CURE PALLIATIVE: CURARE IL DOLORE O LA PERSONA SOFFERENTE?

Partecipano: Giuseppe Civardi, Referente Dolore di FADOI (Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti); Gian Franco Gensini, Presidente Cesmav (Centro Studi Medicina Avanzata) e Presidente SIT (Società Italiana Telemedicina); Marco Maltoni, Direttore Unità Cure Palliative, Forlì; Raffaella Pannuti, Presidente Fondazione ANT Onlus. Introduce Paola Marenco, Associazione Medicina e Persona.

 

CURE PALLIATIVE: CURARE IL DOLORE O LA PERSONA SOFFERENTE?

Trascrizione non rivista dagli autori

CURE PALLIATIVE: CURARE IL DOLORE O LA PERSONA SOFFERENTE
Domenica 19 agosto 2018
ore 19.00

Partecipano
Giuseppe Civardi, Referente Dolore di FADOI (Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti); Gian Franco Gensini, Presidente Cesmav (Centro Studi Medicina Avanzata) e Presidente SIt (Società Italiana Telemedicina); Marco Maltoni, Direttore Unità Cure palliative, Forlì; Raffaella Pannuti, Presidente Fondazione ANT Onlus. Introduce Paola Marenco, Associazione Medicina e Persona.

Paola Marenco:
Buonasera e benvenuti a quest’ora dopo una giornata di meeting a quest’incontro sulle cure palliative che vede quattro colleghi di alto livello che dialogheranno con noi. Innanzitutto voglio ringraziare il meeting per averci dato lo spazio per questo argomento. Potreste chiedermi perché al meeting un incontro sulle cure palliative. Perché pur essendoci molte leggi che ci dicono che le cure palliative sono dovute a tutti abbiamo capito, anche girando con la mostra della Cicely Saunders in giro per l’Italia, che in realtà la maggior parte delle persone confondono ancora, non è chiaro che cosa si intende per cure palliative. Anche questa mattina scendendo in auto una persona mi diceva: “cure palliative sono quelle che non servono più e non si può più far niente”. Ecco, esattamente vorremmo prima di tutto cambiare questa idea e secondo, non sono solo la terapia del dolore, sono qualcosa di molto di più, per questo il titolo che abbiamo fatto è curiamo il dolore o l’uomo che soffre? Perché quello che vogliamo dire è che c’è ancora molto da fare quando sembra che non ci sia più niente da fare ma una persona sta avvicinandosi al compimento del suo destino. Per questo è stato fatto già, un paio di anni fa, abbiamo fatto una mostra sulla storia di una vita straordinaria che è la Cicely Saunders che è la fondatrice, cinquant’anni fa, del primo hospice. Questa persona con una vita straordinaria, era una infermiera, poi una assistente sociale, poi medico che attraverso gli incontri che ha fatto e soprattutto stando per quindici anni in compagnia degli ammalati gravi, quindi con un metodo legato alla sua esperienza, ha costruito il primo hospice e potete andare al banco farmaceutico qui di fianco dove, essendo quest’anno il centenario della sua nascita, è stata riproposta una mostra che racconta la storia della sua vita in breve. Ma è proprio facendo, girando per l’Italia con la mostra itinerante due anni fa, che ci siamo resi conto di quanto sia importante e quanto le persone che hanno fatto esperienza di cure palliative per un loro caro siano riconoscenti all’esistenza di questa medicina. Tanto che questa donna ha scritto dopo quindici anni di compagnia con i malati in otto pagine una cosa che potrebbe essere anche il fil rouge dell’incontro di oggi. Lei ha scritto: “i malati, la necessità crescente per i malati cronici gravi”, lei diceva di cancro all’epoca, oggi è più ampio), “che sono in aumento per l’invecchiamento della popolazione avrebbero bisogno di stare a casa ma non sempre è possibile. Gli ospedali per acuti non vanno bene per loro, quindi bisogna costruire qualche cosa adatto a loro”. Così è nato il primo hospice e vediamo che è ancora valido oggi in cui la popolazione sta invecchiando e la richiesta è ancora più ampia. Ma quello che volevo dire è che come Medicina e Persona abbiamo anche approfondito in un convegno e che con l’incontro precedente sulla relazione di cura ha toccato che forse oggi la medicina palliativa ha qualcosa da dire di paradigmatico a tutta la medicina perché è un punto molto acuto dove, in una società narcisistica come quella in cui viviamo, cioè molto individualista, che pensa che il limite non esiste, si trova invece di fronte una domanda che ripropone, forse per la prima volta nella vita di alcuni, che cosa è veramente la vita e che cosa è l’uomo, perché il limite c’è e il limite, che può essere la malattia può essere un’altra cosa, fa porre alla gente la domanda di sempre che gli uomini tutti i secoli si sono posti. Che cosa è la vita? Che cosa ha senso? Dove vengo e dove vado?
Perché ognuno di noi, malato, viene da male aptus, mal concio e in fondo ognuno di noi è un po’ mal concio, ha bisogno di cura, ha bisogno di qualcosa, ha bisogno di qualcuno. E forse la cosa di cui abbiamo più bisogno è renderci conto che siamo un bisogno. Questo la medicina palliativa direi che ce lo ha presente. Vorrei ripartire dal punto centrale del metodo di cura della Cicely Saunders che ha imparato anche questo dagli ammalati. L’ammalato un giorno visitandola disse, dottoressa è partito dalla schiena ma mi fa male tutto e non mi capiscono, anzi mio marito e mio figlio sono bravissimi con me, ma hanno quasi perduto il lavoro, adesso che sono qui mi sento al sicuro. Da questo la Cicely Saunders ha fatto il punto centrale del suo metodo di cura, cioè il dolore totale. Quando è un uomo che soffre il suo dolore è sempre fatto di quattro cose, quello fisico, quello psichico, quello sociale ma anche quello esistenziale, cioè quella domanda posta in tanti modi. Perché, che senso ha quello che mi capita, perché proprio a me. E questa è la domanda che questa mano è tesa verso di noi ci chiede. E se non teniamo, non dico che abbiamo le risposte, ma almeno cerchiamo di stare davanti a tutte e quattro queste domande, noi non rispondiamo veramente a questa mano tesa. Perché quando è un uomo che è malato bisogna tenere conto che c’è il mistero dell’uomo. Qui ho riportato una frase del cardinale Scola che dice che il dolore toglie la sordina al grido dell’uomo che chiede che senso ha la vita, fammi durare. Ma mi sono permessa in questo meeting che vede anche Giobbe di fare questa osservazione perché in fondo le cure palliative non sono la vittoria sulla morte, non sono neanche la risposta al grido di Giobbe, Giobbe, come vedrete, grida a Dio la sua innocenza e chiede perché è malato. E Dio risponde venendo, accettando la sfida, risponde con una presenza davanti a Giobbe, oltre che dicendogli guarda che bello il creato, l’ho fatto io non tu quindi fidati. L’osservazione che mi veniva è che le cure palliative infondo assumono la stessa posizione di Dio nella risposta a Giobbe, una presenza, ci sono. E penso che ci sono è una presenza che ascolta, che accompagna, ma non solo che aiuta, sviluppando una medicina che risponde al dolore e a tutti gli altri sintomi, creando luoghi che facilitino questo, formando le persone che sappiano questo, modificando le leggi e le istituzioni. Quindi in questo il compito dei professionisti e che vedremo anche qua è quello prima di tutto di esserci ma poi di mettere in gioco tutte le loro competenze che siano sanitarie, organizzative, istituzionali eccetera … tenendo conto che oggi non si può più pensare di curare da soli. C’è bisogno di tutti, c’è bisogno del professionista, c’è bisogno di chi assiste, c’è bisogno del caregiver, c’è bisogno del volontario. Questo per dire che tutti dobbiamo pensare di fare qualcosa, non solo chi è strettamente nel campo sanitario, questo vorrei che fosse uno dei messaggi che ci portiamo a casa.

