Chi siamo
CUORI INQUIETI: I GIOVANI ALLA SCOPERTA DELLE OPERE E DEL MONDO
Organizzato da Compagnia delle Opere – Opere Sociali
Bernardo Archidi, studente universitario; Fabio Della Vecchia, responsabile di comunità terapeutica; Adele Tellarini, responsabile tecnico dell’opera Casa Novella; Irene Zangrandi, studentessa universitaria. Modera Monica Poletto, Cdo Opere Sociali
Le opere sociali, in Italia e nel mondo, possono costituire un punto di ingresso privilegiato ad una realtà diversa dalla nostra, piena di bisogni, ferite, ma anche di abbraccio e accoglienza, che spesso non conosciamo. Che scoperta fanno, di sé e del mondo, i ragazzi che le incontrano? E che cambiamento provocano questi giovani in chi li riceve e deve fare loro spazio? Di questo vogliamo dialogare con due studenti che hanno fatto esperienze all’estero, con un ragazzo che attraverso il servizio civile ha scoperto una strada professionale e con una fondatrice, che si è aperta alla ricchezza e alla diversità che i giovani hanno portato nell’opera che dirige.
CUORI INQUIETI: I GIOVANI ALLA SCOPERTA DELLE OPERE E DEL MONDO
CUORI INQUIETI: I GIOVANI ALLA SCOPERTA DELLE OPERE E DEL MONDO
Martedì 20 Agosto 2024 ore 16:00
Arena cdo C1
Partecipano:
Bernardo Archidi, studente universitario; Fabio Della Vecchia, responsabile di comunità terapeutica; Adele Tellarini, responsabile tecnico dell’opera Casa Novella; Irene Zangrandi, studentessa universitaria.
Modera:
Monica Poletto, coordinatrice Tavolo tecnico legislativo Forum Terzo settore
Poletto. Buongiorno a tutti e grazie per la partecipazione. Allora, siamo qui a parlare di cuori inquieti con dei cuori inquieti, a cui facciamo subito un applauso così li tranquillizziamo. Quando abbiamo pensato a questo incontro, abbiamo voluto mettere a tema il fatto che spesso, a tanti di noi è successo, l’incontro con Opere Sociali in Italia e nel mondo è una porta d’ingresso privilegiata per un mondo pieno di bisogni e di ferite che non immaginavamo, ma anche pieno di abbracci, bellezza, solidarietà, accoglienza. Ci siamo chiesti: ma che tipo di scoperta fanno di sé e del mondo i giovani e giovanissimi che le incontrano? Dunque, questo abbiamo voluto mettere a tema con questi quattro ragazzi che adesso vi presenterò, a cui faccio una domanda sintetica, almeno ai primi tre. Ed è proprio questa: che scoperta, innanzitutto, che cosa avete fatto, che cosa vi è successo, dove siete andati e che tipo di scoperta avete fatto di voi e del mondo? Perché questo tipo di scoperta in qualche modo vi ha arricchiti e vi ha cambiati? Allora, la domanda è questa qua. Ne parliamo innanzitutto con Fabio, che dobbiamo dire molto della Fondazione San Gaetano, che ha iniziato facendo servizio civile nella fondazione e adesso è diventato responsabile di comunità. Per cui, a te chiedo: cosa è successo, come sei arrivato e che tipo di scoperta di te e del mondo hai fatto?
Della Vecchia. Sì, buonasera a tutti e a tutte. Allora, la mia esperienza in Fondazione San Gaetano comincia dal servizio civile. Vi do due nozioni sulla comunità terapeutica, perché magari chi non è del settore fa anche fatica a capire che cos’è. Innanzitutto, la comunità terapeutica ospita delle persone, almeno la comunità in cui lavoro ospita delle persone che vivono H24 nella comunità. Io, nello specifico, sono responsabile di una comunità che è specializzata nel trattamento dell’alcol dipendenza. In questa comunità, persone, maschi e femmine, dai 50 ai 60 anni vivono tutto il giorno a livello residenziale. Fanno di giorno attività terapeutiche, educative, lavorative, ergo terapiche. Allora, io ho finito cinque anni di psicologia, scopro, per caso in realtà, il servizio civile e, per pura curiosità, dico: andiamo, vediamo, cerchiamo di capire che cos’è una comunità terapeutica. La Fondazione San Gaetano prevede il servizio civile all’interno delle proprie attività. Quindi, scopro la fondazione tramite il servizio civile e comincio per curiosità, voglio capire che cos’è la comunità, cosa succede nella comunità terapeutica, della quale nei cinque anni di psicologia nessuno mi aveva parlato. Sembra strano, ma ecco, quindi, curiosità. Questa è la prima scoperta, Monica, che faccio di me e del mondo, cioè la curiosità mi ha portato a scoprire qualcosa che poi avrebbe segnato i miei anni successivi. Quindi, ecco, curiosità, ed è una cosa che spero che questa parola possa, non voglio essere presuntuoso, ma magari possa essere di ispirazione anche a qualcuno di voi: curiosità, seguire la propria curiosità. Cosa scopro poi? Un’altra parola chiave in questi anni che mi hanno portato dal servizio civile, operatore, a psicologo e a responsabile è il coraggio. Io scopro in questo percorso che serviva del coraggio per fare i vari passaggi, per accettare i vari passaggi che mi erano stati offerti. Del coraggio anche per sostenere delle situazioni di sofferenza delle persone in comunità, che non è facile affrontare. La seconda scoperta, dopo la curiosità, è il coraggio, il coraggio di