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CONOSCERE PER COMUNICARE
Partecipano: Alberto Contri, Presidente Pubblicità Progresso; Gabriella Mangiarotti, Docente di Sociologia dei Processi Culturali e Delegata del Rettore per l’Orientamento all’Università Iulm di Milano; Susan Pointer, Google Director of Public Policy and Government Relations for Europe, Middle East and Africa. Introduce Roberto Arditti, Direttore de Il Tempo.
ROBERTO ARDITTI:
Signore e signori, buonasera a tutti, grazie per essere qua. Abbiamo un dibattito, spero interessante, su un tema tanto centrale quanto difficile da approcciare, perché può essere raccontato e sviluppato nella nostra conversazione di stasera in modo molto concreto e serio ma anche in modo un po’ evanescente. Cercheremo di non correre questo pericolo, che è sempre dietro l’angolo quando si parla di comunicazione. “Conoscere per comunicare” è il titolo del nostro incontro di stasera. Abbiamo tre ospiti molto importanti, che vi presenterò nel dettaglio al momento in cui ascolteremo il loro intervento introduttivo. Sono comunque Susan Pointer, Gabriella Mangiarotti e Alberto Contri, che terrà il primo intervento della nostra serata. La durata del nostro dibattito è prevista intorno all’ora, sessanta minuti: e cercheremo di rispettare, minuto più minuto meno, questo tempo che ci viene dato, e anche di fare in modo che vi sia spazio per qualche domanda o riflessione da parte vostra. So che gli amici e le amiche che sono al tavolo con me hanno riflessioni importanti da sottoporvi e anche del materiale visivo, ma faranno comunque uno sforzo di sintesi nella loro esposizione. Occupo solo un breve spazio all’inizio della nostra discussione per proporre una parola che secondo me ha bisogno di approfondimento e di riflessione. Io, che di mestiere faccio il giornalista, dico che abbiamo bisogno di grande attenzione a una parola, memoria. Il futuro è dentro di noi, il futuro è intorno a noi, ma in questo futuro ci dobbiamo avviare senza perdere di vista quello che c’è alle nostre spalle, soprattutto tentando di portare nel futuro una quota rilevante di quello che veramente è stato. Perché, se c’è un pericolo nel grande giocattolo della comunicazione moderna, è perdere di vista con estrema facilità il verosimile, il vero, le opinioni così come sono state davvero espresse. Tutto è molto veloce, tutto è molto complicato, tutto è molto rapidamente soggetto ad essere degradato e non assimilato in modo solido. Corriamo quindi il rischio di vedere svanire la memoria. Solo un rapidissimo riferimento e poi cedo ad Alberto Contri la parola. Stiamo studiando con alcuni amici ed amiche, professionisti del nostro settore, questo tema. Ci sono grandi avvenimenti nella storia di tutti i paesi, penso all’Italia perché oggi siamo in Italia a parlarne. Pensate ai grandi eventi che hanno cambiato la storia del nostro paese, anche in modo doloroso. Pensate alla tragedia del Vajont che ormai è lontana molti decenni. Chi è mai andato a chiedere al comandante della stazione dei carabinieri di uno dei paesi interessati da quella vicenda che cosa successe quella notte? Probabilmente nessuno. Di quel patrimonio di ricordi, di esperienze, di dolore, di interventi, di quei minuti – se non andiamo a chiedere noi, ma probabilmente per il Vajont è già tardi – nessuno chiederà più. Perché noi conosciamo su molti fatti le opinioni delle persone importanti, quelle che vanno in televisione o sul web, ma non conosciamo e non ricordiamo una marea di opinioni e di dettagli che nessuno si premura di andare a chiedere alle persone che invece li hanno dentro. Allora, la modernità della comunicazione, con l’incredibile potenza di mezzi che ci mette a disposizione, probabilmente ci consente di fare quello che nell’antichità è stato sostanzialmente impossibile. Noi conserviamo memoria di quelli che erano importanti nell’antichità e pochissimo del resto, perché non c’erano strumenti per raccogliere quelle memorie. Ebbene, oggi abbiamo strumenti di una potenza inimmaginabile anche soltanto pochi anni fa. Allora, la parola che mi permetto di suggerire ai nostri autorevolissimi relatori nel loro ragionare intorno al futuro è una parola che – paradossalmente ma non poi così tanto – invece appartiene al passato o comunque guarda al passato. E’ la parola memoria. Comincia il nostro incontro Alberto Contri, che ho il piacere di presentarvi con una piccola biografia inserita nella documentazione. La leggo così come è scritta, perché è opportuno conoscere chi sta per parlarvi. Pioniere nel campo della multimedialità interattiva, ha alle spalle una carriera come creativo e top manager in grandi multinazionali della comunicazione. E’ stato presidente della associazione italiana agenzie di pubblicità, unico italiano ad essere portato nel border di quella europea, poi membro del Consiglio di amministrazione della RAI e amministratore delegato di RAINET. Oggi è presidente della fondazione Pubblicità Progresso e – lo dice la biografia e io con piacere la cito – Grande Ufficiale al merito della Repubblica italiana. Alberto Contri è il primo relatore di questo incontro e ha anche delle slide. A lui il microfono.