Arriviamo quindi al programma di questo rapido giro di personaggi che sono qui con noi che sono tutte persone che si sono messe in quella posizione di voler ascoltare fino in fondo la domanda di quella mano tesa. Seguiamo l’ordine del filrouge della Cicely, uno vorrebbe stare a casa, stare a casa sarebbe meglio quando uno sta male coi propri cari con le proprie cose. Tutti penso, in questa sala, sappiamo che a volte è difficile stare a casa, ma se c’è un aiuto questo stare a casa diventa possibile e da qui la nascita della medicina palliativa ambulatoriale. Ho voluto insistentemente invitare la dott. Raffaella Pannuti che è la Presidente Fondazione ANT perché sono stata commossissima dal sapere prima di tutto come suo padre, che faceva il chirurgo quaranta anni fa, mandando a casa i pazienti, ha deciso che non poteva mandarli a casa da soli e ha messo in piedi una cosa che dura da quarant’anni e secondo che cosa vuol dire essere presidente di una cosa così che è in tutta Italia. Quindi prima di tutto ringraziamo la dottoressa Pannuti di essere potuta venire qua e le passo la parola.

RAFFAELLA PANNUTI
La ringrazio molto per questa presentazione. Credo che sia a tutti quanti chiaro che le cure di fine vita, le cure delle malattie croniche, possono essere seguite in diversi posti. Quindi si tratta del domicilio, io con Fondazione ANT credo di poter di rappresentare anche in questo consesso le altre associazioni che si occupano di assistenza domiciliare, ma affianco al domicilio ci sono lo hospice e poi anche lo ospedale. Sono tutti e tre degli attori che devono occuparsi nel modo migliore più coerente sostenibile e qualificato e non sono aggettivi detti a caso e nemmeno trovati qui ma hanno tutto un significato molto particolare di queste persone che sono uomini e che devono essere messi al centro del nostro intervento di quelle che sono le cure delle malattie croniche e del fine vita. Io vorrei ringraziare prima di tutto tutti i volontari, qui al meeting sono tantissimi ed è bellissimo, è dal volontariato che nasce l’esigenza di portare e di risolvere dei problemi che il pubblico non riesce a risolvere. Ed è quello che hanno fatto le organizzazioni del volontariato, quello che ha fatto il meeting di Rimini ed è quello che ha fatto anche l’ANT quaranta anni fa. Il 15 maggio del 1978 quando è nata l’ANT da mio padre come ha detto prima non si parlava di assistenza domiciliare. Questo era l’obiettivo che l’ANT si era posta, sensibilizzare il pubblico sul tema dell’assistenza domiciliare. Quindi i volontari hanno fatto questo, hanno cercato in questi quarant’anni di dare voce a quelle persone che volevano restare a casa e che avevano la possibilità di restare a casa. Quando non c’era questa possibilità ovviamente c’erano l’hospice c’era l’ospedale, ma bisognava dare voce anche all’assistenza domiciliare. I volontari sono stati il primo motore, quelli che hanno fatto in modo che questa assistenza domiciliare fosse inserita in quelli che sono i piani sanitari della sanità pubblica. Vorrei ringraziare anche gli operatori, ne abbiamo in sala, dell’ANT, in nostri medici, i nostri infermieri che ogni giorno, ventiquattro ore su ventiquattro vanno a casa di queste persone. Non le lasciano sole. Questo è, credo, alla base del significato, senza voler sminuire la qualità dei nostri operatori che sono dei medici preparati, degli infermieri preparati, degli psicologi preparati ma in questo senso il loro obiettivo è quello di non lasciare sole queste persone e neanche le loro famiglie. E poi vorrei ringraziare anche i collaboratori di ANT che hanno reso possibile la creazione di una rete sul territorio in appoggio ai volontari che hanno dato spazio a tante comunità che hanno voluto portare l’assistenza domiciliare nelle loro città. Quindi questo è un po’ il significato delle anime dell’ANT che sono i volontari, sono i professionisti, sono i nostri collaboratori. Ma ritorniamo al discorso iniziale. Che cosa è l’assistenza domiciliare? È portare a casa del sofferente tutte quelle professionalità che servono a mantenere la dignità della vita della persona, la persona al centro, la dignità della vita non sono anche questi termini a caso, ma quando noi parliamo di progetto eubiosia, lo vedete nella diapositiva che sta alle mie spalle vogliamo rendere molto concreta questa idea di dignità della vita e eubiosia viene dal greco, un neologismo che ha coniato il nostro fondatore, significa le qualità che conferiscono qualità alla vita. È importantissimo venire incontro a quelli che sono i bisogni assistenziali del paziente. Questo sofferente si trova dimesso dall’ospedale, a casa, ha bisogno di trasfusioni, ha bisogno di flebo, ha bisogno di avere i pick a domicilio, avere quelle cure qualificate che possono sostenerlo. Io quello che vedo e quello che sento dai miei operatori, ma che sento anch’io sono le persone quando mi dicono: mio marito, mia moglie, mio figlio, sorrideva quando vedeva arrivare il medico. Perché in questo senso non si sentiva da solo, sentiva che c’era una persona accanto a lui che riteneva importante la sua vita fino all’ultimo respiro e questo credo che sia il vero significato di ANT alla base del pensiero del suo fondatore, stare vicino alle persone, combattere la solitudine. Sono passati 40 anni, in questi 40 anni abbiamo assistito oltre 123mila famiglie, in modo completamente gratuito e qui si apre un altro tema importante: la gratuità della cura, la gratuità dell’assistenza. Le persone hanno il diritto, ma questo diritto diventa valido quando il suo diritto può essere esercitato e quindi ci dobbiamo porre il problema di come fare in modo che questo in modo che questo possa venire esercitato, come questi medici, questi infermieri che con grande dedizione vanno a casa di queste persone, possano continuare a garantire l’assistenza non soltanto di poche persone tra virgolette privilegiate, ma possano venire incontro a quelle che sono le esigenze di tutte le persone che sono sofferenti di tumore o che hanno delle malattie croniche.