starci, di stare con l’altro, di stare nella sofferenza. Un piccolo esempio: quando ci si trova davanti a una persona estremamente sofferente che ce l’ha col mondo, le persone, quando stanno male, spesso sono arrabbiate. E quando sei lì che percepisci anche il pericolo a livello di integrità fisica, però percepisci anche che lo stare lì con l’altra persona è utile all’altra persona. Ecco, lì ci vuole coraggio per essere fermi, per essere affidabili. Quindi, ecco, coraggio. Poi scopro la terza cosa, soprattutto nel passaggio da terapeuta, da psicologo a responsabile: la capacità di stare nell’incertezza, la capacità di reggere l’incertezza. Stare nell’incertezza penso sia una delle cose più difficili per noi esseri umani, per chiunque, al di là di essere pazienti o meno. Ho dovuto imparare a reggere l’incertezza dentro la comunità, fuori dalla comunità. Ho imparato a stare in posizioni molto scomode, essere responsabile di una sede con 20-25 persone, essere responsabile di uno staff di 10 persone e rispondere, a mia volta, agli altri superiori. È una cosa che richiede una grande capacità di stare nell’incertezza. In comunità non ci sono macchine, non si può programmare niente. Noi cerchiamo di organizzarci, ma quando c’è da fare con le persone, spesso i programmi non vengono seguiti, ci sono spesso emergenze, c’è tanta instabilità. Io ho imparato a stare nell’incertezza, a stare in posizioni anche scomode, soprattutto con l’aiuto di un’équipe di lavoro molto valida. Ecco, questo ho scoperto di me e del mondo: curiosità, coraggio e la capacità di stare nell’incertezza. E mi auguro che queste parole, almeno per me, questi tre concetti, non siano da applicare solo all’interno della comunità, all’interno della Fondazione San Gaetano, ma che le porto con me nella mia vita di tutti i giorni.
Poletto. Se riesci, ci fai un esempio, magari, di questa incertezza, di cosa vuol dire stare nell’incertezza?
Della Vecchia. Ok, questa cosa può andare su tantissimi livelli, sia organizzativo. Noi siamo una realtà privata convenzionata, quindi l’incertezza può andare semplicemente da nuove regole regionali a livello sanitario, che a cascata noi andiamo a, tra virgolette, subire. Quindi le organizzazioni interne, ma può essere anche semplicemente un ospite che in un certo momento ha degli scompensi e dobbiamo, anche magari in momenti di carenza di personale, gestire noi la crisi. Noi siamo attrezzati, però spesso succede che ci siano delle situazioni emergenziali che non sono prevedibili. O anche semplicemente un’équipe di lavoro con due persone in ferie, magari se ne hai cinque operatori, due persone in ferie, ne rimangono tre e magari succedono delle malattie, degli imprevisti. Ecco, sono tutte cose estremamente incerte che però, da responsabile, da struttura accreditata, noi dobbiamo saper affrontare. Ecco, non so se basta questo, se c’è dell’altro.
Poletto. Curiosità, coraggio e stare nell’incertezza. Irene. Allora, la nostra Irene l’anno scorso ha fatto la guida a una mostra del Meeting, e in questa mostra c’erano degli amici venezuelani che hanno raccontato di José Gregorio Hernández, forse molti di voi l’hanno vista. Colpita da loro, decide di accettare una proposta, che adesso ci racconterà, di andare ad aiutare. Allora, tocca a te.
Zangrandi. Ciao, io sono Irene e studio medicina al sesto anno. L’anno scorso, grazie all’invito di questi amici venezuelani, io e altri cinque amici che studiano con me medicina, abbiamo avuto modo di andare a vedere la realtà venezuelana, di come questi amici hanno deciso di rimanere in una realtà molto dura, tosta, perché il Venezuela, a livello sanitario, ma non solo, è posto a vivere diverse difficoltà. E loro, a differenza di tanti altri che hanno deciso di andare via, sono rimasti e, di fronte alla realtà che c’era, hanno deciso di, in modo creativo, rispondere, creando diverse opere. Io sono andata sia per conoscere, appunto, le opere che loro hanno costruito, sia per contribuire all’operativo medico che da 28 anni c’è, grazie a un medico venezuelano che negli anni poi è diventato molto amico anche della comunità di Comunione e Liberazione del Tocuyo, che è un paesino al centro del Venezuela sperduto. Grazie anche, appunto, all’aiuto della comunità, è riuscito a mettere su quest’opera in cui per cinque giorni tutte le persone che nell’anno non possono avere delle cure o delle visite vanno per ricevere interventi chirurgici o anche soltanto visite ambulatoriali. Questo perché, appunto, la sanità in realtà fa molta fatica, quindi loro di fronte a questa necessità hanno risposto creando quest’iniziativa. In realtà, noi abbiamo avuto modo, un giorno, di andare a Humocaro, che è un paesino sulle montagne, per andare a fare degli ambulatori, dato che le persone di Humocaro, per arrivare al Tocuyo avrebbero dovuto fare 13 ore di mulo e più di un giorno a piedi. Quindi siamo andati noi da loro, e lì è stato il primo impatto con questa realtà molto bisognosa. Inoltre, per me è stato molto duro perché il primo