nella caduta del comunismo. Se fosse così, sarebbe molto interessante per la storia, ma sarebbe solo roba da archivio. Invece, come ci indica il titolo suggestivo del Meeting quest’anno – stando lì, poi l’ho visto chiaramente – dobbiamo riscoprire il cuore di quel movimento, cioè la natura che ha spinto quegli operai a fare cose grandi. Non era una rivoluzione come tutte le altre. E perché? Solidarnosc poi non sarebbe stato solo un movimento sindacale, non era un movimento che si poneva in forza di una ideologia, – certo non l’ideologia marxista, è chiaro – ma neppure come qualcuno ha scritto una ideologia liberale, una ideologia nazionalista. Ad essere precisi – e questo mi impressionò molto – non era neanche una ideologia anticomunista. Chiaramente si muovevano contro il regime comunista, contro il totalitarismo rosso. Ma poi scoprii, parlando con alcuni operai, che alcuni di loro erano iscritti al partito comunista polacco, per dovere, per pigrizia, per abitudine, ma erano lì in forza di un’altra coscienza. I punti di riferimento, insomma, non erano una dottrina, ma erano delle persone, come fa in genere la gente semplice che capisce poco delle grandi diatribe, ma segue degli esempi, delle persone e questo spiega perché sul cancello c’erano le immagini di Giovanni Paolo II, il Papa polacco, ma anche della Madonna Nera di Częstochowa, la Patrona della nazione Polacca. Insomma, era una umanità nuova quella che lì stava emergendo. Solidarnosc ha fatto emergere l’esperienza umana in tutta la sua integralità e quindi anche nella dimensione religiosa. E questo ci spiega perché ad essere scioccati non erano solo i burocrati comunisti dell’Est, ma anche tanti intellettuali e l’opinione pubblica dell’Occidente. Non potrò mai dimenticare il commento di un giornalista di sinistra italiano, quando eravamo insieme a guardare la Messa nei cantieri con le tute blu, che era un tappeto di tute blu, di gente attorno all’altare, di gente che si confessava senza alcuna vergogna, senza alcuno scrupolo come ci sarebbe stato in Italia (rispetto umano, si diceva). Ecco, questo collega mi disse – proprio così, gli è venuto spontaneo, un collega di sinistra -: “Ma per questi qua sembra che lottare e pregare sia la stessa cosa!”. Ecco, è stato veramente così e ovviamente fu uno spettacolo che mi impressionò molto e andò avanti così per 18 lunghi giorni. Permettetemi di dire ancora una cosa. Lo spettacolo più sorprendente, incredibile, surreale furono le trattative che iniziarono la sera del 23 agosto, dopo 10 giorni che andava avanti lo sciopero. Il governo comunista di Varsavia alla fine cedette e mandò una delegazione governativa e mi ricordo quando arrivò, sabato sera, era già buio, questo pulmino e la gente si scansava di malavoglia e gridava “sono loro, sono loro!”, Loro, “Oni”, in polacco. A quel tempo, in Polonia “Loro” erano i comunisti, non c’era bisogno di dire i comunisti. E questo dava la distanza rispetto a noi, che siamo un’altra cosa. “Loro” dicono così. “Loro” fanno così. “Loro” ci impongono così e queste trattative sono andate avanti, trasmesse poi dalla radio interna dei cantieri, con tutti gli operai e la gente che potevano ascoltare.
Bene, un giorno, prima del 31 agosto, quando ci sarebbero stati gli accordi di Danzica, pochi giorni prima, quando vidi uscire dalla sala mensa Jagielski, il vice ministro che rappresentava, che capeggiava la delegazione governativa, tutto elegante vestito occidentale, giacca e cravatta, scuro in volto, a testa bassa, a fianco di Lech Walesa, questo operaio irruente con una orribile camicia a scacchi, ma raggiante e soddisfatto, in mezzo agli operaio che lo inneggiavano: ecco, mi è bastato quel flash per capire che quelle coraggiose tute blu ce l’avevano fatta. E così infatti è successo. Grazie.

SANDRO CHIERICI:
Nel 1980 Chris Niedenthal era in Polonia da 7 anni. Era giunto infatti nel 1973 come corrispondente e aveva vissuto già in presa diretta un periodo complesso della storia polacca, che aveva comportato gli scioperi del 1976, repressi violentemente, fino alla nuova speranza suscitata dalla elezione di Karol Wojtyła al pontificato nel 1978 e alla sua visita in Polonia nel 1979. Ecco, se l’esperienza di Geninazzi era quella di un occidentale pieno di stupore, l’esperienza di Niedenthal era – possiamo dire così – l’esperienza di un esperto già in cose polacche, in affari polacchi, perché aveva vissuto il prima, gli antecedenti dello sciopero. Allora vorrei chiedere a lui cosa aveva colpito di più lui che sapeva come si era arrivati allo sciopero, quando gli fu concesso di entrare nei cantieri.