Quaranta anni è sicuramente uno screening, un momento di passaggio. Che cosa ci aspettiamo nei prossimi 40 anni? Ci aspettiamo di andare incontro a quelli che sono i bisogni assistenziali delle persone, ci aspettiamo di vedere che ci siano di modelli assistenziali come quelli di ANT, come quello di tante associazioni che possono non essere ristrette a un contesto di comuni particolari, ma che possono essere per tutti a disposizione di tutti i sofferenti di tumore, questo è quello che ci auguriamo. Quindi ancora un grazie ai volontari del meeting, ancora un grazie ai volontari di ANT, agli operatori e collaboratori che hanno reso possibile che questa realtà potesse essere presente in tante zone d’Italia. Ricordiamoci che se il progetto è valido, il progetto è replicabile e l’ANT l’ha dimostrato. Grazie.

PAOLA MARENCO
Io chiederei un applauso anche per il professore, per il papà che prego di trasmettere perché è proprio commuovente. Non sempre si può però stare a casa propria anche con l’aiuto. A volte è necessario un posto, un posto che è un Hospice per esempio, che però deve essere un posto che sto come a casa mia, per poter vivere fino in fondo una vita piena. Chiediamo al dott. Maltoni che da sedici anni guida un Hospice che è Direttore dell’Unità di Cure Palliative dell’USL di Romagna, in sede di Forlì, oltre che formatore di molti palliativisti, di dirci qualcosa della sua esperienza.

MARCO MALTONI
Grazie, il fatto di vedervi così tanti qui è per me motivo di vera letizia, tanti amici, e anche di una rinnovata responsabilità nel senso che se questo bisogno di un rapporto nella fase finale della vita è così sentito, chi fa questo lavoro, appunto, deve sentirne tutta la positiva responsabilità.
Diceva Paola all’inizio che si fa ancora confusione tra cure palliative e terapie del dolore. La legge 38 del 2010 dice una cosa condivisibile: le cure palliative sono per quelle persone la cui malattia è caratterizzata da una inarrestabile evoluzione da una prognosi infausta. Quindi chi fa cure palliative a tempo pieno – dopo è chiaro che vogliamo contaminare di un rapporto globale tutta la medicina – però si occupa di persone ammalate che hanno questa problematica.

