Chi siamo
Dalla parte dell’uomo. Una paternità che cura
Grégoire Ahongbonon, Fondatore Associazione San Camillo de Lellis, dedicata alla cura delle persone con disturbo mentale in Africa; Cesare Maria Cornaggia, Psichiatra, Professore Associato Medicina Fisica e Riabilitativa all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Introduce Marco Bertoli, Direttore Dipartimento Salute Mentale dell’Azienda Sanitaria Universitaria Friuli Centrale.
Riprendersi. Riprendere in mano la propria vita. La cura è sempre un rapporto ed implica una frequentazione ripetuta di relazioni importanti. Questo fanno i terapeuti: cioè tutte quelle persone che si accostano all’altro per un aiuto che non sia mera commiserazione. Il prof. Cesare Maria Cornaggia si confronta con Grégoire Ahongbonon. Entrambi “terapeuti” delle fatiche, dei dolori, dei disagi di molti. In Africa e in Europa. Con una paternità che accompagna, ma svincola e libera. Una paternità che permette la libertà dell’altro; lo espone al rischio della propria libertà. Conduce l’altro all’assunzione di responsabilità, di nuove responsabilità verso sé e verso gli altri. In Europa e in Africa.
Con il sostegno di Doc Generici.
DALLA PARTE DELL’UOMO. UNA PATERNITÀ CHE CURA
Marco Bertoli: Bene, buon pomeriggio a tutti e benvenuti a questo incontro. Oggi abbiamo con noi due personaggi diversi che però lavorano nello stesso campo, un professore di università, il professor Cesare Maria Cornaggia, che saluto e ringrazio per la sua presenza, e poi ospite da lontano, dall’Africa, dal Benin, Grégoire Ahongbonon, fondatore, ma poi come sentirete dopo anche lui dice di non essere fondatore di niente, fondatore, primo organizzatore dell’Associazione San Camillo de Lellis del Benin. Come dicevo prima due personaggi che lavorano a latitudini diverse, con persone diverse, ma tutti e due si prendono cura, si prendono cura di persone che si rivolgono a loro per superare un momento o momenti di disagio, di dolore, di fatica, di prova, e che soffrono, e che vivono un’esperienza difficile da superare, e difficile perché non fa vivere il problema della malattia mentale o della salute mentale, è un problema che affrontiamo tutti i giorni e che affrontiamo in maniera diversa, in setting diversi, il professore in un ambulatorio, Grégoire nei suoi centri di accoglienza, e forse la caratteristica di Grégoire che non ha mai studiato, non è un medico, è stato un riparatore, lui si racconta come riparatore di gomme, è un gommista e che a un certo punto della sua vita cambia e si accorge che ci sono gli altri. Però, come dicevo prima, se le storie, questo è un incontro di storie questo pomeriggio, se le storie son diverse tutti e due affrontano un altro uomo e affrontano il problema del dolore attraverso la cura. Allora io passo già alla prima domanda al professor Cornaggia, perché questo incontro si intitola “Dalla parte dell’uomo. La paternità che cura” ed è un titolo che abbiamo ripreso anche da un testo che ha scritto il professor Cornaggia che dice “dalla parte del desiderio, da una paternità a un metodo di cura”. Allora volevo chiedere al professor Cornaggia che cosa, di cosa parliamo quando parliamo di paternità che cura.
Cesare Maria Cornaggia: Innanzitutto grazie a te Marco, grazie a tutti voi, e cerco di rispondere a questo tuo quesito che quasi, in qualche modo quasi una provocazione partendo dall’unica cosa dalla quale posso partire e cioè dalla mia storia personale. Cioè dire per me la paternità è stato una esperienza costitutiva della mia persona e del mio io a partire da la percezione di uno sguardo amoroso e totale che una volta io ho incontrato e che mi ha accompagnato, e debbo dire costantemente mi accompagna e mi conduce alla scoperta di me e alla scoperta della realtà che è intorno a me, dinanzi a me. In particolare nella mia esperienza lavorativa e nella mia esperienza formativa ho avuto modo di sperimentare una paternità così definita proprio con quello che allora era il mio professore, il professor Italo Carta. E per me questa esperienza è stata quella fondamentalmente di essere guardato in tutto, essere, io userei la parola, riconosciuto, cioè guardato per come ero in quel momento, e nelle mie parti belle e nelle mie parti brutte, che avevo, che ho, che sono. Però questa esperienza di essere guardato in questo modo, che mi fa venire in mente l’Innominato dopo l’incontro con il Cardinal Federico quando dice” io mi riconosco ora”, è quel momento in cui il riconoscimento e l’altro mi ha permesso di riconoscere me, cioè di toccare, di accettare, di guardare tutte quelle parti anche brutte, oscure, che non volevo vedere. Ero, noi a Milano diciamo un pirlun, ma non volevo, cercavo di non vedere e invece lo sguardo dell’altro che le ha guardate prendendole come tutto un pezzo di me, ha permesso a me di guardarmi, a me di non vergognarmi più, di