CHRIS NIEDENTHAL:
Come fotografo, io la penso un po’ diversamente rispetto agli altri. Negli anni ’70, quando appunto sono arrivato in Polonia, i polacchi erano sottoposti a un grosso giro di vite dall’alto. Il Governo stava appunto esercitando grosse pressioni dall’alto, non c’era nulla nei negozi, era difficile anche muoversi nel paese, c’era polizia segreta ovunque. Questo è stato il mio grosso problema; quando sono arrivato alla zona dello sciopero, credo di essere stato il primo giornalista ad essere proprio presente, sono arrivato il secondo giorno dello sciopero, ero insieme ad un corrispondete britannico. Siamo arrivati lì presto la mattina, era proprio il secondo giorno dello sciopero e mi ha chiamato l’altro collega, mi ha detto: “c’è uno sciopero” e mi dice: “adiamo a Danzica insieme”. Il problema principale – e lo sapevo già da prima – era che come straniero, come occidentale, sarebbe stato difficile proprio entrare nei canteri,. Dopo aver passato tanti anni in Polonia, sapevo quanto fosse difficile. Sapevo che era difficile entrare in un complesso industriale in quel paese. Bisognava avere il permesso del Governo, bisognava richiederlo mesi prima e invece lì io e quest’altro giornalista pensavamo che io e l’altro giornalista potevamo semplicemente entrare nei cantieri. Il problema era che avevo una paura tremenda. Pensavo: se entro, se poi esco, vengo arrestato di sicuro come spia occidentale e contemporaneamente la stessa cosa la pensavano i lavoratori, gli operai dei cantieri. Al cancello, mi hanno detto: no, non si può entrare; e pensavano che lasciandoci entrare avrebbero fatto entrare una spia occidentale. Quindi pensavano, veniamo arrestati noi, voi e quindi tutto finisce. Quindi ho chiesto: “magari i giornalisti li potete far entrare. Se avete paura di un fotografo, almeno fate entrare un giornalista”. Sono tornati dicendo: bene, il giornalista entri pure, ma il fotografo stia fuori. Beh, ho cercato di agire con un po’ di furbizia e ho detto: “magari il giornalista ha bisogno di un traduttore”. Sono tornati e hanno detto: “va bene, allora come traduttore venga pure dentro. Però di foto non se ne parla, no ne può fare”. Avevano paura proprio dei fotografi. E questa, badate, è la peggior cosa che può succedere ad un fotografo. Io mi accorgevo che c’era qualcosa di storico che stava accadendo in quel momento, qualcosa senza precedenti e però non potevo fare foto. Quindi siamo entrati, io sempre facevo il traduttore e ci hanno fatto andare in una grande sala, dove c’erano appunto i negoziati con il direttore dei cantieri. Ancora non era presente la delegazione governativa, c’era solo il direttore. Mi fanno sedere lì vicino ad un tizio con i baffi; ero seduto tra questo signore coi baffi e il giornalista. Il mio compito era di tradurre. Dall’altra parte c’era il direttore, Niex, si chiamava. Vedo che questo signore coi baffi aveva delle buone intenzioni. Diciamo che cercava di andare intorno a quello che diceva il direttore; naturalmente io non avevo idea di chi fosse questo tizio coi baffi. Però qualcuno mi dice “si chiama Lech Walesa”. Però io non avevo idea di chi fosse questo tipo, quindi non mi ha aiutato molto questo nome. E questo è stato proprio l’inizio della mia esperienza con lo sciopero. Ho infranto la mia promessa, in quanto delle foto ne ho fatte, però non ho fotografato Walesa (ad un certo punto è anche scomparso, si è preso una pausa), però ho fatto delle foto al tavolo, poi sono uscito, siamo stati in altri luoghi, ho fatto delle fotografie attraverso una finestra, però mi vergogno un po’ nel dire che avevo sempre una tremenda paura quando invece un fotografo di paura non ne dovrebbe avere. Però dopo 7 anni in Polonia, ero ben consapevole di cosa facesse la polizia segreta, di tutte le varie leggi del paese e quindi avevo paura che una volta lasciati i cantieri poi avrei avuto delle grosse grane. Quello era l’inizio dello sciopero. Tutti ricordano la fine dello sciopero. Infatti alcune settimane dopo sono tornato lì e, come dico sempre, mi sembrava di essere a Hollywood, perché praticamente c’erano tutte le telecamere del mondo, tutte le Stampe del mondo, i fotografi americani, i cameraman americani, le Televisioni, i tedeschi, gli inglesi, gli italiani e non credevo proprio ai miei occhi quando ho visto questa scena. Nessuno mi credeva quando dicevo che due settimane prima avevo avuto grossi guai per entrare. È stata una esperienza meravigliosa – devo dire – per un fotografo vedere tutto questo, essere testimone di una leggenda che nasce è proprio l’essenza del lavoro di un fotografo, della sua vita. Quindi sono molto orgoglioso di essere stato presente in quelle circostanze, non sono veramente orgoglioso del fatto che avessi questa paura tremenda, però, c’est la vie. Vorrei anche aggiungere che alcuni pensano che sia stato l’uomo che abbia fatto questa rivoluzione. Però in effetti sono state le donne che hanno resi coraggiosi, più coraggiosi, gli uomini. Anna Valentinovic, che è morta appunto nell’incidente aereo di alcuni mesi fa, era veramente una donna tosta. Quando mi trovavo lì nella prima occasione le ho chiesto di poterla fotografare e mi ha detto: “per l’amor del cielo, no!” E’ l’ultima volta che l’ho vista, di fatto; però lei e un’altra donna che guidava i tram che, tra parentesi aveva lasciato il tram in strada e se ne era andata lì a scioperare, continuavano a dire: “non fermatevi, continuate a scioperare”. E in effetti hanno fatto sì che lo sciopero potesse durare tre settimane e non solo due giorni. Quindi sono le donne la leggenda segreta dello sciopero.

