Chi siamo
DAL BISOGNO ALL’INTEGRAZIONE
In diretta su Ansa, askanews, Avvenire, Corriere della Sera, Icaro Tv, IlSussidiario.net, La Stampa, QN, SkyTg24 Canale 501, Teleradiopace
Marco Ceresa, Group CEO Randstad; Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno; Alberto Sinigallia, presidente Fondazione Progetto Arca onlus. Modera Angelo Picariello, giornalista Avvenire
Nell’ultimo Rapporto Istat 2024 emerge un quadro complessivo non rassicurante: nel 2023 l’incidenza della povertà assoluta raggiunge l’8,5% tra le famiglie e il 9,8% tra le persone: si tratta di 2 milioni 235 mila famiglie e 5 milioni 752 mila persone in povertà. Al peggioramento ha anche contribuito il peso dell’inflazione, che si è abbattuto in misura maggiore sulle famiglie meno abbienti. Livelli mai toccati negli ultimi dieci anni in un Paese segnato da sempre maggiori disuguaglianze. La tavola rotonda avrà il fine di promuovere una visione di welfare comunitario con lo scopo di trovare risposte costruttive ai bisogni della comunità e dei cittadini.
DAL BISOGNO ALL’INTEGRAZIONE
DAL BISOGNO ALL’INTEGRAZIONE
Mercoledì 21 agosto 2024 ore 17:00
Sala Neri Generali-Cattolica
Partecipano:
Marco Ceresa, Group CEO Randstad; Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno; Alberto Sinigallia, presidente Fondazione Progetto Arca onlus.
Modera:
Angelo Picariello, giornalista Avvenire
Picariello. Buon pomeriggio, buonasera, siamo un po’ a cavallo fra queste due dimensioni. “Dal bisogno all’integrazione” è il tema di questo incontro che si tiene in questa 45esima edizione del Meeting. Per me è anche un po’ emozionante tornare nel posto dove l’anno scorso abbiamo parlato di Aldo Moro, dei suoi rapporti, che ebbe fra l’altro anche con CL nascente a Roma, e come dire, nulla accade casualmente. Oggi parliamo un po’ di quell’articolo 2 che credo sia l’articolo della Costituzione che più assomiglia ad Aldo Moro, non tanto nel riferimento alle formazioni sociali, ma soprattutto per quanto riguarda un verbo che è un autentico capolavoro, quando si dice che la Repubblica “riconosce” le formazioni sociali che in quel momento particolare che viveva l’Italia, si usciva da una dittatura e si guardava a un orizzonte molto ampio della Repubblica si intendeva indicare che c’è una comunità nazionale, un sistema di valori e esperienze ai quali lo Stato deve rispondere, altrimenti la politica diventa dittatura. Quando non c’è una comunità nazionale, una sovranità popolare, quella che invece è nell’articolo 1, c’è il rischio di cadere nella dittatura. Oggi parliamo proprio di questo, dell’interazione fra il protagonismo della cosiddetta società civile, in cui si estrinseca la dignità dell’uomo, sempre per citare la Costituzione, e le istituzioni rappresentate dal Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che ringrazio e al quale riserverei per inizio un applauso. Il quadro in cui ci inseriamo con questo incontro è un po’ preoccupante per ragioni soprattutto di contingenza internazionale. Il problema principale che si è abbattuto sul nostro Paese da qualche anno è quello dell’inflazione, che è uno strumento subdolo che interviene nella vita delle famiglie, con un abbassamento del potere d’acquisto che arriva senza notifica alla fine del mese agli italiani. Ha fatto sì che il numero dei poveri nel rapporto ISTAT del 2024 si sia avvicinato ai 6 milioni di persone. Sappiamo anche molto bene che i più colpiti sono le famiglie con figli. Questo è un problema oggettivo che nella retorica politica rischia di essere usato a fini strumentali; oggi invece cerchiamo di utilizzarlo a fini costruttivi, per capire come si può migliorare questa condizione. Abbiamo due graditi ospiti che, oltre a essere ospiti di questo incontro, sono anche degli ospiti del Meeting, portando la loro esperienza. Abbiamo Alberto Sinigallia, presidente della Fondazione Progetto Arca Onlus, che oltre a essere un protagonista del Meeting, è anche presente con la sua esperienza e, insieme al collega Giuseppe Frangi, è in qualche modo il curatore di una bellissima mostra che dimostra una cosa che al Meeting è molto ben conosciuta, cioè la fragilità può diventare occasione per aprirsi all’essenziale, alla bellezza. Non significa fare l’elogio dei perdenti, direbbe Mattarella, di quelli che non hanno vinto per poco, o per molto. Si tratta di ribadire ancora una volta, con la Costituzione alla mano, che la dignità dell’uomo riguarda tutti noi. Ognuno la realizza nel modo che gli è reso possibile. E poi l’altro ospite è Marco Ceresa, CEO di Randstad, una società impegnata nel settore delle risorse umane. “Risorse umane” è una brutta parola, però, ancora una volta, se lo traduciamo significa centralità della persona, anche questo, no? E vi assicuro che entrambe queste esperienze, che ascolteremo, interagiscono molto bene con le istituzioni, perché questa idea che chi si impegna nella società civile debba essere contro le istituzioni non funziona. Un Paese funziona quando ognuno fa la sua parte, e devo dire che, nel dare la parola a Sinigallia, ci aiuterà il fatto che il ministro Piantedosi è un tecnico, è uno che prima di arrivare al Ministero dell’Interno, poi ce lo racconterà, ha fatto esperienza sul territorio come uomo delle istituzioni, quindi ha interagito molto spesso con operatori della società civile. Allora, non dico altro, ho detto anche troppo, do la parola a Sinigallia e ci terrei molto a spiegare come nasce questo incontro, perché credo che c’entri molto questa bella mostra. Non so se dico una cosa esatta o sbagliata, ma mi diceva Frangi che ci può stare. Ho trovato un po’ il richiamo di quella famosa canzone di De André, “Dai diamanti non nasce niente”. A volte, invece, dalle cose più disprezzate, può venire fuori un elogio o un rimando alla bellezza, che poi è l’essenziale per stare al tema del Meeting. Mi fermo. Sinigallia.
