COOPERATIVE SOCIALI, LUOGHI DI VITA

Cooperative sociali, luoghi di vita

23/08/2011 - ore 15.00 Partecipano: Rosario Altieri, Presidente di AGCI (Associazione Generale Cooperative Italiane); Sara Barbieri, Responsabile area territorio--famiglia della Cooperativa Sociale Paolo Babini; Giuseppe Guerini, Presidente di Federsolidarietà-Confcooperative; Andrea Villa, Presidente della Cooperativa Sociale Il Carro. Introduce Monica Poletto, Presidente della Compagnia delle Opere-Opere Sociali.

Partecipano: Rosario Altieri, Presidente di AGCI (Associazione Generale Cooperative Italiane); Sara Barbieri, Responsabile area territorio–famiglia della Cooperativa Sociale Paolo Babini; Giuseppe Guerini, Presidente di Federsolidarietà-Confcooperative; Andrea Villa, Presidente della Cooperativa Sociale Il Carro. Introduce Monica Poletto, Presidente della Compagnia delle Opere-Opere Sociali.

 

MONICA POLETTO:
Buongiorno a tutti….

PROIEZIONE VIDEO

SARA BARBIERI:
Sono Sara Barbieri della Cooperativa Paolo Babini, ma sono una mamma affidataria che, nella realtà della cooperativa, prova concretamente a vivere le esperienze che definiamo sostenibili. Provo a spiegare meglio questo progetto che nel video abbiamo provato a sintetizzare. La cooperativa sociale nasce a Forlì nel 1987, come naturale evoluzione dell’esperienza di volontariato che, consolidatasi e strutturatasi nel tempo, necessitava di nuovi strumenti e modalità organizzative per dare risposta ai bisogni sociali ed educativi nel territorio. La cultura della cooperativa fonda le sue radici nell’associazione omonima che ha come finalità la promozione della solidarietà, dell’accoglienza tra i soci: soprattutto, nei confronti degli emarginati, la valorizzazione della persona in tutte le sue potenzialità e la difesa dei suoi diritti. L’associazione continua, a fianco della cooperativa, ad operare nell’integrazione con circa 250 soci volontari, 150 dei quali impegnati concretamente in una o più attività della cooperativa e della stessa associazione. Ad oggi, la cooperativa è un’impresa sociale radicata nel territorio, con numerosi servizi e progetti innovativi rivolti all’infanzia, ai minori, alla famiglia e alla comunità.
In particolare, oggi vorrei parlarvi di due progetti specifici: Famiglie in rete e il Villaggio Mafalda. La cooperativa persegue una politica di welfare di comunità che vede l’impresa impegnata da anni nel lavoro di rete con le istituzioni locali, le organizzazioni profit e non profit, le famiglie, i singoli cittadini, per promuovere e mettere in rete le risorse esistenti nel territorio forlivese, affinché, assieme alla comunità locale, sia possibile rispondere ai bisogni sociali ed educativi emergenti nella nostra città. La Cooperativa, inoltre, attraverso i suoi progetti, si propone di sensibilizzare il territorio ad una cultura della solidarietà come responsabilità civile, in collegamento anche con il consorzio territoriale e il consorzio CGM.
Il presidente della cooperativa è un sacerdote, don Girolamo Flamigni che è soprattutto il padre spirituale dell’opera, presente e coinvolto in tutte le scelte più importanti. Il suo stile è quello di fidarsi delle persone, delle loro capacità e passioni ma soprattutto della Provvidenza che fino ad oggi ci ha sostenuto. La direzione operativa non è in mano solo ad una persona ma per scelta è affidata a quattro responsabili che si occupano delle quattro aree della cooperativa ed hanno il compito di mantenere uno sguardo di insieme sull’opera.
Chi dirige un impresa, soprattutto se ha moventi ideali, è prima di tutto custode della meta, ricorda ed indica dove si deve andare, verifica che non si perda la direzione, trasmette ad ogni livello il senso della missione e il significato del compito, il senso del dovere e della responsabilità. Per fare questo, occorre crederci profondamente, nessuno trasmette modelli se non li pratica personalmente e se non da l’esempio: questo è ciò a cui noi tendiamo, che non sempre forse riusciamo a realizzare. Molti soci della cooperativa sono coinvolti in scelte di vita come essere famiglie di appoggio – come avete visto nel video – o fare accoglienza del progetto Famiglie in rete: è una richiesta ma anche una sfida che tutti i giorni ci poniamo.
Come nasce il progetto Famiglie in rete? Nasce dalle famiglie di appoggio che scelgono di vivere all’interno delle comunità educative. Il nucleo familiare vive all’interno della struttura ma sostiene con la sua presenza e con il suo intervento il percorso di crescita dei minori, offrendo loro la possibilità di confrontarsi con un’altra famiglia rispetto a quella incontrata lungo il loro percorso di crescita. Questa esperienza ha dato origine sia al progetto Famiglie in rete che al Villaggio Mafalda. Durante questi anni di esperienza, abbiamo notato che le famiglie di appoggio sono rimaste punto di riferimento dei ragazzi, anche dopo la loro uscita dalla comunità: spesso hanno continuato a portare i loro bisogni, le loro difficoltà agli adulti affidabili e significativi con cui avevano creato un legame affettivo. Le famiglie d’appoggio, percependo talvolta la sproporzione tra le proprie forze e le richieste di aiuto e sostegno, si sono rivolte ad altre famiglie, ad altre coppie disponibili ad aprirsi all’accoglienza. Così nasce, come diceva nel video Monica, nel 2000, una piccola rete di famiglie per aumentare le risorse accoglienti, per confrontarsi sulle esperienze e sui bisogni, per operare in modo organizzato e strutturato.
Comincia a germogliare un piccolo seme che avrebbe generato, oltre al progetto Famiglie in rete, il Villaggio Mafalda ma anche tanti altri progetti, con una certezza che è diventata sempre più chiara nel tempo: occorre essere un villaggio educante, o meglio una comunità educante, se vogliamo creare una società migliore. L’emergenza educativa di cui tanto si parla oggi nasce dalla crisi della comunicazione tra le generazioni. L’educazione ha bisogno di vicinanza, di fiducia, di scambio. Ecco perché pensiamo che i giovani possano ricevere dagli adulti il patrimonio di senso, di valore e di idee che li aiuta ad orientarsi nella vita. Solo rimanendo vicino ai giovani e condividendone la quotidianità, gli adulti possono accogliere i turbamenti, le domande e le inquietudini ed accompagnarli nel cammino della crescita. Ecco perché ci piace parlare di educare alla responsabilità nella quotidianità, nell’esempio concreto, nel vivere la personale libertà.
Che cos’è oggi la rete di famiglie? Attualmente, le famiglie coinvolte nel progetto sono 70: noi le chiamiamo grande gruppo, perché sono poi divise in 7 punti rete, 7 piccoli gruppi. Ognuno viene facilitato da un conduttore volontario e da un professionista, che fanno parte del gruppo di coordinamento del progetto insieme alla responsabile dell’area minori, al presidente della cooperativa e ad una consulente esterna. Questi gruppi di famiglie si incontrano una volta al mese per confrontarsi sull’esperienza, per vivere insieme le difficoltà. Hanno poi momenti di formazione per cui si incontrano circa quattro volte l’anno, in piccoli gruppi o in grande gruppo, per ascoltare anche altre esperienze. Durante i primi tre anni c’è stato un unico gruppo. Poi 10, 12 coppie hanno incominciato ad incontrarsi per fare esperienze diverse: famiglia d’appoggio, volontariato per qualche ora, insieme ai ragazzi delle comunità.