accoglierle, anzi di prenderle come possibilità che queste parti sarebbero anche potute cambiare, che io avrei potuto fare qualcosa per cambiarle, che questo cambiamento magari sarebbe stato anche per me più conveniente, più interessante, sarebbe stato qualcosa che avrebbe fatto e trasformato la mia vita in qualcosa di più bello di quella che era. Ecco questa è quella che per me è stata l’esperienza di paternità che mi ha fatto intuire che la mia vita avrebbe potuto essere più felice, che io avrei potuto essere un pochettino, mica tanto, ma un pochettino migliore di quello che ero in quel momento, che potevo muovermi in una direzione, e che ero preso per mano nel camminare verso una direzione nuova. Questa esperienza di paternità, e scusate, quando mi sono scritto qualche appunto mi sono accorto che la paternità la mettevo sempre affiancata alla parola esperienza perché non saprei definirla, la paternità è una esperienza, ed è un’esperienza che non è chiusa in un passato ma è oggi, è oggi continuamente nel presente, e questo mi permette pertanto vivendola ogni giorno e ringraziando, di stare non soltanto dinanzi a me stesso ma anche dinanzi alla realtà, e confrontarmi senza paura, senza pregiudizio con esse. Quando mi è capitato di vivere tutto questo nel mio contesto lavorativo, mi ricordo il professor Carta, mi è successo tempo dopo la laurea quando ero già psichiatra, però questa esperienza non ha potuto fare, io non ho potuto far altro che comprendere come il primo passaggio allora di qualsiasi cura, e vengo forse al nesso tra paternità e cura, non potesse essere altro che l’accoglimento e il riconoscimento di colui che mi stava davanti in tutte le sue parti, come io ero stato accolto, tutto, nelle parti belle e nelle parti brutte, meschine, anche un po’ nefande di me, ecco potevo accoglierlo, era un tutt’uno. E proprio attraverso queste esperienze, e allo stesso modo con il quale ero stato riconosciuto io, questo riconoscimento portava con sé il cogliere, il comprendere l’altro in tutte le sue parti, senza volere tout court, immediatamente volerle cambiare. Quanta medicina, quanta psichiatria, almeno non so in Africa ma nel continente europeo sicuro, è pronta lì, subito, c’è davanti una cosa ancora prima di comprenderla, di accettarla, di farla propria no, bisogna cambiarla, bisogna toglierla. Ecco noi abbiamo bisogno di essere presi, compresi, qua ci sta un po’ di maternità, perché la maternità introduce alla paternità, è il materno che introduce il paterno, e quindi ci vuole anche un accoglimento, che è il prendersi cura. Quindi tutto ciò che permetteva e permette che anche l’altro volga lo sguardo alle sue parti fragili, o alle sue parti brutte, o a quelle di cui lui ha paura, o quelle che lo fanno star male, perché lui possa accettare, che poi è accettare di entrare in cura, perché uno quando accetta di entrare in cura, accetta di entrare in cura quando accetta che ci sono dentro di sé delle parti che non vuole vedere e che gli impediscono di vivere bene. Ecco allora se noi lo guardiamo guardando noi per primo quelle parti, accettandole come parte di loro, ecco che allora anche loro possono accettarle e quindi avere anche il desiderio di cambiarle, quindi di curarsi. Beninteso questo era esattamente quello che era avvenuto a me, che conoscendo colui che è stato il mio maestro, mio padre, mi ha permesso io di essere curioso anche delle parti vergognose di me. Quindi esperienze della paternità vissute nell’oggi porta anche a un’altra cosa, a un secondo punto secondo me importante, che c’è sempre il positivo, c’è sempre un positivo di cui l’altro è portatore, e che questo altro non s’accorge d’averlo, ha paura ad averlo, ha paura a riconoscerlo, mentre lui ha un bisogno enorme di poter percepirsi come un positivo. Ma nessuno gli ha mai insegnato, almeno questo è quello che vediamo nella maggior parte dei casi, a vedere il positivo dentro di lui, non gliel’ha mai insegnato quindi non lo vede, e non lo vede perché non vuole vederlo, non gliel’ha mai insegnato nessuno. E questo altro si stupisce quindi del fatto che noi vediamo il positivo in lui e che questo stupore è per due ragioni che sono strettamente legate alla esperienza della paternità, cioè la prima è che questo avviene non perché noi diciamo che c’è un positivo siamo capaci tutti, ma non è il dire, è che noi abbiamo vissuto per primi dentro di noi e dentro a quella paternità, di cui parlavo, questa esperienza di guardare il buono, e la seconda ragione è che lui si stupisce perché il positivo non è appunto una cosa detta ma un qualcosa che ci risuona insieme perché è vissuta dentro di noi e poi riflessa nell’altro. E questo è quello che avviene attraverso il riconoscimento reciproco perché il riconoscimento ha due direzioni, la mia verso l’altro e quella dell’altro verso di me. Allora quando si sperimenta