ALBERTO CONTRI:
Grazie, Arditti. Approfitto per entrare in medias res di questo concetto di memoria che mi piace moltissimo. Io parlo oggi in veste di presidente di Pubblicità Progresso, che è stata fondata come associazione nel 1971 e nel 2004 è stata trasformata in Fondazione, estendendo i suoi compiti dalla realizzazione di campagne sociali alla promozione di una maggior cultura della comunicazione sociale. Questo lavoro viene fatto attraverso corsi di formazione per enti non profit e istituzioni, con la Conferenza Internazionale della Comunicazione Sociale, che quest’anno prevede sette mesi di eventi in tutta Italia, e con la mediateca on-line che contiene le più significative campagne sociali del mondo. Conoscere per comunicare: il titolo di questo incontro esprime assai bene il senso del lavoro della fondazione, in perfetta sintonia con il tema del Meeting: chi fosse interessato può visitare qui la mostra sui quarant’anni di storia di Pubblicità Progresso, oppure il sito www.pubblicitaprogresso.org.
Mostrandovi alcune campagne estratte dalla nostra mediateca, toccherò quattro temi. Il primo riguarda la responsabilità sociale delle imprese dei mass media: oramai si parla sino alla noia della CSR per aziende che producono formaggini o automobili, ma si evita accuratamente di farlo per le imprese dei media, che invece producono effetti clamorosi sull’educazione complessiva e sulla percezione dei valori.
1. Iniziamo con una campagna che mette in guardia i genitori dalla violenza introdotta senza filtri in ogni casa: guardiamo cosa accade alle spalle della madre ignara, nella cameretta del figlio.
2. Vediamo tre campagne molto coraggiose realizzate dalla Ogilvy & Mather per la Suddeustche West Rundfunk: le prime due molto forti, la terza, molto dolce, esprime ciò che si dovrebbe fare. Prendersi cura dei figli anche davanti alla tv. Perché il problema non è vietare, ma educare alla visione (ci sono comunque dei limiti da osservare per i minori) e soprattutto insegnare il senso critico.
3. Don Giussani, di cui sono stato allievo, amico e collaboratore – certamente la più grande fortuna della mia vita (il resoconto di questa avventura umana la trovate tra i miei articoli su Il Sussidiario) – mi diceva sempre che l’educazione è un fatto di mimesi e di esperienza. Eccone la sintesi in questo spot.
4. Anche l’amicizia è un’esperienza: se è solo virtuale porta alla solitudine. Con mia grande sorpresa, i miei allievi della Facoltà di Psicologia dell’Università San Raffaele di Milano, durante il laboratorio di quest’anno, hanno scelto il tema del social network, e hanno realizzato questa eccellente campagna.
La morale: Tv e Internet costituiscono la più grande rivoluzione mediatica di questo secolo. Se la famiglia e i professionisti dei media si ritirano dai loro compiti educativi, il sistema di valori che mantiene civile una società si frantuma… e i risultati già li vediamo.
Il problema dell’ambiente, in particolare riguardo al tema dell’acqua, al di là delle ideologie verdi, sta diventando cruciale. Molti pronostici prevedono che le prossime guerre non saranno più per il petrolio ma per l’acqua. A titolo di esempio, citiamo un forte contenzioso tra Canada e Stati Uniti per l’acqua di un fiume di confine che il Canada vorrebbe usare per i campi di grano, e gli Stati Uniti per raffinare il petrolio.
1) Ecco due campagne semplicemente splendide per creatività ed esecuzione sul tema dell’indifferenza al problema dell’ambiente e dell’acqua.
2) Una grande regista indiana di cinema ha usato una gran bella fotografia per sorprenderci e farci riflettere sulla quantità d’acqua che spetta a ognuno di noi.
3) Una assai semplice e intuitiva campagna sul tema delle risorse che si stanno esaurendo.
4) Vediamo qui, e lo vedremo ancora, come l’ironia sia un linguaggio sempre più usato per far riflettere.
Anni di campagne di advocacy sull’ambiente (così si chiamano le campagne su temi controversi) hanno influenzato significativamente le campagne commerciali: è nato quello che si chiama green marketing, per vendere servizi o prodotti facendo leva su tematiche ambientaliste.
1) Una splendida campagna per promuovere la diffusione dell’energia eolica: un disabile racconta al suo psichiatra di fare sempre scherzi maligni (fateci caso, sempre legati al vento) perché si sente solo e ignorato. Da quando qualcuno ha cominciato a dargli retta, ha cominciato a usare molto meglio la sua grande energia. L’allusione al vento è evidente.
2) I distributori di benzina visti addirittura come nemici in uno spot girato come un action movie: la Megane vince perché consuma pochissimo.
3) Un divertentissimo spot per illustrare quanto sia poco inquinante la Citroen C3. Un parallelo con la salute per dimostrare che per proteggere se stessi e la natura, occorre essere puliti, dentro e fuori…
4) E’ la stessa Prius Hybrid a impedire al passeggero di mettere in atto comportamenti di maleducazione ambientale.
5) Una campagna istituzionale della General Electric sulla ricerca tecnologica che rispetta l’ambiente.
