Chi siamo
DALL’AMORE NESSUNO FUGGE. APAC: IN BRASILE UN CARCERE SENZA CARCERIERI
Partecipano: Cledorvino Belini, Presidente Sviluppo di Gruppo FCA (Fiat Chrysler Automobiles) dell’America Latina, Brasile; Daniel Luiz da Silva, Ex carcerato, Brasile; Valdeci Antônio Ferreira, Direttore Generale FBAC (Fraternidade Brasileira de Assistência aos Condenados), Brasile; Luiz Carlos Rezende e Santos, Giudice di Esecuzione Penale del Tribunale di Giustizia di Minas Gerais, Brasile. Introduce Andrea Tornielli, Vaticanista de La Stampa.
DALL’AMORE NESSUNO FUGGE. APAC: IN BRASILE UN CARCERE SENZA CARCERIERI
ANDREA TORNIELLI:
Bene, buonasera e benvenuti a questo incontro. Ci scusiamo per un po’ di ritardo dovuto all’incontro precedente. Questo incontro s’intitola: “Dall’amore nessuno fugge. APAC: in Brasile un carcere senza carcerieri”. APAC significa Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati: questo incontro si inserisce bene, anzi, entra nel cuore del tema del Meeting, “Tu sei un bene per me”, perché racconta di un’esperienza che da tanti anni, ormai 44, è in atto in Brasile. Non è la prima volta che questa esperienza viene raccontata al Meeting, dove si cerca di guardare in questo modo la figura del carcerato, distinguendo la persona dalla sua colpa, la persona dall’errore, dal peccato che ha commesso. L’incontro è particolarmente attuale, non soltanto per il tema del Meeting ma anche perché avviene in questo Anno Giubilare della Misericordia. Tra le opere di Misericordia c’è quella di andare a visitare i carcerati, secondo quel protocollo che ha detto Gesù nel capitolo XXV di Matteo. In particolare, Papa Francesco ha più volte parlato di questo tema e manifestato una vicinanza particolare ai carcerati. La mostra – che vi invito, se non lo avete ancora fatto e se ne avete la possibilità, a visitare perché è molto bella come percorso – si conclude con una frase di Papa Francesco che dice: “Pensiamo a quanto si sta cercando di fare per il reinserimento sociale dei carcerati, affinché chi ha sbagliato, dopo avere pagato il suo debito con la giustizia, possa trovare più facilmente un lavoro e non restare ai margini della società. Con la Misericordia, la giustizia è più giusta, realizza davvero se stessa. Questo non significa essere di manica larga, nel senso di spalancare le porte delle carceri a chi si è macchiato di reati gravi, significa che dobbiamo aiutare a non rimanere a terra coloro che sono caduti. È difficile metterlo in pratica perché a volte preferiamo rinchiudere in un carcere tutta la vita piuttosto che cercare di recuperarla, aiutandola a reinserirsi nella società. Dio perdona tutto, offre una nuova possibilità a tutti e effonde la sua Misericordia su tutti coloro che la chiedono. Siamo noi a non saper perdonare”. Concludo ricordando un episodio che mi ha colpito particolarmente: in un incontro sul tema della misericordia che si è tenuto lo scorso marzo nel carcere di Padova, si parlava ai carcerati del settore “protetti”, quelli che sono dentro per un certo tipo di crimini gravi, che non possono entrare in contatto con gli altri. Quel giorno era un sabato, avevano già celebrato la messa e c’era il vangelo, con la parabola del figliol prodigo e del padre misericordioso. Mi ha colpito che uno di questi, che da poco tempo aveva avuto i primi permessi per poter tornare a casa, commosso fino alle lacrime diceva: “Ogni volta che leggo questa pagina del vangelo, quella del figliol prodigo, non posso non pensare alla mia storia, al fatto che io ho mandato totalmente in rovina l’azienda di mio papà, l’ho ridotto sul lastrico, e ancora non riesco a capire perché ogni volta che torno a casa, lui, che ha 94 anni, è lì che mi accoglie e che mi abbraccia piangendo”. Ecco, credo che dalle esperienze che ascolteremo questa sera, di vite cambiate, di persone che vivono nel contatto con la realtà del carcere, sarà possibile leggere, dando più sostanza, più carne, più sangue, anche le pagine evangeliche che ci parlano della misericordia. Inizio con una domanda al primo dei nostri ospiti che vi presento velocemente: sono Valdeci Antonio Ferreira, Direttore generale del FBAC( Fraternidade Brasileira de Assistencia a los Condenados), Luis Carlos Rezende e Santos, Giudice di Esecuzione Penale del Tribunale di Giustizia dello stato di Minas Gerais, poi Cledorvino Belini, Presidente Sviluppo del Gruppo FCA, Fiat Chrysler dell’America Latina. Infine, Daniel Luiz da Silva, che ci racconterà la sua testimonianza di vita cambiata attraverso il periodo di detenzione passato in un APAC. Io comincio chiedendo a Valdeci di dirci, sinteticamente che cosa sono le APAC, da dove nascono.