Pian pianino i gruppi si sono strutturati, la rete è cresciuta: nel 2003 è stato attivato il gruppo che riunisce le famiglie che stanno vivendo l ‘esperienza dell’affido. Abbiamo capito che questo era un altro grande bisogno: l’anno successivo abbiamo dovuto costituire un altro gruppo e le famiglie sono raddoppiate, proprio perché l’affido era una problematica molto sentita ed importante. Nello stesso anno, si è costituito un gruppo di famiglie che fanno accoglienza temporanea a bimbi di età 0-6, inseriti presso la comunità Santa Cecilia che offre accoglienza diurna. Vi sono poi due gruppi per esperienze di famiglie che fanno appoggio a ragazzi maggiorenni. Negli ultimi due anni, si è costituito un gruppo di famiglie che supporta le famiglie d’origine di ragazzi con disabilità gravi.
Nel corso di questi dieci anni, quasi annualmente, la rete ha gemmato un nuovo gruppo come risposta concreta ai bisogni incontrati. Siamo in movimento, ci piace dire che ogni anno non sappiamo cosa ci riservi il futuro, perché la rete è flessibile ma solida, elastica e mutevole, fitta ma in espansione. La rete è stata un contagio, è nata sottovoce e senza nessun tipo di pubblicità. Poi è cresciuta: il bene si diffonde e basta a se stesso.
Ma quali sono – per entrare in merito – gli scopi e le finalità di questo progetto? Provo a definirle con degli slogan. Perché esiste la rete di famiglie? Per creare una rete integrata di famiglie che si sostengono nelle diverse accoglienze, per creare un luogo in cui prendersi cura a vicenda e crescere insieme, per creare una relazione significativa tra gli adulti della rete, i bambini, gli adolescenti e tutti coloro che vivono un periodo di difficoltà. Ma anche perché crediamo che occorra uno sforzo di tutti per una società migliore, perché crediamo sia nostro dovere insegnare ai ragazzi cosa significa creare un tessuto sociale solidale ed educare cittadini responsabili, in grado di generare positività. Perché non si modifica nulla se non crediamo che agio e disagio possano e debbano convivere e contaminarsi vicendevolmente.
A quali bisogni abbiamo risposto fino a oggi? I bisogni sono davvero tanti, purtroppo sono in aumento. Al momento, le risposte che abbiamo dato sono state rivolte ai minori che vivono nelle comunità e che necessitano di confrontarsi con modelli positivi di famiglia che non hanno incontrato nella loro esperienza, costruendo un’amicizia con famiglie che offrono alcune ore, momenti nei weekend, periodi di vicinanza. Un vero e proprio punto di riferimento affettivo che si affianca agli educatori e alla famiglia d’origine, perché comunque questi ragazzi hanno una famiglia. Mi preme sottolineare a questo proposito il lavoro svolto negli ultimi anni, nello specifico con le famiglie d’origine: infatti dobbiamo credere fermamente che si possano recuperare queste famiglie, che i ragazzi possano recuperare il buono che c’è nelle loro famiglie. Poi abbiamo dato risposta ai bimbi piccolissimi (0-6), che necessitano di famiglie che li accolgano fino a quando la loro situazione giuridica non si sia chiarita, fino a quando non si stabilisce dove debbano andare: se tornare in famiglia, se andare in affido, se andare in adozione. Questi bimbi vivono presso le famiglie e per alcuni pomeriggi, alcuni week-end e di giorno, risiedono in comunità. Quando si risponde a questo bisogno, i bambini devono sentirci come un ponte, caldo ed accogliente, fra la loro famiglia e la famiglia che li accoglierà.
Ma le risposte che abbiamo dato sono state rivolte soprattutto alle famiglie affidatarie, che accolgono i minori e hanno bisogno di essere supportate nel loro compito educativo, anche attraverso famiglie di appoggio che le sostengano, che concretamente tengano i bambini, che accompagnino in questa esperienza la famiglia affidataria. L’affido è complesso, e necessita inevitabilmente di un’attenta e accurata regia di tutti gli attori coinvolti. Inoltre, i ragazzi che sono in affido devono sentire in modo molto forte che la mamma e il papà affidatari sono co-mamme e co-papà, non genitori sostitutivi. Questa è per noi la grande sfida dell’affido da perseguire nei prossimi anni: proprio perché è estremamente complessa ma non impossibile, a noi piace parlare di affido accompagnato. Poi, diamo risposta alle famiglie adottive che, in attesa di accoglienza definitiva, trovano nella rete un luogo di esperienza e di riflessione oltre che di crescita personale.
Un’altra risposta è stata data alle famiglie con gravi disabilità, che spesso si trovano in condizioni di profonda solitudine e vivono con il costante pensiero di chi si occuperà del proprio figlio dopo di loro. Il gruppo offre a queste famiglie, prima di tutto, momenti aggregativi e di sostegno concreto. Si facilita la conoscenza dei ragazzi e ci si prepara per fronteggiare le emergenze. Inoltre, si danno risposte ai maggiori che, usciti dalle comunità, hanno ancora bisogno di essere accompagnati nel cammino verso l’età adulta; sia con accoglienza residenziale presso il Villaggio Mafalda che con appoggi di varia natura.
Anche alle ragazzi madri, alle madri sole in difficoltà, che spesso non hanno una rete parentale alla quale chiedere l’aiuto di cui necessitano, diamo risposta tramite il Villaggio. Questi bisogni – i neomaggiorenni e le ragazze madri – nello specifico hanno una loro collocazione all’interno del Villaggio. Il Villaggio è il risultato di anni di esperienza nel mettere in relazione tra loro professionalità, volontariato, famiglie e l’intera comunità. Rappresenta il desiderio della cooperativa di proporre al territorio un modello di servizio socialmente utile e innovativo, basato sull’accoglienza, la solidarietà e la condivisione con le persone che si trovano in situazione di difficoltà . Nel corso degli anni, si è rafforzata l’idea di realizzare un progetto formato da più unità abitative, in cui alcune famiglie d’appoggio vivono vicine e offrono accoglienza e supporto a madri in difficoltà, ai maggiorenni o a persone ospitate presso alcuni miniappartamenti.
Il progetto ha assunto progressivamente la connotazione di un vero e proprio villaggio perché, oltre ad essere abitato da nuclei familiari stabili, motivati dai valori dell’accoglienza e della solidarietà, offre al suo interno servizi rivolti a diverse fasce della popolazione. Ci sono 11 miniappartamenti per nuclei mono genitoriali, 1 asilo nido, 1 comunità educativa residenziale per minori, 1 comunità socio-educativa semiresidenziale, 1 comunità di tipo familiare, 1 comunità sperimentale con famiglie accoglienti in rete, 1 mercatino della solidarietà, 1 centro polivalente e 1 cucina che produce 200 pasti al giorno per cooperative e nidi del territorio, avvalendosi di persone svantaggiate e spesso facendo lavorare i nostri ragazzi che, usciti dalle comunità, non trovano lavoro.
Avviandomi verso la conclusione, crediamo fermamente che le esperienze profonde non possano essere vissute da soli, che mettere insieme le persone non sia solo una scelta metodologica ma si basi su un’idea precisa di uomo: non è bene che l’uomo sia solo. Fiduciosi che quel pezzo di umanità dato da ognuno, insieme germoglia, crediamo che l’arte di tessere relazioni sarà la scommessa non solo del nuovo welfare ma della possibilità di benessere dell’uomo di oggi. Preoccuparci troppo del domani, di come saranno questi bimbi, di quali problemi incontreranno, non ci fa investire energia nel presente che è invece l’unica certezza. Concludo, dicendo quello che ripetiamo spesso alle nostre famiglie, quando le incontriamo: quando apriamo il cuore all’altro e si inizia un’avventura, spesso non si sa dove si andrà a finire, ma di certo sappiamo che, ovunque andremo, saremo insieme dentro una certezza di bene, saremo insieme per esprimere e costruire una positività del reale che ci supera ma che sostiene la nostra speranza. Grazie.