giorno vedevo tutta questa gente che veniva, io ero nell’ambulatorio di ortopedia e noi li visitavamo, gli dicevamo pure che patologia avessero, gli davamo una confezione di ibuprofene e antinfiammatori e poi in realtà finiva lì. Quindi, per me era stato molto duro perché dicevo: “Ma io desidero fare il medico, essere missionaria, andare in questi posti, però poi non posso toglierti questo male davvero, perché quando ti finirà questo medicinale, questo antidolorifico, che ne sarà di te?” E quindi avevo iniziato a rattristirmi molto perché vedevo proprio un’impossibilità di aiutarli fino in fondo, però loro erano contentissimi e anche io, che ero lì seduta fianco al dottore perché in realtà non so fare niente, mi ringraziavano e non me ne capacitavo bene. Infatti, poi anche parlandone con degli amici lì del posto, mi hanno dato questa intuizione, da verificare poi anche nei giorni dopo: è vero che c’è una differenza tra guarire e curare, perché guarire significa togliere il dolore, togliere la malattia definitivamente. E invece noi eravamo lì per curare, curare voleva dire guardare quella persona e stargli a fianco, facendogli compagnia, aiutandola in tutti i modi possibili. Perché, ovviamente, facendo medicina desidero aiutarti, desidero alleviare il dolore che c’è, ma appunto guardando il fatto che tu ci sia. E loro, di fronte a qualcuno che era venuto lì per loro, non potevano che essere grati. Inoltre, poi, nei cinque giorni in cui c’erano le sale operatorie nel Tocuyo, in un ospedale che hanno totalmente riempito, grazie appunto ai fondi che questo medico venezuelano ha trovato, è stato bello poter vedere anche come la disponibilità di ognuno di noi dipendesse non tanto da quanto tu eri bravo in sala operatoria. Io desideravo arrivare lì, ho pensato: “Va bene, inizierò a fare mille operazioni”. In realtà non c’era per niente bisogno di me, perché c’erano già tutti i medici venezuelani, poi io sono al quinto anno, che cosa so fare? E quindi, un giorno ero in sala operatoria e dopo un po’ di tempo nessuno mi guardava, quindi mi stavo anche un po’ annoiando e allora me ne sono uscita. E lì ho visto dei bambini aspettare il loro turno da soli, e mi sono messa a giocare con loro ed è stato il pomeriggio più bello in assoluto. Perché poi, in realtà, guardando anche questo fatto con i miei amici, era stato un rispondere con la mia sensibilità a aver visto qualcosa che mi chiamava e rispondere con il fatto che io c’ero. E non è stato fare il medico, però comunque il punto era guardare il fatto che loro c’erano, avevano molta paura di entrare in sala operatoria. E poi, quindi, è stato molto bello anche vedere che ognuno, con le proprie capacità, può stare e costruire quel posto, dando il punto di esserci, starci. E l’altra cosa che volevo raccontarvi era “Trabajo y Persona”, che è un’opera che ha fondato Alejandro Marius, assieme a tantissimi altri amici venezuelani, che si occupa di dare un valore al lavoro. In particolar modo lui insegna il valore del lavoro a queste donne imprenditrici che hanno diverse botteghe, in realtà sono i loro salotti, in cui cucinano e poi vendono il cibo. Ecco, lui, attraverso l’insegnamento di come fare un lavoro, come valorizzare il loro lavoro, ha avuto modo di fargli vedere che attraverso il valore del lavoro loro scoprivano il loro valore, chi erano. Ed è stato molto bello conoscere queste donne che, parlando del loro lavoro, si commuovevano. E a me non è quasi mai capitato vedere qualcuno che è così affezionato a uno sguardo che ha avuto al suo lavoro da piangere. Inoltre, “Trabajo y Persona”, in questo paesino del Tocuyo, ha iniziato a rispondere anche a delle necessità che c’erano. Per esempio, in Venezuela, nelle scuole statali, la scuola dura due giorni su sette. e i ragazzi fanno molta fatica ad imparare effettivamente le cose. Infatti, un giorno, una donna del Tocuyo aveva incontrato al supermercato questa mamma che diceva: “Mia figlia, nove anni, non sa ancora leggere.” E allora lei, che lavora in una scuola privata, ha avuto quest’idea di costruire un doposcuola per insegnare a questi ragazzi a leggere. E questa bambina, nel giro di sei mesi, ha imparato a leggere e scrivere perfettamente. Un’altra cosa molto bella è anche, appunto, il banco di solidarietà in cui loro, che in realtà non hanno niente, portano del cibo a chi ha ancora più bisogno di loro e attraverso questo gli fanno proprio compagnia. Quindi, cosa ho scoperto lì? Di sicuro è il desiderio di esserci e di poter aiutare come uno può.
Poletto. Grazie, Irene. Visto che c’è ancora un po’ di tempo, ti faccio una domanda. Da chi siete stati accolti lì nel Tocuyo?
Zangrandi. Allora, nel Tocuyo siamo stati accolti dalla comunità di Comunione e Liberazione. Questi signori hanno aperto la loro casa e ci hanno nutrito e accolto come delle madri. Infatti, mi sento di dire che una specie di mamma c’è anche in Venezuela, perché questa donna, che non aveva davvero niente, aveva poco, aveva messo tutta sé stessa per accoglierci.