VALDECI ANTÔNIO FERREIRA:
Vorrei innanzitutto ringraziare per questo momento che sicuramente sarà uno spartiacque nella mia vita tra il prima e il dopo questo incontro, questo Meeting di Rimini. Vorrei ringraziare tutta la direzione, le persone della Fondazione per questo meraviglioso evento. Voglio ringraziare la fondazione AVSI che ci ha consentito di arrivare fino a qui e di condividere l’esperienza che viviamo in questo momento in Brasile. In modo molto affettuoso, vorrei ringraziare tutti i volontari che lavorano a questo evento, persone come Cecilia, Anna, Giovanni, che ci stanno accompagnando e sono con noi dal momento in cui siamo arrivati. Vorrei ringraziare tutti i volontari perché sono coloro che fanno la differenza, non soltanto in questa occasione bensì in tutte le attività sociali che vengono svolte nel mondo a favore di coloro che si trovano a lato, al margine. Quando sono entrato mi sono emozionato molto e mi sono ricordato di un incontro che abbiamo organizzato a Itaù de Minas Gerais, città vicino a Belo Horizonte. Era la prima volta che parlavamo, che presentavamo questo tema del recupero dei carcerati e per un intero mese siamo intervenuti in tutta la città con segnali, con cartelli nelle chiese, abbiamo invitato la popolazione all’evento che doveva essere alle sette di sera. Alle sette di sera c’erano tre persone, la nostra sala era preparata per cinquecento ma erano solo tre. Dopo mezz’ora, ne sono arrivate altre cinque, poi altre quattro e alla fine, dopo due ore di attesa, eravamo più o meno in quindici, inclusa mia madre e le mie sorelle. Vedere invece questa sala con così tante migliaia di persone che sono qui ad ascoltare un’esperienza volta al recupero dei carcerati, davvero ci riempie il cuore di allegria, ci riempie il cuore di speranza perché la presenza di tutti voi qui ci dà la certezza che non è tutto perduto, che esiste ancora una soluzione per il grave problema delle carceri, non soltanto in Brasile ma in tutto il mondo. Abbiamo avuto molta esperienza, in questi ultimi 33 anni in cui sono stato volontario per gli APAC ma credo che l’esperienza più importante si sia verificata dopo oltre 13 anni che lavoravamo con i carcerati: abbiamo scoperto che non sapevamo nulla di loro. Dopo 33 anni, continuo a pensare che non sappiamo nulla dei nostri carcerati perché chi conosce veramente il problema è colui che è abbandonato dietro le sbarre, è quel giovane che quando arriva la sera mette la testa sul cuscino, rivede il film della sua vita e si rende conto che sta perdendo i migliori anni della propria gioventù dietro le sbarre. Quindi, non abbiamo la pretesa di portare un’esperienza, di insegnare qualche cosa, non siamo qui per insegnare ma per condividere un’esperienza che stiamo facendo in Brasile. Un’esperienza che si chiama APAC, Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati, un ente civile di diritto privato senza scopo di lucro. Ogni APAC è autonoma dal punto di vista giuridico e finanziario. Tutte le APAC sono vincolate alla Fraternidade Brasileira de Assistencia a los Condenados, di cui al momento sono il Direttore generale. FBAC ha il compito di riunire tutte le APAC e mantenere l’unità di questo movimento. Vi confesso che mi sento molto piccolo. Mi ricordo quando ho visitato per la prima volta il carcere pubblico di Itauna: avevo ventuno anni, ero giovane, immaturo dal punto di vista spirituale, affettivo e psicologico, ma quella prima visita mi ha colpito, mi ha segnato, ha toccato la mia sensibilità. Da allora mi sono lanciato in questa sfida. Sono passati 33 anni di una vita dedicata completamente a questa causa. Dopo tre anni che lavoravo in quella prigione, a contatto con umiliazioni, vessazioni, risse provocate dai poliziotti, in cui molte volte ho aspettato più di due ore alla porta della prigione per poter entrare, ho scoperto il metodo APAC, ideato da un nostro grande amico, fondatore, padre e maestro, Mario Ottoboni. A quest’uomo dobbiamo riconoscere tutto, perché siamo solo suoi discepoli. Sono entrato come discepolo in questo lavoro e voglio morire come tale, come eterno apprendista di questo tema, di questa materia. Ho scoperto il metodo APAC attraverso un libro di Mario Ottoboni e abbiamo portato l’esperienza a Itauna, ma non è stato facile convincere la società che vedeva come norma in tutte le parti del mondo un pregiudizio radicato nella nostra cultura, l’idea che il condannato deve soffrire, che l’unico bandito buono è il bandito morto. Questo pregiudizio radicato nella nostra cultura, questo errore che la società continua a portare avanti, consiste nel credere che solamente arrestare e condannare possa risolvere il problema quando invece, una volta eseguita la pena, coloro che sono stati abbandonati dietro le sbarre torneranno peggiori. Non è stato facile convincere le autorità, il potere giudiziario, il ministero. Come potevano credere nell’esperienza di una prigione senza poliziotti, senza armi, dove i detenuti sono responsabili del carcere? Sono stati anni molto difficili, che hanno richiesto dedizione, forza e rinunce. Vi sono stati 17 processi giudiziari, nei primi anni si è provato di tutto per cercare di metterci dietro le sbarre. Hanno cercato in ogni modo di porre fine alla nostra esperienza. Abbiamo ricevuto minacce di morte per oltre quattro mesi, ma non è servito. Niente e nessuno ci hanno allontanato dal nostro cammino, dal nostro obiettivo di soccorrere i fratelli detenuti e coloro che erano abbandonati dietro le sbarre. Non ho dubbi che sia stata la nostra perseveranza, il nostro coraggio e, ancor più di questo, la nostra forza cristiana che ci ha consentito di convincere le autorità locali e il nostro giudice, Paolo Antonio de Carvalho, che voglio ringraziare e ricordare in questo momento, perché è stato lui il primo ad avere l’iniziativa e il coraggio di consegnare un carcere a noi, ente civile che si chiama APAC, affinché l’amministrassimo, lo gestissimo, senza la partecipazione della polizia, senza armi, senza vigilanza esterna. Oggi le cose sono cambiate perché un’opera come APAC, anche se è nata in Brasile ed è un metodo puramente brasiliano, è un’opera di Dio e come tutte le opere di Dio, non può rimanere bloccata tra muri. E’ per questo che con la grazia di Dio il metodo APAC si è diffuso. Oggi a Minas Gerais già abbiamo quaranta APAC, quaranta prigioni gestite senza poliziotti, e persone che hanno visto in Brasile la nostra esperienza ora la portano qui in Italia. Sono tutte opere di Dio. Perché in qualsiasi paese del mondo, in qualsiasi prigione del mondo, dove vi siano un uomo o una donna condannati, che soffrono, abbandonati, sono nostra responsabilità, sono una mia responsabilità.