MONICA POLETTO:
Grazie, Sara, grazie veramente. Adesso diamo la parola ad Andrea Villa, presidente della cooperativa Il Carro, della ridente e nebbiosa Paullo. Un applauso di incoraggiamento.

ANDREA VILLA:
E’ accaduto oltre trent’anni fa: un giovane prete di Paullo chiedeva ad alcuni giessini se fossero disponibili a far compagnia, la domenica pomeriggio, a dei ragazzi disabili della zona. L’incontro pomeridiano della domenica si allargò alla condivisione della messa e del pranzo, successivamente all’avventura delle vacanze estive per giungere, infine, all’apertura di un luogo di lavoro per alcuni di quegli amici disabili che Qualcuno aveva messo sulla loro strada. La Cooperativa, nata nel 1988, conta ora 54 soci lavoratori, oltre ad un numero importante di volontari e tirocinanti. Il tema dell’incontro Cooperative sociali, luoghi di vita ci permette di trovare, tra innumerevoli esempi che quotidianamente accadono, alcune situazioni che rendono bene il titolo di questa assemblea: fatti concreti che dimostrano come questi luoghi siano veramente incontri di umanità vera.
Anno 2007: un Comune della zona ci affida un piccolo lavoro di manutenzione con l’impegno da parte nostra ad ospitare, come tirocinante, una persona di circa 60 anni con un’esperienza dolorosa alle spalle. Paolo, imprenditore nel ramo edile, ha una bella famiglia: moglie, quattro figli, Mercedes, affari a gonfie vele. Ad un certo punto il vento della vita cambia direzione: la ragazza di ventiquattro anni, che era entrata nel tunnel della droga, scappa dalla comunità e, dopo pochi giorni, viene trovata morta in seguito ad overdose. Il ragazzo di 27 anni, che aiutava il padre nel cantiere, comincia a far uso di sostanze e, in seguito a ciò, ha un pauroso incidente in moto che ne causa la morte. La madre comincia a dare segni di depressione. L’azienda edile, vuoi per contrasti tra i soci vuoi per un brutto contraccolpo, fallisce. Paolo si ricicla in un altro settore lavorativo in cui riesce a riprendersi finanziariamente e, seppure con le ferite ancora aperte, cerca di risollevare la famiglia, soprattutto per rispetto dell’ultima nata, Maria Paola che, in quell’epoca, frequenta le scuole medie. Capita però che anche l’altro fratello entri nel giro della droga e, in un periodo in cui deve sostituire il padre ricoverato in ospedale a seguito di una frattura, prosciughi gli averi aziendali e perda una commessa redditizia. Sono sul lastrico: rimane la piccola Maria Paola, la moglie ormai avulsa dalla realtà, il figlio in carcere e una villa su cui gravano una serie di ipoteche dovute a debiti pregressi.
E’ in quel momento che Paolo fa la sua apparizione in cooperativa: la boria e l’arroganza dell’imprenditore si trasformano nell’umiltà di chi sa di aver bisogno di tutti. Accetta qualsiasi lavoro gli venga proposto: viene assunto in cooperativa e seguito nelle sue vicende familiari. Spesso ci rechiamo insieme presso una comunità di recupero dove vorremmo fare inserire Emanuele, che nel frattempo è uscito dal carcere per il condono. Non facciamo in tempo: Emanuele ricade e torna in prigione. Paolo, con tempra impressionante, continua a lottare per la sua Maria Paola e per la moglie. Si affeziona ai colleghi della cooperativa, soprattutto a Lino, un ragazzo poco più grande del figlio che ne ha condiviso le avventure nel mondo della droga e del carcere. Lino sta facendo cambiamenti insperati e Paolo idealizza in lui il riscatto del proprio figlio. Capitato per caso in cooperativa a seguito di una richiesta dei servizi sociali di Paullo, Lino viene da un’esperienza ventennale di utilizzo di sostanze, da continue entrate ed uscite dal carcere.
Quando i servizi ci propongono questo tirocinio, siamo perplessi: la nostra cooperativa opera con persone disabili, in questo settore non ci siamo mai cimentati. Però, se il buon Dio mette Lino sulla nostra strada, ci deve essere senz’altro un motivo. Lino rinasce, la gente del posto non lo riconosce più: dopo un periodo di tirocinio viene assunto dalla cooperativa nell’ambito della manutenzione del verde ed impara velocemente questo lavoro diventando un punto importante, seppur critico, della cooperativa. Il rapporto tra lui e Paolo sono stretti, senza formalismi: pur in presenza di una certa rudezza, si tratta di un rapporto vero, tra uomini.
Le traversie della vita di Paolo, però, hanno il sopravvento. Il 5 dicembre 2009 un infarto lo stronca all’improvviso. Ricordo che ero in montagna quando ricevo una telefonata di Lino che mi comunica la triste notizia. Tutta la cooperativa – i pochi dipendenti, gli amici, i volontari – è presente alla cerimonia funebre. In disparte, seguito da due accompagnatori speciali, il figlio Emanuele con la mamma e la sorella ancora diciassettenne. La ragazza, dotata di forte tempra, trova nella cooperativa un sostegno ai mille problemi che le sono capitati tra capo e collo. Ci interessiamo a Emanuele, e veniamo a sapere che il carcere sta progettando di mandarlo a lavorare in una realtà esterna. Chiediamo immediatamente che prendano in considerazione la disponibilità della nostra cooperativa: queste persone, infatti, non hanno solo bisogno di un lavoro ma soprattutto di sentirsi considerati, di sentirsi voluti bene, di sentire che qualcuno ha fiducia in loro. Dopo un tirocinio di sei mesi, Emanuele viene assunto dalla cooperativa: ogni mattina esce dal carcere e rientra la sera: nel frattempo, è diventato uno dei punti di forza nel settore del verde.
Ma cosa spinge una cooperativa a questa modalità di comportamento? Perché, quando una persona entra qui dentro, è come se entrassero tutti i suoi problemi, tutta la sua famiglia, tutta la sua vita? Fatti come quelli raccontati, pur con caratteristiche e modalità diverse, da noi accadono ogni giorno. Una lavoratrice ci scrive: “…anche se qui al Carro faccio lavori semplici e umili, sono contenta perché è una scuola di vita. Tutto quello che c’è qui e tutte le persone che sono qui, mi portano a Cristo. E questa è l’unica cosa che conta. E poi, mi sento voluta bene. A voi non importa se sono matta, importa che sono una persona. Stare in questa esperienza, per me non è un semplice sentirmi utile ma c’entra con il mio destino…”. Oppure il nostro dipendente che ci chiede di aiutarlo a cambiare vita, affinché possa incontrare con più regolarità il figlio che gli è stato tolto dal tribunale. O il carcerato che, non potendo ritornare da noi per una leggerezza compiuta all’interno del carcere, ci manda le sue poesie. C’è il ragazzo ventenne che, persa la testa per una ragazzina, abbandona la famiglia presso cui vive in affido da oltre sette anni e lascia il lavoro: chi si dà più da fare, con le buone e con le cattive, affinché ritorni sui suoi passi? Proprio coloro che il mondo chiama avanzi di galera. Il cristiano iracheno, interprete presso il Ministro Tarek Aziz, costretto a fuggire da Bagdad con la moglie, oggetto di minacce e colpi di pistola, che ci chiede lavoro e accetta di guidare i nostri pulmini che portano persone disabili. Il nuovo direttore, giovane quarantenne, precedentemente responsabile di una azienda profit, che ci conosce e accetta di lavorare con noi, sobbarcandosi ogni mattino il tragitto in treno da Torino a Paullo. E dopo pochi mesi, con moglie e tre figli, lascia il bellissimo appartamento situato in una bella zona di Torino e viene ad abitare a Milano, zona Corvetto (non una delle più belle zone della città), Via Martinengo, perché “vicino alle Suorine c’è un popolo”. Lo stesso direttore, abituato alla essenzialità e, oserei dire, alla crudezza dei rapporti che esistono tra imprenditore e dipendente nelle aziende profit, di fronte ad una seria difficoltà lavorativa sorta in cooperativa con un dipendente, lo invita a cena e gli dice: “Non voglio parlarti di lavoro, parliamo di te e di me”.
