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CONOSCENZA E SVILUPPO TRA GLOBALIZZAZIONE E IDENTITÀ: L’ESPERIENZA DEL MEDITERRANEO
Conoscenza e sviluppo tra globalizzazione e identità: l'esperienza del Mediterraneo
21/08/2011 - ore 15.00 In collaborazione con la Rivista Non Profit. Partecipano: Salvo Andò, Rettore della Libera Università Kore di Enna; Sebastiano Missineo, Assessore dei Beni Culturali e dell'Identità Siciliana; Vincenzo Tondi Della Mura, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale all'Università del Salento. Introduce Andrea Simoncini, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale all'Università degli Studi di Firenze.
In collaborazione con la Rivista Non Profit. Partecipano: Salvo Andò, Rettore della Libera Università Kore di Enna; Sebastiano Missineo, Assessore dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana; Vincenzo Tondi Della Mura, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università del Salento. Introduce Andrea Simoncini, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Firenze.
ANDREA SIMONCINI:
Benvenuti a questo incontro intitolato “Conoscenza e sviluppo tra globalizzazione e identità: l’esperienza del Mediterraneo”. L’incontro nasce – ormai è una tradizione che segna le varie edizioni del Meeting – su proposta della rivista Non profit, che trovate sulle sedie, una rivista che ha un obiettivo ambizioso, gettare una luce originale, un punto di vista non scontato e banale, sul mondo del no profit, soprattutto grazie al lavoro di un gruppo di studiosi, di esperti e di persone coinvolte in questo mondo, che costituisce il cuore del comitato scientifico. Due membri sono qui oggi, nel panel dei relatori.
Il tema che è stato scelto, il Mediterraneo, nasce in qualche modo all’interno dei dialoghi promossi ed è stato ideato da una persona che non figura ma che è dietro le quinte della rivista, l’avvocato Paolo Sciumè che, con un gruppo di persone, si ritrova a pensare i contributi da pubblicare. Abbiamo un problema di tempo: siamo collocati, anche strategicamente, vicino all’Auditorium dove ci sarà il Presidente Napolitano. Quindi abbiamo tutta una seria di esigenze per la sicurezza e l’organizzazione del cerimoniale che fanno sì che dovremo essere tedeschi, nel senso classico che si ammette a questo termine, nel rispetto degli orari. Quindi, l’unica cosa che voglio dire è lo spunto da cui è nata questa idea, per poi dare la parola ai nostri relatori, che ringrazio particolarmente per aver accettato l’invito a partecipare alla presentazione.
Il tema è quello del Mediterraneo. Voi sapete che l’inaugurazione del Meeting, che farà il Presidente, avrà a tema l’unità d’Italia, i 150 anni, la grande occasione che ci troviamo qui a rievocare. Ogni volta che si parla di unità, indubbiamente ci si domanda quante italie ci siano dentro l’Italia, se esista o no una divisione, una separazione, all’interno del contenitore Italia, tra il Nord e il Sud. Il modo con il quale questo workshop affronta il problema, che è abbastanza classico, cioè la distinzione all’interno dell’Italia tra il Nord e il Sud, sceglie una prospettiva diversa. Di solito, quando si parla di Sud o di meridione, si usano dei punti cardinali che inevitabilmente stabiliscono una differenza: il Sud è a sud rispetto al Nord, il Sud è a sud, a meridione di qualcos’altro. La prospettiva del Mediterraneo, invece, colloca il meridione dell’Italia più al centro di quest’area. Non è tanto un sud rispetto a qualcos’altro, ma è un punto focale che costituisce il baricentro di tutta una cultura e di tutta una serie di relazione e di rapporti dell’area mediterranea. Non è il solito punto di vista che gerarchizza in qualche modo tra Nord e Sud. E in un momento come questo, in cui le sfide, dal punto di vista economico, sociale, culturale, crescono e sono sempre più forti, sempre più impellenti – quella economica è sotto gli occhi di tutti, altrettanto quella culturale e quella sociale -, in un momento cioè in cui il confronto diventa globale, è importante chiedersi quale sia il contributo e il patrimonio che una certa area dentro la quale l’Italia si trova coinvolta. Perché è la geografia che lo dice ma soprattutto la storia, la cultura, che ci impongono questo ruolo all’interno del Mediterraneo. L’idea era di poter dialogare su che patrimonio, su che tradizione, su che sfida