ANDREA TORNIELLI:
Valdeci ci ha descritto un po’ quello che potremmo chiamare un circuito penitenziario a bassa vigilanza, dove c’è una responsabilizzazione dei detenuti nel controllo, nell’aiuto nel recupero reciproco l’uno dell’altro. C’è un secondo aspetto importante, che emerge molto bene anche dalla mostra, la comunità locale che accetta la presenza di un APAC in un territorio, che collabora: perché è una cosa che si fa con la comunità locale, con il coinvolgimento delle famiglie. Terzo elemento, perché questo miracolo possa realizzarsi ci vogliono certamente dei politici, ma soprattutto dei giudici, dei magistrati che credano in questa possibilità di recupero e in questi percorsi di recupero. Ed è per questo che io vorrei chiedere a Luiz Carlos, come giudice: perché ha creduto e crede in queste iniziative?
LUIZ CARLOS REZENDE E SANTOS:
Prima di rispondere alla tua domanda, vedere una platea così ampia mi fa pensare al poeta portoghese Fernando Pessoa, che diceva che tutto vale la pena quando l’anima non è piccola. E con quest’anima enorme, portata avanti da tante persone, vorrei salutarvi perché immaginate, essere un giudice e parlare di un sistema penitenziario che considero molto buono, senza l’utilizzo di armi, di agenti di polizia, con una comunità dove tutti, insieme con i detenuti, condividono la responsabilità della gestione. Vorrei anche ricordare che siamo qui con un’iniziativa di Belini che ci ha presentato la fondazione AVSI: ci hanno portato a Padova per conoscere la cooperativa Giotto, siamo grati a Nicola Boscoletto e vorrei salutare tutti voi. Alcuni giudici in Brasile credono molto in questo progetto, in questa esperienza. Vorrei presentarvi una breve panoramica storica di come funziona la giustizia brasiliana in merito al sistema penitenziario. Nel XIX° secolo, quando è stata proclamata l’indipendenza brasiliana, è stato organizzato un sistema giudiziario e sono stati costruiti gli edifici dove esercitavano i tribunali: le prigioni erano nella parte bassa di questi edifici. Credo che già questo facesse sì che i giudici si ricordassero delle persone che erano lì detenute. Tutto questo è andato avanti per un certo periodo: gli edifici chiaramente sono diversi ma il sistema di esecuzione penale ha continuato ad essere identico. E’ interessante notare che, all’inizio degli anni ’70, quando sono iniziate le prime esperienze delle APAC a São José dos Campos, nello Stato di São Paulo, il giudice di esecuzione penale di quella città, basandosi sulla Costituzione federale e sui Trattati relativi ai diritti umani, considerando le pessime condizioni della prigione locale, autorizzò un gruppo di volontari, organizzato da Mario Ottoboni, ad occuparsi di quella prigione: fu la prima esperienza di APAC, i cui dirigenti non lavoravano a spese dello Stato: come ha raccontato Valdeci, si viveva grazie alla carità. Le APAC sono poi giunte in Minas Gerais, altro Stato brasiliano, di cui sono giudice, e hanno sviluppato un lavoro vicino a Belo Horizonte. Nel 2011, il tribunale ebbe la curiosità di scoprire cosa succedeva all’interno di queste prigioni in cui vi erano 100 detenuti senza poliziotti che li controllassero e un tasso di recidiva molto basso: questa esperienza andava avanti da 15 anni ed era quasi isolata. Ma il Tribunale si convinse che poteva essere replicata in tutte le altre province. Così invitarono la comunità, unitamente al FBAC, ad organizzare iniziative simili. Nel 2004, il governo di Minas Gerais che si era reso conto che questo progetto stava funzionando decise di approvare una legge che consentiva di creare contratti di sovvenzioni alle APAC. Quindi, il Governo iniziò a sovvenzionare e a fornire le risorse relativa all’alimentazione, al pagamento delle bollette elettriche e allo stipendio di alcuni funzionari. L’esperienza continuò a crescere: nel 2006 il governo di Minas Gerais decretò che le APAC potessero ricevere risorse per costruire i loro stessi edifici. Questo portò nel 2009 ad un aumento di detenuti, fino a circa 900, raccolti in 15 unità. Nel 2013, le unità erano 35 con 2500 detenuti. Nel 2014, il Consiglio nazionale di Giustizia, presieduto dal Presidente della Corte Suprema brasiliana unitamente al Ministro della Giustizia e al Procuratore Generale della Repubblica, firmarono un documento per il miglioramento del sistema carcerario brasiliano che ospita 600.000 detenuti: vi si affermava che la politica delle APAC dovesse essere adottata su tutto il territorio brasiliano ove la comunità fosse stata d’accordo.
