Chi siamo
Cybersocietà e civiltà dell’uomo
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Maria Chiara Carrozza, Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR); Mauro Magatti, Professore Ordinario di Sociologia Generale presso Università Cattolica del Sacro Cuore, Editorialista Corriere della Sera e Avvenire; Luciano Violante, Presidente emerito Camera dei Deputati, Presidente della Fondazione “Leonardo. Introduce Andrea Simoncini, Vice Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli ETS, Docente di Diritto Costituzionale all’Università di Firenze.
Il prefisso “cyber” ormai sta travolgendo tutto: cybersocietà, cyberstato, cybersicurezza… Cyber è l’abbreviazione inglese di “cibernetica” che a sua volta deriva dal greco Kubernetikè (techne), l’(arte) di governare la nave, da cui il verbo greco kubernao, guberno in latino, governare. Oggi la tecnologia non è più solo uno strumento della volontà umana, non si limita più a realizzare quello che abbiamo deciso, ma viene utilizzata per “decidere”. Ogni giorno ci rivolgiamo a sistemi tecnologici per sapere cosa è successo o cosa fare; dunque, sempre più siamo “governati” da algoritmi e software. Che spazio c’è ancora per la civiltà dell’uomo? È una lenta ed irresistibile resa alla forza della “supersocietà” oppure c’è spazio per un nuovo protagonismo dell’uomo, della sua capacità di studio, di ricerca, di conoscenza? Quale futuro ha la nostra passione per l’uomo nella società algoritmica?
Con il sostegno di Intesa Sanpaolo, Università Cattolica, Tracce.
CYBERSOCIETÀ E CIVILTÀ DELL’UOMO
Andrea Simoncini: Buonasera, benvenuti a tutti a questo incontro, a questa conferenza all’interno del Meeting di Rimini 2022. Il tema di questa sera è Cybersocietà e civiltà dell’uomo. Vorrei subito presentare gli ospiti che ci aiuteranno a riflettere su questo tema che, come dice lo stesso titolo, vuole accendere i riflettori su un fenomeno travolgente, su un fenomeno che sta coinvolgendo tutti. Questa trasformazione digitale del contesto della società, dell’economia, della scuola e ovviamente mettere in connessione questo tema con il tema del Meeting: una passione per l’uomo. Di qui, cybersocietà e civiltà dell’uomo. Come questi due punti fermi, come questi due valori, come queste due realtà oggi possono vivere assieme. Dicevo, comincerei subito presentando i nostri ospiti. La prima, la presento, sta per arrivare; ha avuto un po’ di problemi sull’autostrada, ma la presento lo stesso perché sta arrivando proprio a minuti, è la professoressa Maria Chiara Carrozza, che è professore ordinario di Bioingegneria industriale presso l’Università Sant’Anna di Pisa, ma come sappiamo tutti negli ultimi anni è stata deputato della Repubblica, ministro e, attualmente, è presidente del CNR del Consiglio Nazionale delle Ricerche italiane. Io farei un applauso sapendo che Maria Chiara sta per arrivare.
Alla mia destra estrema, senza per carità nessuna accezione, perché non vorrei innescare subito delle polemiche, il Prof. Mauro Magatti, professore ordinario di Sociologia Generale all’Università Cattolica del S Cuore, notissimo editorialista del Corriere della Sera, di Avvenire e scrittore di tanti, tantissimi volumi che spesso qui al Meeting hanno, come dire, alimentato la nostra discussione, in particolare direi l’ultimo “Supersocietà, ha ancora senso scommettere sulla libertà?” ci conduce proprio subito al cuore. Terzo e, come si dice sempre, non in termini di valore, è Luciano Violante che è stato magistrato, Deputato, Presidente emerito della Camera dei Deputati, attualmente Presidente della Fondazione Leonardo e direi, ormai da un po’ di anni, un grande amico e compagno di strada nell’avventura del Meeting, con il quale abbiamo, come dire, cercato di mettere a tema gli snodi e i punti cruciali, come discussione, come fattore emergente nel dibattito e nella vita che viviamo. Allora cybersocietà, civiltà dell’uomo, oggi un po’ tutto è cyber. Ci avete fatto caso, c’è il cyber stato – cyberstate normalmente all’inglese, cybersociety, cybersecurity, tutto sta diventando cyber e per introdurci volevo provare a partire proprio da questa parolina. Cyber è la inglesizzazione, l’anglofonizzazione di cibernetica, viene da cibernetica che è un modo, un termine, oggi forse un po’ desueto. Negli anni ‘70 e 80 ha avuto una grande esplosione, nei tempi più recenti va più di moda digitale, algoritmico, informatico, eppure tutto comincia con questa parola, con questo termine cibernetica. La storia è una storia interessante. La parola, proprio il termine, la scelta di questo termine per indicare quel tipo di scienza, di tecnologia di cui parleremo tra un attimo, si deve ad uno studioso di famiglia ebrea, polacca di origine, ma nato negli Stati Uniti, si chiama Norbert Wiener, che nel 1948 scrive un libro con questo titolo Cibernetica, e lo inventa, è il primo ad usarlo. Questo Wiener è un personaggio fantastico, è tutt’ora lo studente più giovane che si è iscritto nelle Università americane, lui si è iscritto all’università a 11 anni e ha cominciato studiando, interessante, zoologia e biologia, poi ad un certo punto, questo è possibile nel sistema educativo americano, si è innamorato della logica, della matematica e quindi dalla biologia e dalla zoologia è passato alla matematica e ha incontrato Bertrand Russel che è stato uno dei più grandi matematici del secolo scorso, e, se i fari non mi fanno veder male, è arrivata la professoressa Carrozza, Presidente del CNR. Grazie Maria Chiara. Eravamo proprio alle battute d’esordio. Allora dicevo personaggio molto particolare perché comincia studiando la zoologia e la biologia, cioè il comportamento degli animali e poi però finisce studiando la logica, la matematica e appunto, torna negli Stati Uniti al MIT nel 1948 scrive questo libro La cibernetica, da cui appunto cibernetica e questo termine cyber che nella sua versione inglese sta tracimando. Qual è l’ipotesi di fondo? Ora, detta in maniera, la professoressa ci scuserà forse l’ipersemplificazione, però l’ipotesi di fondo è questa: al fondo, sia le macchine che gli organismi viventi, compresi gli esseri umani, hanno un meccanismo di funzionamento analogo. Sono sistemi, che sono inseriti in un certo ambiente, ricevono stimoli da questo ambiente, elaborano delle risposte, si comportano conseguentemente, l’ambiente reagisce di nuovo al meccanismo del cosiddetto feedback, sulla base di questo ricomincia questo processo di controllo, e così aggiornano, approssimano, imparano in qualche modo. L’intuizione è che, al fondo, questo meccanismo di fondo stimolo, controllo, feedback, reazione, possa funzionare sia