questa posizione particolare che ha il meridione, al cuore del Mediterraneo, pone. Per affrontare questo tema abbiamo invitato il dottor Sebastiano Missineo, assessore ai Beni Culturali e all’Identità della Regione Sicilia: a pranzo mi faceva notare, giustamente, che, dal punto di vista istituzionale, più che un assessore è un ministro, nel senso che la Regione Sicilia, per l’autonomia che ha, sui beni culturali svolge una funzione e una competenza pari a quella dello Stato, non è una funzione delegata, concorrente. Poi seguirà il professor Vincenzo Tondi Della Mura, che è ordinario di Diritto Costituzionale all’università del Salento, carissimo amico che ringrazio anche perché, come vi dicevo prima, è uno degli animatori del comitato scientifico della rivista Non profit. E’ leccese, e quindi non soltanto ci parla del Mezzogiorno ma del Mediterraneo, con grande e profonda conoscenza. Poi, un amico del Meeting e della rivista Non profit, il professor Salvo Andò, rettore della Libera Università della Sicilia Centrale Kore, a Enna, ordinario di Diritto Pubblico Comparato. Come molti di voi forse ricordano, ha rivestito nella sua lunga carriera tantissime responsabilità di tipo politico all’interno della nostra Repubblica e più volte ci ha fatto il piacere di partecipare ai dibattiti. Ritenuta chiusa la fase introduttiva, darei la parola al dottor Missineo.
SEBASTIANO MISSINEO:
Grazie. Fare l’assessore ai Beni Culturali è molto più semplice rispetto a fare l’assessore all’Identità siciliana, anche perché non esistono altre istituzioni regionali che abbiano avuto questa lungimiranza nel trattare l’identità alla stregua di un bene culturale. Il codice al quale noi facciamo riferimento, il codice dei beni culturali e del paesaggio, dice che il patrimonio da tutelare è tutto ciò che è materiale e immateriale. E l’identità regionale, a prescindere se sia siciliana, calabrese o campana, è sicuramente una identità da tutelare. Per questo, penso che l’identità, che è una delle cinque parole chiave del titolo di questo workshop, sia l’elemento distintivo sul quale bisogna lavorare. Stavo riflettendo su questo titolo e immaginavo questo confronto tra conoscenza e sviluppo, che possono essere considerati il propellente di quella che è, invece, la nostra vettura, la globalizzazione e l’identità, sulla pista che è oggi il Mediterraneo. È corretto dire che la Sicilia è il sud dell’Italia, e l’Italia è il sud dell’Europa, però, di fatto, l’Italia, e in particolare la Sicilia, é al centro del Mediterraneo. Per questo è importante cercare la giusta sintesi tra globalizzazione e identità.
Globalizzazione e identità sono due parole che a volte sembrano in contrasto fra loro, se ci riflettete. La globalizzazione oggi è vista prevalentemente per gli aspetti economici. Noi vediamo la globalizzazione dovunque. La vediamo quando i nostri centri storici si svuotano, quando vengono a mancare le identità territoriali, quando scompaiono i nostri negozi di prodotti tipici e abbiamo degli anonimi Yamamai piuttosto che Benetton, in centri commerciali che sono gli stessi a Dubai come a Catania. Ecco, la globalizzazione vista così è negativa, una globalizzazione che si concentra solamente sul fatto economico. Così come è un fatto negativo immaginare che l’identità sia solo un aspetto folkloristico, cioè il fatto che l’identità siciliana sia fatta dal carrettino piuttosto che dal cannolo, piuttosto che dalle feste di paese, Santa Rosalia o Sant’Agata.
L’identità è qualcos’altro, è qualcosa di più fortemente radicato nel territorio, che trasmette la cultura che il siciliano, così come qualsiasi persona di qualsiasi altra Regione, ha accumulato nel corso degli anni. Ecco, la globalizzazione e l’identità hanno questo momento di sintesi solo se la globalizzazione non è vista per gli aspetti meramente economici, così come l’identità non è vista per gli aspetti prettamente folkloristici: il mix tra globalizzazione e identità deve essere il confronto su quelli che sono gli aspetti sociali, politici, istituzionali, culturali, ambientali. Per questo, non è un caso se il legislatore in Sicilia, qualche anno fa, ha deciso di costruire uno strumento istituzionale che era questo assessorato, e meglio, di abbinarlo ai Beni Culturali: perché i beni culturali sono l’aspetto prettamente materiale e l’identità invece è qualcosa di immateriale.