Sinigallia. Grazie, sì, è proprio così. Proprio alla fine della mostra ci sono questi scarti tessili che, messi insieme, hanno una bellezza fantastica. La fragilità appartiene all’uomo e adesso non vi anticipo troppo, però si inizia a camminare su dei cocci e si finisce con una scultura fatta di cocci, perché questa è l’esperienza umana. Noi ci rompiamo, inciampiamo, cadiamo, non solo le persone che assistiamo, ma l’umano è così. La mostra vuole proprio farci immedesimare in ciò che le persone che aiutiamo tutti i giorni sperimentano, che è questa necessità di una relazione, di un aiuto con la famiglia, con le istituzioni, con le organizzazioni per fare un percorso insieme, ritrovarci e senza dimenticare l’esperienza. La scultura finale vedrete che comunque ha le fratture che si porta dietro; le nostre cicatrici ce le portiamo dietro e questo è proprio l’impegno. Noi diciamo sempre che ci sono diverse colonne: ci sono le istituzioni, che da sole non possono fare tutto, hanno bisogno del privato sociale, delle organizzazioni, hanno bisogno dei volontari e della cittadinanza attiva. Sono le quattro colonne che, insieme, mettendosi in rete, riescono a cambiare la vita delle persone. Un’altra cosa che emerge dalla mostra è che noi non possiamo fare niente se l’altro non vuole, per cui noi non ci sostituiamo, noi accompagniamo le persone nella loro libertà, nel loro desiderio di cambiare la propria vita, se lo vogliono. Per un tempo non ci vogliamo sostituire, come ben sapete anche nell’ambito religioso; qui sappiamo che ci sono molte persone ispirate in questo ambito, anche il Signore non può cambiare la nostra vita e non ci può prendere in braccio, Lui c’è sempre solo quando noi lo desideriamo e si può fare un cammino insieme. Quindi, veramente nella libertà delle persone, cerchiamo di fare questo. Cerchiamo, ultimamente, come dicevi, i dati ISTAT sono i peggiori, hanno continuato a peggiorare da dieci anni a questa parte, siamo al picco e siamo molto impegnati nel reinserimento abitativo e nella ricostruzione di questo percorso, perché la cronicità costa, a livello di welfare, molto di più che la prevenzione. Per questo abbiamo creato diversi social market in Italia, affinché le persone che non riescono ad arrivare alla fine del mese non aspettino lo sfratto esecutivo, ma riescano a mantenere un equilibrio nella propria parte economica ancora prima di perdere tutto, perché sappiamo che poi la mamma col bambino va in una comunità, il papà diventa senza dimora, e veramente i costi sociali sono enormi. Ci stiamo impegnando, abbiamo 150 case per l’housing, e partiamo dal presupposto che la casa non è un punto d’arrivo ma è un punto di partenza, perché senza la casa non si può iniziare un lavoro, non si può iniziare una relazione sana col vicinato. Per cui, l’Housing First, questa formula che abbiamo “importato” dall’America e dai Paesi del nord Europa, fa sì che le persone in poco tempo riescano a ristabilire la loro concretezza. Cos’altro dire? Venite a vedere la mostra. Io non sono il curatore, Frangi è il curatore, non voglio portare via i meriti. Sì, poi ovviamente l’abbiamo ispirato, però lui è stato veramente il cuore; è una mostra esperienziale dove uno entra e fa esperienza. Siamo molto soddisfatti, anzi, vorremmo portarla in giro per le scuole, perché noi crediamo che anche il volontariato debba partire dai giovani, in questa nuova generazione, e il Meeting lo insegna perché il Meeting è magnifico, ma tutte le persone a cui chiedo cosa ti porti a casa dal Meeting mi dicono: l’energia, l’entusiasmo dei volontari. Questa nuova generazione di giovani che riescono a dare un’energia, un’armonia alla propria vita, è fantastica. Vi dico una cosa personale: mio figlio, che è qui, non voleva proseguire gli studi, ha parlato con un po’ di persone e dice: “Papà, mamma, forse ho deciso di continuare gli studi”. Per cui il volontariato è anche contaminazione, no? È veramente magnifico e vorremmo portare questo nelle scuole. Vorremmo creare una mostra itinerante proprio per dare questo segno ai ragazzi, alle nuove generazioni, che dal volontariato, dalla cittadinanza attiva, si può cambiare sé stessi e gli altri. Questa è l’esperienza veramente dei nostri 500 volontari che tutti i giorni sono sulle strade delle maggiori città per aiutare le persone che ne hanno bisogno. E veramente ringrazio, oltre ai nostri operatori professionisti, tanto i nostri volontari, perché senza di loro non riusciremmo a fare tutto ciò che facciamo.
Picariello. Siccome Sinigallia, nei tempi, è stato più bravo di quanto avesse promesso, allora io integro 30 secondi sulla figura di Frangi, che oltre a essere un grandissimo, bravissimo collega, si nota che nel suo sangue c’è parentela con grandissimi come Giovanni Testori e come suo zio, che è un grandissimo pittore. È veramente una figura rarissima di giornalista attento all’arte, perché noi siamo, diciamo, come giornalisti, dei grandi approssimatori, mentre lui ha la cifra della dimensione della bellezza, veramente, nella sua professionalità. Quindi un’ottima scelta. L’integrazione invece la chiederei sul fatto che voi, in effetti, col Viminale avete anche un rapporto consolidato in materia di gestione delle risorse confiscate alla criminalità organizzata. Voi agite a tanti livelli, ma c’è questo aspetto che probabilmente chiama in causa anche il Ministro, e per cui avete avuto già rapporti in questo senso, no?