SANDRO CHIERICI:
Rafal Wieczyński all’epoca dello sciopero era molto giovane, quindi non ha una esperienza diretta vera e propria dei fatti di Danzica, però ha voluto fare un film su Padre Popiełuszko, questa bellissima figura del cappellano di Solidarnosc che è stato ucciso nel 1984 e beatificato il 6 giugno scorso. A lui vorrei chiedere perché ha voluto occuparsi di questa figura, cosa lo ha colpito di quest’uomo e che cosa ha ritenuto possa dire a noi oggi la figura di Padre Popiełuszko.

RAFAL WIECZYŃSKI:
Quando sono incominciati gli scioperi a Danzica, in effetti, io avevo 12 anni e quando ho cominciato a sentir parlare dello sciopero (in polacco si dice “strike”) la mia domanda era: ma che cosa vuol dire la parola sciopero, che cos’è? Perché era una parola proibita. Si diceva, invece di usare la parola sciopero, si diceva “una sosta ingiustificata dal lavoro”. Quando Padre Popiełuszko è morto, quando è stato ucciso avevo 16 anni. In quanto facevo parte del movimento degli Scout, ho partecipato ai suoi funerali insieme ad altri 600.000 ragazzi come me. Quei quattro anni, dal ’80 al ’84 sono stati gli anni della mia educazione patriottica, morale e semplicemente umana. Tornando a casa dal funerale di Padre Jerzy, mi ponevo questa semplice domanda da adolescente: “Io sarei stato capace di vivere come lui?”. In quel periodo la Chiesa in Polonia era il luogo in cui ci si poteva sentire liberi e il cortile della Chiesa, dove Padre Popiełuszko prestava il suo ministero sacerdotale, era detto “il primo pezzettino di Polonia libera”. Nel corso della storia polacca la Chiesa è sempre stata il fondamento del permanere della cultura e anche talvolta dell’esistenza stessa dell’essere polacco. Negli anni ’80, fine anni ’80, andavo a vedere delle mostre o degli spettacoli che si tenevano proprio nei sotterranei delle Chiese. Per questo, dopo l’89, dopo la fine della tavola rotonda, dopo la caduta del regime, mi aspettavo che tutto questo che ho detto prima potesse trovare un riverbero anche nell’arte polacca, anche nel cinema. Non so perché non sia accaduto questo, non so perché non si siano girati film su quel periodo veramente eroico. Ci sono state solo poche eccezioni che però non hanno avuto una grande influenza sul resto della cultura. Sono cresciute delle nuove generazioni di polacchi, delle nuove generazioni di giovani, per le quali quel periodo e il nome di Padre Jerzy ha significato soltanto un paio di parole sui manuali di storia a scuola. E io mi ricordavo le parole del Santo Padre, durante il suo pellegrinaggio nell’’87 quando disse: “Padre Jerzy ha donato la sua vita per tutti noi e per questo Padre Jerzy deve trovare il suo posto in Polonia, in Europa e nel mondo”. E quando nel 2000 il Santo Padre ha esortato i giovani a prendere il largo, insieme a mia moglie abbiamo pensato che il nostro modo di prendere il largo voleva proprio dire dedicarci alla realizzazione di un film su Padre Jerzy e a quel punto abbiamo cominciato a fare delle ricerche: ho circa 250 ore di interviste con testimoni, con persone che l’avevano conosciuto. E andando a trovare queste persone nelle loro case, ho visto la fotografia di Padre Jerzy insieme alle fotografie dei parenti, alle fotografie di famiglia. Ho capito molto in fretta che a 16 anni mi ero sbagliato su una cosa, mi ero sbagliato pensando che Padre Jerzy fosse soltanto un patriota, fosse soprattutto un patriota. Certo, Padre Jerzy era un patriota, ma egli era soprattutto un sacerdote e il fine della sua vita non era affatto la libertà della Polonia, era la libertà di ogni uomo. Padre Jerzy era sicuro che se il singolo, se la persona non cede alla menzogna e non cede alla paura, non c’è regime che tenga. I lavori per il film ci hanno preso circa 7 anni. La cosa più difficile ovviamente è stato trovare i soldi, i finanziamenti per il film, perché se tutti possiamo molto volentieri sottoscrivere il suo messaggio, di fatto non tutti vogliono che venga realizzato un film su Padre Jerzy. Mercoledì vi invito calorosamente, potrete vedere il film qui al Meeting. Voglio alla fine fare un ringraziamento speciale – lo faccio sempre in queste circostanze -, a mia moglie, perché non credo che ci siano molte mogli disposte a ipotecare tutto per permettere al marito di fare un film.