Per concludere, oggi nel mio Stato vi sono 39 comunità, con un tasso di recidiva criminale, in quelle di più lunga esperienza, inferiore al 10%, rispetto al tasso di oltre il 70% che vige nel sistema comune. In queste 39 unità non vi sono armi, non vi sono ribellioni, non vi sono rivolte: almeno 39 giudici scommettono su queste iniziative con le loro comunità. Questa è una breve panoramica della storia dal punto di vista giudiziario.
ANDREA TORNIELLI:
Grazie a Luiz Carlos, capite che questa è un’opera che è iniziata perché c’erano delle persone che guardavano ad altre persone considerandole un bene, non degli irrecuperabili. E’ un’opera che è cresciuta e che è potuta diventare un modello per il Paese, che si spera possa essere esportata per un semplice principio di realtà: se i detenuti che completano il loro percorso in queste strutture hanno una recidiva del 10% contro oltre il 70% dei detenuti delle carceri tradizionali, è evidentemente un sistema che funziona meglio. Lui non l’ha detto ma lo potete vedere nella mostra: un detenuto nelle strutture APAC costa più o meno un quarto rispetto a quanto costa un detenuto nelle carceri tradizionali. Allora c’è un principio di realtà che, a prescindere dai colori politici, dalle convinzioni religiose, fa vedere come stiamo parlando di qualcosa di buono e di positivo per tutti. Do ora la parola a Cledorvino Belini, che è il Presidente Sviluppo del gruppo Fiat dell’America Latina, chiedendogli perché anche un manager sia coinvolto in un’iniziativa come le APAC.
CLEDORVINO BELINI:
Caro Tornielli, signori e signore, è un grande piacere pe me essere qui e avere l’opportunità di parlarvi di questa esperienza molto gratificante con le APAC. Prima di parlarvi delle APAC e del perché un manager è coinvolto e partecipa a questo programma, vorrei dirvi che lavoro nel gruppo Fiat da 43 anni, sempre in Brasile, in parte anche qui in Italia: da 13 anni sono Presidente della Fiat in America Latina, dove abbiamo la più grande fabbrica della Fiat al mondo, la fabbrica di Betim. Alcuni anni fa, ci siamo riuniti con il nostro Consiglio di amministrazione e ci siamo detti: “Abbiamo creato la fabbrica più grande, siamo i leader del mercato brasiliano, abbiamo ottenuto grandi risultati dal punto di vista economico e finanziario per le nostre imprese, per le nostre aziende. Adesso dobbiamo cambiare, fare qualcosa anche per la società, dare il nostro contributo”. In quell’occasione, uno dei punti principali che avevamo individuato e che dovevamo includere tra i nostri valori era la valorizzazione delle persone. Dopo aver collocato questo tema all’interno dei nostri valori d’impresa, arrivò in modo naturale la volontà di partecipare in modo attivo, come volontari, a varie cause. Così abbiamo iniziato a selezionare le diverse cause che ci venivano presentate. La prima era molto semplice: la questione scolastica, la scolarizzazione, che non ha nulla a che vedere con APAC.
Abbiamo creato la fondazione Torino, una scuola internazionale che oggi ospita mille studenti, e una scuola materna, elementare, media e superiore a Belo Horizonte. Dopo questa esperienza, siamo andati oltre e abbiamo creato la Casa Fiat della cultura: il Brasile ha bisogno di cultura e di formazione. Nella Casa Fiat organizziamo grandi mostre: con l’aiuto dell’Italia, abbiamo realizzato una esposizione su Caravaggio. Poi abbiamo creato un altro progetto molto importante, l’Albero della Vita, che consiste nel portare 4000 bambini fuori da una favela, fuori dalle zone più a rischio, verso una complementazione scolastica di formazione, musica, danza, ballo, in modo da offrire loro uno sviluppo e un rafforzamento del tessuto sociale nella favela.
Alcuni anni fa ci siamo uniti ad APAC: devo confessarvi che in questi 13 anni in cui mi sono dedicato al volontariato sono diventato davvero una persona più felice, più aperta, che riesce a partecipare in modo profondo alla vita delle altre persone, che riesce a guardarle negli occhi. Conoscendo Valdeci, mi sono impegnato con APAC: il nostro obiettivo è favorire il recupero e il reinserimento dei detenuti all’interno della società, come ha affermato il dottor Luiz Carlos. C’è una differenza che per noi dirigenti è fondamentale, chiarissima: il tasso di reinserimento dell’APAC è altissima, la percentuale di recidiva molto bassa. Queste persone escono da APAC e non tornano nella criminalità. Il secondo punto molto importante è il costo inferiore di un APAC rispetto ad una prigione comune: non avendo guardie, armi, tutto costa meno di un terzo rispetto al sistema classico. Soprattutto, questo metodo ci dimostra qual è il potenziale di recupero dell’essere umano e come possa essere reso possibile. Tutto questo ci porta ad una conclusione: l’essere umano è carente, ha bisogno di qualcosa. Come ha detto Valdeci, come dice l’APAC, nessuno fugge dall’amore e quindi noi manager, abbiamo margine di manovra per lavorare a favore della società e possiamo partecipare alla felicità degli altri. Molte grazie!