Quando si è sentito parlare la prima volta di globalizzazione? Si è sentito quando McLuhan, circa 25, 30 anni fa, coniò il termine “villaggio globale”. Ecco, quel villaggio globale è cambiato. La globalizzazione è fatta da localismi. Anni fa si parlava di glocalizzazione, il globale locale. Quanto più il globale riesce ad essere locale, tanto più io riesco a trovare questo punto di equilibrio che serve poi per trasmettere, come nei vasi comunicanti, le singole identità nell’ambito di questo grande villaggio globale. Allora, occorre immaginare che da una parte ci sia un villaggio globale e dall’altra delle identità fortemente localizzate. Un altro esempio che mi piace citare e che ci ha fatto andare sui giornali è che, all’Assemblea Regionale siciliana, qualche mese fa, è passata la legge per l’insegnamento della lingua e cultura siciliana. Fece un po’ ridere, se vogliamo, ma non perché volessimo insegnare il dialetto, non era questo l’obiettivo. Piuttosto, si vuole insegnare la cultura siciliana perché – l’amico Salvo Andò lo sa -, probabilmente, un termine significa una cosa nel catanese e ha un altro significato nel palermitano; si vuole cercare di radicare nelle nuove generazioni quella che è la nostra cultura per farla diventare realmente patrimonio, alla stregua di quello che è il patrimonio Valle dei Templi, piuttosto che il teatro greco di Taormina.
Allora, noi partiamo da localismi fortissimi, da localismi addirittura di miniterritorio. Parlare di identità regionale, avendo oggi una identità nazionale fortemente corrotta – sapete che basta ascoltare quello che dice qualche Ministro della Repubblica che mette magari una maglietta o un fazzolettino verde, che probabilmente l’interpretazione di identità nazionale risulta corrotta – e un’identità europea che con grande fatica si sta cercando di costruire, significa cominciare a delocalizzare quelli che sono stereotipi: Comune, Provincia, Regione, Stato, Europa, Continente. Dovremmo cominciare a delocalizzare immaginando, appunto, questa grande priorità geografica che abbiamo, in particolare noi come Sicilia: essere al centro del Mediterraneo, essere un punto di confine importante, perché il confine sud dell’Europa si chiamano Lampedusa e Linosa. E in questo momento, Lampedusa e Linosa hanno un significato, per tutto ciò che è successo nel Maghreb, tutto quello che è successo o che potrebbe succedere nel Nordafrica, per cui la Sicilia è al centro. La Sicilia come tutta la penisola italiana: io parlo della Sicilia perché ha tutta una serie di peculiarità, può diventare questo vaso comunicante per utilizzare quello che prima dicevamo essere un propellente di sviluppo: la conoscenza, la cultura. Sono stato un mese fa a Tunisi e ho avuto la consapevolezza del fatto che il patrimonio storico-archeologico tunisino è molto simile – come quello libico – al nostro, e quindi lì bisogna cominciare a costruire un percorso di globalizzazione in senso positivo.
La globalizzazione è condivisione della conoscenza ed è strumento di sviluppo. Su questo bisogna puntare, in particolare sulla cultura, perché con la cultura si abbattono drammaticamente i confini, li si rende molto più valicabili, perché la cultura è diventato oggi, sempre di più, strumento di sviluppo. E qui mi piace citare un grande esperimento di globalizzazione e identità: Le Orestiadi, fondazione creata con Rao, che è morto tragicamente qualche giorno fa e che è riuscito, con questa operazione, a costruire un fil rouge di trasferimento di conoscenza, di condivisione della cultura, su cui si può costruire nel futuro una infrastruttura in grado di pareggiare quelle che oggi sono differenze. Oggi, globalizzazione e identità devono pareggiare le differenze che, in particolare in questo momento storico, stanno indebolendo molti popoli.