Cosa spinge una educatrice affermata, operante in un’altra cooperativa sociale senz’altro più importante della nostra e proveniente da una storia completamente diversa, a chiedere di essere assunta da noi? Perché il Consiglio d’Amministrazione, ora che abbiamo raggiunto finalmente una stabilità economica, decide di sobbarcarsi l’onere di trasformare la cooperativa di tipo B in cooperativa di tipo misto ed aprire una comunità alloggio pensando a Giuseppe, nostro dipendente da oltre 10 anni, che potrebbe a breve ritrovarsi solo con la propria disabilità? Perché una psicologa affermata mette a disposizione la propria professionalità all’interno della nostra cooperativa? Perché oltre 600 persone sottoscrivono il 5 per mille permettendoci di incassare ogni anno circa 20.000 euro essenziali per la nostra attività? Perché il Comune di Paullo ci ha messo a disposizione gratuitamente una struttura di oltre 800 mq? Perché il nostro Fino, a 82 anni compiuti, viene ancora ogni mattino alle 6 per realizzare gli affreschi di nostra produzione che hanno invaso la Lombardia? E perché accetta di insegnare questo lavoro ad un gruppo di giovani rumeni che apriranno a breve una cooperativa, a qualche decina di chilometri da Bucarest? Perché questi rumeni, su decine di cooperative che hanno incontrato, hanno chiesto proprio a noi di illustrare in Romania, di fronte ad un centinaio di persone (educatori, politici, imprenditori e il Vice Capogabinetto del Ministro) il nostro metodo di lavoro?
Perché enti pubblici e aziende private ci propongono nuove commesse di lavoro permettendoci, nel giro di pochi anni, di portare i nostri dipendenti al numero di 54, una ventina dei quali svantaggiati? E perché lo chiedono proprio a noi, che tendiamo ad assumere persone che non sono certo le più professionalmente preparate ma che, nonostante tutto, garantiscono un lavoro svolto correttamente? Non sarà perché ogni giorno facciamo memoria dell’inizio di questa storia, di quell’incontro del giovane prete con i giessini di Paullo? Non sarà perché, prima ancora che venisse costruita la nuova cooperativa, eravamo preoccupati di come trasferire la cappelletta della Madonna? Nell’anno in cui ci era stato proposto il trasferimento nella nuova sede, infatti, avevamo realizzato, con degli amici muratori ed un artista, una cappelletta alla Madonna che doveva essere il nostro punto di riferimento quotidiano.
Non sarà perché, in piena crisi, con un bilancio in rosso da paura, al termine
dell’Artigiano in Fiera di qualche anno fa, venuti a conoscenza dell’iniziativa della Compagnia delle Opere, “Adotta un disabile”, per sostenere le cooperative di Crosta, abbiamo preso i 500 euro di utile di quei giorni di lavoro e li abbiamo dirottati lì? Non sarà perché il nostro, prima che un luogo di lavoro, è un luogo dove ci si fa carico di una persona, la si abbraccia? Non sarà perché questa cooperativa è l’incontro tra uomini ed esperienze che, ad di là di ogni ideologia e storia personale, mette al primo posto il cuore dell’uomo? Non sarà che tutto questo è l’evidenza di quello che Cristo disse 2000 anni fa: “Chi mi segue avrà la vita eterna, e il centuplo quaggiù”?.
Permettetemi, per concludere, di citare due punti dell’intervista che Papa Benedetto ha rilasciato a Peter Seewald, pubblicati nel libro Luce del mondo.
“Gesù non porta solo una notizia, egli è anche il Salvatore, Colui che sana, il “Christus medicus”, per usare un’antica espressione. In questa società tanto rovinata e malata, della quale tanto abbiamo discusso in questa intervista, non sarebbe compito prioritario della Chiesa in particolare rendere chiaro che il Vangelo offre guarigione? Cristo confermò a sufficienza i suoi discepoli sul fatto che, insieme all’annuncio, avevano il potere di scacciare i demoni e di guarire”.
“Sì, questo è decisivo. La Chiesa non grava gli uomini di un qualcosa, non propone un qualche sistema morale. Veramente decisivo è che essa dona Lui che apre le porte che conducono a Dio e che così dà agli uomini quello che maggiormente attendono, quello di cui hanno più bisogno e quello che può maggiormente aiutarli. Essa fa questo soprattutto per mezzo del grande miracolo dell’amore che sempre di nuovo accade. Gli uomini – senza ricavarne alcun profitto, senza doverlo fare di mestiere – motivati da Cristo, assistono gli altri e li aiutano. Questo è il carattere terapeutico del Cristianesimo – come dice Eugen Biser – che guarisce e dà gratuitamente. Un grande problema per i cristiani è l’essere esposti ad un bombardamento permanente da parte del mondo contro i valori alternativi che offre la cultura cristiana. In fin dei conti, è impossibile opporsi a questa propaganda mondiale di comportamenti negativi? In effetti abbiamo bisogno, in certo qual modo, di isole nelle quali viva e dalle quali si diffonda la fede in Dio e la profonda semplicità del Cristianesimo: oasi, arche di Noè nelle quali l’uomo può sempre trovare
rifugio”. E’ troppo chiedere che anche la nostra cooperativa possa essere questo luogo,
questa oasi, questa arca di Noè? Noi sappiamo che c’è Qualcuno a cui possiamo chiederlo e, per questo, lo vogliamo chiedere.

MONICA POLETTO:
Grazie, Andrea. Se dai il codice fiscale, secondo me aumenti il 5 per mille. Vi ringrazio molto di queste esperienze, perché fa parte del metodo del Meeting imparare dall’esperienza, e fa parte del metodo del Meeting il fatto che ogni costruzione di pensiero, ogni valutazione, ogni strategia, nasca dall’imparare dall’esperienza. Due storie così belle hanno evidentemente delle caratteristiche, dei tratti, che in parte ci hanno commosso e dove evidentemente si vede che non esiste forma, non esiste struttura, non esiste niente se non c’è un io, se non c’è una persona che gioca senza paura il proprio desiderio. Adesso passiamo alla seconda parte dell’incontro che è strettamente in nesso con la prima. Abbiamo chiesto a due presidenti di importanti federazioni, che dopo presenterò, di dirci cosa pensano, loro che di cooperative non ne vedono una ma tante. Che cosa vedete? Quali tipi di problemi identificate? Perché sono una risorsa per il Paese? E lo sono? Iniziamo da Giuseppe Beppe Guerini, mio grande amico e presidente di Federsolidarietà. Vai.