per spiegare il comportamento delle macchine, sia per spiegare il comportamento degli organismi viventi. Ora questa intuizione aveva bisogno di un nome, perché non c’era questa intuizione e Wiener si rivolge al greco, perché in greco kybernao vuol dire l’arte del timoniere, quello che guida la nave, colui che guida e da qui gli viene l’idea kybernao Kybernos, cibernetica. Cioè lui dovendo inventare il nome per questa ipotesi scientifico-tecnica che poi ha avuto conseguenze formidabili, fa riferimento a questa idea del guidare la nave. Ora perché mi aveva colpito questa osservazione, perché i latini, dalla stessa radice, kybernos, derivano gubernum, cioè governo, cioè c’è qualcosa in comune tra questa ipotesi per cui problemi complessi, estremamente complessi, come ad esempio l’intelligenza, come ad esempio la decisione, come prendere una decisione, problemi estremamente complessi possono essere ridotti ad una serie di problemi più semplici, che a loro volta possono essere automatizzati, possono essere fatti fare da macchine. Scusate, forse, una certa semplificazione che ho usato, però è questa un’intuizione formidabile perché da questa intuizione si è sviluppata non soltanto, come dire, il primo filo diretto con la cibernetica di quegli anni ‘50, ‘60 che è tutto lo sviluppo digitale, informatico e scienza e tecnologia della comunicazione, ma anche la genomica, anche le neuroscienze, è diventato un grande principio. E allora qual è il punto, qual è la domanda su cui vogliamo muoverci, che questa ipotesi soprattutto attraverso la diffusione di internet, di strumenti che poi producono dati e si appoggiano su sistemi di controllo e comunicazione analogia questi che abbiamo visto stanno diventando diffusissimi, stanno diventando cose di uso comune ma attenzione e qui passo subito ai nostri relatori, ma qual è la novità sostanziale? Che noi siamo stati abituati a pensare alla tecnologia come a un mezzo che io ho già deciso. Io decido cosa fare, dopodiché mi avvalgo di uno strumento per fare meglio, più accuratamente, quello che ho deciso di fare. Il problema è che queste nuove possibilità tecnologiche consentono di fare anche un’altra cosa: non solo di usare la tecnologia per fare ciò che ho deciso, ma usare la tecnologia per decidere, cioè per scegliere, per fare quelle operazioni complesse di cui parlavo prima. È chiaro che così comincia a crearsi un tema, e il tema è: che spazio rimane per la libertà? La concentrazione di questi strumenti tecnici in poche mani pone un problema di potere, cioè di capacità di influire sulle posizioni altrui unilateralmente. Pone tante domande, che noi vorremo stasera, avvalendoci di amici e relatori così prestigiosi, poter affrontare. Il primo da cui partire dopo questa mia introduzione un po’ generica è questo, e vorrei partire proprio dalla professoressa Carrozza, dalla presidente del più grande istituto di ricerca del nostro paese. Io ho dato una definizione un po’ generica di questo fenomeno, ma questa trasformazione digitale, questo cambiamento di scena al quale noi assistiamo, cos’è realmente? Di cosa stiamo parlando? Perché il primo modo per poter usare correttamente qualcosa è conoscerlo. E dunque, a che livello siamo, a che punto siamo sulla conoscenza, sull’educazione, sulla formazione, sulla ricerca? Questa trasformazione come vede l’Italia? In questa prima battuta, che non abbiamo avuto modo di organizzarci prima ma cercheremo di tenere sui dieci minuti così possiamo fare due giri, io le chiederei qual è lo scenario in cui ci stiamo muovendo? Questo scenario che verso una società sempre più cyber, quindi una società in cui l’uso di queste tecnologie diventa decisivo, fondamentale. A che punto ci vede come Italia? Quali sono le necessità, i punti fondamentali più importanti dei quali noi dobbiamo tener conto? Grazie ancora per essere arrivata e aver fatto un mega viaggio.
Maria Chiara Carrozza: Grazie, sono contenta di essere qua al Meeting di Rimini dopo qualche anno. Sono venuta qua da ministro, mi ricordo di aver incontrato tante ragazze e tanti ragazzi. È un piacere vedere la sala piena per interessarsi di questi argomenti. Penso che questo sia un tema molto molto importante. Comprendere la transizione digitale è infatti una sfida, per noi soprattutto che non siamo nati digitali, ma anche per i giovani oggi, comprendere a pieno tutti i meccanismi che stanno dietro all’utente finale, all’applicazione finale, le apparenti facilitazione che a volte arrivano sfruttando poi i nostri dati non è facile. Quindi io dire che prima di tutto ci muoviamo in un ambiente, in un mondo in cui ogni studioso e ogni scienziato definisce un po’ a modo suo quello di cui stiamo parlando. Quindi cibernetica è stato sia storicamente, come tu giustamente hai ricordato, sia da un punto di vista scientifico e tecnologico il termine cyber ha avuto tanti significati, anche per me stessa. La cibernetica alla Wiener, quella che ho studiato io, aveva anche l’obiettivo di riprodurre alcuni meccanismi dei sistemi biologici, sia meccanismi che stanno alla base della coordinazione senso-motoria, soprattutto relativamente ai sensi, la visione, l’udito, il suono, e poi anche al movimento. E l’idea era quella di riprodurli mettendo insieme ingegneri, biologi, neuro-scienziati, neurofisiologi, quindi molto interdisciplinare, e l’idea era “riproduco e quindi comprendo”. Questo meccanismo per cui riproduco un senso o una capacità di coordinazione senso-motoria e quindi comprendo negli anni si è dimostrata un’illusione. Però sicuramente c’è tutta una modellistica anche neurofisiologica che parte dal concetto di riprodurre il sistema vivente, che poi ha avuto anche ramificazioni scientifiche importanti, perché molti aspetti di neurofisiologia si sono approfonditi studiando gli elementi biologici come la drosofila o altri esempi di organismi biologici, cercando di capire nel semplice, quindi semplificando il più possibile organismi semplici, in modo da comprendere poi la natura del controllo motorio o la natura dei sensi. Questa è una parte molto importante, anche se bisognerebbe parlarne più approfonditamente per capirne anche i limiti che ha. La seconda parte, la cybernetic come l’ho studiata io, cioè la mano cibernetica. Io ho studiato per anni la protesi di arto cibernetica, ovvero l’idea che il cervello umano dovesse poter controllare un arto artificiale, da qui il termine cyber usato anche per la navigazione e il controllo, ripristinando la connessione tra i sensi della mano artificiale e la percezione, che poi è un livello alto percettivo. La percezione nel nostro cervello non è attraverso il feedback