ANDREA SIMONCINI:
Grazie mille al dottor Missineo, innanzitutto perché ha tenuto fede ai tempi che c’eravamo dati, riuscendo, mi pare, a porre sul tappeto due o tre punti molto rilevanti per proseguire la discussione. Il primo è l’idea che la conoscenza sia il propellente. C’è una sorta di corto circuito maledetto, che sembra ormai dominare sia i dibattiti che la prassi, la pratica politica dello sviluppo: quello per cui ci vogliono i soldi per fare lo sviluppo ma, nei luoghi dove non c’è sviluppo, di solito non ci sono i soldi. E’ molto importante che una persona che ha una responsabilità istituzionale così importante come l’assessorato ai Beni Culturali di una Regione, centrale non solo nel Mediterraneo ma per l’Italia, come la Sicilia, abbia tale consapevolezza, cioè che è dentro questo patrimonio che c’è la benzina, il propellente. E poi, questa idea che esiste una globalizzazione positiva, che esiste un legame che unisce una cultura e un’area culturale, che ha nel Mediterraneo il suo baricentro. In questi giorni ci siamo abituati a guardare ciò che si sposta su nave o su barca, in quella zona, in maniera piuttosto triste, con un certo sospetto: penso ai flussi di Lampedusa provenienti dal Maghreb, invece di innescare una circolazione positiva, virtuosa, nella conoscenza di questi territori. Darei adesso la parola a Vincenzo Tondi, per proseguire questo dialogo sul Meridione e sul Mezzogiorno.
VINCENZO TONDI:
Ringrazio il direttore della rivista per questo invito e per avermi dato la possibilità di curare il numero monografico che avete sulle sedie. Il tema è immenso, trattarlo in un quarto d’ora non è facile, potrò soltanto dare spunti di immagine, nemmeno di riflessione. Si è accennato alla questione dell’identità: io insegno Diritto Costituzionale, per cui sono uomo che studia le istituzioni e da questo punto di vista proverò ad affrontare la questione. E sono di Otranto, per cui utilizzerò molto questa vicenda, a proposito del Mediterraneo. Ho visto un film meraviglioso sulla Sicilia, dove c’è questo legame tra il luogo fisico e la storia che ci passa. Vorrei usare, in questi pochi minuti, questa immagine della storia che fa il luogo e del luogo che crea la storia. A proposito della vicenda delle identità cui ho accennato prima – qui c’è la mostra sui 150 anni -, è vero che anche nell’Assemblea Costituente l’identità non compare. L’identità è un fatto un po’ pericoloso, tant’è che ci sono tanti studi recenti – penso a Sen, Huntington, Zagrebelsky – dove si guarda all’identità come a un fatto pericoloso, perché potenziale veicolo di separazione, quindi di violenza. L’identità non compare nella Costituzione, compare l’accordo fra valori ma non compare un’immagine. Nell’ultimo periodo, nel costituzionalismo pacificato degli ultimi decenni, comincia a comparire il richiamo all’identità come senso della convivenza. Ma anche qui, pensate a tutto il dibattito sulla questione del crocifisso, che per noi sarebbe uno dei simboli massimi, come ha detto anche il Consiglio di Stato, dell’identità nazionale, il crocifisso non più unicamente come richiamo a Cristo ma come simbolo di un modo di convivenza sociale. Come sapete, su questo si discute tanto, quindi l’identità non è per niente un discorso agile, è un discorso molto spinoso, che probabilmente configge in parte, come è stato prima detto, con il tema della globalizzazione.
In ogni caso, l’identità costituisce l’humus attorno a cui si sviluppano le comunità sociali, tant’è che, per esempio, gli Statuti delle Regioni del Sud – Puglia, Calabria e Campania, la Sicilia è precedente alla Statuto, visto che non c’è – fanno riferimento alla identità e al Mediterraneo come vocazione, come apertura ad una prospettiva che però è retaggio di una storia che c’è poco. Il Mediterraneo come luogo in cui sono cresciute le grandi civiltà classiche, le razze umane studiate a scuola, le tre religioni monoteiste. Vi dicevo che sono di Otranto, e questo mi ha dato sempre uno sguardo sul Mediterraneo. Abito di fronte all’Albania, da casa mia si vedono le montagne dell’Albania, quando soffia il maestrale, e questo significa tanto. Volevo dividere l’argomento in due: cosa è stato il Sud Italia nel Mediterraneo, cosa è adesso il Sud Italia nel Mediterraneo, perché l’alternativa è o può essere un Mediterraneo del Nord, e quindi un ruolo attivo, propulsivo, oppure un ruolo di frustrazione, un mancato Nord Europa, un carrozzone che sta lì e non sa nemmeno perché. Ora, perché facevo accenno alla vicenda di Otranto? Perché Otranto ha sempre avuto un luogo essenziale, all’interno del Mediterraneo e nella storia millenaria che c’è stata. C’è stato uno scisma nel 1050 e, prima dello scisma, Otranto era un luogo di cultura, soprattutto orientale. Dopo lo scisma, quando fu vietato reciprocamente l’insegnamento del latino e del greco, a Otranto si continuò, non solo, ma si creò nel 1100 la prima università, prima ancora dell’Inghilterra, con borse di studio dove i bizantini venivano a studiare gratuitamente, ospitati. Era un momento di guerra fredda tra Oriente e Occidente, dove c’era l’Accademia Calmudica, un centro latino, italico, normanno, un centro bizantino. Da lì, poi, nacque il mosaico pavimentale tra i più importanti d’Europa: alcuni anni fa, fu fatta una mostra al Meeting di Rimini su questo mosaico perché è ricchissimo di simbologia. L’idea fondamentale di tutta questa simbologia, presente sia in cattedrale sia nel mosaico, era che qualunque parte del Mediterraneo dovesse essere ospitata all’interno della cattedrale; in modo che non ci fossero estranei: chiunque venisse, era a casa sua e trovava riferimenti territoriali.