Poletto. Allora, adesso, Bernardo ha finito la triennale e, nell’attesa di fare il più due, ha deciso di utilizzare questo tempo per scoprire un altro pezzo di mondo, che è il Brasile, in particolare la parte dell’Amazzonia. Per cui raccontaci.
Archidi. Buonasera. La Monica l’ha lasciato per implicito, ma questa ipotesi di visitare alcune opere sociali in Brasile è nata dall’aver conosciuto lei, che, appunto, raccontando brevemente dell’esperienza molto profonda di rapporto con le opere in Brasile, anche in Argentina, mi ha folgorato proprio per la possibilità di dedicare del tempo gratuitamente, che non è niente di complesso. Però, pensando anche al tempo che avevo a disposizione, mi sembrava significativo poter donare, senza neanche sapere bene come, il proprio tempo. Quindi, io sono stato in tre luoghi diversi nell’arco di tre mesi. Prima, sono stato in Amazzonia, su un’isola che si chiama Parintins, che è praticamente sul Rio delle Amazzoni. Ah, ecco, esatto. Sì, questa è una foto abbastanza suggestiva. Questo non è il Rio delle Amazzoni, perché il Rio delle Amazzoni è molto più ampio. Sono, in alcuni punti, chilometri di ampiezza, però dà più o meno un’idea. Quindi, appunto, il primo posto in cui sono stato era Parintins, che, essendo un’isola in mezzo al Rio delle Amazzoni, dà subito un impatto impressionante rispetto anche a come noi siamo abituati a vivere e anche a percepirci rispetto a un contesto. Innanzitutto, il viaggio che ho fatto di 24 ore in aereo è significativo, perché per farne 24 ne vorrà dire che è distante, che può sembrare una banalità, ma non lo è, perché ti rendi conto veramente che anche il contesto in cui hai abituato a vivere ha un’ampiezza inimmaginata, anche proprio spazialmente. La cosa impressionante di quest’isola era, nel rapporto con gli abitanti, vedere questa strettissima relazione con la natura, in particolare con lui. Io sono quello a destra, quello a sinistra si chiama Globeri. Lui è un educatore di uno dei centri dove sono stato a Parintins, centri fondati dal PIME, e vedere come quest’uomo, nella sua vita, è stato plasmato dal rapporto con la natura, per me è stato impressionante. A partire dal fatto che, per esempio, lui, da quando aveva dieci anni a quando ne aveva venti, ha vissuto due mesi all’anno nella foresta amazzonica con questo signore amico del padre, che per tutta la vita ha vissuto come nomade nella foresta per la ricerca di piante rare, di piante mediche, eccetera. Vedere come lui è stato plasmato da questa vicinanza stretta con la natura, che è una natura potente, affascinante, come si intravede in questa foto, anche se in modo molto minimale, ma anche capace di soverchiare la quotidianità. Cosa che per me, che vivo a Milano, è molto lontana come concezione, perché a Milano tutto è a misura d’uomo, cioè i palazzi, le porte, la metropolitana, tutto è a misura d’uomo, mentre lì c’è un’ampiezza anche proprio spaziale e anche una condizione di necessità di movimento, per esempio, perché, essendo un’isola, non ci si può muovere che in barca. Il movimento, però, e quindi anche le tempistiche per andare da un posto all’altro, dipendono molto dall’altezza del fiume, che quando è il periodo delle piogge è in piena e quindi è più facile raggiungere certi luoghi, quando c’è la secca invece è più difficile. Educa proprio, volenti o nolenti, gli abitanti di lì a una dipendenza, a una dipendenza da altro da sé, quindi proprio spaziale, in termini molto basilari, che però plasma poi le coscienze, perché nel rapporto con Globeri a me ha impressionato la sua umiltà. Umiltà nel senso di riconoscere la sua piccolezza, non in senso svilente, ma proprio del fatto che io, come uomo, non sono onnipotente. E questo per me è stato di impatto, perché io, vivendo a Milano, non sono abituato a una concezione così della vita. Per farvi capire di cosa sto parlando, c’è sia il fascino della natura che… Dovete andarci, perché la parola è difficile da raccontare. Ma anche nei fatti più tristi. Per esempio, ogni anno solitamente i bambini dell’isola facevano il bagno sulla riva del Rio delle Amazzoni, solo che quasi ogni anno un bambino scompariva perché veniva inghiottito dal fiume, perché veniva mangiato da un coccodrillo, dai piragna, non si sa. Questo è un fatto semplice, però che fa capire proprio come la vita lì imponga la necessità di ascoltare ciò che è fuori da sé, per riguadagnare sé stessi e per anche sconfiggere un’onnipotenza molto occidentale, che però in ultimo ci lascia soli perché pensiamo di poter essere autosufficienti. Mentre invece riconoscere questa dipendenza, anche nei rapporti, fa scendere da un gradino in cui noi presuntamente ci mettiamo e fa sì che le relazioni siano più immediate, più vere. Quindi poi anche a livello sociale, vedere come queste opere, a partire anche da questa sensibilità, costruiscano nel luogo in cui sono è impressionante. E rispetto a questo mi collego al secondo luogo dove sono stato, che era Manaus, cioè la capitale dello stato dell’Amazzonia, di cui poi parlerò rispetto all’opera in cui sono stato. Ma innanzitutto rispetto a questo discorso della dipendenza dalla natura, volevo sottolineare una cosa in negativo, ma che ho notato in maniera molto limpida, cioè una somiglianza