Le cure palliative tradizionalmente intese erano: facciamo le cure per esempio contro il tumore fino a un certo punto e da quel punto in poi ci dedichiamo a sostenere la persona. Ora, questo non è possibile, non è realistico, non è corretto. Quindi vedete che piano piano, le cure palliative hanno preso la conformazione della riga sottostante, cioè di un inserimento graduale, progressivo, anche mentre si fanno le cure contro la malattia; ed è vero che le cure palliative hanno tra la loro pretesa quella di una globalità, attenzione a tutte le dimensioni della persona, ma anche una continuità nella cura, nel tempo e nello spazio. Vedete che è opportuno che ci siano degli ambulatori, delle consulenze di cure palliative dentro l’ospedale per acuti, per iniziare a contaminare anche chi lavora negli ospedali per acuti, oltre che ovviamente per far fronte ai problemi che emergono nelle fasi non necessariamente finali, e questa cosa ha preso il nome di cure palliative precoci. Poi c’è l’assistenza domiciliare dentro le strutture residenziali e poi c’è l’assistenza in Hospice che è la vera e propria assistenza di fine vita, ma in tutti i casi bisogna appunto tener conto di tutti gli aspetti, di più aspetti possibile. Questo grafico sembra difficile, ma difficile non è, la linea va verso l’alto perché un dosaggio di morfina che quella persona prendeva, e quindi chi l’aveva in cura lei credeva che aveva male, ma rispondeva solo in un modo, solo nel modo tecnico. Invece un modo unito di rispondere a un problema unico (psico-fisico-sociale-spirituale) è quello di offrire, per quanto possibile, una presa in carico globale. Quando è stata presa in carico da un gruppo che teneva conto un po’ di tutti gli aspetti, vedete come la linea è scesa verso il basso, e la paziente si è potuta essere assistita in un programma domiciliare. Questa è la famosa Cicely Sonder, l’infermiera, poi assistente sociale, poi medico, che iniziando a lavorare in un ospedale, che era nato fra l’altro al tempo medioevale – qui ci sarebbe anche da chiedersi se è un caso che gli Hospice siano nati nella tradizione cristiana e se nelle tradizioni precedenti c’era più attenzione ai sepolcri che agli ammalati ma non volgiamo entrare in questo – comunque, caso o non caso, è nata dentro la tradizione cristiana questa frequenza di Cicely in ospedale e la fondazione di un Hospice. Ma lei come chiamava l’Hospcie? Lei lo chiamava luogo di vita, di assistenza, di ricerca e di formazione. Di ricerca – lei è stata la prima a dire che i farmaci antidolorifici dovevano essere dati ad orario fisso, anche come preventivo quando il dolore non era presente per non farlo tornare fuori – e di assistenza, di un’assistenza che teneva conto dell’istante presente come di un istante importante, tant’è che quando la ispettrice andò a controllare quello che si faceva nel primo hospice, perché le arrivavano delle notizie così un po’ strani… conclusa la vista nell’hospice, dice: allora, dottoressa Sonders, adesso per piacere mi porti nel reparto dei terminali, che fino adesso mi ha fatto vedere un altro reparto. E lei le disse: no, guardi siamo stati proprio finora nel reparto dedicato alle persone in fase più avanzate di malattia. E quando dice, con l’obiettivo di favorire la naturalità della vita e della morte, è chiaro che parla di una naturalità intesa come proporzionalità del nostro intervento, cioè, cerchiamo di non fare né troppo né troppo poco, ma di fare quello che è opportuno in quel momento. Ora questo approccio di Cicely è ancora attuale oppure no? Dentro la società italiana di cure palliative, c’è un gruppo di persone che ha desiderato e desidera verificare l’attualità dell’approccio di Cicely e ha fatto anche, coì degli incontri, dei convegni, delle pubblicazioni, per ripercorrere l’origine e vedere se l’origine è attuale ancora oggi. Il percorso sul sentiero di Cicely. È chiaro che chi ha a che fare con problematiche di questo tipo, non può non tenere conto di tutti gli aspetti e di un approccio globale, ed è anche chiaro, come si diceva prima, che scienza e assistenza non possono non andare di pari passo, l’una a sostegno dell’altra, non come due binari che non si toccano mai fino all’infino, ma come un unico intervento. Poi negli hospice arriveranno quel 15%, 20% di persone con una fase di fine vita particolarmente complessa, e questo è fisiologico, che non tutte le persone necessitano dell’hospice.
E quindi l’hospice, scusate, intanto come un luogo di bellezza, tentativamente, non stiamo a dire che tutti i tentativi umani hanno dei limiti, perché scopriamo l’acqua calda, tentativamente come un luogo di bellezza, come un luogo di lavoro di gruppo, come un luogo in cui un gruppo di professionisti tende all’unico scopo, tende insieme all’unico scopo; se mi è concesso un paragone un po’ azzardato, come i costruttori di cattedrali, c’è chi le progetta, c’è chi scalpellina, c’è chi porta il sasso, ma lo scopo è l’unico e questo è l’obiettivo di un lavoro di gruppo.

Lo sguardo di cura è ciò che supera la connaturata asimmetria fra chi è in un letto, casomai con quell’ulcera che vedevamo prima, che non riesce a mangiare da solo, che non riesce a lavarsi le parti intime da solo, e qualcuno che è in piedi con o senza un camice, che spera di essere in piena salute. Questo rapporto è costitutivamente asimmetrico. Necessita senz’altro che chi sta in piedi si metta a sedere, prenda la mano, bussi prima di entrare, ma l’asimmetria si supera su ciò che di umano abbiamo in comune io e, consentitemi, il mio malato, cioè il bisogno di un significato dell’istante presente, perché adesso io sono qui, qual è lo scopo per cui io mi trovo in questa situazione ora? e, visto che è difficilissimo, anzi, impossibile, mantenerlo da soli, questo, come dire, desiderio di scopo, bisogno di una compagnia nel presente. Tentativamente, il tentativo ironico dell’hospice è di essere un luogo di vita nuova, dove il bisogno di significato e i bisogni di compagnia possono trovare la loro espressione e dove c’è anche un embrionale tentativo di risposta. L’assenza del senso del presente e la sensazione di essere lasciati soli portano alla disperazione, portano al fatto di essere, come dire, nell’attesa della morte senza che più nulla possa accadere e quindi di una disperazione. Invece nell’hospice è possibile anche dare un senso a questo anelito di infinito, in un momento che l’infinito dice pienamente come il matrimonio. E anche un compleanno: è differentissimo entrare in una stanza di un paziente, anche geriatrico, dove lavora per esempio il dott. Civardi, dicendo: è ancora qui, non si decide a concludere il proprio iter e non scandalizziamoci, perché questo è naturale nell’operatore, ma anche nel familiare, ma anche nel paziente. È naturale per il senso dell’istante presente, e invece il desiderio di essere sorpresi ancora oggi, in tanti pazienti si vede, in tanti pazienti familiari si vede, ma è inimmaginabile, necessita di una compagnia che sostenga questa cosa, che cosa succederà oggi? Che cosa possiamo oggi fare e affrontare perché questa giornata abbia un suo significato?

Il tempo della dedizione: questi sono due persone di una certa età, io racconto spesso di questo giovane marito che dopo tre settimane di hospice in cui la moglie è deceduta, venendomi a salutare mi ha detto: dottore, lei non ci crederà, ma queste tre settimane di hospice sono state le più piene del nostro matrimonio, sono state quelle con più significato del nostro matrimonio. E poi, consentitemi, anche per sdrammatizzare, il dettaglio degli animaletti, come dire da compagnia, questa signora aveva voluta il suo gallo, ma non la tiro troppo lunga, perché senno andiamo troppo lunghi.