ANDREA TORNIELLI:
Grazie, Cledorvino, anche per questi accenni e accenti molto personali, attraverso cui ha raccontato come sia più contento da quando fa il volontario nelle APAC, mostrando così un’altra cosa che è emersa in questi giorni, anche nell’incontro di questo pomeriggio sulle periferie con padre Pepe. E cioè che si esce, che non si va a portare qualcosa ma si va ad incontrare qualcuno, non per evangelizzare, come dice il Papa, ma in un qualche modo per essere evangelizzati, incontrando l’esperienza umana di chi vive in carcere. Bene, concludiamo questo primo giro. Mi complimento con tutti loro per come sono stati ai tempi che abbiamo stabilito. Poi vorrei fare brevissimamente altre domande per raccontare due esperienze. Ma concludiamo questo primo giro dando la parola a Daniel, che è un ex-carcerato brasiliano che ha vissuto in prima persona l’esperienza di recupero di un APAC.
DANIEL LUIZ DA SILVA:
Buonasera a tutti, ringrazio gli altri oratori e a nome di tutti i recuperandi della comunità Papa Giovanni XXIII, dei recuperandi di Padova, saluto il pubblico presente. Mi chiamo Daniel Luiz Da Silva, ho 32 anni, sono sposato, ho tre figli e sono molto felice di essere qui con voi oggi. Solo Dio sa quanta allegria ho dentro al cuore in questo momento. Come già è stato detto sono un ex-recuperando che ha trascorso circa dieci anni di pena nel sistema classico e tre anni e mezzo nell’APAC. Come il 90% dei detenuti del nostro universo, arrivo da una struttura famigliare completamente frammentata. Non ho avuto un punto di riferimento nella mia vita, nella mia famiglia. Non per colpa di mia madre bensì per colpa di mio padre che, con un figlio di sei mesi, ha abbandonato sua moglie e altri sei figli. Mia madre ha attraversato un periodo molto difficile perché non aveva i mezzi per sostentare i figli: ha dovuto allontanarsi da noi e farsi curare in una struttura. Vi è rimasta per sette anni, poi ha ripreso la cura della sua famiglia. Sono stato cresciuto da mia nonna, in un ambiente molto diverso rispetto a quello degli altri fratelli perché a casa dei miei nonni non c’era pane durante la mia infanzia. A dodici anni iniziai ad avvicinarmi a una vita criminale, compiendo piccoli furti nei supermercati. A 16 anni fui arrestato per la prima volta: il carcere era orribile, volevo uscirne il prima possibile. Promisi a mia madre che non mi sarei più fatto trascinare sulla cattiva strada. Ma il crimine e i reati erano già radicati dentro di me, perché l’ambiente sociale dov’ero nato non mi offriva nulla di diverso. Dopo questo periodo sono stato reclutato da una gang, da una banda del quartiere dove abitavo: mi hanno fatto fare qualsiasi cosa possiate immaginare all’interno dell’universo del crimine. Divenni un criminale. Compivo qualsiasi specie di crimine. La gang sfruttava il denaro sporco realizzato con il crimine. Ci trovavamo in alcuni locali e sfidavamo altre bande rivali: durante uno di questi litigi, rimase ucciso un mio fratello maggiore che stava tornando a casa. Fu assassinato al posto mio. Con la banda alla quale appartenevo, abbiamo speso tutto il denaro che avevamo per comprare delle armi: quel giorno abbiamo iniziato una guerra che includeva oltre 100 uomini. Volevamo vendicarci per l’uccisione di mio fratello. Non ci sono mai riuscito ma per otto anni, in una città di 80 mila abitanti, abbiamo commesso circa 400 reati contro la vita. A 19 anni tornai in carcere: dopo due anni di detenzione, ricevetti una condanna di 36 anni. Dovevo rispondere di tutti i reati possibili in altri 27 processi. Il giudice che seguiva il mio caso disse che non c’era soluzione né speranza, per me, che sarei morto dietro le sbarre, che ero un mostro, che non sarei dovuto nascere. L’unica cosa a cui pensavo era riuscire a fuggire dal carcere ma ero molto sorvegliato in quanto leader di una banda importante. Dopo dieci anni trascorsi nel sistema tradizionale, arrivai ad un regime differenziato di pena, in una cella di sei metri quadri in cui eravamo quasi 20 persone. Avevamo due rotoli di carta igienica e una saponetta per lavarci in trenta giorni, non si poteva andare al sole, non potevamo avere visite ed erano vietati i contatti con il mondo esterno, soprattutto con la famiglia. In questo carcere ho ricevuto molte ferite nel corpo: quando ho chiesto dei farmaci per curarmi, ho ricevuto soltanto un poco di disinfettante. Quel giorno gli agenti hanno perquisito la cella mia e dei miei compagni. Ricordo che chiesi loro di uccidermi, perché non ne potevo più. Non ho chiesto di nascere nella famiglia dove sono nato, non era il mio sogno diventare la persona che ero diventato. Dopo tutto questo, sono tornato nel carcere della mia terra natìa. Un giorno ho trovato una Bibbia. Per la prima volta l’ho aperta al Vangelo di Giovanni, versetto 8,32 in cui si dice: “Conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi”. Pregai Dio, anche se in realtà era una sfida, dicendogli che se veramente esisteva doveva cambiare la mia vita. Se l’avesse fatto e fossi uscito da li, avrei dedicato la mia vita alle prigioni, parlando con i detenuti, raccontando loro l’esistenza di Dio.