SANDRO CHIERICI:
Grazie per questa testimonianza così commovente. Vorrei tornare ora a Chris Niedenthal. Come accennavo prima, Niedenthal ha proseguito la sua attività di reporter in Polonia documentando anche gli anni successivi, in particolare documentando il periodo della legge marziale. Lui stesso accennava, nel suo primo intervento, ai problemi del lavoro del fotografo che si trova a vivere degli avvenimenti che si rende conto stanno cambiando la storia. E vorrei chiedergli quale pensa che sia il contributo che la fotografia può dare alla conservazione della memoria, ma non solo degli avvenimenti clamorosi, ma alla conservazione della memoria che è fatta di un clima, di una atmosfera che si respira, di indizi piccoli. Faccio riferimento ad una foto che è in mostra, in cui si vede, davanti ad una vetrina pressoché deserta, un uomo che spinge una carrozzina. È impossibile non vedere in questa foto la volontà di documentare un segno di speranza nel futuro. Ecco, vorrei chiedere a Niedenthal che cosa pensa la fotografia possa fare, non solo per salvare la memoria, ma per aiutare l’uomo a giudicare la storia e quindi a salvarne il significato.

CHRIS NIEDENTHAL:
Quando facciamo le foto non ci pensiamo mai a queste implicazioni; noi scattiamo proprio d’intuito; non pensiamo effettivamente che facciamo degli scatti che poi rimarranno nella storia, però poi a posteriori lo possiamo dire. E la fotografia spesso sembra essere soltanto qualcosa che viene presa così, all’istante (un volto, un evento) e quindi sono d’accordo sì e no. Come direbbe Lech Walesa: sono a favore e anche contro – questo è il linguaggio che usa sempre lui, specificatamente -. Ecco, per quello che io ho scattato, catturando delle immagini, in quel periodo, 20 o 30 anni fa, a distanza di 20 o 30 anni è già storia. In quelle immagini possiamo vedere, per esempio, delle mode, vediamo come vestiva la gente, vediamo il tipo di acconciature che andavano di moda, i capelli se erano lunghi o no, vediamo se i pantaloni erano scampanati o no o anche, per esempio, i colli delle camice degli uomini, come erano fatti. quando scattate un foto tutti questi dettagli non sembrano importanti. Però a distanza di 20 o 30 anni questo acquisisce una sua importanza. Però ricordate che i fotografi non sono mai soggetti popolari, noi siamo sempre qualcosa che dà fastidio, facciamo le foto quando la gente non vuole, quindi non è che siamo delle persone molto gradite, però 20 anni o 30 anni dopo ci amano tutti moltissimo. Però in ultima analisi nelle nostre fotografie viene rappresentata l’atmosfera, la cultura, proprio la società così come vive. Il problema oggi qual è? È proprio quello delle macchine fotografiche digitali. Al tempo, 20 o 30 anni fa, io usavo una normale macchina fotografica con la pellicola, costavano anche molto le pellicole e in Polonia non erano di buona qualità. Quindi bisognava proprio essere sicuri che le fotografie che si facevano erano quelle che si intendevano fare. Oggi invece con la memory card potete fare anche 500 foto e questo è fotografia pura, però la gente cosa fa? Scatta, scatta, scatta e non pensa neanche. Non c’è una decisione fatta a priori, è semplicemente scattare così automaticamente. Poi bisogna scegliere una foto su, magari, 2000, che non è un