Si parlava dell’ironia. Soltanto qualche sedicente creativo nostrano – approfittando del diffuso provincialismo che vige ancora nel nostro paese su questi temi – sostiene che solo le campagne scioccanti restano impresse. Non è vero per niente, quasi sempre provocano un meccanismo di rimozione, mentre lui si prende certamente un sacco di articoli sui giornali. Vediamo quindi alcuni esempi internazionali nei quali si usa l’ironia anche per tematiche dure e difficili da affrontare.
1) La macchina accartocciata sulla strada con il sangue che cola vi provoca solo un meccanismo di rimozione, facendovi pensare automaticamente: ma io guido bene anche se veloce, a me non può succedere. Guardate con che ironia (e con che casting e che fotografia) si fa meglio riflettere sul tema della sicurezza stradale.
2) L’alcolismo, soprattutto tra i giovani, sta diventando una vera piaga sociale. Intervistati, dicono che lo fanno per noia. E allora c’è chi cerca di convincerli divertendo (Black Russian, Sottomarino).
3) Due anni fa Ballarò iniziava ogni trasmissione con una campagna di interesse sociale, realizzata con pochi mezzi e straordinaria creatività dalla McCann Erickson (Dario Neglia). Ne vediamo due su temi di grande attualità.
4) Terminiamo questa carrellata sul linguaggio dell’ironia, presentando un serial di 5 spot argentini (tra i vincitori di Cannes) che sfruttano il tema della raccolta fondi a fini filantropici per vendere un abbonamento a Internet.
ROBERTO ARDITTI:
Grazie davvero ad Alberto Contri. Il secondo intervento, che è quello di Susan Pointer, oltre a raccontarci le cose che ascolteremo nei prossimi minuti, ci parla a nome di uno dei protagonisti assoluti dell’argomento della nostra discussione di stasera. Perché Susan Pointer è direttore per il Public Policy and Government Relations for Europe, Middle East and Africa di Google, quindi uno dei player veramente centrali, al di là del ruolo di business che Google ricopre, nella costruzione del sapere, della conoscenza e della diffusione delle informazioni nel nostro tempo. Prima di questo incarico, Susan Pointer ha lavorato per sei anni come direttore di Amazon a Bruxelles ma ha anche prestato servizio presso il Parlamento europeo a Bruxelles e presso il Parlamento inglese.
SUSAN POINTER:
Grazie mille, innanzitutto vorrei scusarmi per il fatto di esprimermi in inglese. So che il tempo corre veloce per cui cercherò di essere il più rapida possibile. Parliamo del tema principale, la comunicazione. Sappiamo che la conoscenza è sempre un avvenimento: se osserviamo l’energia che scorre fuori da questa stanza, davvero vediamo che la comunicazione racchiude una grande energia che noi oggi vorremmo cogliere. Parliamo di Google, conosciutissimo come motore di ricerca – forse non sapete che Google è stato creato da due ragazzi in uno studentato, torniamo al ’96 -, conosciutissimo per i suoi straordinari risultati e soprattutto perché permette di avere un accesso illimitato agli utenti in tutto il mondo. Inoltre, ci sono prodotti molto famosi come gmail, come i calendari e altre utilities di Internet. Io sono responsabile per le politiche di Google ma la cosa più importante è che io stessa sono una cittadina, una consumatrice, una ricercatrice, una collezionista, una fotografa, una lettrice, una lavoratrice, una viaggiatrice, una turista, una persona che vota, nonché creatrice di contenuto e utente di servizi pubblici. La mia vita è stata completamente rivoluzionata dall’avvento di Internet e nella mia esperienza devo dire che questo cambiamento è assolutamente positivo. Negli ultimi giorni ho spedito e ricevuto e-mail, ho anche prenotato dei voli attraverso Internet e ho scoperto anche un antenato facendo ricerche in alcuni archivi familiari, ho anche stabilito dei contatti con una zia in Australia e che non sentivo da tantissimo tempo e poi ho pagato i conti della mia carta di credito, ho cercato dati per questa presentazione e, anche mentre ero in volo, sono riuscita a fare delle ricerche e dei lavori su Internet. Davvero il computer fa parte della mia vita: ovunque vediamo persone che utilizzano il computer, nelle stazioni, negli aeroporti, sui treni. Si possono usare anche, attraverso i dispositivi mobili, sui taxi e in qualunque luogo, anche qui. Internet mi permette di collegarmi non solo a tante informazioni ma anche alle persone, in un modo davvero nuovissimo. Soprattutto mi permette di aumentare le mie conoscenze e la mia consapevolezza, la mia comprensione globale: quindi, non esistono più scuse per non sapere o non conoscere, non ci sono più giustificazioni. Sono forse diventata anche più consapevole della smisurata quantità di cose che non conosco davvero. Questa tecnologia ha creato un vero big bang comunicativo, abbiamo una disponibilità sempre più veloce di accesso a Internet e ciò ha cambiato profondamente la società, è entrato nella nostra vita quotidiana, professionale e privata, abbiamo un approccio nuovo al modo in cui viviamo, lavoriamo, accediamo alle informazioni, condividiamo opinioni e comunicazioni. Diciamo che siamo passati dallo stato in cui Internet era utile allo stato in cui, adesso, Internet è indispensabile. 