Sinigallia. Sì, siamo molto felici di avere questa relazione con il Ministero. Tra l’altro, abbiamo vinto il primo e il secondo posto e veramente il nostro ufficio progetti merita un grande applauso. Erano 400 progetti e siamo arrivati primi e secondi. A parte questi due grossi progetti, queste due grosse palazzine, una a Roma e una a Varese, abbiamo molte case, soprattutto a Milano, beni confiscati dalla criminalità organizzata, in cui riusciamo, dove prima si spacciava droga, a recuperare i tossicodipendenti. Dove prima c’era la criminalità, adesso ci sono mamme con bambini che cambiano la propria vita, per cui questi beni sono veramente fondamentali. C’è da fare ancora molto, perché per esempio in Regione Lombardia l’ALER ha 16.000 case sfitte, che non riesce a ristrutturare, e ci sono 10.000 persone in lista d’attesa. Ci sono fondazioni, cittadini, che potrebbero contribuire. Per cui anche qui, mettendo insieme più attori, si riuscirebbe a fare molto, perché è veramente un peccato avere 16.000 case e non utilizzarle per il bene comune.
Picariello. Sono storie veramente edificanti, perché viene in mente la vicenda di Don Pino Puglisi, che io ho avuto l’avventura di conoscere come collaboratore ai tempi de “Il Sabato”, in cui emerge che questo grandissimo prete, nel giorno del suo compleanno, arrivò solo a casa non perché non avesse amici, ma perché, ecco, io ne ebbi la percezione che si trattasse di un martirio. Mi colpì il fatto che un sacerdote così circondato dai giovani fosse da solo nel giorno del compleanno. Poi, quando ho saputo che colui che l’ha ucciso si trovò davanti un uomo sorridente davanti, ecco, non voglio dire che non mi sono meravigliato, perché mi sono commosso, però ho ricollegato un po’ le cose. Che voglio dire? Voglio dire che Don Puglisi non era un uomo che lottava contro la mafia. Don Puglisi era un testimone di Cristo che capiva che il miglior modo per esserlo, in quel luogo, era favorire il lavoro, favorire la dignità delle persone. È bastato questo per renderlo un bersaglio. Quindi, sottrarre beni alla criminalità organizzata e metterli a disposizione della comunità per produrre lavoro e integrazione è il più bel omaggio che possiamo fare a questi testimoni. Ricordiamo anche Falcone e Borsellino, che sono due testimoni. Davvero non possiamo fare l’abitudine a questa cosa dei beni sottratti alla mafia e riconvertiti, perché dal male può nascere un bene, no? Perciò ci tenevo anche a trattare questo aspetto. Marco Ceresa”, dicevo, questo discorso delle risorse umane è una parola un po’ così, no? Però è la centralità della persona. Voi avete un gruppo molto attivo, creativo, molto presente. Anche qui nel raccontarvi mi piacerebbe che voi interagiste su temi caldi come quello dei migranti, perché voi avete delle modalità, delle buone pratiche in corso che mi pare interagiscano bene anche con l’idea che il governo porta avanti. È molto bella l’idea del piano Mattei. Che richiama un grandissimo esponente. Ecco, qua c’è una mostra di De Gasperi. Vi rivelo una cosa che ognuno di voi può apprendere: Mattei è stato il relatore al primo convegno della Democrazia Cristiana sull’apporto dei cristiani alla Resistenza. Quindi, recuperare questo approccio umano al continente africano, laddove altri invece hanno avuto un approccio molto colonialistico, è una dimensione molto bella. Non voglio portarla sul terreno né della politica né della sociologia, ma certamente voi avete questa cosa molto interessante di andare a scovare le potenzialità nei Paesi d’origine e di mettere in comunicazione tutto questo con le esigenze delle imprese. Mi raccontavate che se non si interviene a questo livello, l’Italia rischia il declino, giusto?
Ceresa. Certo, assolutamente. Allora, prima di tutto per noi in Randstad il lavoro è un po’ come il pane, deve essere quotidiano. Per cui voglio prima dire che sono ottimista perché vedo in questo momento che il problema è più trovare le persone per le aziende che ce lo richiedono piuttosto che il contrario. Qualche anno fa, quando ho iniziato a fare questo lavoro, era diverso: bisognava lottare molto per avere gli ordini dai clienti, le persone c’erano ed erano disponibili. Perché è cambiato questo? Perché c’è un problema demografico importante per cui mancano i giovani, e la scelta che non spetta a noi di Randstad, ma che dobbiamo fare come Paese, è quella di dire: o riusciamo a includere le persone per dare forza alla nostra economia e far funzionare le cose, oppure dobbiamo organizzarci per affrontare un po’ il declino del nostro Paese. Ormai da qualche anno abbiamo iniziato, ad esempio, in settori ben precisi come quello della sanità, ad andare a cercare infermieri e medici fuori dall’Italia. Solo che una volta erano solo medici e infermieri. Adesso ci siamo accorti che mancano altre figure. Il lavoro che deve essere fatto, però, non è solo un lavoro di formazione per dare competenze a queste persone, ma è anche far capire loro come devono comportarsi per essere bene accettati nel nostro Paese e nelle nostre aziende. Per cui, educazione civica, ma ancor prima la lingua italiana, sono le prime cose che noi insegniamo alle persone che in qualche modo facciamo venire dall’estero per lavorare nelle aziende italiane. C’è da dire che noi, come Randstad, partecipiamo a questa organizzazione che si chiama Enactus, che organizza competizioni tra varie università di tutto il mondo, e la cosa che mi ha colpito andando alla finale mondiale è che le università che vengono dal Sud America, dall’Africa e da alcuni paesi dell’Est europeo o dell’est mondo, sono università che laureano persone molto motivate, ma anche molto competenti, che in qualche modo hanno una marcia in più rispetto, ad esempio, ai laureati italiani. Allora, quello che noi tentiamo di fare è anche dialogare con le aziende per far capire loro che non si possono far venire dall’Africa solo persone per fare i lavori più semplici, ma bisogna far venire