compito così facile nemmeno quello. Parliamo di una foto, una foto in mostra. Io la chiamo Apocalypse now, perché fa vedere un cinema di Varsavia con dei cartelloni che pubblicizzano il film che stanno proiettando, Apocalypse now, il film di Francis Ford Coppola. Sotto quel cartellone c’è appunto un carro armato con dei sodati attorno. Per i Polacchi un’immagine con il cinema, questo cartellone di Apocalypse now, e un carro armato praticamente è il sunto della legge marziale. A noi non piaceva Mosca, non ci piaceva la legge marziale, non ci piacevano i carri armati, e per noi era una Apocalypse now, soprattutto perché appunto si trattava dei primi giorni della legge marziale.
Quella immagine era comparsa sul News Week, come piccola fotografia. Gli americani avevano tagliato la parte che faceva vedere Cinema Mosca, solo perché rientrasse nella pagina e io pensavo che finisse lì il tutto. Però adesso viene fuori che quella è la fotografia per cui sono più famoso. Naturalmente mi fa star bene quella sensazione, però non ho fatto quella fotografia pensando che sarei diventato famoso proprio per quella. Però quella immagine vi da l’idea dell’atmosfera, vi da l’idea di come erano gli inverni (inverni molto rigidi) e, secondo me, si vede che l’ho fatta stando nascosto. Non ci era consentito tirar fuori le macchine fotografiche sulle strade. Quindi nelle prime settimane della legge marziale dovevamo nasconderle le macchine fotografiche. Non c’era appunto permesso far vedere le macchine fotografiche in strada e quindi dovevamo scattare dall’interno degli edifici, dalle finestre. Alcuni fotografi avevano sviluppato tutti dei trucchetti per ovviare alla situazione, sono stati molto scaltri! Per esempio, a un mio amico sua moglie aveva preparato tutto un bel guanto speciale, con una piccola macchina fotografica all’interno. Un italiano, credo Gianni Giansanti, fotografo che era venuto in Polonia con un camion pieno di aiuti per la Polonia, aveva un trucco bellissimo: aveva una Bibbia grossa, di grosse dimensioni, aveva tolto le pagine, la maggior parte delle pagine, e aveva messo dentro una piccola macchina fotografica, un piccolo obiettivo e quindi girava in tutte le strade di Varsavia, tenendo sotto mano questa Bibbia, e faceva delle foto. Questo è il modo in cui dovevamo lavorare allora. Comunque, tornando al discorso dell’atmosfera, tanti fotografi polacchi scattavano sempre da posti nascosti. Come fotografi occidentali, alla fine abbiamo ottenuto il permesso di scattare in strada. I soldati sapevano che li fotografavamo eccetera. Quindi le mie fotografie forse non hanno un impatto così forte come quelle dei colleghi polacchi che le dovevano fare di nascosto – fotografie in bianco e nero, proprio drammatiche – che illustravano proprio l’atmosfera reale della legge marziale. E questo era quello che dovevo dire circa il discorso dell’atmosfera. Grazie.

SANDRO CHIERICI:
Ora vorrei tornare a Rafal Wieczyński per chiedergli di venire più vicino a noi. Vorrei chiedergli che cosa lei, che appartiene alla generazione che ha visto la caduta del regime comunista e il cambiamento profondo della società polacca negli ultimi 20 anni, ecco, vorrei chiedere che cosa è rimasto dell’esperienza di Solidarnosc nella sensibilità comune di oggi in Polonia.