Dopo alcuni giorni, il giudice che si occupava del mio caso da quasi dieci anni mi trasferì in un APAC: è stato difficile perché lì ho trovato tutti i miei nemici, soprattutto coloro che avevano ucciso mio fratello. Ma mi resi conto subito che era diverso. Fui mandato per quattro giorni ad un ritiro spirituale dove conobbi Valdeci. All’inizio pensai che era un prete, un pastore, perché parlava sempre soltanto di Dio. Una persona nata dov’ero nato io, non poteva credere in Dio. Ma il terzo giorno, qualche cosa cambiò. Seguivo una terapia della realtà: ci dovevamo confrontare con i nostri reati. Durante questo dialogo, entrai in una trance spirituale per cui iniziai a parlare della persona che odiavo da tutta la vita, mio padre. Se avevo un sogno, era ucciderlo a causa della situazione in cui aveva lasciato me e i miei fratelli. Quando uscii da questa trance, ero in lacrime, piangevo per le cose difficili della mia vita. Valdeci mi abbracciò e io lo ringraziai dicendo: “Oggi esco dal crimine!”. Grazie alle sue parole, avevo capito che mio padre non poteva darmi amore perché lui stesso non ne aveva ricevuto. Quando tornai all’APAC, venne in visita mia madre che mi disse: “Tuo padre è qui per vederti!”. Dopo 27 anni, per la prima volta, avrei conosciuto mio padre. È stato un incontro indimenticabile, un mix di emozioni. Ricordavo le parole di Valdeci e quel giorno dissi a mio padre: “Voglio chiederti una cosa! Non ti ho avuto durante la mia infanzia come gli altri bambini hanno un padre, ma posso ancora chiederti una benedizione, voglio dirti che ti amo e che ti perdono!”. Fu una giornata indimenticabile. 27 anni di tristezza e di amarezza sono caduti e si sono disintegrati in un momento. Poi ho continuato la mia vita e non ho più rivisto mio padre fino ad oggi. Nell’APAC ho studiato, ho ricevuto una formazione, ho imparato ad essere una persona diversa nella mentalità e nel comportamento. Oggi sono sposato, ho tre figli e una moglie meravigliosa: da quando ho lasciato APAC, sono otto anni che ho un libretto di lavoro firmato.
ANDREA TORNIELLI:
Grazie, Daniel, avete sentito che ad un certo punto del suo racconto ha parlato della terapia della realtà. Perché, come si apprende anche visitando la mostra, è soltanto in un percorso, è soltanto in un rapporto, anzi, è soltanto in un abbraccio che uno impara a riconoscere il suo errore e deve anche imparare a non identificarsi nel suo errore per non rimanerne schiacciato. Volevo chiedere a Valdeci brevemente di raccontare una storia che mi ha colpito moltissimo quando l’ha raccontata alla mostra, un caso in cui qualcuno si è dovuto confrontare in maniera così forte con la possibilità di riparare, anzi, di non riparare a un errore commesso.
VALDECI ANTONIO FERREIRA:
Carissimo Tornielli, prima di rispondere alla sua domanda vorrei ringraziare Daniel perché la sua testimonianza davvero ci dà la forza di portare avanti questo cammino, questo percorso. Hanno ho chiesto al Papa Francesco all’inizio del suo pontificato: “Chi è Bergoglio?”. E lui ha risposto: “Sono un peccatore”. Come lui, anche io sono un peccatore e ringrazio Dio perché attraverso queste mani peccatrici tante persone hanno nuovamente la possibilità di andare sulla strada della felicità e ritrovare Lui. Sant’ Agostino diceva che non esiste peccato che l’uomo commetta che un altro uomo non possa commettere. Potrei parafrasare dicendo che non esiste un male che l’uomo faccia che un altro non sia in grado di fare, non esiste un crimine, un reato che qualcuno commetta che altri non siano in grado di commettere. Siamo tutti recuperandi, siamo tutti peccatori e tutti abbiamo bisogno della grazia divina. Il detenuto non ha sensi di colpa, spesso dice che ruba perché tutti gli altri lo fanno. “In questo Paese” dice “i deputati, i governatori, il Presidente ruba. Tutti rubano”. Chi vende droga dice che non vende droga, sono le persone che vengono a comprarla. E qualcuno può dire: non ho stuprato, è stata la donna che si è avvicinata, che ha reso tutto più facile. Ed è per questo che è importante la terapia della realtà all’interno della metodologia APAC, perché chi fa il male non sa il male che commette, ma se è vero che chi fa il male non lo sa, è vero anche che chi fa il bene non sa il bene che fa. Spesso è un bene per le persone ma non ne abbiamo la dimensione. Che cos’è il peccato, il reato? È come se lanciassimo una pietra in un lago, la pietra scende e crea delle onde di cui non abbiamo la percezione, non capiamo dove potranno arrivare. Ed è per questo che in APAC, attraverso la realtà, dobbiamo aiutarli a confrontarsi con se stessi, con la verità, con la giustizia affinché abbiano coscienza del male che hanno commesso, delle famiglie che sono state distrutte a causa delle loro azioni, delle donne che sono rimaste vedove, dei bambini che sono rimasti orfani. Si tratta di una gioventù senza speranza dominata dalla droga: potremmo avere la tentazione di collocare dei fardelli pesanti sulle spalle di questi giovani detenuti, e può essere che non siano in grado di portarli. E’ quindi necessario, in questo processo pedagogico, aiutarli a separarsi dal reato che hanno commesso: una cosa è la persona che ha commesso questo reato e altra cosa è il reato che è stato commesso.