Un affondo di questo tipo: in certe zone d’Italia, non a torto, forse anche a ragione, da alcuni professionisti, da alcuni familiari, entrare in hospice è vissuta come una condanna a morte, perché si va in un posto dove non si fa più niente, no? Allora io come palliativista da tanti anni dico che è vero che in certe situazioni alcune terapie, perfino alcuni modi di nutrire in modo artificiale possono diventare una sorta di accanimento, ma non entrare nell’hospice deve significare interrompere di default qualunque cosa, per cui anziché parlare di rimodulazione dei trattamenti, cosa che è legittima entro certi limiti motivati, preferisco parlare di una individualizzazione del trattamento, cioè se per un dolore intenso, un paziente entra in hospice pur mangiandosi il suo panino con la mortadella, ben venga, lasciamo che mangi il suo panino con la mortadella e che concluso il trattamento del dolore possa essere dimesso.
Ultime due diapositive. Cosa ha detto Cicely? Ha detto delle cose molto significative: tu sei importante perché sei tu e sei importante fino alla fine. La risposta cristiana, qui torna la domanda di prima, è un caso che le strutture siano nate dentro questa dedizione al mistero della morte e della sofferenza? Non è una spiegazione teorica a-contestualizzata, ma è una presenza, un rapporto: tu sei più della tua malattia. E questo vale per sempre, tanto più vale nel momento finale della vita. Cosa volevo dire prima però parlando di individualizzazione, e concludo,? Lascio la parola un grande filosofo che dice: un giorno tutti noi moriremo, Snoopy. Si però tutti gli altri giorni no! Teniamone conto!

PAOLA MARENCO
Grazie Marco, ci avresti dato un’infimità di spunti da riprendere, veramente, però abbiamo un problema di tempo per cui semmai riprendiamo dopo. Il dott. Civardi, che ringraziamo di essere venuto anche se ci deve poi lasciare, che per il FADOI, quindi per la medicina interna di cui lui ha fatto per molti anni, ha sempre avuto un’attenzione alle cure palliative, quindi ci può portare anche un’aspetto nuovo, quello delle cure simultanee. Grazie dott. Civardi.

GIUSEPPE CIVARDI
Allora, questa breve conversazione ruoterà attorno a due affermazioni che in parte sono anche già state portate da chi mi ha preceduto: la prima affermazione è che le cure palliative non sono destinate solo ai malati oncologici, ma anche ai pazienti, anche non oncologici, che sono arrivati ad una fase di irreversibilità della loro malattia e la cui prognosi è infausta. Pensiamo allo scompenso cardiaco, pensiamo all’insufficienza respiratoria, tante patologie neurologiche e vi farò poi vedere, utilizzando alcune prove scientifiche, che questa affermazione è vera.
L’altra affermazione è che le cure palliative devono cambiare un pochino modello di erogazione. Non più qualcosa che viene alla fine, quando viene detta questa famosa frase che non si dovrebbe sentir: non c’è più niente da fare, anche questo è già stato detto. Ma devono essere rogate in un altro modo. Perché il paziente non comincia a soffrire quando noi decidiamo che non c’è più niente da fare. Comincia a soffrire molto prima e se noi dobbiamo occuparci della sua sofferenza, dobbiamo cominciare quando comincia la sua sofferenza. Ho scelto questa immagine per due motivi. L’Antonello da Messina, l’ecce Homo c’è quello che Paola Marenco ha detto all’inizio di questa conversazione. C’è tutto il dolore globale: la tristezza, il dolore, la disperazione, tutto in questo sguardo. Secondo motivo, che è conservato alla Pinacoteca Alberoni a Piacenza, quindi è un modo per promuovere la mia città.

Allora, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ci dice che per un paziente oncologico, che ha bisogno di cure palliative, ce ne sono due non oncologiche che hanno bisogno di cure palliative. Solo il 34% dei pazienti che necessitano di cure palliative sono pazienti oncologici. Quindi questo amplia tantissimo la platea di persone che hanno necessità di quello che noi facciamo. E queste diapositive che vi mostrerò ve lo dimostrano.
Lo scompenso cardiaco, una malattia di cuore in fase avanzata, ha una prognosi, cioè una aspettanza di vita nelle fasi più avanzate, che è peggiore di alcuni tumori. Sappiamo che quel paziente che non ha un tumore, però, morirà prima di altri pazienti che invece il tumore ce l’hanno e quindi ha bisogno anche lui di cure palliative.
Se poi ci spostiamo in un altro campo, quello della broncopatia cronico-ostruttiva, patologia molto comune e in grande aumento, pazienti che hanno una insufficienza respiratoria perché hanno vissuto in un ambiente malsano, perché hanno fumato, ecc. questi pazienti hanno una sopravvivenza, quando sono in fase avanzata, pari a quella di pazienti oncologici.
Infine altro dato. Il carico di sofferenza che questi pazienti cardiopatici o pneumopatici hanno, è un carico di sofferenza che è uguale o superiore, se noi andiamo a valutare tutti i sintomi, è uguale o superiore a quello che hanno i pazienti oncologici. Motivo di più per dire che necessitano del nostro aiuto, perché… questa diapositiva vi rappresenta quelle che sono le traiettorie di malattia, quello che è il decorso di vari tipi di malattie. Il difficile comincia qua perché le patologie da insufficienza d’organo come le insufficienze respiratorie, l’insufficienza cardiaca hanno un decorso un po’ più complessa, in cui determinare quello che è la fase terminale, quando comincia la fase della malattia è piuttosto difficile.
E ci abbiamo provato, ci hanno provato i cardiologici con una serie, mettendo a punto una serie di numeri, di dati, biumorali, di dati strumentali che permetterebbero di identificare quando comincia il paziente ad avere bisogno di cure palliative. Ci hanno provato anche gli internisti nei colleghi spagnoli hanno prodotto addirittura uno score, si chiama PALLIAR per capire quando la prognosi del paziente internistico è superiore ai sei mesi. In realtà, tutto sommato, a noi non è che ci interessa poi tanto, proprio perché se continuiamo a lavorare con questo tipo di modello che è quello che Marco Martoni ha fatto veder prima, no, il paziente in cura, nessuna si occupa del dolore, della sofferenza spirituale, ambientale, sociale, ecc. poi a un certo punto gli viene detto: non c’è più niente da fare, e lo mandiamo dal palliativista, qualche volta anche per liberarsene. Il modello che invece deve venire avanti è quello delle cure simultanee, in cui il palliativista interviene, non solo lui, ma intervengono tanti professionisti, infermieri, riabilitatori, fisiatri, proprio per cercare di preservare anche quel minimo di funzionalità che quel paziente può ancora avere e quindi alleviare anche la disabilità la fragilità, non solo i sintomi dolorifici. E questo percorso deve iniziare, però, quando comincia il paziente a soffrire, quindi molto precocemente nel decorso della sua malattia. Questo però comporta che i professionisti: medici infermieri, fisiatri, fisioterapisti, comincino a ragionare insieme a coordinarsi attorno al paziente già in fase molto precoce e questo è tutt’altro che facile. In più questa dimostrazione: questa famosissimo palliativista inglese che si chiama Higghinson ha dimostrato, come è già stato fatto in ambito oncologico suscitando parecchia discussione, che le cure palliative, ben condotte non solo migliorano la qualità della vita, ma possono migliorare anche la quantità della vita, possono migliorare anche la sopravvivenza dei pazienti.