sensoriale che viene da un oggetto artificiale. Quindi l’integrazione tra naturale e artificiale, che è stato per anni il mio tema di ricerca. Quindi se voi interrogate a caso cinque scienziati avete una definizione sempre leggermente diversa, questo è il primo tema. Però, oggi, cyber si intende lo spazio dove l’informazione circola perché fluiscono i dati, quindi è uno spazio aggiuntivo, uno spazio diverso, tant’è vero che c’è la guerra nel cyberspace, si parla di un nuovo spazio oltre a quello del mare, dell’aria, della terra e dello spazio extra-atmosferico, c’è il cyberspace dove circolano dati in forma diversa, ma in forma digitale. Questi dati vengono manipolati, utilizzati, poi però il riflesso del cyberspace sul nostro spazio è immediato e può essere importante, perché nel cyberspace possono circolare anche le nostre informazioni più private, oppure possono circolare le nostre informazioni finanziarie e certe decisioni anche finanziarie oggi, per esempio, vengono prese automaticamente in questo cyberspace, quindi ovviamente noi ci sentiamo incapaci di dominare quello che avviene nel cyberspace in maniera automatica. Però, per concludere questo mio primo intervento, molto dipende da noi insomma, e come vogliamo utilizzare il cyberspace. Adesso c’è il metaverso di cui si parla, che è un po’ l’estremizzazione del concetto, “andiamo anche noi a interagire con le altre persone nel metaverso”. Insomma, a me piace se devo farlo per motivi terapeutici o se c’è uno scopo preciso, ma lo scopo ludico può anche creare delle dipendenze da questo metaverso, che poi non è la realtà. Quindi il cyberspace è questo spazio, quindi ci si domanda se noi dobbiamo fare qualcosa per controllare quello che avviene in questo cyberspace che poi ha un riflesso reale, perché la finanza ha riflesso su di noi, sui nostri dati. Però ecco, si basa su un passo in più rispetto a quello di cui parlavamo prima “alla Wiener”, che è quello dei dati, cioè l’enorme quantità dei dati che circolano. Senza questi dati in effetti non ci sarebbero le decisioni, non ci sarebbe l’automazione delle decisioni dovuta all’elaborazione. Però non bisogna confondere l’automazione di un processo che simula o che si rifà a processi reali da cui poi estrapola processi, algoritmi, per cui è in grandi di riprodurre dei processi, con la comprensione. Automazione non è comprensione, perché alla fine l’intelligenza umana è ancora una dei misteri di questo secolo, uno dei misteri più profondi. Spesso si dice che la mente umana e lo spazio sono i due grandi misteri di questo secolo e ancora non abbiamo capito cos’è l’intelligenza. La possiamo riprodurre e quindi rendere automatici alcuni processi, ma sempre ispirandoci alla realtà, ma non è detto che la comprendiamo fino in fondo. Forse oggi possiamo dire che in Italia stanno partendo, con il PNRR, una serie di progetti nazionali molto importanti, partenariati estesi che coinvolgono centri universitari, imprese, start up, enti di ricerca. Uno sforzo imponente con progetti di ricerca nazionali sulla cybersecurity, sull’intelligenza artificiale, sulle nuove telecomunicazioni. Quindi su questi temi è opportuno che i governi e i paesi investano per mantenere alta la ricerca. In Italia la potenzialità c’è, questi partenariati estesi adesso dovranno partire e penso che daranno una grande possibilità per il nostro paese di essere attori partecipi di quello che sta avvenendo a livello internazionale.
Simoncini: Grazie. La presidente Carrozza ha già colto e messo sul tappeto tante delle questioni decisive che volevamo evocare in questa discussione. Intanto colgo questa differenza tra saper riprodurre una cosa automatizzandola non vuol dire saperla comprendere o averla compresa, cioè lo si può fare senza comprenderla. Questa è una delle grandissime novità che questo mondo porta, la capacità di predire avvenimenti con una accuratezza altissima ma non perché abbiamo capito perché accada ma solo perché abbiamo una quantità di dati talmente grande che ci consente di inferire il fatto che accadranno e però, citava un’altra dimensione; con questa volevo passare a Mauro Magatti, cioè che questo sviluppo di… attraverso il cyber, il cyber è diventato un cyberspazio, una dimensione 3D, spazio, cioè un ambiente in cui ci si muove, capace di produrre anche nuove dipendenze. Io volevo chiedere a Mauro Magatti, un osservatore privilegiato, molto attento di quello che succede dentro la nostra società e non solo la nostra, cioè che cosa sta succedendo, che impatto sta avendo in termini di relazioni sociali? Il sottotitolo del libro che hai pubblicato “. Ha ancora senso scommettere sulla libertà ?” Questo fenomeno che abbiamo visto, che sfida pone alla libertà?
Magatti: Anch’io saluto il Meeting, sono contento di essere tornato, è sempre un’esperienza molto bella e viva. Ma io vorrei dire tre cose delle infinite che potremmo dire e questo solo un passaggio per noi, per tutti voi che siete qui, di una riflessione che dobbiamo continuare a svolgere perché viviamo un tempo accelerato in cui rischiamo di non fare in tempo a capire quello che ci sta accadendo. E la prima considerazione è questa che nei confronti della tecnologia, e questo vale anche per questa tecnologia digitale che usiamo come cifra sintetica di tante cose che stanno accadendo, è sempre seguire il consiglio che risale a Socrate e Platone che nei confronti della tecnica non va bene né avere un atteggiamento entusiasta -la tecnica ci risolverà i nostri problemi- né avere paura della tecnica. E Socrate e Platone ci suggeriscono di guardare alla tecnica come un farmaco (pharmakon) esattamente come una medicina che è sempre contemporaneamente curativa e velenosa, sempre. E non è possibile separare l’aspetto curativo, l’aspetto abilitante, l’aspetto capacitante dall’aspetto pericoloso, velenoso, che uccide e quindi è il modo in cui dobbiamo provare a star dentro questa gigantesca trasformazione, che ha a che fare con la digitalizzazione, che, ripeto, anche le nostre generazioni di nativi digitali necessariamente noi non riusciamo a capire quello che sta accadendo perché troppo grande, è troppo grande e troppo veloce e questo spirito di umiltà, sarebbe, e umiltà vuol dire “ sapere di non sapere” naturalmente, sarebbe bene averlo sempre e facendosi delle domande. Lo sguardo farmacologico nei confronti della tecnica vuol dire “ poniamoci delle domande”. Ecco a partire da questa considerazione, faccio il secondo passaggio che va nella direzione delle cose che tu mi chiedi. Qual è la grande novità? L’ha detto già la professoressa Carrozza: che noi siamo in grado di raccogliere, immagazzinare, elaborare