1,6 miliardi di persone in tutto il mondo hanno accesso a Internet: rappresentano quasi il 24% della popolazione mondiale. L’anno scorso, il 64% della popolazione dell’UE ha dichiarato di utilizzare Internet: il 72% si colloca nella fascia dai 25 ai 54 anni, ma vediamo anche un 34% nella fascia dai 55 ai 70 anni. Sempre l’anno scorso, il 43% della popolazione dell’UE ha utilizzato Internet quasi giornalmente. Inoltre, Internet sta diventando una soluzione multidispositivo praticamente ubiqua e globale. Siamo passati da zero abbonati, per così dire, negli anni Ottanta, a una percentuale di abbonati del 61% alla fine dell’anno scorso. Per quanto riguarda l’utilizzo di dispositivi mobili che hanno Internet, vediamo che la diffusione di questa tecnologia è molto più rapida anche di quella che è stata la diffusione del vaccino antipolio. Si tratta di un fenomeno globale che è veramente dilagante: anche nei paesi in via di sviluppo, stanno aumentando le autostrade informatiche, sempre più veloci per moltiplicare la possibilità di accesso della popolazione. Ma vorrei tornare al tema centrale di questa riunione che è la conoscenza. Non so in realtà se Internet sia favorevole alla comunicazione o la comunicazione sia favorevole a Internet: Internet sicuramente ci dà la libertà di informare ed essere informati. Ci sono due elementi centrali che entrano in gioco, comunicazione e conoscenza. Ma aggiungerei un terzo elemento che è la responsabilità, poiché la libertà di accesso genera anche la responsabilità, nonché la consapevolezza. Cominciamo dal tema dell’accesso alla comunicazione e alla conoscenza: le barriere per accedere alle informazioni sono state ridotte al minimo, se non addirittura eliminate. Anche la collocazione geografica non è più un ostacolo: si può comunicare senza limiti di distanze. Anche dal punto di vista linguistico, le barriere sono state ridotte enormemente. Abbiamo strumenti di traduzione automatica, c’è una riduzione delle limitazioni in termini di costi, nonché di capacità di memorizzazione di tempo necessario per effettuare le varie operazioni. Tutto è sempre più comodo, pratico e veloce. Essenzialmente, vediamo una democratizzazione dell’accesso alle informazioni, una possibilità di accesso illimitato a qualsiasi informazione di carattere medico, culturale, accademico, storico: tutto è a portata di clic. Si possono fare veri e propri viaggi nel tempo, si possono visitare siti archeologici. E ci sono anche informazioni pratiche che riguardano le strade, i percorsi, gli itinerari, il meteo. Si possono trovare informazioni religiose: sono stata molto sorpresa e contenta di trovare il Vaticano su Youtube. Ci sono informazioni di carattere civile, musicale, di intrattenimento: è l’utente che sceglie cosa cercare e cosa consultare. Inoltre queste informazioni sono diventate interattive: il web è diventato uno strumento partecipato, e qui entra in gioco la comunicazione. Il web 2.0 è molto più che un semplice elenco: molte persone continuano a usare Internet semplicemente per accedere alle informazioni o per comunicarle, ma c’è una sempre maggiore diffusione di Internet in quanto piattaforma che può servire per mercati, vendite all’asta. C’è Facebook, gli utenti sono in grado addirittura di creare contenuti e non semplicemente di leggerli o di vederli. Stiamo cominciando a vedere il potere incredibile di Internet, ad esempio per sostenere i diritti fondamentali dell’uomo e la libertà d’espressione. Internet può essere un vero e proprio faro sulla trasparenza e sulla responsabilità, può permettere di migliorare una comunicazione tra gli elettori e il mondo politico: anche Obama ha utilizzato le piattaforme online per collegarsi in due sensi con gli elettori. Il Primo Ministro del Regno Unito, Gordon Brown, utilizza un mezzo per comunicare con i cittadini: “Chiedete al Primo Ministro”, c’è il giornalismo dei cittadini che è emerso nel periodo post elettorale in Iran, Birmania, Tibet, Cina. Le persone sono diventate veri e propri testimoni elettronici di eventi e stanno utilizzando sempre più queste piattaforme per comunicare e scambiare opinioni con altri. Ma c’è un punto molto importante, non dobbiamo dare per scontato ciò che ha fatto di Internet quello che è, perché ci sono dei motivi precisi per cui Internet è diventato quello che è, dobbiamo esserne consapevoli, rispettare questi elementi e conservarli. Abbiamo parlato del ruolo di Internet nella storia, ma dobbiamo garantire anche il futuro. Alcune delle caratteristiche che sono presenti in Internet sono innanzitutto il libero accesso, la qualità dell’accesso, l’accesso non controllato, la possibilità di collegarsi da un capo all’altro per cui il contenuto può raggiungere immediatamente altri utenti. Le piattaforme Internet sono un mezzo neutrale di trasmissione delle informazioni, la trasmissione non ha niente a che fare con il contenuto che viene trasmesso. L’utilizzo viene deciso dagli utenti che decidono quello che vogliono vedere e a quali informazioni vogliono accedere: non si tratta però del Far West selvaggio e incontrollato, adesso entra in gioco la responsabilità, il concetto di legge. Cittadinanza e responsabilità non scompaiono, non perdiamo il senso di ciò che è giusto