RAFAL WIECZYŃSKI:
Una domanda molto difficile. Ovviamente siamo tutti molto contenti e godiamo della libertà e della democrazia. Quello che ricorreva in tutti i moti di protesta in Polonia dal dopoguerra ad oggi, nel ’56, ’68, ’70, ’76 e ’80, era la richiesta della verità. Possiamo dire che in un certo senso questa richiesta di Solidarnosc, di verità e di giustizia, sia ancora attuale. Quando penso a padre Jerzy, penso a un sacerdote che ha dedicato tutto se stesso alle persone che erano minacciate. Mi ha fatto piacere sentir ricordare, da parte di Chris Niedenthal, una persona come Anna Valentinovic. Ma di eroi, forse non così grandi come lei, di eroi silenziosi ce ne sono stati tanti in tutte le città, in tanti villaggi, in tanti paesi. Erano persone che mettevano a repentaglio a volte la loro vita, molto spesso il loro lavoro, molto spesso la loro salute, vivendo nella speranza che, quando la Polonia sarebbe stata libera, avrebbero potuto vivere nella giustizia. Padre Jerzy, seguendo il Santo Padre, ripeteva che è necessaria certamente la riconciliazione, ma che una vera riconciliazione può avvenire soltanto se costruita sulla verità. In Polonia abbiamo ancora oggi un problema nel fare i conti fino in fondo con quel periodo, facciamo ancora fatica a chiamare il comunismo con il suo vero nome. Questo è riuscito ai tedeschi dell’est, questo è riuscito ai cechi e agli slovacchi, mentre in Polonia questo non è ancora riuscito. E molto spesso oggi questi eroi silenziosi vivono in condizioni molto più difficili degli altri. Nel film che una parte di voi ha visto, una parte di voi forse vedrà, c’è la scena dell’omicidio di un giovane maturando, che è stato massacrato di botte da quattro poliziotti presso un comando di polizia, soltanto perché era il figlio di una poetessa molto attiva nel comitato di aiuto ai perseguitati politici. La morte di quel ragazzo ha impaurito molte madri che erano attive nel portare aiuto ai perseguitati politici. Quattro poliziotti, il giorno dopo questo omicidio, sono stati mandati in ferie, sono stati accusati dell’omicidio gli infermieri dell’ambulanza che era stata chiamata per portare soccorso. In questo caso si sono conservati i documenti che dimostrano tutto lo svolgersi di questa azione. Ho detto appositamente in questo caso si sono conservati i documenti, perché una gran parte di documenti che testimoniano episodi di questo genere, è stata distrutta agli inizi degli anni ’90. In questi documenti che si sono conservati, c’è tutto un elenco di compiti che dovevano assolvere i giornalisti della televisione, della radio, della carta stampata, per creare una atmosfera ostile ai servizi sanitari e contemporaneamente per accusare la mamma di questo ragazzo massacrato, di comportarsi male, di cattivo comportamento, di alcolismo, di tutta una serie di nefandezze. C’è un altro documento che contiene un elenco di premi per i giornalisti che avessero assolto ai compiti previsti. A seguito di questa campagna e di questi compiti dei giornalisti, è accaduto che durante il processo due infermieri hanno cominciato ad accusarsi vicendevolmente, ma durante il processo ad un certo punto uno di loro, uno di questi due infermieri, ha cominciato a dire la verità; ha ritrattato tutto quello che aveva dichiarato sotto pressione, anche dell’opinione pubblica; a seguito di questo la sua famiglia si è disgregata, è stato in prigione alcuni anni, oggi è un francescano. Il processo contro i quattro poliziotti che sono stati gli effettivi autori di questo omicidio, è finito soltanto l’anno scorso e continuato praticamente fino a quest’anno. Il processo è andato avanti e si è arrivati ad una conclusione soltanto per la cocciutaggine di un altro ragazzo, amico dell’accusato, che ha dedicato venti anni della sua vita a rendere giustizia al suo amico. Ma qualche mese fa un tribunale però ha dichiarato che il processo era caduto in prescrizione, per cui niente non c’è niente da fare, è andato avanti fino adesso. Ho ricordato questo episodio perché volevo sottolineare che nell’eredità di Solidarnosc, nell’eredità di padre Jerzy verso Solidarnosc, uno dei punti fondamentali è sempre stato quello di chiamare la verità e di dire la verità col suo nome. Anche nel 1980 uno dei postulati degli scioperanti era proprio quello di arrivare ad un processo contro gli esecutori materiali della morte degli operai negli anni ’70 e ’76, durante gli scioperi a Danzica e nelle altre città polacche. Se aggiungiamo i morti degli anni precedenti al 1980, i morti provocati dallo stato di guerra, le migliaia di carriere interrotte e fermate dallo stato di guerra e circa il mezzo milione di polacchi emigrati dopo il 1981, abbiamo in maniera più chiara le dimensioni di questo crimine contro la nazione, dei crimini contro la nazione. Per questo quando io parlo dell’eredità di Solidarnosc, parlo soprattutto delle sfide che abbiamo davanti, delle questioni che abbiamo ancora aperte, ancora irrisolte, perché una riconciliazione che passi sopra la testa della gente, una riconciliazione che non sia fondata sulla verità, non è una vera riconciliazione. Volevo dire ancora una cosa su quello che sta accadendo adesso in Polonia, perché la Polonia è divisa, anche se tutti a parole dichiarano la loro volontà di riconciliazione. E di nuovo, anche in questo caso, padre Jerzy è terribilmente attuale. Vi raccomando calorosamente le omelie di padre Jerzy, già tradotte dal sottoscritto; queste omelie non possono essere chiuse dentro quel capitolo della storia; queste omelie sono una sfida per noi oggi. È necessaria una ripresa della verità, se si vuole che i singoli, i gruppi, le nazioni, non dubitino della forza della verità e non abbraccino nuove forme di violenza. Restituire la verità significa soprattutto chiamare per nome ogni gesto di violenza, qualsiasi sia la forma che assume. Bisogna chiamare l’omicidio con il suo nome, l’omicidio è sempre omicidio e le motivazioni politiche, ideologiche, non possono cambiarne la natura, perdono qualsiasi valore. Diffondere la verità come forza di pace significa fare senza sosta la fatica di rifiutare sempre e comunque la menzogna, anche se è una menzogna a fin di bene.