l’incontro e la messa in gioco che tutte le proprie parti fragili da parte, questa messa in gioco, dei due attori della relazione, il terapeuta e il paziente, dentro a una competenza, da cumpetere, cum-peto chiedo insieme, perché la nostra domanda è la stessa, le nostre fragilità sono le stesse, con la quale arrivare a ripercorrere, a rivivere le proprie notti buie, a individuare le proprie domande, quelle che ci angosciano, le proprie carenze, e da qui partire a scoprire, a dare nomi, a nominare i propri desideri, i propri desideri che spesso sono nascosti, e le strade magari strette, tortuose che potrebbero essere trovate alla ricerca di sé. Questo non vuole dire che terapeuta o noi dobbiamo narrare al paziente delle nostre carenze, a parte che lui ce le vede, non abbiamo bisogno di raccontargliele, i miei pazienti potrebbero fare una diagnosi su di me tout court, zac, ma però che il paziente abbia dentro chiaro a sé che come la posizione sua spesso evoca delle nostre storie, le nostre domande che sono le stesse che sono vive dentro di lui. In questo modo, e qua è l’ultimo punto, spero di essere stato nei tempi o se sono fuori me lo dici, in questo modo però a partire proprio da questa paternità nel presente l’incontro con l’altro si apre a quella relazione che non è di uno e non è dell’altro, quando veramente entriamo in dialogo con l’altro? quando la reazione non è nostra, non è mia, non è sua, è quando io entro in una relazione che io chiamo il terzo relazionale, si costituisce il terzo relazionale che permette attraverso il reciproco riconoscimento e la conseguente scoperta delle parti non conosciute di noi a una nuova esperienza narrativa di noi stessi. Quindi noi usciamo da quel dialogo diversi da come siamo entrati. Ricordo un paziente che una volta quando eravamo al momento in cui ci lasciavamo lui mi disse: “senta, io ho passato un paio d’anni a venire sempre qua con lei e sono cambiato e la ringrazio, però prima che ci lasciamo mi deve rispondere a una domanda: se io sono cambiato, e penso che sia vero, però voglio farle questa domanda per capire se è proprio vero vero, lei in cosa è cambiato nel suo rapporto con me?” Domanda meravigliosa, non gli ho risposto subito perché non avrei saputo cosa rispondergli, gli ho detto le rispondo la prossima volta. Ma mi ha provocato, perché ha provocato in me il bisogno di capire dentro di me che cosa la mia relazione con quella persona l’aveva cambiato. Perché, come affermava Hölderin, l’uomo è un rapporto, noi siamo un rapporto. Ebbene proprio attraverso questo rapporto si inserisce il cambiamento, il cambiamento che una paternità ti fa venire la voglia di fare, è un rapporto ti consente piano piano, ed è qui nella mia storia che ho capito che il passaggio è la paternità a cura. Marco spero di essere stato giusto nel tempo.
Marco Bertoli: Sì, grazie. Il Papa nel messaggio al Meeting ha detto: “La fragilità dei tempi in cui viviamo è credere che non esista possibilità di riscatto, una mano che ti rialza, un abbraccio che ti salva, ti perdona, ti risolleva, di non credere che questo sia possibile, quindi che cos’è la cura?
Cesare Maria Cornaggia: Grazie Marco, credo che sia proprio vero, ma credo fosse anche in linea con quello che ho detto prima, cioè quella possibilità di un cambiamento, ma che parte innanzitutto dalla scoperta di quello che io ho bisogno di cambiare, ho bisogno di far crescere dentro di me. Alla tua domanda io mi sento di rispondere in questo modo, che la cura non sia altro che una relazione che produce cambiamento a partire proprio da questa cosa che dicevi. Mi viene in mente Wittgenstein che diceva che l’uomo non può non comunicare. Ma questa comunicazione, mi verrebbe da dire, può avere ogni tanto degli intoppi. Cioè la persona che abbiamo davanti il nostro paziente, o io prima che incontrassi il mio maestro, questa comunicazione non riesce nel suo scopo, non riesce a comunicare, almeno con le parole, o comunica cose a noi a volte incomprensibili, forse perché non ha la contezza del proprio mondo interno, o non riesce a farne partecipe l’altro tramite ciò che noi utilizziamo per la nostra comunicazione che sono le parole, e quando non abbiamo le parole per comunicare uno con l’altro, ma noi abbiamo comunque questo bisogno strutturale, ontologico dell’uomo che è quello di comunicare, quando non avviene con le parole avviene attraverso qualcos’altro, e in questo senso io parlo di sintomo, che è quello che ci avvicina, cioè parlo di disagio, cioè se io non riesco a comunicare la cosa più importante di me, la comunico attraverso il sintomo, attraverso il disagio, attraverso il malessere, attraverso il comportarmi male, attraverso il non so che cosa dire, attraverso tante cose. E quindi ecco che credo che il primo passaggio della cura sia proprio avere dentro di noi la consapevolezza che la persona che ci sta