trattare una quantità così elevata di informazioni che tendiamo, rischiamo di confondere questa nostra capacità con la conoscenza o addirittura con l’intelligenza e il pensiero. E questo, guardate, è un punto grande, un punto difficile. Faccio questo esempio. Al Gemelli di Roma hanno messo in memoria tutte le cartelle mediche degli ultimi decenni, per cui quando un medico ha lì davanti il suo paziente, adesso la facciamo facile, prende tutti i dati e le informazioni, mette i dati nel computer e intanto che ascolta quello che il suo paziente gli dice, l’intelligenza artificiale va ad esplorare tutte le cartelle cliniche, tutte le terapie che sono state utilizzate, e aiuta il medico, diciamo, a formulare la diagnosi e decidere cosa fare. Il che dice:” Ottimo! Perché non c’è più solo quel medico lì con la sua esperienza ma c’è tutto quel patrimonio lì”. Quindi questo va benissimo. Naturalmente a due condizioni: primo, che il medico non perda la sua capacità di dare peso, ascolto, rilevanza, di costruire la sua esperienza, di credere che la sua intelligenza medica personale va sempre sviluppata, che è giusto fidarsi della intelligenza artificiale che lo aiuta, ma c’è un punto di decisione che è il suo. E a condizione che il medico veda il paziente, lo veda ancora come un essere umano, non lo veda come un insieme di informazioni da mettere dentro alla macchina. Questo per rappresentare questa grande incertezza, ho fatto solo un esempio. Noi rischiamo di confondere le informazioni, il modo con cui le trattiamo, con la conoscenza e, già prima abbiamo sentito che naturalmente le cose sono un po’ diverse, addirittura tendiamo ad essere un po’ pessimisti sulla nostra intelligenza. “Vabbè Mauro Magatti, sarai anche abbastanza intelligente, ma in fondo sei un pirla. Cosa vuoi dire se quella macchina lì, tutte quelle informazioni lì, diciamo, dicono una cosa diversa”. Ecco allora qui dobbiamo molto lavorare e naturalmente dobbiamo molto lavorare su un tema che è molto semplice, molto banale, lo sapete tutti, che è il tema della formazione. Io spesso dico questa cosa, qualcuno me l’avrà già sentita dire, mi scuso se mi ripeto. Nell’Ottocento quando sapevano leggere e scrivere il 5% della popolazione i primi che hanno immaginato la scuola obbligatoria per tutti, li hanno presi per matti, li hanno portati al manicomio, perché era un progetto incredibile,” ma pagare gli insegnanti, costruire le scuole…”, allora rispetto al mondo tecnologico che stiamo costruendo, il livello di formazione, cioè di cura di cura della persona, che non è solo la scuola. Abbiamo un ritardo paragonabile a quello dell’Ottocento e dobbiamo capire che il tema dell’investimento sulla cura della persona, sulla formazione, non richiede 10 milioni in più nella prossima legge finanziaria, anche quelli, ma richiede un cambiamento di prospettiva, altrimenti questi sistemi ci travolgeranno, non c’è dubbio che ci travolgeranno; quindi questo tema “informazione, conoscenza, formazione”.
Ultimo punto telegrafico, se no sfondo i tempi, è che: riprendo una parola bruttissima, ma questi incontri servono anche per sentire delle parole nuove che usa Bruno Latour, un collega francese. Lui dice: oltre gli esseri umani ci sono degli altri attori che lui chiama “attanti”, cioè delle cose che agiscono pur non essendo umani.
E questo è un punto di novità (in un certo senso c’è sempre stato, ma lasciamo perdere). È un punto di novità, cioè noi troviamo davanti a un mondo in cui non esistono più solo esseri umani e istituzioni politiche che abbiamo costruito. Siamo in un mondo in cui delle decisioni, o delle azioni addirittura, vengono prese da dei sistemi, appunto lui li chiama “attanti”, che hanno delle loro logiche. Allora la cosa più semplice, perché se no veramente parlo troppo, è quando si sente dire: “È la legge del mercato”, che, diciamo, è la legge del mercato… c’è un sistema boh, che io non conosco tanto, ma cui devo obbedire a quella cosa lì. Allora qual è il punto? Il punto è che la società che stiamo costruendo rischia di mettere in discussione gli spazi della nostra responsabilità individuale e collettiva. Rischiamo di cedere pezzi del nostro essere umani in quanto esseri capaci di assumerci la responsabilità di quello che facciamo, delle decisioni che prendiamo, e questo naturalmente apre la questione di cosa sarà la libertà nella società che viene. Ho detto prima: io ho uno sguardo farmacologico, non bisogna essere facilmente entusiasti né aver paura della tecno. Dobbiamo aiutarci a pensare.
Simoncini: Mauro Magatti ci ha, come dire, ha già aperto in maniera molto ragionevole quello che vorrei fosse anche un secondo giro di interventi sul tema della responsabilità educativa che noi abbiamo rispetto a questo, quindi sicuramente andremo su questa direzione. Lo spunto che lui ha dato aiuta molto la nostra discussione ad andare verso un atteggiamento propositivo, costruttivo. Volevo però completare questa prima parte in cui vorrei stare ancora un po’ sul fenomeno per capirlo, completando con Luciano Violante questa parte della descrizione che è emersa, cioè tutti abbiamo detto che questi sistemi, nel modo in cui curano ma hanno in sé anche un elemento di pericolo, di potenziale pericolo. Io mi sentirei di sintetizzare così: tutti questi sistemi creano un potere, cioè definiscono una capacità di influsso sul nostro comportamento che non è più quello che abbiamo studiato da giuristi nell’Ottocento, o prima ancora, quando il potere da limitare era il potere del re, del militare, il potere fisico di chi ti costringeva, oppure dopo la Seconda Guerra Mondiale abbiamo scoperto che il potere poteva essere addirittura dello Stato stesso, con la legge. Qui è un’altra forma di potere, qui si influisce per esempio selezionando l’informazione. Oggi come facciamo a informarci su quello che succede nel mondo? Qual è il cabale normale? Google o un qualsiasi sito, o i social. Non è un caso che questi gruppi tecnologici di cui stiamo parlando sono le più grandi corporazioni per capitalizzazione di borsa del mondo in questo momento. Allora chiedo: c’è un profilo anche di potere coinvolto in questo sviluppo della società? Quali sono in questo sviluppo tecnologico, e se è così quali sono i limiti, gli strumenti, come affrontarlo? Anche da un punto di vista istituzionale. Quale deve essere il ruolo che deve avere un soggetto pubblico rispetto a queste… Comunque, come senti e come stai… anche perché presiedi la Fondazione Leonardo, stai continuando a studiare moltissimo questi temi, lo sappiamo direttamente; quindi, qual è la tua riflessione di fronte a questo tipo di evoluzione?