impressionante tra gli abitanti di Manaus, che è di due milioni di abitanti, quindi più grande di Milano. Anche questa cosa non scontata, almeno per me, che ingenuamente pensavo di arrivare in una città tutto sommato piccola. Quindi una somiglianza impressionante tra gli abitanti di Manaus e gli abitanti di Milano, perché, io penso, proprio per un’assenza, invece, dettata appunto da un tipo di abitazione metropolitana, da un’assenza di relazione col contesto in cui uno si trova e quindi col contesto, con la natura, ma di conseguenza anche con la storia, con un’identità. Che è inscritta anche nel territorio, nel luogo in cui uno è. Ma così facendo, l’identità si indebolisce, e questo nell’incontrare le persone a Manaus, ovviamente, adesso io vi parlo di questo aspetto, ci sono anche state cose sorprendenti, però da questo punto di vista c’erano proprio delle personalità, tante volte, infiacchite proprio perché dimentiche di questa dipendenza, dipendenza dal territorio, dipendenza dalla storia. Cioè, tanti non sapevano, per dire, al di là della preparazione culturale, ma anche della provenienza del nome della città. Cioè, cose che costituiscono l’identità e che quindi poi anche nella relazione con l’altro permettono un rapporto più vero, più profondo. Mentre invece lì in città, tante volte, c’era come un metro di ghiaccio che bisognava scalpellare con la picozza, come tante volte è capitato anche a Milano. Quindi io valorizzo molto questo rapporto con la natura, proprio perché educa a un’umanità più prossima all’altro, non solo alle cose, ma anche all’altro, in un momento in cui uno si trova in un’opera e accoglie dei ragazzi, come era in Parintins e come è stata a Manaus. Questo fa la differenza. A Manaus, poi, sono stato… Tu dimmi come sono col tempo. A Manaus sono stato in un’altra opera sempre fondata dal PIME, una scuola agricola, nello specifico. Anche qui molto interessante il fatto che, appunto, il proposito della scuola, che tra l’altro quest’anno fa 50 anni, quindi è una storia tutt’altro che banale, 50 anni sono mezzo secolo, si propone di istruire i ragazzi con un’educazione scolastica di base e poi dopo un’educazione proprio agricola, quindi di agronomia e poi di zootecnia, con il proposito poi di far sì che i ragazzi, una volta diplomati, possano tornare nelle comunità di appartenenza per riproporre un modello che hanno imparato, acquisito e appreso nella scuola. Bisogna tenere conto che questa scuola accoglie ragazzi sparsi in varie comunità dei dintorni e non solo di Manaus, e molti di questi ragazzi pernottano stabilmente nella scuola perché alcuni dovrebbero fare cinque o sei giorni di barca, poi prendere un pullman, arrivare in città, dalla città spostarsi perché la scuola, avendo grandi terreni per poter favorire coltivazioni e allevamenti, non è in città, quindi la distanza sarebbe molta. Anche questo è un fatto interessante, c’è proprio anche di come un aspetto educativo da parte dei professori verso i ragazzi si unisca anche a un proposito sociale, che però non è svincolato dalla realizzazione e dalla crescita di ogni singolo ragazzo, perché io, stando lì, ho conosciuto buona parte di loro, alcuni li ho anche intervistati, e molti sottolineavano proprio questa gratitudine nei confronti dei loro educatori per aver appreso, come dire, per essersi responsabilizzati, per aver scoperto anche quanto la loro presenza nel rapporto coi compagni e poi nella comunità di origine potesse incidere, a partire dallo studio che loro facevano. Un altro aspetto che volevo menzionare, che è anche un suggerimento al sistema scolastico, riguarda la musica, che purtroppo non è molto considerata. Ma lo sottolineo perché, a livello educativo, per me è stato impressionante vedere come la musica, con cui ho lavorato assieme i ragazzi insomma, ho fatto un tentativo ironico, sia stato prezioso proprio anche in ottica di costruzione di una comunità di persone, cioè di io. Perché la circostanza era che, essendo i 50 anni della scuola quest’anno, c’era da preparare la liturgia di una messa. Allora, con questi ragazzi, che all’inizio erano una decina, ci siamo messi insieme per tentare di cantare per questa messa. E mi ha impressionato vedere come fare questo lavoro insieme abbia infiammato e chiamato in causa la libertà di ciascuno di noi, di ognuno di loro che ha scelto liberamente di unirsi a questo coro, e la mia di interagire con loro, tra l’altro con un grande desiderio anche di imparare, a partire dal fatto che io non sapevo il portoghese, quindi è abbastanza imprescindibile la relazione linguistica. Ma vedere come poi, in unità d’intento, cioè nel canto, quindi in un’azione che è di unità, quindi che tutti cercano di concorrere a un unico scopo, ogni ragazzo che era lì, emergesse nel suo io più vero di quanto non fosse quando era arrivato. E alcuni ragazzi si sono sorpresi loro stessi di come potevano fare la differenza ancora una volta, cioè di come il richiamo al valore di ciascuno sia poi un richiamo anche al valore sociale che uno può avere, cioè comunitario. E racconto un esempio per far capire. C’era questo ragazzo che si chiama Egiusu, che non era il tipico ragazzo che fa un coro, perché era uno che appena finivano i momenti nei campi, andava a fare