SANDRO CHIERICI:
Vorrei chiudere ora l’incontro con un’ultima domanda a Geninazzi. Come tu hai sottolineato, Solidarnosc è stata molto più di un movimento sindacale; qual è la novità che ha portato nella concezione del lavoro e che cosa ha da dire a noi oggi, proprio su questo piano?

LUIGI GENINAZZI:
Mah, qui, potete vederlo nella mostra e c’è anche un testo di padre J. Tischner, che è stato il filosofo di Solidarnosc, che spiega molto bene questa cosa. Solidarnosc, diceva, è un movimento di natura etica, di natura morale. Cosa vuol dire? Vuol dire che il disagio di fronte ad una situazione ingiusta, e questo era chiaramente percepibile allora, nel 1980, questo disagio costringe prima di tutto a cambiare te stesso. Se quegli operai, se Solidarnosc si è potuta battere con decisione e con determinazione senza violenza per la libertà, è perché prima di tutto quella gente era libera dentro, era libera nel suo cuore, nella sua mente. In poche parole, il famoso grido con cui Giovanni Paolo II ha inaugurato il suo pontificato “Non abbiate paura” e ancora di più le parole che disse nel suo primo viaggio in patria, nel giugno del 1979, furono un po’ la molla che fece scattare questa coscienza, che ovviamente non nacque dal nulla, c’era già dentro la tradizione della nazione polacca, dentro la tradizione della Chiesa polacca; ecco, questa potente spinta alla libertà ha avuto questa dinamica e da qui, quel grande principio che è stato gridato come slogan sulle piazze durante lo stato di guerra e che poi è rimasto: non c’è libertà senza Solidarnosc, che vuol anche dire “senza la solidarietà”. È proprio questa dinamica, vedete, che ha permesso a Solidarnosc di tener duro per nove anni nella clandestinità e di confrontarsi col potere senza spirito di odio e di vendetta. Come ha scritto padre Tischner, la solidarietà che è sinonimo in questo caso proprio di Solidarnosc, come movimento sindacale, la solidarietà non ha bisogno di nemici per crescere, si rivolge a tutti e non contro qualcuno. Pensate che questa frase letterale è stata ripresa da Giovanni Paolo II durante il primo incontro che fece con la delegazione di Solidarnosc, in visita in Vaticano, del gennaio del 1981. Ecco, qui siamo al punto per capire quello che tu Sandro mi chiedevi, cioè cosa c’entra col lavoro. Dire che Solidarnosc è stato un movimento di natura etica vuol dire che si è posto prima di tutto il problema del lavoro. Tischner diceva che in Polonia il lavoro è malato, e Solidarnosc ha cercato di guarirlo. L’analisi sarebbe lunga e credo che non possiamo permettercela a quest’ora, ve la spiego con una battuta. Cosa vuol dire che il lavoro era malato in Polonia? Si diceva sempre, noi facciamo finta di lavorare perché lo stato fa finta di pagarci. Questo circolo vizioso capite nessuno intendeva spezzarlo, e il lavoratore che deve iniziare a lavorare sul serio e lo stato che deve iniziare a pagare su serio, ecco Solidarnosc ha cercato di rompere questa mentalità, perché un lavoro privo di senso, diceva sempre Tischner, un lavoro privo di senso è la forma più alta, la forma culminante dell’alienazione del lavoro. L’alienazione del lavoro ti strappa il senso di quello che stai facendo e quindi tutto diventa senza significato a cominciare dal rapporto con gli altri. Solidarnosc ha invertito questo problema e per questo è arrivato a porre la questione della solidarietà non solo operaia ma di tutta la nazione come il punto di volta per cambiare la situazione. L’ultima parte molto veloce ma anche qui forse Sandro ci vorrebbe un’altra conferenza: cosa ha da dire oggi Solidarnosc? Rafal Wieczyński ha spiegato molto bene tanti problemi che oggi la Polonia vive, io mi permetterei di dire, spero che Rafal sia d’accordo, che però, nonostante queste divisioni, che ovviamente ci sono anche in Polonia come in tanti altri paesi, la Polonia è capace ancora di vivere esperienze di dignità e di verità, e l’abbiamo visto ad esempio davanti alla famosa, alla, scusate, alla tragica vicenda dell’aprile scorso, quando l’aereo presidenziale con altre novantacinque persone a bordo, quasi tutte di Solidarnosc, si è schiantato nella foresta di Smolensk, vicino a Katyn, che è il luogo della memoria dolorosa di questo popolo. Ecco vi dico semplicemente questo Lech Kaczynski era un presidente molto contestato, però davanti a questa tragedia tutta la nazione