dall’Africa, ad esempio, o dal Sud America, persone che abbiano la capacità anche di essere buoni leader nelle nostre aziende. Ma il vero problema non è solo educare queste persone, ma è educare anche le persone che ci sono all’interno delle aziende, perché quando si parla di inclusione è importante far capire che queste persone magari hanno delle abitudini diverse dalle nostre, e noi dobbiamo in qualche modo, da una parte, accettare determinate cose e, dall’altra, pian pianino influenzarli per portarli verso quella che è la nostra tradizione. Io ho vissuto per un certo periodo in Belgio, a Liegi, e gli italiani a Liegi erano visti come figli di minatori. Per cui, battute su battute su me, italiano, e da questo punto di vista capisco la difficoltà delle persone che entrano in un’azienda e in qualche modo devono essere accettate dalle persone che ci sono già. Per questo motivo, quando noi ci affianchiamo ai nostri clienti, facciamo anche formazione alle persone che già lavorano all’interno dell’azienda per diventare veramente inclusivi. Diventare inclusivi non significa solo, come spesso si dice, avere il 50% di donne in azienda oppure il 40% di persone magari non nate in Italia e così via, perché queste sono solo delle percentuali, che sono importanti, ma secondo noi il vero punto è riuscire a portare le persone al massimo del loro potenziale, al massimo delle loro capacità, indipendentemente dal loro genere, dalla loro provenienza e dal loro essere. Da questo punto di vista, è fondamentale capire quanto potenziale una persona ha per poterla far lavorare al meglio e dare un futuro a loro. Molto importante è il discorso delle abitazioni, perché spostando le persone da un posto all’altro il primo problema è quello dell’abitazione. Per cui, da questo punto di vista, anche lì dobbiamo darci da fare per trovare delle case per queste persone. La mobilità non è solo internazionale, è anche nazionale, e devo dire che negli ultimi mesi sono stato spesso nelle regioni del sud: sono stato in Sicilia, in Calabria, in Puglia, in Basilicata, dove abbiamo aperto dei centri. Sono meravigliato perché le persone che abbiamo assunto, per esempio una trentina a Siracusa, una quarantina ad Enna, a Dalliano, che è un paese della Basilicata, dove abbiamo circa una decina di persone, sono persone estremamente valide. Abbiamo deciso di aprire questi hub, come li chiamiamo, in queste regioni perché lì trovi persone estremamente abili che sono contente di vivere nelle regioni in cui sono nate. Per cui, è tutto un movimento che dobbiamo seguire per riuscire a dare futuro a quella che è la nostra economia, al nostro Paese. Non so se ho risposto alla domanda.
Picariello. Anche lei è stato più rapido del previsto, e c’è una cosa che mi diceva un suo collaboratore ieri che mi ha molto colpito e che, secondo me, è interessante anche nell’interlocuzione con le istituzioni e con il Ministro dell’Interno in particolare. Cioè, ingaggiare – dico tra virgolette – delle persone provenienti dall’estero senza uno strumento intermedio di inclusione è pericoloso anche sul piano della sicurezza, perché inserire, cioè, mettere insieme il discorso di migrazione e il discorso della sicurezza sul lavoro… purtroppo lo vediamo nelle tragiche statistiche della sicurezza sul lavoro: gli immigrati sono una componente, starei per dire purtroppo, essenziale o significativa di questi incidenti. Perché, insomma, mettere al lavoro una persona che non conosce la parola “incendio”, come si fa? È un corso sulla sicurezza. C’è questo aspetto che è molto importante e valorizza il vostro ruolo, giusto?
Ceresa. Certo, tenga presente che noi, nel 2023, tramite un percorso di formazione per persone rifugiate in Italia, abbiamo messo al lavoro 1.500 persone. Ma queste persone sono state formate, dove la lingua italiana è importante per poterle formare, ma anche lì abbiamo trovato tra questi rifugiati delle persone che sono laureate, delle persone che hanno fatto anche, diciamo, una bella carriera. Il nostro compito è proprio quello di preparare queste persone ad entrare nel mondo del lavoro. Tra l’altro, abbiamo anche aiutato il Ministero dell’Interno, fornendo loro delle persone per sbrigare tutte quelle che sono le pratiche burocratiche. Perché se una persona ha diritto, ad esempio, ad avere il permesso di soggiorno e così via, più velocemente si può fare, meglio è, perché si può mettere al lavoro velocemente. Lavorare assieme forse è la parola d’ordine: lavorare con chi ci procura persone che stanno cercando lavoro, lavorare con la pubblica amministrazione che può facilitare queste persone a trovare lavoro, lavorare con chi ha le case, gli appartamenti per poter dare alloggio a queste persone… Penso che lavorare assieme sia importante. C’è un’ultima cosa che voglio dire: come stavo dicendo, c’è molto lavoro da fare. Io ho solo una paura, che negli anni quando c’era ancora la lira, ogni tanto, quando la nostra economia non andava tanto bene, si svalutava la lira e, insomma, ci si sistemava. Mi sembra di vedere, parlando anche con i colleghi degli altri paesi, che i nostri stipendi fanno un po’ fatica a crescere e questo ha portato ad avere anche una povertà tra le persone che hanno magari dei lavori semplici, come diceva lei prima, magari con delle famiglie piuttosto numerose. Allora, uno sforzo che stiamo facendo è quello di lavorare, ad esempio, anche con i sindacati, per riuscire a fare in modo che le persone riescano ad avere uno stipendio che permetta loro di vivere dignitosamente. C’è anche da dire che il vivere dignitosamente di oggi è diverso dal vivere dignitosamente di quando io ero ragazzino, nel senso che noi forse ci divertivamo con poco, adesso, anche per via dei social e così via, si è alzata un po’ l’asticella. Per cui, sono tutte cose che si stanno sistemando, ma globalmente, secondo me, in Italia in questo momento non siamo messi male; forse c’è qualche paese più a nord che ha problemi più grandi di noi.