palestra con le musiche che ti inebriano. E quindi, come idea, non era il ragazzo che va a fare il coro perché il coro è una cosa che ti mette a nudo e quindi se tu ci tieni alla tua immagine di, diciamo, di uomo vigoroso, non vai a fare il coro. Però lui, affascinato dal canto, perché è una cosa che gli piaceva, timidamente si è avvicinato, molto timidamente tra l’altro. Aveva addirittura imbarazzo nell’entrare nello studio della direttrice per organizzare questo momento. Però poi la prospettiva è totalmente cambiata, perché lui, lavorando con il coro, ha iniziato a essere quello che sosteneva gli altri e addirittura ha cantato da solo davanti a una platea più ampia di questa, proprio per dire di come un lavoro insieme possa cambiare l’io. Per concludere, mi rifaccio a un dialogo che ho avuto prima con Fabio rispetto al fatto che ho notato che tante volte un’ottica quantitativa, anche di quanto un’opera possa far bene, va per la maggiore rispetto a un’ottica di qualità, cioè di valore di quello che uno fa per il singolo ragazzo che arriva all’opera. E questo l’ho potuto vedere chiaramente nell’ultimo luogo in cui sono stato, cioè a Salvador Bahia, che è una città sull’Atlantico, dove sono stato in un centro educativo in mezzo alla favela a cui era connesso un asilo nido. E lì, vedere la situazione di povertà, di violenza e di ingiustizia che questi ragazzi, o anche i bambini neonati, devono soffrire è stato abbastanza lacerante. E da un punto di vista quantitativo, rimane un’ingiustizia probabilmente che sarà sempre insaziabile. Ma se poi uno va lì e convive con chi è lì, si accorge, come è capitato a me, che comunque il bene persiste e permane. Le due responsabili del centro e dell’asilo sono lì da 20 e 30 anni e, anche se la situazione continua ad essere precaria, per tanti ragazzi quel luogo è diventato casa. E niente, questo per dire di quanto, al di là di qualsiasi pronostico, opere così possano fare la differenza. Grazie.
Poletto. Grazie anche a te, Bernardo.
Allora, Adele, la più giovane di tutte. Io ti chiedo: tu hai sentito il racconto di questi ragazzi, nella tua vita, nella storia dell’opera dove da tanto tempo lavori e di cui ci racconterai, cosa ha voluto dire accogliere dei giovani? Che tipo di cambiamento ti ha chiesto? Che cosa hai portato a casa per te da questa apertura? Raccontaci.
Tellarini. Sì, buonasera. Io seguo e vivo in questa casa d’accoglienza a Castel Bolognese da 28 anni e all’inizio, quando sono entrata in questa casa, era appena scomparsa la fondatrice ed era stata appena fondata questa casa. Per cui, all’inizio, c’era la sua famiglia, c’ero io e tanti volontari che però hanno cercato di permetterci di andare avanti con quello che era stato iniziato. Mi ricordo che per alcuni anni siamo andati avanti con volontari, però l’arrivo dei primi educatori o anche di ragazzi col servizio civile, io mi ricordo che è stato come un punto di bellezza e anche di tranquillità per quel che mi riguardava e per la mia responsabilità. Perché, al di là della loro competenza, che magari si fa nel tempo, la cosa interessante che questi giovani portano, servizi civili ed educatori non importa, è che in tanti, tu vedi una passione per quello che stanno toccando, per quello che incontrano in quel luogo lì. Lui prima parlava di curiosità e allora tu cogli questa curiosità e questa intensità di questi giovani che vogliono impattare, vogliono, come dire, condividere insieme il bisogno che incontriamo. Però, anche per me, anche io avevo la curiosità, non erano solo loro, ero curiosa e affascinata anche dal vedere quest’umanità che si metteva in gioco per quel che poteva. E quindi questo è stato il primo punto di bellezza, perché in ogni modo l’opera non lo fa uno. Può essere il fondatore, può essere responsabile, ma è un “noi”. Quindi questi volti nuovi, oltre ai volontari che sono stati sempre una presenza così decisiva, è stato come la possibilità di abbracciare ancora di più la realtà che stavamo incontrando. Questo è stato all’inizio. E dico anche la preoccupazione che per me, e tuttora dopo tanti anni, c’è rispetto a chi entra, a chi bussa, a chi si mette in gioco: è che capiscano dove sono, non cosa devono fare, ma soprattutto dove sono, qual è lo scopo di quel luogo lì. Perché se uno ha chiaro lo scopo dell’opera, a noi interessa educare l’altro, introdurre alla realtà, alla bellezza, alla coscienza di sé, all’affettività. Allora, se uno coglie questo, ogni giovane, giovane o meno, si mette in gioco. Se invece noi chiedessimo solo delle prestazioni, oggettivamente sarebbe un di meno. Quindi, questo per me è sempre stato un punto di bellezza. Oggi, devo dire la verità, questi giovani non sono più giovani, io sono molto vecchia, e vedere che, partiti da lontano, oggi ci sono questi giovani che hanno un pezzo di responsabilità dentro l’opera ed è importante, e questo “noi” è un “noi” con una grande amicalità e una grande potenzialità, tanto che l’aver fatto spazio a queste persone, con i loro talenti e le loro caratteristiche, ma anche la loro capacità di incidere sulla realtà, ci ha permesso, in questi ultimi anni, anche di andare oltre la forma storica dell’accoglienza, ma di cominciare a fare progetti anche innovativi, come la realtà ci chiede.