si è trovata unita, di qualsiasi partito fosse, e io personalmente come italiano mi sono sentito stupito, quasi come trent’anni fa davanti agli operai di Danzica, nel vedere i politici polacchi che fino al giorno prima si facevano la guerra, a parole ovviamente, ma molto dura, abbracciarsi e piangere davanti al feretro di un presidente che è stato molto discusso, diciamo la verità, ma in quel momento hanno capito che c’era in gioco qualcosa d’altro. Io non so Rafal se in Italia i nostri politici e noi stessi saremmo capaci di fare questo. Voglio solo ricordare che davanti a questa tragedia un giornale ha avuto la cattiva idea di fare una vignetta che dice: a chi troppo e a chi niente. Come dire, noi non riusciamo a toglierci di mezzo i nostri governanti, guarda che disgrazia, in Polonia ne sono morti troppi. E a questo ha risposto un altro giornale dicendo: vogliono Berlusconi morto. A me non interessa entrare nella questione politica, ma voglio solo farvi notare che ancora una volta in Italia, davanti alla tragedia polacca, l’abbiamo buttata ancora nelle nostre questioni di casa pro e contro Berlusconi. La Polonia ha vissuto invece un momento di grande unità. Voglio dire insomma che Solidarnosc oggi, nel paese che ha brevettato la formula, è ancora vivo. Per noi, io credo che abbia molte cose da dire, ha da dire più in generale per certe situazioni di crisi, faccio solo un nome, il Medioriente. Perché lì le cose non si sbloccano? Perché manca la logica di Solidarnosc, cioè la logica del perdono e della non violenza. Se non sapete perdonare non potete trattare con l’avversario. Se ogni vostra richiesta è accompagnata dalla violenza, dall’altra parte ci sarà sempre una repressione più dura. Qualcosa è successo in Libano qualche anno fa, ma questo modello di azione non violenta fa fatica ad imporsi purtroppo nelle situazioni di crisi. E ovviamente ha qualcosa da dire anche a noi; perché la frase, il principio, lo slogan, “non c’è libertà senza solidarietà”, vale anche per le nostre democrazie cosiddette mature, vale anche per il nostro paese. Io credo che, e concludo, su questo noi qui al Meeting siamo sempre stati molto sensibili. Ho iniziato ricordando quando sono partito per Danzica, permettetemi ora di ricordare che, appena tornato da Danzica, alla conclusione dello sciopero, sono stato preso a mia insaputa, perché allora non c’erano i telefonini, mi son trovato uno davanti all’aeroporto che m’ha detto, tu devi venire al Meeting perché ci devi dire che cosa hai fatto. Era la prima edizione del Meeting, non c’era tantissima gente come oggi, eravamo sotto un tendone, non c’era l’aria condizionata, si moriva dal caldo, però ho capito che lì, la gente che mi ascoltava, magari c’è ancora qualcuno qua adesso dopo trent’anni, si sentiva particolarmente colpita, particolarmente vicina a quell’esperienza. Ripensandoci poi, ho capito, vedendo la forza di quel movimento tranquillo e determinato come Solidarnosc, ho capito quello che ci ripeteva continuamente don Giussani, che la libertà è un’energia di adesione al reale. Quella gente aveva un’energia incredibile davanti ad una realtà che a prima vista sembrava schiacciare tutto, come ricordava Chris Niedenthal all’inizio. Ebbene è riuscito a cambiare questa situazione. Questa libertà io credo che sia un tesoro che dobbiamo conservare come desiderio e come operatività, grazie.

SANDRO CHIERICI:
Io credo che non ci sia bisogno di aggiungere nulla alle testimonianze che abbiamo sentito. Ringrazio tutti i nostri ospiti per questa serata, per gli spunti di riflessione che ci hanno offerto a tutti i livelli e do a voi appuntamento ai prossimi eventi del Meeting. Ovviamente la mostra è allestita nel padiglione C5, la potrete visitare, potrete trovare in vendita anche alcune altre pubblicazioni che sono, diciamo, aderenti al tema della mostra, in particolare vorrei segnalarvi la ripresa, la ripubblicazione del libro di Tischner Etica del lavoro, etica della solidarietà, che per molti di noi è stato un libro molto importante negli anni Ottanta, e poi la biografia di Padre Popieluszko, scritta da Annalia e il dvd del film che è stato realizzato e che quindi è disponibile e in vendita. Grazie ancora a tutti voi e buona prosecuzione.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

22 Agosto 2010

Ora

19:00

Edizione

2010
Categoria
Testi & Contesti