davanti col suo sintomo, col suo malessere, col suo non saper ben che fare nella sua vita, ci dica la cosa più importante, il suo sintomo è la cosa più importante, più profonda che ha di se stesso, che paradossalmente noi dovremmo essere grati a quel sintomo perché quel sintomo è la cosa che lui ci dice perché noi possiamo parlare con lui, ci apre una porta, e che noi magari all’inizio non sappiamo come leggere, vorremmo che non l’avesse, vorremmo cancellarlo, vorremmo, un paziente viene da noi e dice ho questo sintomo me lo tolga, che poi scopriamo che non è poi così, ho questo sintomo me lo comprenda e cerchiamo di capire cos’è, questa è una domanda vera. Cioè perché il sintomo è la parte più importante che il paziente ci dona, non è un di meno è una comunicazione piena di significato che noi dobbiamo lentamente capire. Pensate a quanta medicina, quanta psichiatria oggi c’è, hai un sintomo te lo tolgo, che bello. Cioè ma io spengo il linguaggio. Non adesso facciamo l’apologia del sintomo, ci mancherebbe, no però comprendere che quello che lui ci porta è quello che lui, che quella persona è in quel momento in grado di portarci e che ha bisogno che noi la comprendiamo, la trasformiamo in linguaggio. E allora il secondo passaggio della cura è quello di cercare di togliere gli intoppi della comunicazione, sciogliere la comunicazione, ricostruirla in un linguaggio più comprensibile e più comunicabile all’altro, riaprire quella comunicazione che parte anche da quella consapevolezza che diceva prima il dottor Bertoli, Marco, che diceva prima la possibilità e il desiderio di cambiare e di mutare, di essere meglio. Questo passaggio attraverso cui viene quello che prima ho chiamato il terzo relazionale, cioè il luogo del riconoscimento reciproco, dove è possibile costruire una narrazione di sè e della propria storia nuova, una nuova narrazione, una nuova ricerca di significati, in fondo una nuova ermeneutica e qui per ermeneutica intendo l’arte del comunicare, del significare, dell’interpretare, spesso quanto il senso profondo non emerge, un sintomo come emerge il senso profondo è difficile, è coperto, è velato, è criptico, però dobbiamo aprire un significato di questo. D’altra parte Hermes era il messaggero degli dei, colui che portava agli uomini le loro comunicazioni, qualche volta questi messaggi degli dei non erano proprio così del tutto palesi, e d’altra parte il sintomo e la cura sono due fondamentalmente due atti linguistici due atti relazionali. In questo terzo relazionale che è un bene relazionale, questi hanno modo di identificarsi e di lavorare e di trovare una possibilità per cercare di riaprire il dialogo. Appunto noi parliamo, abbiamo due alterità, un’alterità interna, tutto il nostro mondo interno con il quale tante volte le persone che si rivolgono a noi fanno fatica a parlare con il loro mondo interno, le loro emozioni, le loro paure, tutto ciò che abita nel loro mondo interno, e spesso hanno bisogno di riaprire la comunicazione con la propria alterità ma questo passa attraverso la relazione con noi, come con me è passato attraverso il mio maestro. E un’alterità esterna, cioè l’altro, è una persona che ha dinnanzi con cui riaprire un dialogo, un dialogo che si apre verso l’interno e si apre per suo esterno. Quindi la cura in psichiatria passa attraverso quell’iniziale accoglimento, quel riconoscimento di cui avevo parlato prima nell’ esperienza con il professor Carta, per giungere nel dialogo alla costruzione di una nuova narrazione di sé, una nuova narrazione e dei significati nuovi. Tutto questo porta a un processo ovviamente con sé che passa anche attraverso l’accettazione di se stessi, e l’accettazione di se stessi anche a possibilità che qualche parte di me la posso anche cambiare, ma senza pretesa, perché noi potremmo anche finire la nostra vita avendo cercato continuamente di cambiare le nostre parti, non esserci riusciti per niente, ma questa sola possibilità e viverla già ci fa vivere in modo diverso.
Marco Bertoli: Professore dobbiamo cambiare setting.
Cesare Maria Cornaggia: Dobbiamo cambiare setting.
Marco Bertoli: Quindi concludi.
Cesare Maria Cornaggia: Quindi concludo perché giustamente il tempo deve essere mantenuto. Bene, ma io posso anche concludere qui perché è un punto in cui si può chiudere qui, perché ho detto tutto questo che era importante dire quindi che conclude il mio pensiero, quindi io credo che questo processo è il processo, e concludo solo con una frase, che ripercorre così come ho cercato di scriverlo, quello che è stato per me, e credo che questi passaggi mi conducono, scusami Marco, vorrei chiudere solo con questa battuta che è una battuta che credo che aiuti a passare dalla posizione del fare le cose, di vivere le cose per poter essere amato, a invece alla posizione di fare le cose poter mettersi nel mondo perché si è stati amati.