Picariello. Allora, grazie per il rispetto dei tempi. L’ultimo interlocutore, poi ci sarà forse tempo per un nuovo giro di tavola, anche se non ci sono tavoli qua, è il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che in un dibattito come questo entra molto bene, non solo per l’incarico che svolge attualmente, ma perché è un uomo delle istituzioni che ha vissuto il Viminale sotto diverse – sarei per dire tutte – dimensioni, no? Prefetto, vado a memoria, non guardo la biografia perché nel primo rigo c’è una cosa che non mi convince tanto sul luogo di nascita, mi sembra quasi un refuso, però… siamo conterranei, il Prefetto Piantedosi è un uomo del Meridione, c’è una grande tradizione di uomini delle istituzioni del Viminale… Parlo, ricordo il Prefetto Manganelli e ricordo anche il Prefetto Carlo De Stefano, che è stato un grande uomo dell’antiterrorismo. Dicevo che è stato Prefetto a Lodi, a Bologna e a Roma, è stato Capo di Gabinetto del Viminale, è stato anche Vice Capo della Polizia. Credo che le cose di cui abbiamo parlato oggi le possiamo affrontare dal punto di vista della concretezza, laddove spesso il dibattito politico ci porta un po’ lontano. Che riflessioni le suscitano queste due esperienze che abbiamo ascoltato? Mi sembra che ci siano tanti spunti, no?
Piantedosi. No, moltissimi. Grazie per la domanda. Anche per gli interventi precedenti che hanno incrociato e riflettono un po’ l’attività del Ministero dell’Interno che talvolta viene associata troppo semplicisticamente ed esclusivamente alla pur importantissima attività, tra virgolette, di polizia, cioè di matrice securitaria. In realtà, senza addentrarmi troppo nella filosofia, anche le attività di tipo securitario hanno come precondizione tutto ciò di cui hanno parlato questi due signori, e che è centrale al tema di questo dibattito. L’attività di carattere securitario di polizia, come lei ha accennato parlando di agire in prevenzione o agire quando c’è una patologia cronica di certi fenomeni, sopraggiunge solo dopo; è importante intervenire prima. Io vivo e sono anche contento del mio processo di formazione personale, ma posso garantire che ciò permea tutto il lavoro che si fa al Ministero dell’Interno, che si alimenta quotidianamente di attività volte a intercettare le caratteristiche più profonde dei fenomeni sociali, e che vengono banalizzate come attività di prevenzione. Basti pensare a ciò che si fa, per esempio, sulle dinamiche legate al lavoro, prima di arrivare a reprimere, secondo i canoni di legge, un’attività di sciopero, la programmazione di scioperi, e le attività di mediazione svolte presso le prefetture o le amministrazioni centrali per cercare la composizione del conflitto. Il Ministero dell’Interno, che storicamente viene visto come rappresentativo dello stato centralista, con qualche venatura di autoritarismo, in realtà pratica molto dal basso, credo, in linea con la dottrina sociale della Chiesa: prevenire, includere, ragionare, accompagnare le parti in causa a ritrovarsi, in un momento in cui, se c’è qualcuno che, se vuole, con un approccio paterno, vivendo in una condizione di imparzialità può indurre alla composizione di un conflitto che altrimenti non sarebbe componibile. Permettetemi solo di fare un’osservazione, non una precisazione né una critica: tutto quello che è stato detto, che sottoscrivo e condivido pienamente, è importante. Un messaggio che vorrei contribuire a dare è che troppo spesso la nostra discussione su questi temi si fonda su elementi e valori quasi esclusivamente economici. Oggi il dibattito pubblico sulle migrazioni, e anche la postura che il governo di turno può avere nel cercare di contenere i flussi irregolari, o viceversa, si nutre spesso di contrapposizioni ideologiche molto radicali o su valutazioni economiche, come “ne abbiamo bisogno, la nostra economia ne ha bisogno”, che è verissimo, ma non basta. Dobbiamo porci il problema che la sostenibilità dei processi migratori si nutre anche del fatto che si tratta di persone di cui dobbiamo, non solo per previsione costituzionale, immaginare la centralità nella nostra società di queste persone da qualsiasi parte provengano e che per ragionamenti per citare cose nella scala dei valori che Maslow immaginò, non basta soddisfare solo i bisogni primari, tra cui includo anche quelli con una suscettibilità di valutazione economica. Bisogna porsi problemi come: li rendiamo nostri cittadini? Non voglio anticipare discussioni complicate, ma dobbiamo dare soddisfazione alla tendenza fisiologica di ogni individuo di trovare un ruolo nella società, di sentirsi utile, che avviene principalmente attraverso il lavoro, ma non solo. Per questo il loro ruolo è fondamentale, e mi fa piacere inserirlo nel discorso generale delle esperienze personali che trovano sintesi in queste esperienze più recenti. Perché un altro tema che mi piace sottolineare, da rappresentante di un’amministrazione che ha una matrice storica di rappresentanza anche molto molto forte di quello che è il sistema istituzionale nazionale, il Ministero degli Interni simbolo dello stato centralista, in realtà, pratica molto la sussidiarietà orizzontale. Nessuno stato, nessuna organizzazione statuale può illudersi di gestire autonomamente fenomeni di grande complessità senza il ruolo, ad esempio, di associazioni del terzo settore, come Arca, la soddisfazione del bene della casa, e le procedure innovative che abbiamo introdotto, come l’assegnazione diretta di beni confiscati direttamente alle associazioni del terzo settore. Questo non è una professione di sfiducia dell’intermediazione degli enti territoriali, ma un riconoscimento del fatto che, per gli enti territoriali il possesso nel proprio portafoglio di beni immobili diventa spesso un onere prima ancora di avere una prospettiva di riutilizzo utile. Allora incrociare direttamente associazioni del terzo settore, che hanno già le idee chiare, una strutturazione, e una vocazione precisa, a rendere subito utile, anche simbolicamente, quello che il valore della restituzione di beni che sono stato frutto di attività criminale quindi restituire alla società quello che gli era stato sottratto. Lo dico con molta umiltà lo stato lo fa molto più efficacemente se si avvale delle associazioni del terzo settore quini degli organismi intermedi. Questo vale anche per le esperienze che ha citato lei, anche il fatto, come ha visto, che non abbiamo remore talvolta anche ad aprirci sull’espletamento di procedure anche molto complicate quello che può essere il contributo che ci viene dalla società civile, io credo che sia fondamentale avere vissuto anni in cui qualcuno ideologicamente metteva in discussione quello che era