Io sono cresciuto con questa prospettiva di Mediterraneo aperto e mi colpì, ricordo, il 5 Ottobre 1980, quando Papa Giovanni Paolo II venne a Otranto, in una delle prime visite, perché fece un riferimento preciso alla chiesa perseguitata dell’Albania. Lo ricordo con grande sorpresa, perché l’Albania era un luogo impronunciabile. Ogni tanto veniva qualcuno ma erano poi subito scortati dalla polizia, e via. Dieci anni dopo, il 5 Agosto 1991, ci fu l’ondata dei profughi albanesi: ne vennero ben 20.000 su una nave, non so se avete in mente quella scena, vennero portati nello stadio a Bari, ci fu una grande discussione e una corsa da parte del popolo pugliese. Ricordo Monsignor Ruppi, il vescovo di Lecce, che purtroppo quest’ anno è morto: quanto si è speso per l’accoglienza degli albanesi, lui e il suo segretario, don Cesare Lodeserto, entrambi poi puntualmente inquisiti dalla magistratura per una serie di reati! Ci sono processi penali ancora in corso contro il povero segretario, don Cesare, che adesso è in Romania per il Regina Pacis, perché in Italia non può più operare a causa di questa persecuzione giudiziaria: lo dico senza ritegno.
Questa è la storia del Sud che ho vissuto io, dopo di che la globalizzazione ha significato tanto, in prospettiva. Significa che l’ingegneria istituzionale non regge più rispetto alle pressioni di libertà dei popoli. Dall’altra parte, c’è un Sud che, rispetto a queste sfide, non può essere solamente generoso, dovrebbe essere molto di più e fa fatica. Guardate le indagini del Sole 24ore: c’è crisi nera, nel Sud Italia, tutte le città sono agli ultimi posti per qualità della vita, analogamente le Regioni. C’è difficoltà a spendere i fondi: probabilmente in questi giorni avete seguito la discussione sulla stampa sulla difficoltà di progettare. Questo significa qualcosa, significa una società civile che per tante ragioni ha perso i propri originari riferimenti, ha una imprenditorialità, una capacità di intrapresa debole, un’economia privata debole, una situazione di clientelismo dominante. Le ricette fondamentali, che possono essere quelle del capitale umano, della sussidiarietà, dell’intrapresa, della responsabilità – dirò due parole su questo prima di concludere – fanno fatica a trovare spazio. Io personalmente confido molto sulla riforma del federalismo fiscale, perché può significare per la prima volta un richiamo alla responsabilità.
Venendo qui, leggevo la meravigliosa conferenza stampa che Benedetto XVI ha fatto in aereo mentre andava a Madrid. L’economia non funziona solo con una autoregolamentazione mercantile – dice – ma ha bisogno di una ragione etica per funzionare per l’uomo. E poi indicava tre tipi di responsabilità: la responsabilità per la propria nazione, la responsabilità per il mondo e poi la responsabilità per il futuro. Sappiamo che dobbiamo proteggere il nostro pianeta ma dobbiamo proteggere il funzionamento del servizio, del lavoro, dell’economia per tutti; e pensare che il domani è anche l’oggi. Se i giovani di oggi non trovano prospettive nella vita, anche il nostro oggi è sbagliato. Il grande numero di volontari – questo Meeting è un esempio di questo richiamo -, che lavorano in diverse parti del mondo non per sé ma per gli altri e trovano così il senso della propria vita, dimostra che è possibile un’educazione le cui parole chiave siano: sussidiarietà, responsabilità, auto amministrazione, capitale umano. Parole che sono l’unica speranza per una ripresa di libertà nell’esperienza del Sud.