GIUSEPPE GUERINI:
Mai come in questo momento storico dobbiamo sentirci chiamati ad assumere fino in fondo il ruolo di protagonisti direttamente impegnati nel cercare di dare alla nostra società e al nostro Paese una prospettiva di fiducia e di investimento nella quale credere. Mai come oggi abbiamo bisogno di “luoghi di vita”: per questo sono particolarmente grato a Monica Poletto per questo invito e per aver voluto assegnare questo titolo al nostro incontro. E’ un titolo forte e lo è ancora di più collocato nel contesto di un Meeting che ha per titolo E l’esistenza diventa una immensa certezza. Certo, può apparire ambizioso, se non addirittura arrogante, volere assegnare ad una forma organizzativa come quella della cooperativa sociale lo status di “luogo di vita”, cioè spazio e contesto che dà forma all’esistenza. Assumere cioè la pretesa di interpretare un modo di essere nel mondo. Ma in fondo, forse, solo assumendo questo rischio che poi è insito nel compito che ci assegna l’articolo 1 della legge 381/91 (che per inciso compie i suoi primi 20 anni e che, mi permetto di ricordarvi, festeggeremo in un grande evento il 16 novembre a Roma), possiamo continuare a svolgere con successo la nostra funzione, ma soprattutto possiamo pensare di dare un contributo costruttivo alla costruzione di un nuovo welfare di cui il Paese ha bisogno.
Non mi soffermo in questo caso su aspetti di analisi della situazione socio-economica o sulla crisi del sistema di welfare che sono sotto gli occhi di tutti, di cui sono comunque pieni sia i quotidiani sia numerose pubblicazioni, ma cerco di evidenziare i nodi principali sui cui concentrarci per lanciare alcune ipotesi di lavoro. Mario Draghi, nelle considerazioni finali pronunciate lo scorso 31 maggio, ha sottolineato come prima fra le grandi lezioni che ci ha impartito questa stagione di crisi: “La rete sociale, che ha tenuto, è essenziale”. Ovvero, servono relazioni di tenuta tra le persone perché, al di là di tutto, la rete sociale sono le persone, le famiglie, le forme di solidarietà e sussidiarietà organizzata che, nelle varie comunità locali, hanno consentito di reggere l’urto. Non solo, noi da anni sosteniamo che questo sistema di tenuta non serva solo a reggere gli urti ma sia esso stesso la base sulla quale si regge l’economia di mercato. Lo hanno finalmente scoperto anche economisti della prestigiosa Harvard Business Revue. Sul numero dello scorso gennaio, l’economista americano Michael Porter, sostiene che, per “reinventare il capitalismo” le imprese devono riconciliare attività economica ed affari con le società, per creare valori condivisi. In sostanza, si propone una ricetta cara alla cooperazione, ovvero che il valore economico si deve realizzare generando valore per le imprese ma anche per la società, rispondendo a un tempo alle finalità dell’azienda e alle esigenze di tipo sociale, non però sotto forma di marketing della filantropia, sotto forma di RSI, ma attraverso un modo di agire dell’impresa di tipo cooperativistico, che coinvolge la società civile e le amministrazioni pubbliche, riconoscendo che non sono i bisogni economici a definire il perimetro del mercato ma i bisogni della società.
Si riconosce così quanto da tempo andiamo affermando come imprese cooperative, e cioè che “la competitività di un’impresa e il benessere della comunità circostante sono strettamente interconnessi”. Le cooperative e le imprese in generale hanno bisogno di una comunità vitale e sana per avere risorse competenti in un ambiente capace di investire: al tempo stesso, le comunità locali hanno bisogno di imprese sane e competitive che creino lavoro e opportunità per creare ricchezza e benessere. Tutti, infine, hanno l’esigenza di politiche pubbliche adeguate, che promuovano buone regole condivise e virtuose. Fin qui, tuttavia, basterebbe esser buone imprese, condividere un progetto sociale con la comunità di riferimento: ma perché pretendere di essere addirittura “Luoghi di vita”? Bene, io penso che sia perché è il solo modo che abbiamo per darci una prospettiva di vita sostenibile, tenendo conto dei bisogni delle persone e soprattutto dei bisogni sociali che né l’intervento dello Stato, come ampiamente dimostrato dalla crisi dei sistemi di welfare state, né il rapporto di mero valore di scambio di mercato potranno mai soddisfare. Quello che voglio dire è che ci stiamo trovando ad affrontare davvero un cambio epocale, che ci impone di individuare modelli diversi di sviluppo economico e di protezione sociale. “Serve una svolta” ha affermato il presidente Napolitano nel suo intervento di apertura di domenica scorsa, chiedendo verità, che è l’ingrediente di base della fiducia, come elementi sui quali investire per il rilancio della produttività e quindi per la crescita del Paese. Questa traccia vale per l’intero sistema economico, e vale a maggior ragione per il sistema di protezione sociale, per il quale le cooperative sociali devono essere in grado di dare un contributo decisivo, proponendo un modello credibile e sostenibile.
Gran parte del successo dell’esperienza della cooperazione sociale, nel corso degli ultimi 20 anni, si è sviluppato proprio grazie ad una capacità di implementare in forma imprenditoriale le risposte a bisogni di assistenza, cura, educazione, inserimento lavorativo, ecc. La cooperazione sociale ha caratterizzato la sua missione nella promozione di nuove forme di partecipazione diretta dei cittadini all’economia ed allo sviluppo della comunità locale. Nate spontaneamente negli anni ’70, con iniziative autopromosse e organizzate dai cittadini, spesso a fianco di iniziative di volontariato, le cooperative sociali hanno sviluppato una valida risposta ai bisogni, nuovi o scoperti, emergenti nelle fasce più deboli della popolazione.
Le cooperative sono imprese democratiche, solidali e aperte, che agiscono per produrre benessere nelle comunità, per accrescere il capitale sociale del territorio e per promuovere nuove forme di cittadinanza attiva. Imprese sociali che, anche grazie all’assenza di ogni scopo di lucro e ad una base sociale multistakeholder, formata da soci diversi – lavoratori, volontari, fruitori e finanziatori -, realizzano l’intereresse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini, creano valori comuni, allestiscono luoghi di vita curata, come dimostrano le testimonianze della cooperativa Paolo Babini e della cooperativa il Carro. Tuttavia, una parte importante dei risultati imprenditoriali di questa esperienza si sono prodotti proprio in relazione ad un modello di spesa sociale, prevalentemente se non totalmente determinato dalla Pubblica Amministrazione, apportando certamente una forte innovazione al sistema di welfare dal punto di vista gestionale e organizzativo, ma rimanendo fortemente ancorata ad un modello di sostegno finanziato con risorse pubbliche, dove la funzione di “redistribuzione” è affidata allo Stato.
Ma è sotto gli occhi di tutti il fallimento del ruolo redistributivo, anche nell’ultima manovra, nonostante i richiami ad evitare i tagli lineari, a introdurre elementi di maggiore equità, nonostante gli appelli dei ricchi anche negli USA, come Warrent Buffet, per pagare più tasse. Alla fine il sistema non ce la fa e si vanno a trovare soluzioni note. Ora, l’ultimo fronte della conflittualità è se tagliare di nuovo sulle pensioni o ridurre i piccoli Comuni, con i sindaci dei minicomuni in rivolta, a contendersi le risorse dei pensionati al minimo. Non è un quadro edificante.