il ruolo delle comunità intermedie e della disintermediazione. Il rapporto diretto da chi esprimeva il vertice, questa cosa è passata pure per considerazione l’articolazione dello Stato dal punto di vista filosofico politico qualcuno intendeva cioè che in qualche modo il governate di turno potesse interloquire direttamente con i cittadini questo forse nell’illusione del momento storico della diffusione dei social media, che in qualche modo dal punto di vista comunicativo hanno creato questa disintermediazione, ma per temi complessi nessuno stato, nessuna organizzazione statuale, nessun governo, nessuna formula di governo può prescindere dalle quelle che sono le organizzazioni sociali. Quindi l’intermediazione significa arrivare meglio negli interstizi della vita civile, della vita sociale, percepire i bisogni. Uno dei vanti del Ministero dell’Interno è di essere centralista, ma avere una forte articolazione territoriale fatta dalle prefetture, dalle questure, e dalle altre articolazioni. Ma le prefetture mettono a disposizione del contesto territoriale tavoli di concertazione che differenziano la percezione del bisogno, ogni territorio ha il suo bisogno, quindi fare un’offerta differenziata, creando meccanismi di incrocio tra l’offerta della società civile e il contributo sempre importante di governo e delle istituzioni di governo. Questa formula si è rivelata vincente nonostante le discussioni degli anni passati. Chiudo rispondendo alla domanda: le esperienze che ha citato possono sembrare molto varie. Io ho avuto una carriera fortunata. Non credo che sia di molto interesse, ma faccio riferimento alla mia provenienza perché sono irpino, come il dottor Picariello, e ne siamo entrambi orgogliosi. Sono nato a Napoli perché mia madre era napoletana, e un’altra gran parte delle mie origini di cui sono orgoglioso. Inoltre, la gran parte del mio impegno istituzionale e lavorativo si è svolto in Emilia-Romagna, che considero una mia terra di adozione. Parte del mio cuore è rimasta qui. Non giudico me stesso, ma tutto ciò che di buono ho imparato nella vita l’ho imparato qui. Non so che giudizio possano dare gli altri. Questa è una terra straordinaria fatta di inclusione, valorizzazione delle esigenze di ognuno di trovare un proprio ruolo nella società. Ho imparato questo qui. Non so se ho rispettato i tempi, mi posso fermare.
Picariello. Sì, la velocità di tutti gli interlocutori ci dà la possibilità di fare un nuovo giro di tavolo senza il tavolo. Siamo tutti d’accordo sul fatto che quando gli esseri umani e le loro formazioni sociali agiscono in grande collaborazione, si possono ottenere grandi risultati. Sappiamo che anche nell’epoca del ventennio c’erano le corporazioni, una realtà che in qualche modo andrebbe persino riscoperta, ma non in quella formula. Il CNEL, per esempio, è una valorizzazione di queste formazioni sociali, ma il punto è: il punto è quello che stiamo cercando di sviluppare oggi, la collaborazione fra istituzioni. Allora veniamo alla parte un po’ più delicata, ma vi chiederei di collaborare. In questo spirito molto costruttivo, tipico del Meeting, ma anche di questo incontro, in cui è chiaro per tutti che stare sul pezzo insieme, società civile e istituzioni, può essere molto costruttivo. Penso, Ministro, che lei condivida questa idea. Penso che uno dei luoghi istituzionalmente più gratificanti sia proprio il Viminale. Non parlerei di potere, parlerei di potenzialità, che questo Ministero ha, e che sono sterminate attraverso le sue articolazioni, come lei ha ricordato. Proponendo dalle vostre esperienze autorevoli e diverse, ma convergenti verso il bene comune, cosa si può fare per migliorare questa collaborazione? Naturalmente, penso che tutti leggiamo i giornali e sappiamo che in questa estate, forse anche su quest’onda, il prefetto Piantedosi è uno sportivo, e su questo successo della pallavolo viene fuori che bisogna rompere anche qualche tabù, lavorare a un’integrazione più facile, ma nello stesso tempo più, come dire, non d’emblée. Ci vuole forse un nuovo intervento legislativo in questo senso? Come si può migliorare la collaborazione fra le istituzioni e la società civile? Lo chiedo innanzitutto a Sinigallia.
Sinigallia. Non puoi chiedermi di parlare di legislazione, però.
Picariello. La legislazione no, ma delle esigenze della società civile sì.
Sinigallia. Sicuramente, come dicevo, ci sono le quattro colonne, bisogna collaborare. È fondamentale la prevenzione, come abbiamo detto, perché ci sono, per esempio, un grande problema sono gli sfratti esecutivi per morosità incolpevole. 33 mila sfratti in Italia, a Milano 300 al mese, sono 10 sfratti esecutivi al giorno solo nella città di Milano. È un problema enorme a livello di welfare economico. La collaborazione va fatta con chi ha il potere legislativo, con chi gestisce il territorio, per far sì che 33 mila persone non perdano la casa. L’istruzione è sicuramente fondamentale. Senza istruzione, senza il senso civico delle persone, esiste solo il vincere-vincere, che nell’ambito sportivo non esiste perché c’è sempre uno che arriva primo. Nella relazione sociale non può esserci uno che vince e uno che perde; ci può essere solo il vincere-vincere. Per fare questo bisogna uscire dalla parte istintiva e rendersi conto dell’altro, cioè passare dall’io al noi, e poi riuscire a passare anche all’altro da noi. Abbiamo intitolato la mostra “Per chi esistono le stelle”, allora saremo tutti armonicamente un tutt’uno. Non posso addentrarmi su cosa bisogna fare, dico solo che bisogna avere empatia con l’altro, che è il fondamento del nostro lavoro quotidiano: capire l’altro, capire cosa vuole, capire di cosa ha bisogno, prefigurare un percorso e monitorare questo percorso. Perché non basta la prefigurazione, bisogna fare così. Se poi non monitoriamo il percorso, non mettiamo degli argini e non vediamo anche il fattore tempo, rischiamo di avere un bellissimo processo che però non può reggere a livello economico di welfare. Per cui ritorno all’immagine della rete iniziale: se non si fa rete tra tutte queste esigenze non si può, ma fare rete vuol dire seguire non i buchi della rete, ma i fili della rete. Spesso si dice “facciamo rete”, ma la rete è piena di buchi. Noi dobbiamo seguire i fili della rete e capire dove non cadere, perché a livello legislativo ci sono cose che si possono condividere, ma poi nella pratica, come si diceva, non funzionano. Per cui il monitoraggio è fondamentale. Noi siamo una fondazione, ma siamo un’azienda, e se non monitoriamo tutti i nostri processi, se non controlliamo la tempistica e non rendicontiamo alla fine ciò che abbiamo fatto, rischiamo di cadere nei buchi della rete.