o è sbagliato semplicemente perché stiamo utilizzando il computer. Come avviene nella vita reale, ci sono leggi e regole da rispettare, ci sono termini e condizioni, ci sono orientamenti per la comunità. L’applicazione della legge e la tecnologia servono a impegnare tutta la comunità nel rispetto e nell’applicazione delle regole. Questo è molto importante soprattutto per le piattaforme: una piattaforma che consente agli utenti in Iran di inviare informazioni in tempo reale, per esempio, ci permette di avere una enorme immediatezza. La responsabilità non è soltanto di natura personale, tutta la società deve svolgere il proprio compito: genitori, educatori, consulenti religiosi, aziende, istituti e istituzioni, governi e comunità, soprattutto là dove sono coinvolti giovani e bambini, ad esempio su Youtube. Youtube deve rispettare le leggi internazionali, quelle europee e quelle italiane, ma ci sono anche una serie di orientamenti per la comunità che stabiliscono ciò che è giusto e sbagliato, ciò che è accettabile e ciò che non lo è. Queste regole sono applicate accordandosi a quelle che sono le leggi e anche le direttive europee, ma facciamo appello ai nostri utenti affinché ci aiutino ad applicare questi orientamenti. La tecnologia ci permette di utilizzare strumenti che permettono agli utenti di inviare e trasmettere informazioni, e questo deve essere fatto in maniera rapida ma anche nel rispetto delle leggi. Come ho detto, la piattaforma è completamente neutrale, sono gli utenti che inviano dei contenuti tramite la posta elettronica ad assumersi la responsabilità dei contenuti stessi, gli utenti che prendono il telefono hanno la responsabilità delle parole che trasmettono, noi abbiamo un compito, quello di educare, istruire e anche offrire sostegno. Veniamo alle conclusioni. C’è molto che ci può entusiasmare su Internet: un accesso ai contenuti che non ha precedenti, l’abilità di scambiare contenuti. Dobbiamo godere di questa libertà ma con responsabilità. Le aperture e l’accesso alle informazioni comportano anche una responsabilità che è individuale e allo stesso tempo collettiva. Questo ci permette di difendere Internet nel futuro e di preservarla così com’è. La conoscenza in linea, online, sì, certo; la comunicazione online, come no! Però dobbiamo sapere anche cosa comunichiamo e agire in maniera responsabile. Abbiamo un ruolo molto importante da svolgere. Grazie.
ROBERTO ARDITTI:
Grazie a Susan Pointer. Concludiamo il nostro ciclo dei tre interventi con Gabriella Mangiarotti, poi vediamo se riusciamo ad avere qualche minuto per qualche domanda dal pubblico. Sposata con tre figli, nata in provincia di Pavia – lo dico con soddisfazione, da lodigiano, siamo cugini di provincia -, presiede dal 2003 il corso di laurea specialistica in gestione e programmazione dei servizi sociali dell’università del Molise. All’università Cattolica Gabriella ha studiato a Milano, si è specializzata in sociologia, ha promosso l’attività dell’associazione onlus La voce del bambino, di cui è presidente, e ha coordinato i lavori del comitato scientifico del progetto Bambino urbano del Comune di Milano, dal ’97 al 2001. Ha lavorato alla commissione minori del ministero degli Affari sociali e a quella della Regione Lombardia, per la stesura delle linee-guida, dei criteri per l’accreditamento delle comunità per minori. Ha pubblicato tanti libri che vedremo, Gabriella Mangiarotti, a lei il microfono.
GABRIELLA MANGIAROTTI:
Hanno dimenticato la cosa più importante, che sono professore allo IULM di Milano.
ROBERTO ARDITTI:
Non è scritto qua!
GABRIELLA MANGIAROTTI:
Forse è un difetto di memoria, ma insomma… Io sono molto commossa ed emozionata di essere qui, al Meeting, nel trentesimo anno di questo evento straordinario. Credo di aver visto il primo Meeting trent’anni fa, e questo mi rende particolarmente grata per essere qui questa sera. Ringrazio il Meeting, la presidente, la direzione, la segreteria, perché sicuramente senza di loro questo evento che dura da trent’anni non ci sarebbe. La seconda cosa che voglio dire è che io stasera vi parlerò a partire dalla mia esperienza. Io sono un professore, mi dispiace che il curriculum presentato non sia del tutto adeguato, ma sono professore all’università IULM di Milano, che è l’università della comunicazione per eccellenza. Però non voglio farvi una lezione, non temete, soprattutto a quest’ora. Mi sono interrogata su questo tema che il Meeting ci ha affidato, conoscere per comunicare, e ho cercato di fare alcune riflessioni soprattutto partendo dalla mia esperienza. C’è un commento agli interventi che mi hanno preceduto, che è ben riassunto in questa frase che vi leggo. Poi vi chiedo di provare a indovinare di chi è questa frase: “Il desiderio di connessione, l’istinto di comunicazione che sono così scontati nella cultura contemporanea, non sono in verità che manifestazioni moderne della fondamentale, costante propensione degli esseri umani ad andare oltre se stessi, per entrare in rapporto con gli altri. In realtà, quando ci apriamo agli altri, noi portiamo a compimento i nostri bisogni più profondi e diventiamo più pienamente umani”. Un premio a chi indovina l’autore di questa frase. Bravi, è