Ma se noi andiamo a vere però oggi a che punto siamo, ci rendiamo conto che ci sono ovviamente dei dati positivi, tutti noi siamo molto più sensibili, anche nel paziente non oncologico nel valutare, a renderci conto della sua sofferenza, a gestirla a cercare di migliorare questo aspetto, ma i nostri ospedali e il nostro atteggiamento culturale non è sempre adeguato e c’è molto lavoro da fare in questo senso. Anche sulla semplice organizzazione dell’assistenza sanitaria, se voi entrate in un reparto di medicina, vi rendete conto che il problema più grosso è quello di dimettere il paziente perché fuori dalla porta c’è uno stuolo di pazienti che aspetta di entrare e il pronto soccorso è affollato. Questo è un tipo di problematica che non ci aiuta certo ad impostare un lavoro di questo tipo, quindi da fare c’è molto, molto, molto lavoro ancora. E con questo io ho finito. Grazie.

PAOLA MARENCO
Grazie mille perché mi sembra che ci ha aiutato a capire che il, diciamo, bisogna incominciare a pensare al palliativista come a uno specialista in più che abbiamo a disposizione da chiamare quando occorre che può aiutare il medico di base che può aiutare il medico di reparto delle altre specialità. Dobbiamo proprio abituarci a questo, perché una possibilità di più e oltretutto ci fa riflettere a come stiamo guardando quel malato li in questo momento. Grazie mille.
Ci fornisce anche lo spunto per la domanda che abbiamo riservato per il prof. Gensini che, ringraziamo di essere venuto, che oltre ad essere cardiologo ha fatto per quindici anni il preside della Facoltà di Medicina di Firenze. Approfittando di questa sua esperienza accademica, gli volgiamo proprio chiedere: come mai in Italia, e cosa si può fare, perché in un posto ove le nuove leggi dicono che le cure palliative sono dovute a tutti, come mai non si sa chi forma i medici che le devono erogare, cioè come mai a Medicina non c’è la materia di cure palliative? Come mai non esiste quella specializzazione che la Cicely Sanders ha ottenuto in Inghilterra nel 1987, ma devono ancora essere varie specialità affini, dall’anestesista, all’oncologo, l’ematologo a dedicarsi alle cure palliative, quindi non c’è una formazione specialistica. Prof. Gensini ci può aiutare?

GIAN FRANCO GENSINI
Ci proverò, bene, buon giorno a tutti, io non farò l’avvocato difensore dell’Università perché in questo caso è assolutamente appropriato chiedersi cosa si può fare e cosa viene fatto davvero. Io mi scuso se sarò un po’ noioso, perché non voglio portare parole, ma porto documenti. Perché in questo momento, cosa sappiamo? Sappiamo che nelle cure palliative è necessario avere cultura, formazione e training: è stato detto dai colleghi in precedenza, sono tutti e tre necessari. Non fare un training in un centro di cure palliative vuol dire non essere formati appropriatamente. È stata citata più volte la legge 38. Questa è una buona legge, è una legge ancora poco applicata. E allora, se noi vediamo la formazione universitaria in cure palliative, lo schermo non rende la prima parte che dice “pre-laurea, corsi elettivi, corsi obbligatori e tirocini” qui sembra non ci sia niente, nella prima parte, in realtà esiste un’attività che, grazie ai colleghi che in questo momento stanno operando in questo senso, questo documento è del 3 maggio 2018, la formulazione di corsi relativi all’applicazione della legge 38, terapia del dolore. In realtà è partita molto prima la formazione post-laurea, ma tutti capiscono che chi non fa un’attività di formazione post-laurea rischia di non sapere niente. La alfabetizzazione alla terapia alle cure palliative deve avvenire nel corso di laurea e questo è avvenuto grazie alla Conferenza dei Presidenti di Corso di Laurea in Medicina che ha aperto una discussione sul tema, e ha affrontato la questione proponendo di inserire, conoscenze e comprensione tutti più o meno conoscete di fatto che in medicina si deve sapere, saper fare e saper essere, basta pensare alla citazione dello sguardo. Io ho fatto il medico condotto all’inizio della mia attività; se uscivo dalla casa di un paziente per cui non avevo potuto fare niente e lui non stava un po’ meglio mi sentivo un fallito. E questo è quello lo sguardo, è detto benissimo, è lo sguardo, lo sguardo è una componente fondamentale. Allora questa è la declaratoria che è stata proposta, attenzione un aspetto che va tenuto presente è l’autonomia delle Università. Nessuno è in grado di obbligare tutte le Università a fare la stessa cosa: l’autonomia non lo permette. In realtà invece ci si son messi tutti i rappresentanti delle Università a fare un documento comune che dice questo: che si deve essere consapevoli del limite – le cose che son già state dette non perdo tempo a leggervele – ma prova a inserire, nel corso di laurea, a partire dal primo anno, questi concetti. E questa è la proposta, perché di proposta si tratta, firmata dal Prof. Letti che sarà qui presente più volte nei prossimi giorni, e che ha trovato un accordo su questo tentativo. Allora questo è stato proposto e questi sono i risultati. Sono state applicate in un numero significativo di università gli inserimenti delle cure palliative. In realtà con una diversificazione, è stato detto, giustamente, che in Italia ha un sistema rigido, non esiste un insegnamento di questo tipo, ma esistono le strutture del servizio sanitario, quindi questo rappresenta un elemento che va tenuto ben presente.
Su 42 Università, i corsi sono solo 7, con da 8 a 32 ore di cure palliative. Nella oncologia è stato detto più volte, non sto a ripeterlo, che l’oncologia si presta particolarmente, le ore dedicate alle cure palliative ci sono in almeno due terzi delle università che sono state valutate. Nella revisione delle classi di laurea è previsto l’inserimento delle cure palliative. La tempistica è che il CUN a settembre di quest’anno dovrebbe dare un nuovo orientamento in questo senso si stanno muovendo con forza. Molto più avanti, è quello che riguarda i Master, cioè per la prima volta è esistito un Master con un corso identico in tutte le Università che lo attivano. È identico e questo consente di fare una specie di mappa, vediamola qua, questa è la mappa dove esistono, ecco le vedete qui, distribuiti sostanzialmente non male, salvo la Sardegna, quindi esiste questa attività formativa.