Picariello. Grazie. Nel discorso che faceva Ceresa, mi colpisce moltissimo questo approccio culturale sull’integrazione. Culturale inteso ancora una volta, sarei per dire che c’entra anche la bellezza: il fatto che un quadro, per funzionare, deve essere visto nel suo insieme. Questo doppio lavoro dell’integrazione non è un indottrinamento, ma un lavoro reciproco di conoscenza che favorisce l’integrazione e la sicurezza. Voi che agite a un livello in cui il rapporto con le istituzioni è molto importante, mi aspetto qualche suggerimento in particolare sul tema della cittadinanza, altrimenti non facciamo lavorare i miei colleghi giornalisti che stanno ascoltando.
Ceresa. Penso che sia importante ascoltarsi a vicenda e capire quali sono gli obiettivi di ognuno di noi. Non bisogna sempre dire agli altri cosa dovrebbero fare, ma dedicare del tempo a capire cosa possiamo fare noi. E poi bisogna lavorare assieme per raggiungere gli obiettivi, che possono essere molto ampi, molto grandi, oppure molto semplici e tangibili. Per quanto riguarda la cittadinanza, devo essere sincero: quello che interessa a me non è l’unica cosa che conta; devo sempre pensare che non posso lavorare solo per i miei interessi, ma anche per quelli delle altre persone, delle aziende. Se penso agli ospedali, mi dicono “ho bisogno di infermieri, altrimenti chiudo i reparti, e se chiudo i reparti, chi è malato lo devo mandare via”. Allora devo pensare al loro interesse. L’interesse dell’infermiere è avere un lavoro decentemente pagato, che non richieda di lavorare sette giorni su sette per tante ore. L’interesse dello Stato può essere quello di avere uno Stato ben organizzato e sicuro. Quello che dobbiamo fare è capire gli interessi di tutti e fare delle cose che soddisfino gli interessi di tutti. Penso sia possibile, e penso che noi italiani possiamo farlo perché abbiamo questa cultura dell’accoglienza e del lavorare assieme, che è molto più forte di quanto si pensi. Se vai a lavorare in altri paesi ti rendi conto che la nostra società civile è avanzata rispetto ad altre, che magari hanno un’immagine di società avanzata, ma in realtà non lo sono. Quindi, cosa dire? Lavoriamo assieme, mettiamo chiari gli obiettivi di ciascuno e poi lavoriamo assieme per raggiungerli.
Picariello. Siamo all’ultimo intervento, di nuovo in causa il Ministro Piantedosi. Credo che avevamo l’intento di avere un approccio molto pragmatico, poco ideologico, su temi delicati e attuali, e soprattutto su temi anche drammatici. Mi pare che sia prevalso un approccio non direi ottimistico, perché l’ottimismo ha poco a che vedere con il realismo, ma cerchiamo di stare alla realtà con il cuore aperto alla speranza. Perché senza la speranza non si inizia neanche la giornata. Mi pare che siano emerse delle proposte. Non chiedo al Ministro, perché è un dibattito che chiama in causa il Parlamento e le forze politiche, e men che meno posso chiederlo al Ministro tecnico, quale sia la sua posizione sulle varie possibilità della cittadinanza. Tuttavia, sono convinto che dal punto di vista tecnico, di uomo che conosce questi problemi concretamente, si possa quantomeno rompere il tabù e parlare di un modo per acquisire la cittadinanza meno farraginoso, che dia certezza a chi deve lavorarci sopra. Quali sono, dal suo punto di vista, le esigenze di cui tener conto? Devo dire che ho molto apprezzato il discorso che non l’approccio non può essere solo economico, perché sembra quasi di essere nello schiavismo illuminato. Non possiamo limitarci all’approccio economico, perché poi c’è il discorso dei ricongiungimenti e tutto il vissuto di queste persone. Gli interventi che l’hanno preceduta hanno marcato il fatto che ci si debba conoscere, aprirsi, e ritrovarsi nell’idea che siamo tutti esseri umani. Non è una banalità, ma mi pare una cosa che tanto banale non è. Rompere un po’ di tabù e il discorso economico, che pure è venuto fuori, può essere il segnale che certi tabù forse è l’ora di superarli. Da Ministro dell’Interno, come si può fare un passo avanti in questa direzione? Cerchiamo di dare anche una risposta che sia in linea con il dibattito di questi giorni, senza che lei si debba sbilanciare più di quanto le è consentito.