Per questo, riponiamo così tanta fiducia verso un incremento decisivo e totale della sussidiarietà, per tornare a forme di solidarietà e di relazioni comunitarie in grado di aumentare effettivamente il livello di sostenibilità dei sistemi di protezione sociale. Nel modello della cooperativa sociale radicata sul territorio e ad ampia partecipazione di diversi portatori d’interesse, che in particolare Federsolidarietà Confcooperative ha voluto individuare come modello di riferimento della cooperativa sociale, la persona deve essere il centro d’interesse, la principale priorità ma anche il moto propulsivo che muove l’azione imprenditoriale e sociale. La cooperativa sociale deve essere quindi uno strumento attraverso il quale si assume una funzione che interpreta l’economia nel suo valore originario: al servizio del bene comune, realizzando anche attività produttive di beni e servizi, finalizzate a favorire coesione sociale e integrazione. I risultati e le dimensioni della cooperazione sociale italiana testimoniano la validità del modello cooperativo.
Oggi la presenza del Presidente Altieri mi facilita nel richiamare i dati relativi alle cooperative sociali all’interno dell’Alleanza delle cooperative italiane: 8.650 cooperative sociali attive, 358 consorzi, 338.000 soci, oltre 300.000 lavoratori e oltre 26.000 persone svantaggiate inserite nelle cooperative sociali di inserimento lavorativo, di cui la metà sono persone con disabilità (le sole cooperative sociali d’inserimento lavorativo rappresentano meno dello 0,3% del totale degli occupati italiani ma impiegano il 7% del totale delle persone con disabilità che lavorano).
La cooperazione sociale in questi vent’anni ha infrastrutturato una rete di welfare territoriale, capillarmente diffusa in tutto il territoriale nazionale. Ha anticipato bisogni, sperimentato risposte innovative. Solo qualche esempio: l’assistenza domiciliare, i micro-nidi, le residenze, dopo la chiusura dei manicomi, l’inclusione sociale e lavorativa dei lavoratori svantaggiati con la cooperazione sociale di tipo b), esperienze vere di politiche attive del lavoro. Complessivamente, le cooperative sociali che fanno riferimento all’Alleanza sviluppano un fatturato aggregato di 8,5 miliardi di euro, mentre possiamo stimare che siano oltre 4 milioni le persone che vengono assistite direttamente da cooperative sociali.
Bene, tutto questo però non basta e soprattutto non deve esser motivo per indulgere o adagiarsi nella riproduzione dei modelli del passato. Il welfare è davanti a una svolta epocale, La funzione mutualistica della cooperazione sociale si pone l’obiettivo di avvicinare, in modo governato e non privatistico, la domanda organizzata (mutualizzare i bisogni) e la risposta innovativa, flessibile ed efficace (organizzare risposte sempre nuove), accessibile alla maggioranza della popolazione. Serve assumere la sfida di costruire risposte di qualità a prezzi accessibili, attivando tutte le risorse ed i soggetti che nei territori abbiano a cuore la dimensione pubblica e coesiva dell’esistere, condizione necessaria di sviluppo e di crescita.
Questo modello definisce un “esserci nel mondo”, volendo scomodare Heidegger, che implica direttamente la partecipazione: non è un essere ma un esserci, un portare il proprio contributo nel prendersi cura dell’essere nei luoghi di vita. In questi luoghi, è possibile, anzi, doveroso immaginare la definizione di un modello economico e sociale che offra una possibilità di protezione e cura, che parte dall’impegno del singolo coinvolto direttamente nel prendersi cura di sé, nel responsabilizzarsi e responsabilizzare i propri contesti al farsi carico del futuro. Non ci possiamo fermare ad aspettare che arrivino soluzioni da entità superiori. E’ sempre più importante che mettiamo in cantiere azioni concrete che contemplino: la rivalutazione delle esperienze mutualistiche; il governo e la programmazione delle risorse private e la domanda pagante; le forme di bilateralità contrattuale; servono forme di welfare aziendale e contrattuale. Ma attenzione a chi rischia di rimanere fuori dai “contratti protettivi”: servono aree e strumenti di allargamento della solidarietà.
Si tratta di prospettive che hanno bisogno di tempi lunghi, per cui è urgente iniziare presto a preparare il terreno e la cultura su cui far crescere la consapevolezza della necessità del II° Welfare. Il sistema della cooperazione è pronto a svolger il suo compito di corpo intermedio, della responsabilità e della reciprocità. Non si tratta tuttavia di aprire un negoziato sul welfare, poiché significherebbe usare per cura la stessa causa del male, ovvero la negoziazione dei diritti e delle priorità. Ora, è il tempo della affermazione della effettiva e piena reciprocità: noi possiamo assumerci delle responsabilità importanti per garantire e mantenere la coesione sociale ma dobbiamo vedere l’impegno responsabile e reciproco delle istituzioni investire sullo stesso terreno. Le politiche sociali sono un investimento nel futuro del Paese, tanto più preziose quanto più è in difficoltà. Rischiamo invece di continuare ad investire meno di quanto si investa in Europa.
Il Ministro Sacconi, con il Libro Bianco sul welfare, La vita buona nella società attiva, ha aperto una strada di lavoro utile e interessante. Ma occorre molto coraggio per andare avanti, il rischio è che, con la scusa della crisi e del banco del debito sovrano saltato, quel lavoro non diventi “vita attiva”. Più tardi, nel Seminario sulle tematiche del welfare, esorteremo proprio il Ministero a non abbandonare la strada della sussidiarietà nel sistema di welfare.
Ho citato il Libro Bianco e ho fatto il riferimento alla Vita attiva, che è uno dei libri più interessanti di Hanna Arendt, perché è uno dei primi riferimenti che mi sono venuti quando ho iniziato a pensare a cosa dire oggi, riflettendo a come le cooperative sociali possano essere luoghi di vita. Uno dei modi è senz’altro quello di essere luoghi in cui agire la politica del fare concreto e del coinvolgimento, che va oltre la dimensione del lavoro, certo fondamentale, o dell’opera prestata: ad esempio, la strutturazione di un servizio che pure è fondamentale. Ma il completamento della partecipazione al mondo si dà nell’agire un discorso di partecipazione tra pari, nell’assumersi una volontà di agire implicandosi al di là dell’esigenza o del bisogno che mi farebbe essere solo un portatore di domanda (pagante o pubblica, non fa differenza), ma portatori di un interesse da condividere e quindi di una responsabilità, di esserci nel dare avvio ad un iniziativa. Come succede, ad esempio, a molti genitori di persone con disabilità che sono promotori e protagonisti di esperienze cooperative, o come succede a gruppi di famiglie che sviluppano reti di accoglienza.
In questo senso, le cooperative sono luoghi di vita attiva, assumono cioè l’agire, nel senso etimologico di prendere un’iniziativa, iniziare, mettere in movimento qualcosa.
Sempre richiamandomi al lavoro di Hanna Arendt, mi piace ricordare come auspicasse una fase nuova del fare politica, sostenendo che le grandi riflessioni sulla politica e sulle forme di Governo siano sempre state fatte a partire dall’analisi di chi governa, dalla proposta di buone forme per governare, dal principio illuminato alla democrazia rappresentativa, fino ad arrivare alla dittatura del proletariato.
Ma quello di cui c’è bisogno è indagare e sostenere i meccanismi della partecipazione diretta dei cittadini che devono farsi protagonisti di una “Vita attiva”: ecco, io credo che una buona cooperativa sociale, quando sviluppa oltre che i buoni numeri di occupazione, grandi risultati di prestazioni in servizi e interventi di assistenza e cura, quando realizza interventi di inserimento lavorativo e di promozione dell’inclusione, sia un’ottima impresa sociale. Ma solo quando riesce ad aggiungere a questi elementi anche un elevato livello di partecipazione dei soci, quando è partecipata da una pluralità di portatori di interessi, quando è legata alla propria comunità locale, ecco, allora quella è una cooperativa sociale “Luogo di vita”. Grazie.