Luciano Violante: Buonasera, grazie per questo invito. Come dicevamo prima, venire qui è un bene per il cervello e anche un po’ per l’anima per il clima complessivo che si respira. Grazie per questo. Allora, io potrei cominciare a dire questo: ci hanno spiegato da tutte le parti che non esistono più i mediatori, che la nostra società è senza mediatori, facendo riferimento alle funzioni che hanno avuto i partiti, i sindacati, le associazioni nel passato, di soggetti che organizzavano la società e costruivano un rapporto tra i cittadini e le istituzioni. Non ci sono più i mediatori? No, e c’è in corso una re intermediazioni, ci sono nuovi mediatori che si chiamano Amazon, si chiamano Google e così via. Cioè soggetti che non sappiamo dove abitano, non sappiamo che indirizzo hanno, non sappiamo bene chi comanda, e però influiscono notevolmente perché tutta quanta la nostra vita è dentro, come ha detto prima Chiara, dentro lo spazio che creano questi soggetti. Cioè noi abbiamo la terra, lo spazio, il mare, il subacqueo, il digitale. Sono cinque spazi in cui la persona umana vive e si muove. Il digitale è creato, come ogni macchina, è creato dall’uomo, o dalla donna, dalla persona. però la macchina anche crea l’essere umano, perché incide sull’essere umano. Quando è stata inventata l’automobile era una sorta di giocattolo, poi è diventata essenziale per la vita, e oggi difficilmente possiamo fare a meno di una macchina che si muove da sol. Non sappiamo come funziona e come per il digitale se apro il cofano non sa bene cosa ci sia dentro. Però sappiamo che se giri la chiavetta o premi il pulsante se metti la marcia la macchina cammina. Per il digitale è un po’ lo stesso. È un ambiente. Ma cosa vuol dire che è un ambiente? Vuol dire che non è un puro strumento, è qualcosa in cui tu entri, entri perché il digitale è fatto di una serie di relazioni. Se voi cercate un libro dopo un po’ vi dicono quali libri potete comprare simili a quelli. Io l’autunno scorso, a me piacciono le castagne, ero andato a comprare le castagne al supermercato, ho pagato con il telefonino e mi è arrivato sul telefonino un messaggio che potevo comprare altre castagne nei supermercati lì attorno, e così via. Quindi questo digitale interagisce con me, mi fa entrare in uno spazio nel quale mi danno una serie di suggerimenti. I vecchi mediatori al massimo ti dicevano di andare a messa la domenica, o mi dicevano per chi dovevo votare, a quale sindacato iscrivermi, qualcuno mi chiedeva una piccola quota e poi finiva lì… Il nuovo mediatore, questi grandi mediatori… Io qui ho dei dati: pensate che Microsoft, Google e Amazon controllano il 64% del mercato infrastrutturale, Microsoft ha circa il 90% dei sistemi operativi. Insomma, sono dei monopolisti, dei grandi monopolisti che, a differenza di quelli del passato che erano monopolisti, ripeto, non sappiamo come si chiamano, non sappiamo che indirizzo hanno, non sappiamo se i vertici possono cambiare e quando possono cambiare. Ci danno un sacco di notizie, di informazioni, ci immettono in un mondo e noi diamo i nostri dati, spontaneamente. Se lo Stato ci chiedesse i nostri dati, cioè a chi scriviamo, cosa scriviamo, che cosa compriamo, che cosa mangiamo, ci sarebbero ribellioni per le strade. Ma noi lo facciamo ogni giorno e anzi contenti perché riceviamo un servizio in cambio. Allora, ci vuole una pedagogia, quello che dicevi prima tu Mauro, ci vuole un’educazione al digitale. E da questo punto di vista io voglio precisare una cosa. Dicevo prima: la persona umana crea il digitale e il digitale anche influisce sulla persona umana. In che senso? Io sono molto interessato a due cose. Primo: la vita umana ha bisogno di spazi di riflessione. Nel mondo religioso questo è la preghiera. Attraverso la preghiera cosa faccio? Mi astraggo dal resto e faccio una riflessione sull’al di là, sul futuro, su quello che ci sarà a seconda delle mie convinzioni religiose. Il digitale ha schiacciato questo perché è permanente. Guardate, quanti di noi riescono a stare senza consultare il telefono. Il pc, l’iPad eccetera? Perché? Perché il digitale ci toglie lo spazio della riflessione. Se volessimo dirlo in altri termini potremmo dire che ci toglie lo spazio, per chi ci crede, è la preghiera. E questo anche per un’altra ragione. Guardate, tutti questi meccanismi hanno iniziato a funzionare a inizio anni Novanta, prima degli anni Novanta non avevamo nessuno degli strumenti che oggi abbiamo. Non avevamo il pc, non avevamo il telefonino e tante altre cose. Quindi in trent’anni è cambiata notevolmente la nostra vita. Prima dei trent’anni c’era un reale immateriale, cioè che non si toccava con mano, che era il sacro. Il sacro era un reale immateriale. Reale, chi riteneva che ci fosse, ma non lo toccavi. Oggi il reale immateriale ce lo dà il digitale, quello che vediamo sui nostri schermi è reale, ma immateriale perché non lo tocchiamo. Allora ci sono state due forme di colonizzazione da parte del digitale: del nostro tempo, in termini di pervasività del tempo, e in termini di sacrificio del reale che non si tocca, di quello che ho, appunto, definito il sacro. Perciò ci vuole una pedagogia, perciò questi sono poteri. Perché questi ci danno continuamente cose da comprare, cose da vedere. C’è una réclame di una coppia che va in automobile e dice: “Dove andiamo?” e c’è quello che spunta, consulta il sito X e vede dove puoi andare, consulta il sito X e vedi cosa vedere e quanto puoi pagare e così via. Poi ti dicono cosa puoi comprare, perché noi siamo il mercato. Noi siamo soggetti che acquistano sul digitale. I soggetti che sono anche influenzati. Guardate, e finiscono, nell’opinione pubblica, nella tradizione democratica l’opinione pubblica è fondamentale, l’opinione dei cittadini, ma quando non è forzata, non è falsificata da informazioni false. Ma il digitale dà anche questa possibilità. C’è il capo dello stato maggiore russo che si chiama Gerasimov, due o tre anni fa ha cominciato a teorizzare questo: la guerra non si fa soltanto con i missili, i fucili, con le armi, si fa anche attraverso il digitale, attraverso la debilitazione dell’opinione pubblica dei paesi avversari, attraverso la falsa informazione e sappiamo che l’elezione dell’ex presidente statunitense Trump è stata fortemente condizionata dall’uso delle false notizie. Così come anche la Brexit, così come, credo, qualche elezione nel mondo europeo. Allora noi dobbiamo imparare l’uso del digitale. Ecco, qui siamo molto indietro. Nel senso che sembra che sia automatico. Automatico è imparare meccanicamente a usarlo, ma imparare pedagogicamente a usarlo siamo molto indietro, e io credo che questo sia un tema sul quale ci dobbiamo molto impegnare. Anche per recuperare spazi di riflessione, nostra. Guardate, abbiamo bisogno di momenti di pausa, di momenti riflessione su noi, sul nostro futuro, su quello che ci sta attorno e così via. E poi per recuperare un luogo dell’immateriale che non sia necessariamente quello che appare sui nostri schermi, ma quello che appare nella nostra mente se pensiamo a quello che viene dopo di noi. Ecco, io non vorrei che fossimo passati, come dire… che il metaverso occupi costantemente la nostra vita, che il digitale occupi tutta la nostra vita. Riserviamoci degli spazi per noi ecco, senza essere condizionati da questo tipo di macchina perché, ripeto, quella macchina l’abbiamo creata noi, ma quella macchina influisce anche sui nostri comportamenti. Quindi riservarci uno spazio nostro credo sia uno degli obiettivi che dobbiamo porci.