Piantedosi. La ringrazio per la domanda e per la sensibilità. Non ho problemi a partecipare alla discussione; le forze politiche che si esprimono in Parlamento esercitano la loro sovranità, e questo vale per chiunque. Anche le macchine migliori, più belle, che funzionano bene e vanno veloci, necessitano di un tagliando ogni tanto. Voglio chiarire subito che, se questa discussione serve ad aggiornare il panorama delle valutazioni che un Paese come il nostro deve fare su questo tema molto importante dei nuovi cittadini, cioè della cittadinanza, e dei processi di integrazione nella loro massima espressione, che sono dietro l’Istituto della concessione della cittadinanza, va benissimo e va fatto. Non so se lo dico perché sono tecnico, perché sono abituato comunque sempre a legare a elementi di logica le valutazioni, ma credo che vada fatto. Questa discussione deve essere scevra da condizionamenti ideali o addirittura ideologici, come ha detto lei. Per esempio, bisogna partire da un dato: la nostra legislazione è quella che consente il maggior numero di concessioni in tutta Europa. Questo va detto. I dati sono pubblici, sono su Eurostat. Nella sequenza decennale siamo il Paese al primo posto per concessioni in termini assoluti di cittadinanza, un numero ancora più importante se rapportato alla popolazione residente complessiva e ai cittadini stranieri residenti. In alcuni casi, arriviamo addirittura a quasi il doppio rispetto a paesi importanti come Germania e Francia. Quindi, non abbiamo un quadro di chiusura totale nella nostra attuale legislazione.
Picariello. Se posso interrompere, però se non creiamo un percorso legato anche all’istruzione, cadiamo nell’errore di dare un percorso solo legato al lavoro.
Piantedosi. Le do una notizia tecnica. Pochi sanno che, per esempio, nel nostro ordinamento, l’articolo 4 della legge che disciplina la cittadinanza, prevede addirittura uno spunto di ius soli, perché è concessa la cittadinanza allo straniero nato in Italia, che vi abbia vissuto ininterrottamente fino al compimento del 18° anno di età. Premesso che, contrariamente a quanto ho letto su qualche organo di stampa oggi, non è vero che su questo tema ci siano istruzioni perché questo meccanismo di ricostruzione della permanenza sia molto rigoroso, anzi, sono state aggiornate di recente le istruzioni date alle prefetture e agli organismi interessati. Va considerata l’effettività del periodo di permanenza, anche a prescindere dalle ferie trascorse altrove, da qualche anno di interruzione, o dai genitori che se ne sono andati. Le dirò di più: tra gli elementi valutati per la ricostruzione di questo periodo trascorso c’è anche il completamento del ciclo scolastico. Non è normato, ma è in qualche modo già previsto che i 18 anni trascorsi qui dalla nascita, con una frequenza scolastica proficua, che testimonia una permanenza sul territorio nazionale, sono già un elemento di valutazione della nostra normativa. Dico questo non per contraddire o esprimere contrarietà ad alcune espressioni del dibattito, ma per dire che questo è un dato di fatto da cui dobbiamo partire. Faremo meglio probabilmente a concentrarci su quale sia il vero fabbisogno di integrazione aggiuntiva, su quale realisticamente puntare in maniera più specifica, più mirata, rispetto a ciò che il nostro sistema, che lo ripeto, è quello che concede più cittadinanze da oltre dieci anni in Europa. Per cui le rispondo facilmente dicendo che, se la discussione che è stata sollevata deve servire ad aprire una valutazione anche tecnica, su temi così importanti, i valori ideali sono fondamentali. Il fatto che dietro queste persone ci siano persone che meritano ogni attenzione possibile, è un dogma che mette insieme tutte le culture politiche presenti nel nostro Parlamento. Farlo alla luce di dati concreti, realistici, potrebbe aiutarci non a negare il problema, ma a fare qualcosa di più mirato e importante, per soddisfare le nostre esigenze. Come si è visto da questa discussione, l’esigenza di massima integrazione delle persone che arrivano è importante, economica, ma non solo; anche alloggiativa, culturale, di adesione. Si è citato l’esempio delle Olimpiadi: la cosa più bella non è solo vedere una squadra nazionale multiculturale e multietnica, ma vedere il modo in cui si festeggia insieme, si canta l’inno nazionale. Dobbiamo partire da questo. Cosa serve per accentuare e completare un percorso che io ritengo l’Italia abbia già iniziato? Non rivendico i meriti di questo governo, perché la legge è stata adottata negli anni ’90, ma che di fatto ha portato a questi risultati.
Picariello. Ecco, io ringrazio il Ministro. Spero di riassumere bene che se le forze politiche e il Parlamento producono un risultato scevro dall’ideologia e orientato al bene comune, il Viminale è pronto a collaborare e a dare il suo contributo. Non avevo francamente dubbi in questo senso, ma è un bel risultato. A conclusione posso soltanto dire che in qualche modo abbiamo adempiuto alla ragione per cui è nato il Meeting per l’amicizia fra i popoli. È un Meeting che punta innanzitutto all’amicizia fra i popoli sul suolo italiano, ma anche a portare la discussione sui temi orientata al bene per l’uomo e della comunità nazionale, quindi una discussione orientata al bene comune. Mi pare che abbiamo dato un piccolo contributo in questo senso. Se le forze politiche avranno la forza di lavorare per il bene comune, senza alzare ciascuna le proprie bandierine, mi pare di capire che ci siano margini per lavorare in questa direzione. Naturalmente, questo mi consente anche di dare l’ultimo avviso: il Meeting, che permette questi piccoli miracoli, come quello che abbiamo visto oggi della collaborazione fra le istituzioni, rompendo quelli che sembrano essere tabù invincibili, non lo sono. È un’esperienza che va avanti anche con il contributo di ciascuno di noi. Mi tocca dirlo, ma lo dico volentieri: ci sono i luoghi in cui contribuire. Questo è un piccolo miracolo che dura da 45 anni, reso possibile da persone che lo rendono possibile. Ricordo sempre i 3000 volontari. Ministro, ho incontrato un mio amico, che è un tassista a Milano, che mi ha raccontato che un suo cliente gli ha chiesto quanto gli danno per lavorare al Meeting. Lui ha risposto: “No, non solo non mi danno niente, ma pago io per potervi partecipare”. Questo è il miracolo del Meeting e questo è il miracolo che rende possibile aprire dei piccoli cantieri. Spero che in qualche modo abbiamo dato un piccolo contributo oggi, per il bene comune, per costruire una società più giusta e più umana. Grazie a tutti.