Marco Bertoli: Grazie, allora ringrazio il professor Cornaggia, adesso appunto cambiamo setting, non cambieremo tanto le parole ma ci introduciamo con un filmato al prossimo personaggio.
Marco Bertoli: Ecco, e scusate una certa emozione perché queste vicende che abbiamo visto mi capita di viverle ogni anno quando incontro Grégoire giù in Africa ormai da oltre 25 anni che c’è questa storia di morte e di resurrezione, mi viene da dire, però nel titolo di oggi c’era la parola paternità e ogni volta che io vedo Grégoire giù in Africa, sia in Costa d’Avorio che sia in Benin, che sia in Togo, io sento che tutti lo chiamano con l’appellativo papà Grégoire. Allora la paternità, e lui viene chiamato papà Grégoire da queste persone che vivono questa esperienza tremenda che avete potuto vedere. Grégoire, papà Grégoire.
Grégoire Ahongbonon: Tutto quello che posso dire questa sera viene tutto fatto grazie a Dio, il nostro Signore onnipotente, benediciamolo, benediciamolo per tutto quello che è, è il padre di tutti noi, è il padre di tutti noi, e nessuno si perde con Dio, anch’io, anch’io che vi parlo. Anch’io ero come questi malati, dico sempre che Dio è venuto a cercarmi mentre ero in un buco, mentre ero in un buco ero perso, quello che vivo ora è più forte di me, è più forte di me ed ecco perché dico che la grazia che Dio ci dà dobbiamo usarla, quello che Dio ci dà dobbiamo a nostra volta darlo agli altri, tutto quello che faccio, tutto quello che vivo, lo faccio perché Dio mi ha dato, e siccome Dio mi ha dato, io a mia volta devo dare agli altri. Dobbiamo usare la grazia, dobbiamo sfruttarla, questo è importante, anch’io ero come questi malati dicevo, perché sono arrivato in Costa d’Avorio, ero semplicemente un povero gommista che non aveva neanche studiato che si ritrova adesso vicino a un professore che fa conferenze e questa è semplicemente una storia di Dio, è Dio che ha voluto che io faccia questo. Sono arrivato in Costa d’Avorio, facevo il gommista, riparavo pneumatici, guadagnavo un sacco di soldi, ma da un momento all’altro ho perso tutto e volevo quasi suicidarmi tanto avevo perso, anch’io volevo suicidarmi, la fortuna è che poi ho incontrato un prete missionario che ha saputo accogliermi, ha saputo ascoltarmi. Questi malati che sono incatenati, che sono abbandonati nelle strade africane se avessero trovato qualcuno sul loro cammino, come questo prete che ha trovato me, che li ascoltasse, che li sostenesse, forse non conoscerebbero questa sofferenza che ora vivono. Anch’io avrei potuto essere stato incatenato a un albero, avrei potuto essere abbandonato in una strada africana, ma ho trovato qualcuno che ha saputo ascoltarmi e non solo mi ha ascoltato ma ha pagato un biglietto per me e mi ha fatto andare a Gerusalemme. E durante questo pellegrinaggio a Gerusalemme diceva nelle sue omelie che ogni cristiano deve partecipare alla costruzione della Chiesa ponendo una pietra e questa è una frase fondamentale. Ecco la frase che mi ha colpito, e lì ho capito che la chiesa non è solamente una cosa di preti e di suore ma è una cosa che appartiene a tutti noi e così ho cominciato a pormi una domanda: qual è la pietra che devo porre io per questa chiesa? E tornando in Africa, in Costa d’Avorio dove vivevo con mia moglie abbiamo cominciato a mettere questa pietra e questa pietra, mettendo questa pietra abbiamo creato un piccolo gruppo di preghiera. E un giorno con questo gruppo di preghiera siamo andati al sud di Bouake in un ospedale per visitare i malati, durante questa visita abbiamo visto in una sala malati uomini e donne che erano completamente abbandonati. Era l’ospedale, queste persone non hanno soldi per curarsi perché non abbiamo nessuna previdenza sociale, non abbiamo assistenza sanitaria in Africa, se non avete soldi non vi curano, se fate un incidente per strada oggi i pompieri vengono, vi prendono, vi mandano all’ospedale, ma se non avete la fortuna di avere un qualcuno che viene pagare i farmaci rimanete in ospedale fino a morire, nessuno farà niente per voi. Quindi di fronte a questi malati ci siamo detti ma, prima di cominciare a pregare, dobbiamo manifestare loro il nostro amore, la nostra amicizia, e così dobbiamo cominciare ad aiutarli. E abbiamo cominciato a cercare risorse per pagare i farmaci per poterli curare e rapidamente molti di questi malati hanno cominciato a rimettersi in salute, quelli che dovevano morire, se sono morti almeno sono morti con