Poletto. Zia Adele, ti faccio ancora una domanda perché mi hai molto incuriosito. A un certo punto, però, hai dovuto lasciare uno spazio di responsabilità tua, cioè comunque tu, all’inizio, avevi quasi tutto sulle tue spalle, no? A un certo punto c’è stato un dover lasciare questo spazio. Te lo dico perché stiamo ragionando anche con tanti nostri amici, non solo in Italia, sul tema del passaggio generazionale, dicendoci però che il passaggio generazionale non è tanto un problema del “dopo” ma del “durante”, di cosa ci si chiede reciprocamente e anche di come deve cambiare il tuo stare nell’opera nel momento in cui inizia a esserci una responsabilità condivisa. Non ti avevo detto che te l’avrei chiesto, per cui ancora più…
Tellarini. Non è un problema, grazie. È verissimo. Il passaggio generazionale non è che uno decide: “Adesso è il momento.” Cioè, io credo che, appunto, in questi anni, man mano che veniva fuori chi aveva, come dire, non solo le spalle forti, ma comunque la decisione di abbracciare, di prendersi un pezzo di responsabilità, per me è stato come un punto di gratitudine, di sorpresa, cioè di non essere sola, ma di essere in compagnia. E quindi il passaggio viene man mano, nella misura in cui incomincia a crescere una stima reciproca e soprattutto a concepirci come insieme. Questo secondo me è il punto più bello oggi, che sono molto vecchia. Vabbè, parte che mi hai messo nei giovani ma non lo sono, però, è come dire, a me è guardare queste persone che sono formate e lo dico anche grazie all’esperienza della CDO, visto che siamo in questo luogo, perché per la nostra opera quanto è stato importante anche far incontrare a questi giovani altre realtà, cioè altre realtà in azione e poter incontrare altri giovani che si impegnavano, perché questo apre la mente. Prima si parlava di coraggio. Ecco, credo che anche questo, cioè il poter confrontarsi con altre opere, con altre realtà, farsi compagnia, rende più coraggiosi nell’incidere sulla realtà e sui cambiamenti. E quindi credo che per questo, è come non essersi accorti del passaggio generazionale, perché viene man mano, perché è ragionevole che uno, nella misura in cui sente che l’altro è responsabile, è capace di rapporti con le istituzioni, si muove bene, sente il dolore degli altri e di quello che abbiamo tra le mani, permettere di tirare indietro, no? E che non vuol dire andare via, ma come dire, dare spazio a queste potenzialità che sono un regalo, sono un regalo per noi, ma sono soprattutto un regalo per il mondo, perché oggi noi possiamo, credo, fare molte più cose grazie a questa rete di giovani che sono entrati e che stanno entrando.
Poletto. Visto che siete stati bravissimi, c’è tempo per un ultimo giro, per cui vi faccio ancora una domanda e parto da Fabio. Tu hai fatto questo, ci hai raccontato di questo tuo impatto e, sotteso, è rimasto il fatto che ti trovi a contatto spesso con un’umanità molto sofferente che ti chiede tanto di metterti in gioco, no? La realtà delle dipendenze è tremenda. Il contatto con questo tipo di sofferenza, con questa umanità che incontri, in cosa ti accorgi che ti sta cambiando?
Della Vecchia. Mi ricollego a quello che diceva prima Bernardo. Cosa mi sta cambiando e in cosa mi ha cambiato? L’avere ammesso di avere dei limiti. Allora, noi siamo giovani, cuori inquieti. Un grande passaggio personale che ho fatto, che sto facendo e che probabilmente durerà tutta la vita, è riconoscere i propri limiti personali e anche i limiti di fronte a una sofferenza gigante che affrontiamo in comunità. Le dipendenze portano le persone che hanno problemi di dipendenza a sofferenze inaudite. Spesso la dipendenza è l’ultimo dei problemi di queste persone, e noi cerchiamo di aiutare per un pezzetto queste persone, ma se entriamo nella logica di dover curare l’altro e se entriamo nella logica che noi dobbiamo essere la soluzione per l’altro, non ne usciamo. Quindi dobbiamo, in primis, ammettere a noi stessi di non essere onnipotenti, riconoscere i nostri limiti. Questo l’ho scoperto in questi anni, lo sto scoprendo tuttora. Una volta che capisci di avere dei limiti, riesci a fare anche un passo indietro e, come dire, viverla un po’ meglio perché, appunto, la sofferenza che si ha di fronte è tanta. Scoperti i limiti, cosa si fa? O ci si sbatte, si continua a sbatterci addosso e si va in burnout, lavorativo ed esistenziale, che è una cosa che si cerca di evitare, oppure si fa un passo indietro, si fa gruppo con l’équipe di lavoro e si cerca di aiutarsi, ammettendo che noi possiamo fare solo un pezzetto di strada con la persona. Quindi, limiti.