proprio Benedetto XVI, nel messaggio per la 43sima Giornata delle comunicazioni sociali. Mi sembra che riassuma molto bene il commento sugli interventi che mi hanno preceduta. Perché? Perché la comunicazione, che fa parte del vivere, è spesso data per scontata, mentre la conoscenza, nel nostro immaginario, nel nostro lessico, appartiene a qualcosa di più aulico e di più impegnativo. In realtà, questa è una delle prime riflessioni su questo tema, c’è una duplice valenza: la conoscenza postula la comunicazione e la comunicazione postula la conoscenza. In altri termini, la conoscenza senza comunicazione è sterile e la comunicazione senza conoscenza fa rumore e non fa storia. Qui si potrebbe approfondire molto sui vari tipi di comunicazione, ma è una riflessione che vi lascio da portare a casa. C’è un’altra osservazione: fra la conoscenza e la comunicazione c’è uno stretto rapporto che ha a che fare con la vita, con ciò che è proprio dell’umano. Ci sono tante teorie della comunicazione, la più nota e più famosa è la pragmatica che dice: non si può non comunicare. Ma noi dobbiamo aggiungere che non si può non conoscere, perché? Perché la conoscenza è questa tensione originaria dell’uomo. Verso cosa? Tensione verso il reale, per cui uno domanda, ricerca, desidera conoscere. Pensando ai bambini, ci è molto più facile capire questa tensione: i bambini continuamente chiedono, perché?, cos’è? Teniamo presente però alcuni piccoli dettagli. Mentre fanno partire lo schema in power point che vi ho preparato per aiutarvi ad afferrare il filo delle osservazioni che faccio, vi dirò che ci sono due aspetti su cui bisogna riflettere. La conoscenza può avvenire in due modi, in modo diretto – incontro una persona di Pubblicità e Progresso e la conosco – e in modo indiretto. Su questo noi non riflettiamo molto, anzi, soprattutto in campo scientifico la conoscenza indiretta o per testimone è stata spesso screditata, considerata come una conoscenza di secondo ordine. In realtà, più crescono i saperi, meno è possibile comunicarli e trasmetterli senza dei testimoni. Anche nel campo delle tecnologie, più si raffinano, meno possono essere le occasioni di conoscenza diretta: pensiamo a tutta la trasformazione comunicativa di cui oggi abbiamo avuto un’esemplificazione molto interessante. Proprio qui, secondo me, stanno il problema e il dramma dell’uomo contemporaneo. Queste sono brevi riflessioni che vi vorrei proporre, senza teorizzare ma per riflettere sulla mia esperienza. Qualche anno ero indignata, perché sappiamo tutti come il degrado delle istituzioni scolastiche abbia portato una certa diffusa ignoranza, e allora i professori come me, che hanno un po’ di anni, dicono: ma insomma, questi ragazzi non sanno più niente! A me che, indignata, sciorinavo i dettagli dell’ignoranza sempre maggiore degli studenti universitari, una collega disse: resisti e insisti, perché quando gli si apre il cervello è un bel giorno e una vera soddisfazione. Non potevo che convenire con lei. In effetti, riflettendo in questi anni e facendo un giro di memoria, non posso dimenticare alcuni esempi di questa storia: per esempio, l’esclamazione di uno studente di Scienze politiche (mi fa piacere vederne qui uno, stasera) che, dopo una lezione sulla società del consumo in cui avevo descritto le teorie sociologiche – io insegno sociologia, ma avevo sottolineato anche quel dettaglio di Baudrillard che normalmente viene trascurato, secondo cui l’aspetto preoccupante della società del consumo è la censura del significato, e mi ero profusa nei dettagli di questo quadro piuttosto inquietante -, mi disse: ma se è così, è proprio deprimente! Quella esclamazione fu anche per me un avvenimento, perché mi fece capire che occorreva andare oltre nell’analisi della società, se non volevo finire nel deprimente. Così come non posso dimenticare quell’altro studente, all’apparenza non particolarmente brillante che, avendo scelto di portare all’esame quella parte di antropologia, Il senso religioso di Luigi Giussani, non solo lo espose con una precisione ammirevole ma mi disse che lui, non credente, non aveva mai letto un libro così chiaro e interessante sull’uomo e sulla ragione. Ma farei un torto se non citassi la studentessa che, alla domanda su cosa avrebbe modificato del percorso di studio proposto per l’esame, mi rispose che sarebbe andata più a fondo sui presupposti filosofici e antropologici, perché “Quelli sì che sono interessanti!. Mentre – mi spiace per Alberto Contri – la pubblicità la studiamo in tutte le salse”. Che cosa mi fa pensare questo excursus nella mia storia? Mi fa pensare che: la conoscenza, ecco cosa cerca l’uomo, ecco cosa chiedono le nuove generazioni. Non nozioni o teorie preconfezionate, ma conoscenza di sé e della realtà attraverso la comunicazione di un sapere interessante, convalidato da un testimone appassionato a quel particolare della realtà, tanto da renderlo affascinante e vivo nell’oggi. Penso a certi insegnamenti come l’archeologia, che con l’oggi non hanno a che fare, se non per uno spazio fisico, ma hanno a che fare con un significato altamente rilevante se il testimone è in grado di evidenziare questa rilevanza. La passività dello studente di