dignità. Ed è così che personalmente ho cominciato a capire perché mi sono identificato con i poveri e i malati, ed è così che abbiamo cercato Dio nei poveri. E volendo cercare Dio nei poveri abbiamo cominciato ad aiutare le persone nelle prigioni, poi i bambini nelle strade e poi nel ‘90 ho fatto questo incontro con un malato mentale. Vedevo i malati mentali abbandonati in strada anche in Benin, li vedevo nudi che cercavano da mangiare nella spazzatura, è un problema che tocca tutti i paesi d’Africa, li vedevo ma non li guardavo, non li riconoscevo, ma come ho detto nel ‘90 passando per la strada ho visto una persona, un malato mentale che appunto cercava nella spazzatura qualcosa da mangiare e questo giorno non so perché mi sono fermato e questa volta ho cominciato veramente a guardare questa persona, e guardandola mi sono detto ma è Gesù, questo è Gesù, questo è Gesù che cerco nella Chiesa, è lui Gesù, e poi mi sono detto fanno paura ma in realtà non fanno paura sono persone che mi parlano sono persone che somigliano a Dio perché dobbiamo avere paura di loro. E poi ho cominciato tutte le sere ad andare a cercarli per vedere dove dormissero e ho cominciato a incontrarli, a fare la loro conoscenza e conoscendoli ho scoperto che erano uomini, donne, bambini, che volevano essere amati, semplicemente amati. Ne ho parlato con mia moglie, abbiamo preso un congelatore e ci abbiamo messo dentro l’acqua e ogni sera andavamo a trovare queste persone per andare a nutrirle e a dar loro acqua fresca. E rapidamente abbiamo cominciato a sviluppare un legame di amicizia tra noi e questi malati e un giorno mi sono detto ma perché, perché andare a dare da mangiare a qualcuno nella strada mentre io poi vado a casa a dormire. E queste persone sono Gesù, abbiamo una piccola cappella all’ospedale e in questa piccola cappella abbiamo cominciato a raggruppare i primi malati, trattandoli come uomini. Ovviamente davamo loro anche farmaci e rapidamente molti di questi malati hanno cominciato a recuperare, a rimettersi in salute, e poi nel ‘93 sono venuti dall’autorità sanitaria per una visita, anch’io sono andato e quando mi hanno visto, quando i malati mi hanno visto erano molto contenti, e abbiamo chiesto all’autorità sanitaria di darci uno spazio nell’ospedale, e qui abbiamo preso questo spazio, abbiamo cominciato a creare il primo centro. Visti i risultati che continuavamo ad avere le famiglie e i preti cominciavano a chiamarci, e al giorno prima della domenica delle Palme una donna è venuta a trovarmi e mi ha detto venite con me, venite con me perché dovete venire nel mio villaggio. Siamo andati nel loro villaggio, sono andato a vedere il capo del villaggio, in casa c’era una persona che era completamente bloccata, che era completamente bloccata al suolo e aveva mani e piedi bloccati, incatenati con del filo di ferro. Abbiamo tentato in qualsiasi modo di salvare questo ragazzo che era incatenato ma abbiamo dovuto andare via, e con una suora religiosa con delle cesoie siamo ritornati e siamo riusciti a disincatenare questo ragazzo e quando ci siamo riusciti l’abbiamo pulito. Dopo che abbiamo finito di pulirlo questo ragazzo mi guardi e mi dice non so come dire grazie, non so come ringraziare Dio, non so cosa ho fatto per meritare questa fortuna di averla incontrata e poi mi ha chiesto ma posso ancora vivere. Purtroppo era talmente malato che poi, decomposto, che alla fine è morto. Non avevo mai visto una persona così incatenata, non avevo mai capito che erano anche incatenati nei boschi, ma questa cosa che ho visto mi ha talmente scioccato, mi ha fatto male, e qui abbiamo deciso di dedicare la nostra vita a queste persone qui oggi, e tu lo sai molto bene, quando vieni in un nostro centro tutti dicono papà, papà, papà Grégoire. Un giorno uno mi ha detto: beh, sei più di un padre per me, sei più di un padre per me. Sì, questi malati hanno bisogno di essere amati, l’uomo ha bisogno di essere amato, non dobbiamo necessariamente curare tutti ma dobbiamo dare dignità a tutti e questo è quello che dobbiamo fare con tutti. E voglio cogliere questa opportunità per ringraziare tutti gli organizzatori, tutti quelli che dal ‘98 hanno cominciato a invitarmi qui, nel ‘98 sono venuto per la prima volta a Rimini, ogni volta che esco dal Meeting vedo sempre le meraviglie di Dio, tutti dicono smetta, smetta non sei stanco no no assolutamente io non sono stanco, non sono stanco perché quello che ricevi a tua