MONICA POLETTO:
Grazie; il Presidente Altieri che ci parlerà, forse amplierà il discorso anche un po’ oltre le sole cooperative sociali.

ROSARIO ALTIERI:
Si, credo che sia doveroso che lo faccia, ma consentitemi di aprire questo mio breve intervento con qualche riflessione di carattere personale. Questo appuntamento riminese di fine agosto, anche per un laico come me, è diventato un appuntamento al quale da qualche anno non rinuncio, e precisamente dal 2008, l’anno in cui sono stato eletto alla Presidenza Nazionale di questa associazione, l’Associazione Generale delle Cooperative italiane. E’ da allora che frequento il Meeting: dallo scorso anno, tra l’altro, l’associazione è presente anche con un proprio stand. Apro così per dire che, fino a qualche anno fa, io mi sorprendevo a riflettere su un appuntamento in una realtà bella dal punto di vista ambientale, dal punto di vista paesaggistico, molto prossima a occasioni di svago, una delle condizioni per attrarre una partecipazione e una presenza. Ma quando attraverso i media riflettevo sui temi che venivano discussi e approfonditi, sulle condivisioni di personaggi che, pur partendo da riflessioni non certamente omogenee, pervenivano alla individuazione di percorsi di vita che mettevano insieme esperienze molto diverse, cercavo di dare una risposta a cosa questo Meeting potesse avere. Ebbene, questa risposta l’ho avuta dal primo anno in cui l’ho frequentato, questa risposta è nei temi che vengono trattati, nella profondità con la quale si vivono queste settimane, in tutto quello che è dentro e consente le testimonianze che oggi ci sono state portate.
Io credo che nessun’altra espressione possa consegnare uno spaccato della cooperazione sociale come queste due testimonianze che oggi ci sono state portate. A volere arricchire queste testimonianze con delle riflessioni affidate a espressioni verbali, si rischierebbe di svilire quella che è l’essenza vera della cooperazione sociale e di quella funzione sociale che la cooperazione ha all’interno della società, una attività che è insieme impresa e socialità, una attività che deve rispondere, competere sul mercato, con una serie di attacchi dai quali viene quotidianamente fatta segno. Ma deve anche tener conto che il suo obbiettivo, il suo scopo non è costruire utile: piuttosto, definire condizioni di vita, assistere, essere vicino, fare propri i disagi delle fasce di bisogno che la nostra società – che sembra avviarsi verso una deriva sempre più edonistica – presenta in quantità sempre maggiore e con diversità sempre più significative.
Allora, è in queste testimonianze che credo vada colta tutta l’essenza della cooperazione sociale. E guardate che non è molto diverso il ruolo che tutte le altre imprese e cooperative, in qualsiasi altro settore, svolgono all’interno di una società nella quale la globalizzazione, la ricerca della sopraffazione, il risultato ad ogni costo, cerca di avere il sopravvento su ogni altra forma di condivisione sociale. Ebbene, è la cooperazione tutta che nasce da una cultura diversa di fare impresa, nasce dalla consapevolezza che al centro di una società non c’è il capitale finanziario, al centro di una società c’è il capitale umano, c’è l’uomo, c’è la persona, c’è l’individuo, ciascuno con le proprie specificità. Ciascun individuo ha una sua missione all’interno della società, ha dei bisogni, ha qualcosa di diverso da quello che hanno tutti quanti gli altri. E con quel qualcosa contribuisce a costruire una società diversa, una società nella quale la coesione e la condivisione sono l’obbiettivo ultimo dell’azione che ciascuno di noi deve svolgere.
Credo che questa funzione sia stata compresa dai nostri Costituenti, e faccio questa riflessione per considerare quale sia stato il punto di partenza della considerazione che, nei confronti della classe politica, l’impresa cooperativa ha avuto, anche nel momento in cui è stata stilata la Carta Costituzionale. E’ l’attenzione che anche oggi riceve dall’attuale classe politica. Questa funzione sociale della cooperazione – dicevo – ha suggerito ai Costituenti di qualsiasi cultura, cattolica, laica, socialista, di prevedere la tutela e la promozione dell’impresa cooperativa all’interno della Costituzione della Repubblica che, all’articolo 45, afferma che “la Repubblica tutela e promuove l’impresa sociale per la funzione sociale che essa svolge”: e la tutela e la promuove ponendole una serie di verifiche dei requisiti, della espressione vera di quelle che sono le funzioni sociali, la mutualità che, nei confronti dei soci ma anche della società, questa impresa cooperativa deve avere.
E ne ha previsto anche delle agevolazioni, ha previsto che una impresa che svolgesse una funzione sociale o una funzione di inclusione così importante, dovesse essere tutelata non da una legge, che può essere modificata al primo starnuto di qualche assemblea legislativa, ma dovesse essere codificata all’interno della Carta Costituzionale della Repubblica. Ebbene, io credo che la cooperazione, quella vera – poi magari ci saranno forme di cooperazione spurie che non appartengono né all’associazione che io rappresento né alle associazioni che, come diceva Guerini, hanno nel gennaio di quest’anno costituito l’Alleanza delle cooperative italiane -, pur continuando a svolgere il proprio ruolo, la propria funzione sociale all’interno di un contesto imprenditoriale sempre più massacrante, sempre più rivolto al perseguimento di obbiettivi personali piuttosto che di obbiettivi sociali; questa cooperazione, pur avendo mantenuto all’interno della Carta Costituzionale questa tutele, si veda sempre più attaccata da una classe politica che, oltre che sperperare le risorse pubbliche, oltre che accumulare debiti da caricare sulle spalle delle future generazioni, non riesce a dare risposta ai problemi, ai bisogni veri del Paese. E questa è la difficoltà con la quale, oggi, il mondo della cooperazione, ma l’intera società del nostro Paese, si trova a fare i conti.
Ci siamo trovati qualche giorno fa nella circostanza che l’intero mondo politico, l’intera classe politica, Governo e opposizioni, hanno preso atto di una gravità estrema delle condizioni economiche del nostro Paese. E’ vero anche che la crisi alla quale l’Italia è stata sottoposta non è una crisi, almeno quella finanziaria, nata all’interno del nostro Paese, ma è altrettanto vero che è stata avvertita con tanta più esasperazione, con tanta più drammaticità, all’interno del nostro Paese, perché scontiamo una serie di punti di criticità che non consentono alla nostra economia, al nostro sistema, di rispondere come pure sarebbe necessario e opportuno. Ebbene, ci siamo trovati di fronte alla presa di coscienza sicuramente tardiva di una situazione economica drammatica. Siamo tutti d’accordo nel dire che occorre una manovra equa, che occorre una manovra strutturale, che occorre una manovra che non si accanisca contro quelli che hanno sempre dato e che colpisca anche punti di privilegio, che occorre una manovra che intacchi quelle sacche di spreco che ancora numerose si annidano nella Pubblica Amministrazione. Ma poi, quando si tratta di tradurre queste enunciazioni in misure che siano concrete, ognuno difende corporativamente le proprie posizioni. E allora, io non so se è giusto o non è giusto contrapporre la eliminazione dei piccoli Comuni a una rivisitazione del sistema previdenziale del nostro Paese. So soltanto che non sarebbe scandaloso se l’età pensionabile, in un Paese nel quale l’aspettativa di vita negli ultimi venti anni è cresciuta di oltre diciotto anni, aumentasse. Non sarebbe una cosa scandalosa se lo facessimo per recuperare una condizione economica che consenta all’intero sistema, al popolo del nostro Paese, di vivere in condizioni di drammaticità meno evidenti il futuro, e di tentare di invertire quella tendenza per la quale auspichiamo di consegnare alle future generazioni una situazione economica non così spaventosa come oggi rischiamo di consegnare. Come si può immaginare che si consideri scandalosa una rivisitazione della riforma pensionistica, del sistema previdenziale, che preveda, rispetto ad un aumento così significativo dell’aspettativa di vita, un allungamento dell’età pensionabile?
Così com’è, è inimmaginabile pensare che si possa continuare a poggiare sulle spalle di un sistema economico nazionale così gravato, così appesantito dal debito pubblico o che l’ingegneria istituzionale non possa prevedere l’eliminazione di enti che, per usare un eufemismo, hanno ben poche funzioni da svolgere. Non è possibile immaginare che, in una società nella quale la comunicazione è così tanto più veloce di quanto non fosse decenni fa, sia possibile accorpare i Comuni che distano tra loro qualche chilometro, per semplificare una ingegneria istituzionale così costosa? Ecco, se riuscissimo a fare questo, probabilmente riusciremmo ad evitare una serie di difficoltà nelle quali oggi il mondo imprenditoriale, il mondo delle imprese cooperative, delle cooperative sociali, si trova a fare i conti.
Diceva Guerini che la cooperazione sociale è una cooperazione che fonda in modo prevalente, preminente, sulla commessa pubblica, ma che si aprono anche spiragli di commesse private. Noi però non viviamo in una realtà nazionale nella quale le condizioni sono omogenee tra le diverse aree del Paese; noi viviamo una condizione nella quale ci sono aree del Paese in cui le sacche di bisogno sono molto meno evidenti. E là dove ci sono, esistono le condizioni perché la risposta a questi bisogni possa essere ricercata anche sul mercato del privato. Ci sono invece aree nelle quali il pubblico è il solo Stato sociale che interviene. Rispetto a queste esigenze, rispetto a questi bisogni, rispetto a queste sacche così notevoli, noi assistiamo a due fenomeni. Uno è quello di risorse sempre meno consistenti, disponibili per dare risposte a questi bisogni: e quindi, si riducono la quantità e la qualità dei servizi alla persona che vengono erogati dagli enti locali. L’altro è il fenomeno che sta mettendo in ginocchio il mondo della cooperazione sociale, e non solo, quello dei ritardi nei pagamenti. Mentre ci sono alcuni Comuni al Nord in cui qualche settimana, qualche mese, magari già quattro mesi dopo la erogazione del servizio, cominciamo a rispondere con proteste, ci sono Comuni, nel Mezzogiorno d’Italia, nella Campania, nella Sicilia, nella Calabria, dove i ritardi sono di gran lunga più numerosi. Non si contano né in giorni né in settimane né in mesi ma in anni.
Vi porto l’esempio di un consorzio di alcune cooperative di recupero di soggetti incappati nella piaga della droga, che aderiscono alla nostra associazione il cui presidente è un sacerdote, il parroco di una chiesa di Modena, che si vede chiamato da un notaio, incaricato dal comune di Napoli di dirimere la questione di un credito che questo consorzio vantava nei confronti del Comune. Si vede chiamato, invitato ad un incontro con questo notaio in un albergo di Lugano: e lui già comincia a dire, ma insomma, Napoli, Modena, Lugano. Quando si siedono al tavolo per discutere della questione e per risolverla, dopo ben undici anni, si sente dire: “Ho un mandato da parte del Comune per risolvere la questione. Le do il cinquanta per cento di quanto lei vanta come credito e abbiamo risolto il problema”. La risposta di questo parroco fu: “Ma lei, come si permette di definirmi lestofante?”. E il notaio disse: “Padre, ma io non ho…”. E il prete: “Si è permesso, perché se pensa che io dopo undici anni possa accontentarmi di ricevere metà di quello che avrei dovuto ricevere undici anni fa, significa che undici anni fa, se mi aveste pagato, mi avreste dato dieci volte quello che era il valore in servizi che vi avevo dato”. E non ha accettato. Da allora, sono passati due anni: è ancora in attesa che il Comune paghi o che la giustizia, altro punto dolente della nostra realtà nazionale, imponga a qualcuno che da tredici anni ritiene di essere in diritto di non pagare i propri debiti, di onorare gli impegni che si è assunto. E questo – ultima riflessione a flash – mi fa porre una domanda: c’è una direttiva europea che impone agli Stati membri di pagare i propri debiti entro un lasso di tempo ragionevole. Io vedo molto difficile che il nostro Paese possa mettersi in condizione, in tempi brevi, di onorare anche questa direttiva europea. Grazie.