Nel Servizio Sanitario Nazionale, invece come dicevo, una disciplina concorsuale in medicina palliativa e possono permettersi di entrare una serie di specialisti, naturalmente tutti vedono che ci sono motivi per considerare la medicina interna, naturalmente poi abbraccia tutto, per potere andare a dirigere questo. Le scuole di oncologia medica che sono state analizzate per la presenza di cure palliative, vediamo che non sono molto avanti, ci sono ancora, c’è una migliorabilità, però questo è quanto….
Io ho voluto darvi il quadro reale, però darvi anche il fatto che l’Università non è inerte, si sta muovendo, nella revisione dei sistemi ha intenzione di inserirlo, esiste già un accordo firmato tra tutti i responsabili dei corsi di laurea in medicina in Italia per inserirlo. Naturalmente non vi dico che domani viene tutto sistemato, però è importantissimo, non sfugge a nessuno che immaginare di iniziare dal primo giorno di università e non dal settimo anno di università, vuol dire fornire ai sistemi che funzionano degli esperti in grado di lavorare meglio. Grazie.

PAOLA MARENCO
Grazie di questa nota di speranza per il futuro della formazione, arrivederci dott. Civardi e grazie ancora. Non scappate perché abbiamo in questi ultimi minuti abbiamo ancora qualche cosa da proporvi perché come già ha detto benissimo il dott. Maltoni prima, la relazione è francamente asimmetrica, tranne in una cosa: nel rapporto di umanità, cioè nel fatto che io e il malato abbiamo le stesse domande sulla gioia, sul dolore, sulla vita e sulla morte. Questo ci rende, rende a noi e al nostro lavoro una grandissima ricchezza che è l’incontro con l’umanità dei nostri pazienti, ed è la vera forza che spinge avanti tutti, penso. Allora volevo provocare questo ultimo giro, se riesco ad avere le idee positive… vediamo forse arriva… va bene, comunque l’idea era semplicemente di dire che la ricchezza per noi sono i malati che incontriamo e volevo chiedere a chi appunto in questo fa un’esperienza…. – si ma mi deve andare avanti un sacco, vediamo se ce la facciamo – cioè di raccontarci uno dei casi che li han colpiti. Cioè dell’esperienza che hanno fatto, perché veramente la relazione è simmetrica solo a questo livello, ma è la grandissima ricchezza, accadono avvenimenti ed eventi di cui queste frasi riportate sul libro di un hospice possono essere testimonianza, come quella che ha citato Marco Maltoni prima che, dei due sposi che hanno detto che sono stati i tempi più intensi della loro vita, e io personalmente ho tantissimi ricordi di questo tipo, tra cui questa giovane libera ha avuto due malattie, due leucemie diverse, due trapianti diversi, e che mi ha scritto quel bigliettino prima del secondo trapianto, perché la gente chiede una compagnia ma ti fa venire i brividi in quello che dice. Ho fatto anche la testimone di nozze tra un trapianto e l’altro. Questo lo dico perché veramente c’è questa frase di Leon Bloy che amo tantissimo in cui lui dice che “tutto questo accade perché l’uomo ha nel suo povero cuore dei posti nascosti che solo il dolore tira fuori”, porta all’esistenza e questo è la ricchezza che non si può buttar via, per questo quando la dottoressa Pannutti parlava di eubiosia, credo che non sia sfuggito a nessuno che l’opposto dell’eutanasia, cioè della buona morte è l’eubiosia, cioè la buona vita perché la vita ci porta dei doni fino all’ultimo momento, veramente. E voglio anche dire che li porta a tutti, cioè c’è molto da fare tornando al non c’è più niente da fare, ma lo può fare chiunque: la madre, la sorella, il fratello, il volontario, chi porta il malato, chi lo cura. C’è veramente posto per tutti. Quindi con questo incontro, prima di passare la parola per ultimo giro per esperienze voglio dire che nessuno pretende di risolvere il problema di tutti. Ma sicuramente c’è, e prendo a prestito una frase del Direttore Generale dell’Ospedale che vedo la giù, l’amico Marco Trivelli, che dice che la più grande ricchezza che abbiamo è la consapevolezza di poter curare oggi con quello che abbiamo, ma tutti noi possiamo curare. Questa è la più grande cosa che abbiamo, poi si può migliorare. Teniamo anche presente che le cure palliative hanno 50 anni, quindi è una medicina giovane. Però la prima cosa che abbiamo noi è la consapevolezza che ognuno di noi seduto in questa sala può fare qualcosa, e sarà sempre più importante con l’età che avanza, che anche i volontari giochino la loro parte. Per questo si capisce perché Papa Francesco abbia concluso con una frase dicendo, parlando della prossimità responsabile. Poi dice, uno lo dia come padre, madre, medico, infermiera volontario, ma dia l’amore che può dare.
Allora io chiederei proprio a voi, ciascuno un qualcosa che vi ricorda, che vi commuove ancora ripensare di quello che avete incontrato, Raffaella.