cui io mi lagnavo con la collega, questa passività nell’immagazzinare le nozioni proposte (e mi confermavano che in fondo questo è un po’ lo stile diffuso), incomprensibile per una generazione come la mia, che ha fatto il ’68 e quindi un po’ di protesta l’ha fatta, questa passività sembra una forma di mutazione antropologica. Basta, oggi i ragazzi non imparano, non si può! Si può liquidare il problema con un sentenza: è scomparsa la criticità. Si può fare, molti lo fanno. In realtà, la mia ormai lunga esperienza di docenza mi dice che questa passività è una forma di difesa, nei confronti di cosa? Nei confronti di un sapere che non ha sapore. Il gioco di parole è voluto. Un sapere che non sollecita la vita ma rappresenta lo scotto da pagare per entrare nel mondo degli adulti, nel mondo del lavoro, per avere una laurea o più banalmente un pezzo di carta. L’esplosione della tecnologia, della telematica, dell’informatica, non hanno eroso di un millimetro l’esigenza di conoscere attraverso un testimone. Un testimone che sfidi la criticità e renda affascinante l’avventura della conoscenza. Abbiamo pensato – e qui faccio un mea culpa per tutta la classe docente a cui appartengo – che, da una parte, il sapere più alto fosse quello roboante, aulico e asettico delle teorie e dei modelli: più astrusi erano e più importanti potevano essere considerati. Abbiamo perso di vista alcuni dettagli della storia: che ha fatto più scuola una Divina Commedia, con i suoi versi imparati a memoria diventati dei veri slogan di saggezza. Si può scegliere nell’ampia gamma: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”, oppure: “come sa di sale lo pane altrui”. Insomma, banalizzo forzatamente, quattro rime e un po’ di catechismo che non tanti tromboni accademici che, come diceva Goffman, vedevano o vedono nell’estensione delle platee il perimetro del loro ego. Dall’altra parte ci siamo riparati dietro lo specialismo più esasperato, ma spesso inefficace. Penso per esempio a un campo particolare come quello della scienza medica, dove se tu vai dall’oculista per un problema, lui non pensa che forse hai qualche problema generale, dimenticando che il vero sapere unifica, non frantuma. I giovani non stanno più al gioco, hanno capito la lezione dalla pragmatica della comunicazione: la massima difesa nei confronti del nemico non è combatterlo ma ignorarlo, scotomizzarlo. Come si potrebbe spiegare proprio sociologicamente, cioè a partire dalla mia disciplina, l’esplosione di un fenomeno giovanile come l’associazione Centocanti, che registra l’entusiasmo di migliaia di giovani per le rime dantesche, proprio mentre Dante era stato quasi bandito dai programmi scolastici? Non sto parlando delle conferenze elitarie che si fanno a S. Maria delle Grazie a Milano, sto parlando di giovani studenti, di interlocutori del nostro lavoro. C’è un dettaglio di storia personale che mi fa sorridere, che voglio condividere con voi: l’ironia della sorte volle che proprio il giorno di un importante convegno sui giovani a Milano, che io avevo promosso e organizzato, questi Centocanti si scatenassero per la città di Milano, con un successo indubbiamente maggiore del convegno. E io non potei fare altro che rallegrarmene, perché se la passione per la conoscenza prevale sulla logica di conventicole e di interessi spiccioli, l’evidenza della realtà si impone, perché dà molta più soddisfazione vedere crescere degli uomini nella loro personale, irriducibile originalità, che dominare con la propria scienza masse di studenti che si avvicendano nelle aule. L’indimenticabile collega me lo diceva. Perché la conoscenza è qualcosa in più dell’apprendimento, su cui si attesta normalmente la valutazione scolastica. Cosa possiamo fare agli esami? Valutare poco o tanto apprendimento. La conoscenza è un accadimento per chi comunica e per chi ascolta. La circolarità della comunicazione non è solo un dettaglio funzionale, è quel dinamismo tra un io e un tu tesi alla scoperta del significato del reale, tesi alla verità. Sembra strano ma, avendo studiato sociologicamente l’infanzia per anni (e questo è il motivo per cui le immagini che vedete sono prevalentemente di bambini), quando la vita mi ha offerto un laboratorio di osservazione naturale, diventando nonna, ho potuto scoprire di più, in diretta, la bellezza e il fascino dell’originario bisogno dell’uomo di conoscere. Bisogno che si esprime nell’attaccamento a un rapporto fondamentale – la madre, il padre -, e nell’apertura totale alla realtà. Ho potuto così di conseguenza capire di più le ragioni dell’apatia giovanile attuale. Di fronte ad esso, di fronte a questo bisogno fondamentale, ogni tentativo riducente si rivela goffo e meschino, perché il bambino è proteso al tutto, all’infinito. E pensare che tanta teoria e prassi, dilagante nel secondo Novecento, e ancora fino ad oggi, ritiene che si debba fare lo sforzo “pedagogico” di ridurre la realtà a misura di bambino, e che lui abbia bisogno di piccole cose e quindi di piccole spiegazioni, confondendo la statura con il bisogno, salvo poi inondarlo di oggetti e di impegni come gli adulti, come spesso succede. Abbiamo pensato, sull’onda lunga delle pedagogie illuministiche, cosiddette