MONICA POLETTO:
Grazie, oggi pomeriggio abbiamo scoperto questa nuova categoria di cooperatori sociali che sono i parroci. Sinteticamente, ringrazio molto i relatori, è stato un incontro molto interessante. Mi vengono queste due brevi considerazioni: nella recente crisi, abbiamo visto che è un disastro dividere ciò che è unito all’origine: vale nella vita personale e sociale. Abbiamo visto che le cooperative sociali – anzi, gli esempi di oggi, non generalizziamo mai – hanno un ruolo paradigmatico nel ricordare a tutti che intrapresa e costruzione sociale come benessere dell’impresa e benessere della persona che vi opera non sono separati ma sono uniti all’origine. E’ stato interessante sentire le vostre testimonianze al proposito. Ma c’è una considerazione di carattere più generale: non vogliamo difendere corporativamente niente, non vogliamo difendere le cooperative, non vogliamo difendere le associazioni, non vogliamo difendere niente. Vogliamo che ciò che c’è, opera, e produce realmente una pubblica utilità, possa avere fiato: è questa la cosa che veramente ci sentiamo di dire al mondo istituzionale e politico, che si guardi e si riconosca quello che c’è, perché è impressionante che in Italia, ogni volta che si parla di una categoria, la si astragga. E’ ora di smetterla di astrarre e di iniziare a guardare. Un amico mi faceva un esempio che ho riportato anche su un articolo de IlSussidiario. Diceva Marco Lucchini, direttore della fondazione Banco Alimentare: “Vorrei che il Banco Alimentare e tutte le realtà che noi serviamo e che danno cibo ai poveri, per un giorno facessero sciopero, per vedere cosa succede in Italia. Così magari ci rendiamo conto di quale sia il reale tessuto del nostro Paese. Veramente sono i fatti che parlano. Io non voglio un Paese, non riesco a immaginare un Paese in cui queste realtà non ci sono: non ci sarebbe l’Italia e non mi interesserebbe viverci. Per cui, chiediamo a gran voce, innanzitutto in questo periodo – e ringrazio di avercelo ricordato – che venga riconosciuto ciò che c’è. Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

23 Agosto 2011

Ora

15:00

Edizione

2011

Luogo

Sala Mimosa B6
Categoria
Focus