Simoncini: Queste osservazioni così puntuali e così interessanti su questo spazio per il sacro che oggi questa condizione di informazione continua tende quasi ad essere sempre riempito e questa sfida dell’educazione. Ecco io allora volevo ripartire in questo secondo giro, interpellando la prof.ssa Mariachiara Carrozza, professoressa di bioingegneria se non ricordo male al Sant’Anna a Pisa. Dunque direttamente coinvolta in questa attività educativa. Questa sfida che poneva adesso Luciano Violante. L’educazione cioè ad un corretto rapporto con la tecnica, con la scienza, con la conoscenza. Io parto da questa osservazione che mi è capitata in famiglia direttamente: bisogna studiare Napoleone. Ora, c’è Wikipedia. Io se devo sapere chi è Napoleone, quando è nato, quando è morto, cos’ha fatto di importante vado su Wikipedia. Quali sono argomenti convincenti per far sì che un ragazzo si metta su un libro, a studiare, a capire chi era, chi è eccetera. Io credo che dietro questa sfida ci sia davvero un grande tema di investimento sul tema dell’educazione. Perché occorre una forte motivazione perché il pregio di fornire informazioni in tempi velocissimi, già elaborate, certo col rischio che non le hai elaborate tu, però sono lì, già disponibili. C’è una grande pressione sul tempo. Allora dico, noi siamo dentro questa sfida, il PNRR ci dà delle grandissime opportunità, il sistema di ricerca deve evolvere e il CNR è sicuramente leader in questo momento, però anche tutto il sistema educativo. Quali potrebbero essere i principi di questa educazione al digitale?
Carrozza: Allora, è una domanda abbastanza difficile, in cinque minuti poi. Io penso, allora, la prima cosa, il primo punto importante è che quando arrivano all’università è già un po’ tardi. Prima di tutto l’investimento educativo deve partire fin dall’inizio del percorso scolastico. Questo è molto importante, non bisogna trascurare che la parte non strettamente connessa e non disciplinare è parte comunque fondamentale dell’istruzione, e quindi dell’educazione. Spesso la nostra scuola, con un approccio forse ottocentesco, ancora, riduce un po’ allo studio disciplinare e anche il modo, insomma non solo di organizzare i programmi scolastici, ma anche di selezionare gli insegnanti rende troppo appartenente a settori scientifici o a discipline, e quindi anche la formazione la schiaccia, la separa. Invece quello di cui oggi c’è bisogno secondo me è una visione unitaria del sapere. Questo lo dico perché al CNR noi abbiamo affrontato sei mesi praticamente in cui abbiamo scritto il nostro nuovo programma strategico, quello che noi abbiamo chiamato “Piano di rilancio” e, invece che fermarci sui temi amministrativi strettamente diciamo, che pure nella ricerca sono molto importanti, ci siamo concentrati sull’aspetto scientifico e sul tema dell’evoluzione del sapere. Oggi la bioingegneria, per esempio, prevede una visione unitaria di un campo che è biologico e quindi l’elemento biologico, clinico, fino a quello clinico-sanitario, l’elemento tecnico, ingegneristico, e quindi matematico, scientifico, devono avere una visione complessiva unica, una prospettiva che sia integrata. Quindi oggi tanta evoluzione anche della ricerca scientifica sta riportando l’importanza dell’interdisciplinarietà. Che non significa fare confusione fra settori, fra saperi, fra metodi analitici o fra metodi di studio e di analisi, ma significa riportare al problema scientifico. Il problema scientifico non è mai settoriale. È unico. prima si diceva l tema applicativo: il vaccino, il cambiamento climatico hanno bisogno di un’ottica multidisciplinare. Io penso, e sono una fra quelli che pensano che anche il problema scientifico non appartiene a una singola disciplina e quindi queste frontiere fra saperi vengono un po’ meno. Capisco che da un punto di vista burocratico-amministrativo, questo comporti uno sforzo notevole di re-immaginarsi il percorso, però è necessario farlo. Noi abbiamo provato a riorganizzarci internamente, però non ho tempo di parlarne e non ne vale neanche la pena in pochi minuti perché potrei darne una visione distorta. Non tutta l’evoluzione del pensiero scientifico, io quando parlo di pensiero scientifico includo anche il settore umanistico e quello delle scienze sociali, non tutta si può semplificare a livelli estremi, è complessa, e quindi necessita anche di una discussione complessa e anche di uno scontro tra diverse parti, diverse opinioni e posizioni per potersi evolvere.
Allora, la nostra scuola, secondo me, deve ritornare a reinventarsi perché ha un’organizzazione ottocentesca. Prima sentivo parlare della scuola primaria, la lotta all’analfabetismo. Al pianoterra del Ministero dell’Istruzione in Largo, in Viale Trastevere c’è una biblioteca molto bella sulla scuola italiana che, mi sembra, ora sia stata intitolata a Franca Falcucci e dentro ci sono gli schemi che usavano i pedagoghi dell’Ottocento, nella scuola dell’unità d’Italia, per calcolare l’analfabetismo, la percentuale di popolazione con analfabetismo e quanto la scuola italiana era riuscita a migliorare. Quindi, io quando sono entrata la prima volta, è bellissimo e mi piacerebbe che venisse aperta perché oggi noi dovremmo andare sull’analfabetismo digitale a fare le stesse misure. Infine un’ultima cosa. Napoleone, visto che l’hai citato, aveva un grande merito. In parte io sono di parte. Però aveva inventato l’école normale che era una scuola per preparare gli insegnanti e perché aveva capito che prima di tutto bisogna formare gli insegnanti, poi mandare gli insegnanti formati a formare gli studenti. Perché non proviamo a capire che per riuscire ad affrontare la transizione digitale noi dobbiamo fare una grande opera di formazione degli insegnanti che poi automaticamente formeranno i loro studenti, ma non la possiamo trascurare, c’è una grande emergenza educativa. E l’insegnante, io dico a tutti i livelli, in tutte le scuole di ogni ordine e grado, ha un grande bisogno di, appunto, riuscire a risincronizzarsi con la modernità e con l’evoluzione del pensiero scientifico. Nell’Ottocento c’era il tema della emergenza dello sviluppo del pensiero scientifico e poi la scuola francese ha fatto tanto in questo campo. Proviamo a ripartire da lì e anche a proporre una grande riforma della scuola che però parta da questo punto, senza le barriere disciplinari che distruggono, perché oggi non si può separare lo studio della biologia dallo studio della matematica. È impossibile. Così come insomma lo studio di tante materie, fra di loro sono talmente complesse, è una sfida complessa ma non tutto può essere semplice.