volta devi darlo, ricevi e dai. Oggi c’è, abbiamo creato una comunità nella Sainte Camilleci sono donne e uomini che cominciano a dedicare la loro vita a questi malati. Questa attività continua, e voglio dire a tutti voi che siamo solamente in tre paesi Costa d’Avorio, Togo e Benin per il momento, ma vogliamo, sono andato in Ciad, non c’è nemmeno l’ospedale psichiatrico in Ciad, più di 16 milioni di abitanti e non c’è un ospedale psichiatrico in Ciad, non c’è niente in questo paese. Una donna ha dato un terreno, donato un terreno di due ettari e ha cominciato a fare qualcosa per i malati C’è una suora che ha fatto la formazione con noi in Benin che poi è arrivata in Ciad, a Sahr, lei è responsabile di un ospedale. Quando è arrivata non c’era niente, ha aperto una piccola unità, un piccolo servizio e ci sono moltissimi malati che sono stati disincatenati, a cui hanno tolto le catene in Ciad e che adesso lavorano a loro volta con i malati mentali. Molti fanno una formazione di tre anni per diventare infermieri, hanno bisogno di essere sostenuti, hanno bisogno di essere aiutati, i malati hanno bisogno di noi, del nostro supporto. Loro si organizzano da soli in tutti i nostri centri, ci sono centri con più di 300 persone. molti di voi sono venuti in Africa, sono loro stessi i malati che adesso sono diventati direttore, infermieri, fanno tutti. Dal 2019 al 2021 il paese del Benin ha mandato più di 200 malati nei nostri centri perché hanno visto che molti ammalati che abbiamo preso dalla strada, hanno ricominciato a vivere, hanno ritrovato la gioia di vivere. lo Stato ci ha aiutato per tre mesi e ci aiuta per tre mesi, ma dopo tre mesi dobbiamo fare tutto da soli, ma questa è la nostra gioia, e quindi vi dico grazie, grazie di questo incontro, grazie di tutto quello che fate, ciascuno di voi, nel nome di questi malati. quando incontrati altri malati dite che volete nutrire i malati in Africa, che volete togliere le catene dai malati in Africa, ci sono più di 130.000 malati che vivono solamente di provvidenza, noi non riceviamo niente, nessun aiuto dallo Stato ma con amici, con persone di buona volontà sì, possiamo lavorare molto e possiamo dar loro la gioia di vivere. E questa è la nostra storia, e se i cristiani, se la Chiesa non fa nulla per questi malati, non saranno sicuramente le nostre autorità a farlo, questi malati vogliono vivere, non sono nati malati vogliono vivere come tutti gli altri. Grazie, grazie a tutti voi, grazie di avermi ascoltato.
Marco Bertoli: Allora abbiamo ancora pochi minuti e a Cesare volevo chiedere ancora questo Meeting si chiama la passione per l’uomo e che cos’è per te la passione per l’uomo, perché questa è una frase che ha detto don Giussani proprio qui al Meeting nel 1985 dicendo che il cristianesimo non è la fondazione di una religione ma è proprio, è nato cum-passione per l’uomo cos’è per te, ma in tre minuti.
Cesare Maria Cornaggia: Sono stringatissimo, obbedisco, direbbe, però volevo solo se posso prima essere grato a Grégoire per quello che ha detto e poter dire che mi ha molto colpito il suo dire la sua esperienza all’inizio, perché in qualche modo richiamava l’esperienza del riconoscimento, soprattutto quando lui ha detto ho trovato qualcuno che mi ha ascoltato, che è questa esperienza, in un contesto completamente diverso, probabilmente viviamo in due mondi completamente diversi, ma si è partiti quando ho trovato qualcuno che mi ha ascoltato. Credo che questo sia un messaggio straordinariamente bello che viene da due mondi completamente diversi. Se posso brevissimamente perché sennò mi picchi, vorrei dire stiamo attenti noi qui non immaginiamo che le catene siano solo in Africa perché i malati psichiatrici, i malati mentali hanno altre forme di catene diverse, ma le hanno anche qui. Scusami, ma mi sento di dirlo, non ho risposto alla tua domanda però pazienza dai, però la passione voglio dire la passione ci sta nell’aver risposto a questa.
Marco Bertoli: Allora grazie a Cesare soprattutto per aver ricordato questo, le catene sono quelle che abbiamo visto ma ci sono altre catene, altre catene che i nostri servizi sopportano malamente e sono una disumanità presente una disumanità…
Cesare Maria Cornaggia: Presente, diffusa, non riconosciuta, e un tanto dolore diffuso.
Marco Bertoli: Ecco Grégoire per la conclusione diciamo anche a te che cos’è per te la frase che Giussani ha detto, che cos’è una passione per l’uomo, come la vivi.