Quando fanno questo passo, quando iniziano questo percorso, dobbiamo aiutarli a capire che tutti gli uomini sono più grandi dei loro errori, che tutti gli uomini sono più grandi delle loro colpe, che tutti gli uomini sono più grandi dei loro peccati. Anche se il reato commesso è grande, ancora più grande è la grazia di Dio. E quando si rendono conto di questo, li possiamo aiutare a fare un ulteriore passo avanti, il passo di riparare i danni. In questo senso pensavo questa mattina a un caso fra i tanti, già presentato, scritto in alcuni libri, di un giovine che aveva commesso un crimine, un reato, un assalto a mano armata. In quella occasione aveva ucciso una persona. Dopo avere attraversato questo percorso, è entrato in una profonda crisi perché diceva: “Voglio riparare il mio danno, ho bisogno di farlo, ma come posso riportare una vita?”. Ha vissuto questa sofferenza per quasi un anno, finché un giorno è venuta una persona in visita all’APAC, una signora il cui fratello molti anni prima era in emodialisi tre volte a settimana, si trovava in uno stadio quasi terminale e aveva bisogno di trovare qualcuno che potesse donare un rene. Abbiamo riunito tutti i recuperandi e la signora ha presentato la sua sofferenza e quella di suo fratello. Alla fine ha chiesto se c’erano candidati disposti a donare un rene. Su 100 recuperandi, in 6 hanno alzato il braccio. Uno di loro era Robson. Furono portati a fare gli esami che durarono varie settimane, alla fine solo gli esami di Robson risultarono compatibili con quelli della persona che aveva bisogno di questo rene. È andato sul tavolo operatorio senza conoscere la persona a cui avrebbe donato un rene, l’unica cosa che sappiamo è quello che ci ha detto nella sua testimonianza, che dopo questo trapianto lui voleva sollevare la camicia e dire a voce alta: “C’è stato un momento nella mia vita in cui ho ucciso una persona ma per grazia divina ho potuto ridonare una vita”. Il perdono è l’essenza dell’amore di Dio. Perdonare è resuscitare chi è morto dentro di noi. Il nostro invito, questo invito che è stato fatto nella mostra dove il nostro caro Javier è riuscito a portare un pezzettino delle nostre APAC qui a Rimini, è riuscito a farci portare questa esperienza di perdono, è per tutti: conoscere e visitare questa mostra, provare nelle vostre vite l’esperienza del perdono, l’esperienza dell’amore, unica fonte di felicità. Molte grazie.
ANDREA TORNIELLI:
Grazie, Valdeci. È stata ricordata all’inizio una frase del Papa, una frase che ha colpito molto anche Luiz Carlos. Il Papa ha detto di se stesso: “Il Papa è un uomo che ha bisogno della misericordia di Dio, l’ho detto sinceramente anche di fronte ai carcerati di Palmasola in Bolivia. Davanti a quegli uomini e a quelle donne che mi hanno accolto con tanto calore, a loro ho ricordato che anche san Pietro e san Paolo erano stati carcerati, ho un rapporto speciale con loro che vivono in prigione, privati della loro libertà. Sono stato sempre molto attaccato a loro, proprio per questa coscienza del mio essere peccatore. Ogni volta che varco la porta di un carcere per una celebrazione o per una visita, mi viene sempre questo pensiero: perché loro e non io? Io dovrei essere qui, meriterei di essere qui. Le loro cadute avrebbero potuto essere le mie, non mi sento migliore di chi ho di fronte, così mi ritrovo a ripetere e a pregare: perché lui e non io? Può scandalizzare questo, ma mi consolo con Pietro: aveva rinnegato Gesù e nonostante questo è stato scelto”. Ecco, capite che per guardare così a questa realtà, anche da parte di un giudice, dunque di qualcuno che si trova con la tremenda responsabilità di decidere della vita di altre persone, ci vuole una responsabilità enorme. Volevo chiedergli con quale sguardo, rispetto a queste parole, fa il suo lavoro.