Simoncini: Grazie. Ringrazio particolarmente la professoressa Carrozza per questa risposta perché ha fatto un gesto di coraggio direi inusitato di questi tempi, cioè ha usato la parola complesso. È un problema complesso. Oggi c’è un, una delle conseguenze non volute di questo mondo digitale è che oggi tutto deve essere semplice. Sentitemi un politico che si azzarda a dire “È una cosa complessa”. Già la gente si è addormentata nel tempo della risposta. E invece ha detto secondo me una verità clamorosa, questo è un tema complesso proprio perché è serio. E quindi la ringrazio molto e la sua direttrice, cioè quella non c’è verso, per convincere un ragazzino a non guardare Wikipedia per la risposta, l’unica alternativa è un professore affascinante, un professore che insegni capace di muovere la tua libertà, la tua curiosità. Quindi sono molto grato per questo accenno e volevo chiedere proprio a Mauro di proseguire un po’ su questo. È stato lui che ha lanciato questo tema dell’educazione e gli volevo proprio chiedere, tra l’altro lui ha sempre usato una parola che qui al Meeting c’è sempre tanto piaciuta, la parola generazione. Cioè come si fa in un contesto così a essere generativi, cioè a creare novità, a creare nuova vita? Perché alla fine il problema dell’educazione è questo.
Magatti: Vediamo. Provo a prenderla così. Quando è caduto il muro di Berlino in Occidente abbiamo festeggiato, dicendo che quel disegno di costruire un mondo centralizzato, pianificato, dove la libertà umana sarebbe stata, appunto, ingabbiata in uno schema monolitico, aveva perso e abbiamo salutato la vittoria della democrazia, della libertà. Ecco, trent’anni dopo, in questo momento così pazzesco che stiamo vivendo, con le tensioni fortissime, dobbiamo prima di tutto capire che la questione della libertà, è stato detto anche durante l’incontro a cui ho partecipato questo pomeriggio, Gentiloni e Vittadini, presidente del Parlamento europeo, ogni generazione deve tornare da capo a porsi questa domanda della libertà. La questione della generazione è questo, cioè la questione della generazione, generatività su cui insistiamo da diversi anni, che il desiderio che tutti abbiamo di esprimere i nostri talenti di essere conosciuti di fare le cose belle si contraddice se non facciamo circolare ad altri questo desiderio e questa capacità di essere liberi e appunto la generazione è superiore alla produzione, la generazione è superiore alla produzione. La generazione naturalmente ci fa paura perché tu non lo domini l’altro, non lo controlli pienamente. Questo aggeggio qui ti dà la sensazione che sia sotto il tuo controllo poi non lo è, come ho sentito prima. E quindi ci rende tranquilli. Oppure quando noi abbiamo 500 amici su Facebook abbiamo 500 amici, ci stacchiamo ci attacchiamo quando vogliamo ma in realtà non ci sono quegli amici lì, non esistono. Allora il tema della generazione è il tema della libertà tra di noi è questo il punto, il punto per me cardinale, no, noi abbiamo troppo detto la libertà dell’uno. La libertà dell’uno rischia di consegnarci a nuovi sistemi centralizzati a nuoci sistemi di potere. Perché capite, in Unione sovietica là facevano ridere, “Quanta produzione avete fatto a Leningrado?” “100 quintali”. “Bene”, scrivevano sul taccuino. Era impossibile, una roba centralizzata nel secolo scorso era una roba impossibile. Oggi, invece, e guardando avanti ancora di più, la possibilità di poteri centralistici che con forme più subdole possano prendere un po’ il controllo dei nostri mondi stimolando la stupidità è un rischio reale. E allora la questione della libertà è una questione urgente, io poi sono ottimista l’uomo ce la farà, anche la donna naturalmente, ma a condizione, per me questo è fondamentale, a condizione che noi capiamo in profondità che la generazione, che non è solo generazione biologica naturalmente, no, la generazione è più importante della produzione anche dal punto di vista economico, anche dal punto di vista economico, se noi non investiamo su quel piano lì, non ce la faremo mai, mai. E però questo è difficile, eh, è difficile perché vuol dire cambiare un po’ tutto il nostro sistema di priorità. Pensate, chiudo su questo, pensate al grande tema della disuguaglianza, la disuguaglianza oggi non è semplicemente una questione di reddito, è anche una questione di reddito, ma la disuguaglianza, lo sappiamo, ci sono tante ricerche che ce lo dicono, ahimè si produce con dei percorsi che spesso cominciano quando tu nasci in un contesto devastato, in una famiglia devastata, in cui non sei messo nella condizione di diventare cittadino del mondo in cui ti capiterà di vivere. E lì dobbiamo recuperare tantissimo. Allora la frase retorica “La centralità della persona” che detto così non vuol dire assolutamente nulla è proprio un tema, capite, strategico. È il tema a maggior ragione nella società digitale. Se noi non rimettiamo al centro diciamo questa capacità e questa responsabilità di generazione non ce la faremo e le democrazie non ce la faranno, nel ventunesimo secolo non ce la faranno perché già si annunciano, no, da una parte e all’altra minacce a quella che era stata la vittoria dell’89 e, quindi, diciamo un’occasione come questa del Meeting credo che sia preziosa anche perché siamo in campagna elettorale per dire “Va beh, abbiamo capito che tutti faranno delle cose meravigliose ma diteci che cosa farete per prendervi cura delle persone, delle famiglie, dei territori, come facciamo per avere organizzazioni, imprese in cui si impara”. L’alienazione del lavoro è andare in un posto in cui tu non impari niente, in cui ti dicono “Esegui questa procedura”, questo è inaccettabile, le organizzazioni quelle pubbliche quelle private devono diventare luoghi di apprendimento continuo.
Simoncini: Grazie, grazie Mauro. Io chiederei a Luciano, col quale in un dialogo con lui è partita questa idea di dare questo tema e poi si è sviluppata, di proporci lui un punto di sintesi, tenendo conto nell’ordine con cui vorrà fare questa sintesi, tenendo conto di questo tema su cui mi pare abbiamo concentrato il secondo giro. Cioè, come dire, non può essere un’alternativa percorribile scappare dalla tecnologia, immaginare un futuro in cui ci sia una regressione su questo, questo è fuori dell’orizzonte. Però introdurci consapevolmente, responsabilmente a quali sono i principi, quali sono i punti dai quali non possiamo demordere per affrontare questa sfida.