democratiche e antirepressive, che la diffusione generalizzata dell’istruzione scolastica risolvesse di per sé la trasmissione e la comunicazione tra le generazioni. E ci siamo adagiati sull’obbligo scolastico come conquista della modernità, senza renderci conto che stavamo annoiando coorti di generazioni con un sapere senza sapore, all’insegna della neutralità scientifica. È curioso se ci pensate: proprio chi si è stracciato le vesti per il presunto oscurantismo medioevale ha trascinato nel limbo di una diffusa ignoranza l’uomo moderno. Poi è arrivata la televisione, la telematica, e tra critiche, diatribe, eccetera, abbiamo incapsulato il disagio giovanile e addirittura infantile in trattamenti terapeutici. Non ci siamo accorti – e questa è la chiave di lettura del tema di oggi, per me – che le nuove generazioni soffrono di mancanza di conoscenza di sé e della realtà, pur imbottite spesso di informazioni e di nozioni, a volte anche altamente specialistiche. Secondo me, un fenomeno come Facebook si spiega proprio così. Va bene tutto, ma c’è bisogno di essere protagonisti: poi, le riduzioni e le degenerazioni sono un altro discorso. Ma il punto, a mio parere, è proprio questo. Ho ancora presente la faccia dei miei studenti quando, parlando di comunicazioni di massa, ho detto che la trasmissione del Grande Fratello seguiva un rigoroso copione, che non era una vera scena di vita. Ma ho ancora più presente la reazione dell’aula, a seconda degli anni accademici può essere di trenta, cinquanta, centoventi studenti, di fronte alla domanda che a un certo punto del corso quasi sempre si impone. Per spiegare la società non si può prescindere dall’evidenziare la socialità dell’umano connaturata nella relazione. Ma, detta così, è una frase e basta. Allora chiedo di pensare a sé e domando: “Qualcuno di voi ha fatto qualcosa per esserci?”. Dopo uno spaesamento generale che tende a stabilire che questa volta ci è toccata una docente stravagante, e lo si vede dalle facce, non lasciando io la presa, qualcuno comincia a rispondere timidamente: “no”. Allora io incalzo: “come faccio ad esserci?”. Lì vedo che la sociologia può diventare interessante solo a partire da qui: da un reale processo di conoscenza dove si sottopone la ragione all’esperienza, fino a riconoscere il dato, fino a riconoscere il reale nel suo sorgere, alla sua origine, che è mistero. Cito da Carrόn, 2008: “Non si tratta di trasformare i classici della sociologia, Weber, Pareto, ecc., in profeti, con qualche artificio comunicativo; si tratta di stimare possibile il risveglio dall’anestesia culturale dominante. Perché l’uomo é sempre uomo e l’anestesia, spesso pur presente, non può essere permanente. Questa è la sfida che chi ha il compito di trasmettere il sapere non può disattendere, senza scadere nello scipito, senza sapore, senza gusto. Conoscere per comunicare, vale a dire: sottoporre la ragione all’esperienza; è la condizione per poter comunicare in modo umano, dove un io e uno o tanti tu riconoscono un sapore, un significato della realtà, quello che tutti, ma proprio tutti gli uomini cercano, anche quelli che sembrano – uso una parola giovanilistica – “smandrappati”, anzi, forse quelli più degli altri”. Se potessimo fare un’indagine sulla carriera degli studenti a partire da questa ipotesi, credo che ne vedremmo delle belle. Perché vivere, conoscere, comunicare per l’uomo è un tutt’uno e non si può sezionare. Credo che occorrerà finalmente tenerlo presente anche nella comunicazione di massa: sono contenta oggi di avere qui Google e Pubblicità Progresso, che rappresentano comunque il vertice del fenomeno pubblicitario, che ascoltano questa conclusione che voglio trarre. Bisognerà tenere presente nelle comunicazioni di massa che, a mio modestissimo parere, stanno andando verso una forma di autolesionismo, con una comunicazione ossessiva e riduttiva, dove appare solo una piccola parte della realtà, e neanche la più interessante. La foto che spero facciano vedere di questa bambina, che ha alle spalle la televisione e continua a fare il suo gioco, è estremamente significativa. C’è di più, c’è molto di più di quello che i giornali e la Tv ci dicono e ci fanno vedere. È quello che molto autorevolmente ci è stato ricordato, è un grave errore disprezzare le capacità umane o, addirittura, ignorare che l’uomo è costitutivamente proteso verso l’essere di più. I media possono costituire un valido aiuto per fare crescere la comunione della famiglia umana e l’ethos della società quando diventano strumenti di promozione dell’universale partecipazione nella comune ricerca di ciò che è giusto. Conoscere non è solo un atto materiale, perché il conosciuto nasconde sempre qualcosa che va al di là del dato empirico. “Ogni nostra conoscenza, anche la più semplice, è un piccolo prodigio, perché non si spiega mai completamente con gli strumenti materiali che adoperiamo. In verità, c’è di più di quanto noi stessi ci saremmo aspettati”. Solo le parole di Caritas in Veritate. Grazie.
ROBERTO ARDITTI:
Grazie a tutti gli intervenuti. Cinque minuti, un paio di domande volanti se qualcuno le ha, se non ne abbiamo possiamo concludere qua. Grazie a tutti.
(Trascrizione non rivista dai relatori)