LUIZ CARLOS REZENDE E SANTOS:
Signor Tornielli, mi riporta indietro nel tempo. Quando sono entrato in magistratura, quasi 20 anni fa, ho visitato un carcere che era sotto la mia responsabilità. Era la prima volta che andavo in una prigione e quelle persone detenute erano lì per la responsabilità di quel giudice. Sono stato molto colpito dall’odore, dalle condizioni pessime in cui si trovavano tutti. Ancora più colpito dal fatto che per i poliziotti, i detenuti, i funzionari della prigione, tutto questo sembrava normale, me ne sono andato con una certa sensazione che fossi io a sbagliarmi. Ci ho riflettuto molto e da quel momento ho pensato che fosse molto importante dedicarmi di più a visitare le prigioni. Nella mia vita mi sono dedicato spesso a questo. Ci fu addirittura un episodio in cui qualcuno mi disse che era importante cercare di conoscere APAC, perché aveva sentito parlare di quel movimento. Ho pensato: APAC è una cosa che può funzionare nella città di Itauna, vicino a Belo Horizonte. Avevo capito che il nome, APAC, era legato alle iniziali del nome del giudice di Taiuna, che si chiama Paolo Antonio de Carvalho: ho pensato che l’associazione fosse legata a lui e quindi fosse il frutto della vanità di un giudice. Quanta ignoranza avevo! Sono riuscito a superare questa ignoranza e ho ricordato sant’Agostino, secondo cui potevamo parlare soltanto di ciò che davvero conoscevamo. E ho scoperto che APAC poteva significare: amando il prossimo, amerai Cristo. Quindi ho avuto nuove opportunità, ho avuto la possibilità di convivere con i volontari, con i funzionari, con i detenuti e con i loro famigliari, persone legate ad APAC ma anche al sistema penitenziario tradizionale. Per quattro anni sono stato Assessore della Presidenza del Tribunale per tutte le prigioni dello Stato, oltre 200. E ho avuto un nuovo sguardo a partire da questi relazioni. È interessante ciò che mi dicevi delle parole del Papa, perché l’impressione che a volte avevo, a mano a mano che conoscevo le persone detenute, le loro madri, era che molte di loro fossero in realtà migliori di me, e lo sono. Se io fossi un detenuto in una situazione come quella, venendo da quell’origine, dalle difficoltà che hanno dovuto attraversare, probabilmente non avrei la forza di volontà, l’energia di recuperare. E quindi ho iniziato ad avere una nuova visione, un nuovo sguardo nei loro confronti, di ammirazione. È stata una sensazione di risurrezione, qualcosa di diverso che ha iniziato ad avvenire nella mia vita. Quando vedo queste situazioni, ricordo le parole di san Francesco d’Assisi: “la Resurrezione dei vivi”. E penso ai giudici, nel mio caso specifico penso a Nicodemo che era un giudice importantissimo. Nicodemo, nonostante la sua posizione così importante, voleva essere amico di Gesù, lo cercava alla sera, di nascosto e gli chiedeva: “Maestro, come faccio a servirti, come faccio ad essere come te?”. E Gesù, in tutta la sua saggezza, gli diceva: “Nicodemo, non hai speranza, solo nascendo nuovamente puoi farcela”. E Nicodemo pensava: “Ma come nascere di nuovo? Rientrare dentro mia madre?”. Io ho avuto la fortuna di non averlo pensato, ho avuto la fortuna di pensare, quando ho parlato con Gesù: “Signore, come faccio per continuare? Per essere con te?”. “Sii misericordioso, così potrai rinascere e sarai un esempio anche per altri giudici”. Ed è per questo che davvero sono molto grato per l’opportunità di poter dire questo a tutti, perché sono certo che tutti sono un bene per me, soprattutto oggi lo è stato Daniel.
ANDREA TORNIELLI:
Grazie. Volevo chiedere, in conclusione, una sola battuta a Daniel e chiedergli di rispondere a questa domanda: ma allora davvero dall’amore nessuno fugge?
DANIEL LUIZ DA SILVA:
Sì, Tornielli, nessuno fugge dall’amore. Sappiamo che in APAC, per quanto sia bello il lavoro, ci sono comunque delle persone che non vogliono farlo: sono chiaramente coloro che ancora non hanno avuto esperienza dell’amore. Perché l’amore non butta da fuori a dentro, ma nasce dal cuore e va fuori. Ed è per questo che queste persone non rimangono in APAC, perché non hanno ancora avuto esperienza dell’amore. Ci sono quelli che hanno esperienza dell’amore e per questo non fuggono dalle APAC. Nelle carceri, queste persone rimangono in sofferenza, chiuse, con le manette, perseguitate, mentre nelle APAC abbiamo solo le manette dell’amore di Cristo, il cuore. In questo momento vorrei farvi una richiesta che avrei dovuto fare nel mio primo intervento: a nome di tutti i detenuti del mondo, vorrei chiedere perdono alle vittime. E, per concludere, vorrei raccontarvi un’esperienza di oggi: quando sono andato a pranzo, sono rimasto bloccato perché mi sono seduto a un tavolo al quale non avrei mai pensato di sedermi. A quel tavolo c’erano soltanto principi, perché tutta l’autorità della terra è istituita da Dio. Senza che nessuno se ne accorgesse, mi sono cadute delle lacrime nel piatto, perché Dio mi stava sussurrando in quel momento nel cuore: “Daniel, esisto, evangelizza i detenuti, perché sono un bene per Me”. Molte grazie a tutti.
ANDREA TORNIELLI:
Grazie, Daniel. Volevo ricordarvi un dato che lui ha detto nel primo intervento e che trovate alla mostra, con un ulteriore invito ad andare a visitarla: il 90% delle persone detenute in Brasile per vari reati provengono da famiglie distrutte, da famiglie smembrate, è un dato molto interessante da tenere presente. E allora, mi sono venute in mente le parole che il Papa ha detto a chi gli chiedeva di fare degli esempi di piccoli gesti di misericordia. Il Papa ha detto: “Un altro esempio di gesto, all’apparenza piccolo ma grande agli occhi di Dio, è quello che fanno tante mamme e spose che il sabato o la domenica fanno la coda all’ingresso delle carceri per portare cibo e regali ai figli o ai mariti prigionieri. Si sottopongono all’umiliazione delle perquisizioni, non rinnegano i loro figli o i loro mariti che hanno sbagliato, vanno a visitarli. Quel gesto, in apparenza così piccolo, è tanto grande agli occhi di Dio: è un gesto di misericordia, nonostante gli errori commessi dai loro cari”. Con queste parole e con la bellissima testimonianza che abbiamo avuto questa sera, concludiamo l’incontro. Grazie per essere stati qui.