Violante: Il digitale è un enorme strumento …positivo. Poi come tutti gli strumenti può essere usato bene o male, bisogna saperlo usare, questa è la questione devi saperti muovere in questo ambiente. Quando entri in una città nuova devi sapere dove andare, come andare, come ci si comporta in quella città ecc… Ecco io ho tirato fuori riflettendo su questa conversazione i 5 brevi principi, senza avere quell’ambizione di dire cose assolutamente giuste. Il primo è questo, bisogna dire a chi usa il digitale che bisogna verificare sempre le informazioni, essere informato non vuol dire conoscere. Sono due cose distinte, conoscere vuol dire aver avuto la capacità di elaborare quelle informazioni e di avere acquisito conoscenza. Guardate, durante il periodo del covid abbiamo visto, messe sullo stesso piano, la persona informata, il conoscitore e lo scienziato che sono tre soggetti diversi. Guai a confondere l’informazione con la conoscenza e con la scienza. Sono tre cose diverse. Ecco bisogna chi usa il digitale deve sapere che poi non deve fermarsi a quello che ha davanti. Secondo: tutto quello che metti in rete è eterno, è eterno, resta per sempre. E quindi la cessione dei tuoi dati è il prezzo che paghi per avere il servizio e sta’ attento a quello che metti in rete perché domani può essere usato contro di te. Terzo: è vietato il linguaggio d’odio, bisogna rispettare le persone, le cose e le istituzioni quando usi il digitale. Quarto: il digitale affascina, ma bisogna stare attenti a non cadere vittima del fascino, essere subalterno, essere un servo del digitale, non bisogna essere servi del digitale. Ultimo dato, bisogna cercare opinioni diverse dalle proprie. Guardate, quando si usa il digitale molto spesso, specie le persone più giovani, cercano le persone che coincidono con quello che loro pensano per rafforzare la loro opinione, non per vedere se è giusto o sbagliato quello che pensano, per rafforzare la propria opinione, allora bisogna invece educare a cercare opinioni diverse dalle proprie. Ecco, sul merito delle cose poi dette, sui libri, il libro di oggi non può essere il libro di ieri perché il ragazzo, appunto, sapere quando è morto quando è vissuto Napoleone, lo trova. Allora il libro deve dare il senso della storia, non la cronaca della storia e questo muta anche il ruolo degli insegnanti. Allora hai fatto benissimo Chiara a parlare degli insegnanti io però voglio dire questo, spero di non dire una grande sciocchezza. Prima della scuola bisogna pensare agli insegnanti nel senso, sistemare la macchina nel migliore dei modi possibile, ma se gli autisti non sono sufficientemente convinti di quella macchina, la macchina non funziona. Allora l’insegnante chi è? È quello che prende i valori di una generazione e li trasmette a una generazione successiva ma con un problema, la società che detiene quei valori che lui dovrebbe trasmettere non lo riconosce, non riconosce il ruolo sociale dell’insegnante. Questo, secondo me, è il grande problema che noi abbiamo, il ruolo degli insegnanti non è riconosciuto nella società italiana. Perché se un ragazzo va male, una ragazza va male l’insegnante chiama il padre o la madre e glielo dice, il padre e la madre gli dicono “È colpa sua se non studia, non è colpa mia che non insegno”. Qui c’è un problema. I genitori fanno molto spesso i bodyguard dei ragazzi, non cooperano con la scuola nell’insegnamento. Allora io credo che dobbiamo, c’è un problema di retribuzione. La retribuzione degli insegnanti è al trentanovesimo posto in Europa, in Europa grande, ma soprattutto non ha nessun mutamento rilevante tra l’inizio e la fine della carriera. Questo non stimola, non incentiva, “Non parliamo di stipendi”, invece noi parliamo di stipendi, può essere volgare ma siccome poi la retribuzione è anche un mezzo di riconoscimento di quello che tu fai per la società, la società ho l’impressione debba riconoscere di più e meglio questo ruolo perché se riconosce questo ruolo e se riconosce che l’insegnante ha un ruolo sociale tu hai una serie di problemi, stiamo parlando dell’insegnante medio, anche perché, e finisco, mentre il sapere del passato andava dall’alto verso il basso, una quota di sapere di oggi va dal ragazzo verso l’insegnante che molto spesso sa molte più cose dal punto di vista tecnico di quanto per l’insegnante. L’insegnante si deve riqualificare, qualificare il proprio compito, la propria funzione ma per far questo deve essere riconosciuto dalla società in cui opera e quindi penso che il riconoscimento sociale degli insegnanti sia la premessa per avere una scuola che funzioni meglio.
Simoncini: Ringrazio anche Luciano Violante per queste osservazioni che, mi pare, abbiano, come dire, completato la traiettoria che abbiamo seguito in questo nostro incontro. Abbiamo messo a tema la cyber società, l’impatto delle nuove tecnologie, sulla nostra vita, dal punto di vista, lo ricordo, del tema di questo Meeting, la passione per l’uomo e quindi il punto di caduta, il punto di conclusione mi sembra molto interessante e voglio sintetizzare così il bel dialogo di questa sera. Il punto è un tema che è cruciale per il Meeting, per chi lo conosce e per le persone che lo fanno, la sfida dell’educazione. È lì che, da mille punti di vista diversi, parlando della tecnologia, parlando della pace, parlando dei rapporti sociali è come se tutto convergesse e continuamente ci spingesse a rimettere a tema questa emergenza, … l’educazione, perché non possiamo aver paura di questi strumenti, non possiamo affrontare la novità e le grandi opportunità che ci vengono messe davanti con timore, o addirittura peggio, con l’idea di una regressione ma occorre consapevolezza e, come ha detto la professoressa Carrozza sin dall’inizio, questa consapevolezza passa, nel processo educativo passa innanzitutto da chi propone, dal maestro, dall’autorità, da chi è avanti. Quindi, l’attenzione, la cura con cui questi fenomeni, con cui questa parte della nostra formazione soprattutto quella pubblica deve essere oggetto di una revisione, come diceva adesso Luciano. Ma l’altro spunto che vorrei salvare, in conclusione, è quel tema che ha toccato Mauro prima, perché un patrimonio di nozioni, un patrimonio di informazioni si può anche comunicare, si può anche trasmettere in maniera meccanica o automatica ma questo tema del soggetto, della libertà, questo non passa automaticamente. Occorre proprio questa sfida, questo tema della libertà che è emerso, non è detto che una generazione sia in grado di passare all’altra il patrimonio di valori, di certezze, di punti fermi morali su cui si è costruita, lo vediamo. Non è un automatismo e questo tira in ballo proprio queste relazioni, questa capacità di imitare, di dialogare, il dialogo rimane lo strumento più forte che abbiamo per innescare quel desiderio, di cui parlava prima Mario. Per cui vorrei chiudere questo incontro ringraziando profondamente i nostri tre amici e relatori che hanno sviluppato, la professoressa Carrozza, il professor Magatti e Luciano Violante e invitare tutti voi a proseguire l’esperienza del Meeting. Grazie e buonasera.