RAFFAELLA PANNUTI
Beh, io voglio andare un po’ controcorrente. Voglio far presente che c’è stata a partire da una email che mi è arrivata via facebook, è arrivata all’ANT, di un paziente, di un parente, che ha detto: perché ci sono delle persone privilegiate che possono avere l’assistenza dell’ANT e altre che non le possono avere? Allora io parto da questo per dire che il Ministro Grillo, nell’ultimo suo rapporto alla camera, non ha citato una volta le cure palliative, e non ha citato una volta le organizzazioni gli enti del terzo settore come parte integrante del nostro Sistema Sanitario. Allora non possiamo pensare di essere bravi solo qua che ce lo stiamo raccontando e lasciare che altre persone, invece, muoiano nel dolore e non nei percorsi che sono stati previsti delle cure palliative. Su questo noi ci dobbiamo impegnare nei prossimi anni, noi dobbiamo fare in modo che tutti i pazienti siano tra virgolette privilegiati, cioè possano avere, usufruire del diritto dell’assistenza fino all’ultimo giorno.
Raccontavo prima a Paola, invece un altro episodio, molto più bello che è capitato. Sono andata a Boston a presentare un poster sull’assistenza domiciliare. Ci siano formate nella comunità italiana a New York e abbiamo presentato l’ANT alla comunità americana a New York e un ragazzo mi si è avvicinato e mi ha detto: guarda, io quando ho saputo che c’eri tu che venivi a parlare di ANT sono venuto perché volevo ringraziarti, perché l’ANT ha assistito mio padre e me l’hanno detto dall’altra parte del mondo. Beh devo dire che mi ha colpito molto.

MARCO MALTONI
Molto sinteticamente racconto due episodi: uno riguarda il fatto che il marito di una signora che era in coma, non riusciva più ad entrare nella stanza dell’hospice dove la moglie era … però quotidianamente o pluri-quotidianamente i nostri i nostri OSS ei nostri infermieri entravano in questa stanza e bussavano, quindi questo marito stava perennemente fuori nel salottino. Bussavano, chiamavano la signora per nome nonostante appunto fosse in coma, le dicevano cosa stavano andando a farle, essendo come dire romagnolone a volte anche con voce alta. Una volta è caduto un bicchiere, hanno chiesto scusa, quando la spostavano le chiedevano scusa, se avevano un po’ di trambusto le dicevano cosa le facevano e così via. E questo non è scontato perché avere, come dire, questa quotidianità di rapporto vitale con una persona in coma non è scontato. Il marito, vedendo che loro facevano così, si comportavano in questo modo e noi stessi, anch’io come medico, vedendo loro, mi trattenevo di più nella stanza, il marito è tornato dentro poi ha ricominciato a tenerle la mano e ha ricominciato anche lui a farle sentir la voce, a tenersi presente, a farsi presente. Quindi questa cosa dell’hospice come luogo di vita ha poi ha poi anche, come dire, un significato quotidiano di non dare nulla per scontato di non lasciarsi andare alla, come dire, al non senso, all’apparente non senso di questo rapporto che invece ce l’ha. Questo, secondo me, è umanamente bello, cioè affascinante per tutti, quando a questo si dà anche una risposta che ha un nome e un cognome, diventa veramente una cosa dell’altro mondo. Il mio amico Massimo, a differenza di altre persone, quando ha saputo che aveva delle metastasi epatiche da melanoma, è voluto venire in hospice e, come dire, non ha perseguito delle cure eroiche, che, sinceramente, anche nel confronto fra noi sembravano veramente a-finalistiche, e gli ho chiesto: ma vuoi venire fra virgolette già in hospice? Si, perché mi voglio preparare. E la moglie e le quattro figlie stavano quotidianamente dentro questa stanza che era una stanza frequentatissima, cioè venivano gli amici da casa per stare insieme a loro e anch’io, anche tutti noi quando andavamo in questa stanza, più che fatica ad entrare facevamo fatica ad uscire. A un certo punto gli ho detto: Massimo sei veramente un grande, e lui mi ha detto: no sono un uomo amato da Gesù, chiamato da Gesù. E il rapporto coniugale che lui aveva con Paola, che io dico che lui ha ancora con Paola, è stato poi significativo anche per la nostra vita di coppia mia e di mia moglie, tant’è che noi adesso abbiamo proseguito questa amicizia con la moglie.

PAOLA MARENCO
Il Professor Gensini mi chiedeva prima di dire la sua esperienza se c’era qualche domanda da raccogliere dal pubblico, visto che malgrado l’ora tarda, l’idea di questa arena è anche l’idea di poter dialogare. Vi dico che ci saranno anche altre possibilità: caffè con sia con il professor Caraceni, con le mostre… con quelle legate a Cicly Sanders eccetera, quindi nei prossimi giorni il dialogo si può continuare, però se c’è qualche burning question la prendiamo, se non c’è…

GIAN FRANCO GENSINI
Mah, la mia è molto semplice. Risale a molti anni fa, quando ancora purtroppo non c’era questa organizzazione. Io facevo il medico condotto in un paese vicino a Firenze: Montelupo fiorentino. Purtroppo una signora con una situazione terminale era in casa, allora non usava neanche portare n ospedale, e io trovai l’unico sistema; qual era? Io lavoravo dalla mattina alle sette a mezzanotte e io gli ultimi giorni ogni due ore andavo a trovarla e devo dire che la riconoscenza dei suoi familiari fu enorme. Io non facevo niente, però andavo li, tenevo la mano, parlavo coi familiari, creavo un momento di attenzione, era sedata in maniera appropriata, stranamente per allora, ma non era difficile in quel caso, e questo, devo dire mi dette la dimissione del fatto che la presenza, lo sguardo in questo caso con i fi familiari può essere uno strumento potentissimo.

PAOLA MARENCO
Grazie, bene spero che questo incontro abbia aperto uno spazio per continuare un dialogo e soprattutto che a tutti voi venga l’idea che potete fare qualcosa quando sembra che non si possa fare niente. Questo è tutto da creare.