Poletto. Grazie, Fabio. Stando sempre sulla domanda, chiederei a Irene e a Bernardo, farei la stessa domanda. Voi avete fatto un’esperienza molto estrema, cioè Bernardo ha fatto il milanese in Amazzonia. Cioè, avete fatto un’esperienza che ci avete raccontato molto bene e di cui vi ringrazio, ma cos’è il ritorno? Cioè, al ritorno di questa esperienza che avete fatto, qual è la cosa in cui vi siete riconosciuti cambiati? C’è un punto di consapevolezza, un punto di scoperta per cui, al di là di tutta la bellezza che avete vissuto, viene proprio da dire che ne è valsa la pena?
Zangrandi. Per me sicuramente aver visto che si può collaborare, si può vivere un’opera e mettere a disposizione la propria vita, il desiderio è davvero di far sì che, rispondendo a un bisogno, la mia vita possa essere utile. E questo ho visto che è possibile per un medico, per una panettiera che lavora nel suo soggiorno o per un imprenditore come Alejandro, conoscendo sempre di più se stesso e vedendo come si può davvero rispondere. E poi, sicuramente, la differenza tra guarire e curare sarà una cosa che, appunto, un medico non sempre può guarire, non sempre può togliere tutto il dolore, ma che è differente il modo in cui sta di fronte a una persona. E anzitutto parte da quello.
Archidi. Ma io direi silenzio, che vuol dire… appunto noi, almeno a Milano, ma come penso in tante città, siamo abituati a un tempo che è tiranno, che ti divora, per lo più, che non ti lascia spazio, non lascia spazio alla memoria, no? Quindi bisogna sempre essere proiettati verso l’oltre, ma senza poter far memoria di quello che c’è stato appena prima, no? E invece, per me, adeguarmi anche ai ritmi fluviali è stato prezioso perché, come diceva prima Fabio, tante volte con le persone il programma salta, no? E una cosa che ho proprio visto con limpidezza è che in alcuni contesti, soprattutto in Amazzonia, non si può basare la relazione sul programma, ma sul rapporto che giorno per giorno si instaura con l’altra persona. E questo è prezioso, innanzitutto da un punto di vista umano, perché il rischio del programma, che si insidia dietro l’angolo, è che il programma, cioè il fare, il tempo scandito da cose da fare, distragga da sé. E quindi uno può anche essere efficiente, ma sentirsi vuoto. Ma poi anche da un punto di vista operativo, perché nel momento in cui ciò che si costruisce si costruisce nella relazione quotidiana, quindi nell’accettare l’altro, quindi nella capacità di pazienza che si sviluppa, il modo di agire cambia anche se la coscienza che uno ha. E quindi questa è tra le cose più preziose che mi porto dietro.
Poletto. Grazie. Allora, l’ultimo cuore inquieto. Adele, tu ce l’hai detto, però tanti fanno fatica, spesso si fa fatica a far entrare dei giovani, succede, e tante persone fanno fatica a fare quello che mi sembra sia più un passo di lato che un passo indietro, per come l’hai spiegato tu. Dicci sinteticamente perché ne vale la pena.
Tellarini. Ne vale la pena perché il problema non è appena aprire ai giovani, è aprire a delle persone che hanno voglia di implicarsi con te in questa avventura e che quindi hanno voglia di incominciare a rispondere a quel pezzo di storia che tu incontri. E questo è un punto di bellezza, è un punto per me di tranquillità, perché capisci che l’opera, perché noi abbiamo questa responsabilità, che l’opera vada avanti, ma che l’opera vada avanti rispondendo al suo scopo, non che continui a fare l’impresa di servizi. A me, personalmente, l’impresa di servizi non interessa, mentre mi interessa, e credo che interessi a tutti noi, che l’opera serva il bisogno che uno incontra. E dentro il guadagno di questi giovani che crescono insieme con noi dentro una responsabilità è proprio la capacità di poter stare a quel che accade. E quindi è come dire, l’opera può andare avanti perché ha un valore eterno, perché è per l’uomo e per l’eternità, io penso questo.
Poletto. Grazie, grazie Adele. Grazie a tutti innanzitutto per la sincerità con cui avete risposto, per come vi siete messi in moto e per il pezzo di mondo e della vostra esperienza che ci avete partecipato. Oggi, mentre sentivo come tanti il messaggio di Papa Francesco al Meeting, mi ha colpito questo passaggio che mi sono fotografata. Papa Francesco incoraggia dunque il tentativo di cercare con passione ed entusiasmo quanto fa emergere la bellezza della vita, affrontando la questione posta da Don Luigi Giussani, quando con coraggio affermava: “Il cuore è eroso dalla sclerosi, vale a dire dalla perdita della passione del gusto di vivere, la vecchiaia a vent’anni e anche prima.” Io spero che questo nostro incontro sia stato un contributo a far vedere che la si può vivere in modo diverso, no? Cioè, che questo cuore inquieto ci porta queste scoperte bellissime e ci porta a questa, veramente, scommessa dell’eterna giovinezza che abbiamo potuto vedere con commozione oggi. È stato pubblicato il testo dell'”L’io, il potere e le opere”, il ciclo di incontri che è stato fatto l’altro anno sul tema “L’Io, potere e le opere”, per cui chi lo vuole può rivolgersi allo stand delle Opere Sociali per prenderlo, adesso a voi lo regaliamo e lo leggete tutti. Per il resto, tutti gli altri incontri sono sul sito o sul programma, per cui c’è.