Grégoire Ahongbonon: È amare l’uomo, Dio ci ha talmente amato fino a dare il proprio figlio e guardiamo come è venuto e come è vissuto, povero, da povero si è identificato con i poveri e ha preso il polso dei più deboli e quelli che vogliono seguirlo devono accettare, le persone devono accettare anch’esse di dare la propria vita ai poveri. Noi possiamo ritrovarci grazie ai poveri, tutto quello che fate ai vostri fratelli, ai vostri fratelli poveri è una cosa che fate a Me, la salvezza si trova così. Il Vangelo che abbiamo appena ascoltato ieri, chi si alza sarà abbassato e chi si abbassa sarà alzato, ogni giorno questo ci rivela l’importanza dell’umiltà, l’importanza dell’amore, l’importanza di darsi all’altro, ed ecco perché questa sera voglio dirvi grazie ancora perché so che questa immagine che vedete ogni anno, so che molti di voi si alzano si innalzano e diventano la Provvidenza per questi poveri, diventano la Provvidenza che ci permette di continuare a togliere queste catene in Africa. Ed ecco perché vi devo ringraziare dal profondo del mio cuore. È vero lo dico sempre il giorno verrà, verrà il giorno e dirà ad ognuno di noi: vieni benedetto del Padre perché ho fame, mi hai dato da mangiare, ho avuto sete e mi hai dato da bere, ero nudo e mi hai vestito, ero straniero e m’hai accolto, ero malato, in prigione, abbandonato nelle strade, incatenato ad alberi, e sei venuto ad aiutarmi. Guardate questa catena, sì, ovunque vada la faccio vedere a tutti, il malato che porta questa catena ecco, ecco come la porta, viene incatenato così al collo, nudo messo in una sala, in una piccola stanza incatenato al muro, e quando è fuori lo si incatena un albero, e viene lasciato così sette anni, per aspettare semplicemente la sua morte. Ma siamo stati invitati al Parlamento Europeo a Bruxelles, sono andato a Bruxelles con questa catena, il film che abbiamo presentato era ancora peggio di quello che avete visto voi. C’erano persone che piangevano, che piangevano a cui scendevano le lacrime, ma appena sono usciti dalla sala dopo avere visto il video hanno dimenticato tutto. Questa catena l’ho già portata molto spesso al Meeting e so che molti hanno reagito, molti hanno avuto una reazione, molti di voi si sono alzati, anche altri sono addirittura venuti a scrivere un libro, però ci sono ancora persone che sono molto lontane dalla realtà, che non la conoscono, e essendo qui vorrei che ognuno possa mobilitarsi, possa fare qualcosa perché ci sono ancora moltissimi malati così. Prima vi dicevo che L’Africa è un grande continente non si tratta solamente del Benin o della Costa d’Avorio o del Togo, e so che queste persone possono essere aiutate, aiutatele a liberarsi, che nessuno esca da qui senza reagire. Prima di concludere, stiamo in questo momento creando un centro per i tossicodipendenti in Benin, avevamo chiesto ad alcuni amici spagnoli di aiutarci, hanno fatto tutto il possibile ma un giorno mi hanno chiamato avevano trovato una grande Fondazione e mi hanno chiamato e hanno detto: “Grégoire, abbiamo trovato una Fondazione, e con questa Fondazione possiamo avere tutti i soldi per costruire il centro”. Mi hanno pagato il biglietto, mi hanno fatto partire e insieme siamo andati a questa Fondazione. Abbiamo fatto vedere un video, la direttrice con tutto lo staff erano lì a vedere questo video, e guardavo la direttrice che piangeva mentre guardava il video, e in me dicevo ah sicuramente qui muoviamo gli animi, ma quando il video è finito la signora mi dice “signore, piango, piango perché mi fa cosi male vedere quello che vedo ma purtroppo la mia Fondazione non può fare niente perché si tratta di malati mentali e la nostra Fondazione non aiuta i malati mentali”. E mi ha detto vorrei fare qualche cosa ma se magari può cambiare il progetto e magari non so incominciare a curare dei malati di aids, perché i malati mentali non hanno alcuna possibilità. Ma grazie a persone di buona volontà, grazie a persone come Marco, Mary, Anna, come tante persone qui in sala, la strada continua e il Signore continua a trovare il modo di aiutarci come vuole quando vuole. E affinché possiamo continuare la nostra opera invito tutti voi ad alzarvi tutti quanti perché la nostra immagine, è la nostra immagine, è stato dimostrato che oggi con pochi mezzi con poche risorse possiamo ridare loro la dignità. Grazie a tutti voi, e grazie per tutto quello che fate per aiutare queste persone. Grazie, grazie di tutto cuore. Grazie Marco, grazie Professore.
Marco Bertoli: Allora io concludo questo incontro riprendendo la passione per uomo, questa sera l’abbiamo sentita, l’abbiamo sentita da due persone appassionate dell’uomo e per cui la cura è veramente riconoscere l’altro, inginocchiarsi all’altro, e questa passione è uno struggimento che ognuno di noi può avere nei confronti delle persone, di tutti coloro che si incontrano, del dolore che si incontra e che aspetta di essere appunto ascoltato. Io credo che questa sera ne usciamo più intelligenti mi verrebbe da dire, più capaci di guardare la realtà. E questo come avete sentito da due professionisti diversi in posti diversi che però agiscono appunto guardando la realtà e guardando quello che Dio provoca nella realtà, e può essere il bel paesaggio ma anche la persona che attende un nostro sguardo, attende una nostra mano, e come ci ha richiamato il Papa proprio bisogna sconfiggere questa paura, questa paura di chiedere, bisogna sconfiggere e andare verso. Vi ringrazio e buona serata a tutti.