Concludo con poche righe di un sacerdote un poco più grande di don Giussani, che ha scritto gli studi sul mosaico di Otranto, dove racconta cosa significasse questa ricchezza di identità per tutte le persone che venivano a trovarlo, perché lui ha passato 70 anni a spiegare e studiare il mosaico di Otranto. Qualche anno fa, un gruppo di iracheni visitava la cattedrale. E mentre si parlava del mosaico, si udì improvvisamente un grido seguito da un salto e una voce: “Qui non mi sento più straniera, sono a casa mia, ecco il leone”. Era il leone di Bagdad, era una ragazza dell’Iraq che aveva scoperto un elemento della sua cultura e ne era felice. Nell’anno in cui fu uccisa Indira Ghandi, una sua parente venne ad Otranto a visitare la cattedrale. Varcata la soglia, le fu rivolto questo saluto: “Eccellenza, lei qui non è forestiera, qui c’è qualcosa di suo, della sua patria”. La signora spalancò i grandi occhi a mandorla e chiese: “Cosa c’è di mio, della mia patria?”. “Ci sono gli elefanti, l’albero della vita riprodotto per la prima volta su un cilindro di Susa, 3020 anni prima di Cristo”. Un sorriso la sfiorò e commentò: “Non avrei mai immaginato di trovare un pezzo della mia terra qui, in una chiesa cattolica”. Credo che l’identità sia proprio questo: la costruzione positiva di una storia capace di accogliere e progettare.
ANDREA SIMONCINI:
Ringrazio di cuore Vincenzo perché ha portato un contributo molto affascinante alla discussione di oggi, perché questo esempio del mosaico della cattedrale di Otranto, sul quale ha costruito il suo contributo, dà quasi visivamente l’immagine di cosa sia questa identità condivisa, in grado di innescare nuovamente, in maniera positiva, il dialogo, il contatto. Mentre oggi guardiamo al Mediterraneo come luogo di divisioni, come crocevia di schieramenti che rendono quasi sempre doloroso, se non sospettoso, il contatto, spesso fonte più di problemi che di opportunità. E’ l’idea che una cultura condivisa consente che il Mediterraneo torni ad essere mare nostrum nel senso vero della parola, in cui è possibile sperimentare questa identità di appartenenza, pur nella diversità assoluta, tra la cultura di Bagdad e quella della Spagna. Anche perché mi pare abbia messo in campo altri punti chiave nella discussione: penso alla vicenda capitale umano, alla sussidiarietà, al principio di responsabilità. Tutti concetti che aprono un po’ di più il problema in chiave politica e ci interrogano su come questo grande patrimonio, questa identità che c’è, questa cultura, possano diventare un progetto e una possibilità di sviluppo. Su questo darei la parola, per l’ultimo intervento, al professore Andò.
SALVO ANDÒ:
Io ringrazio la rivista Non Profit che meritoriamente ha organizzato anche quest’anno al Meeting un confronto su un tema di tanta attualità. Ringrazio il professore Simoncini per le cose che ha detto, ma ho trovato di straordinario interesse le cose che hanno detto gli amici che sono intervenuti prima di me. A mio giudizio, le osservazioni fatte all’ultimo intervento sul tema dell’identità costituiscono la base comune per una discussione che potrebbe avviarsi adesso e proseguire via via, confrontandoci anche con alcuni fatti che stanno maturando nell’aria. Però, muoverei da una premessa e poi porrei una questione. La premessa è questa: fino all’89, non ci siamo occupati dei conflitti identitari. Ce ne siamo occupati quando un mondo, che eravamo abituati a considerare prevedibile e tutto sommato governabile sulla base della logica della guerra fredda, di un duopolio che reggeva sia al centro che in periferia, si è sfaldato. In quel preciso momento, è accaduto una sorta di disgelo, proprio nel senso in cui ne parla Ehrenburg: nel momento in cui arriva la primavera, si sciolgono i ghiacci e ci accorgiamo di quella che era la reale conformazione del territorio. Quando si sciolgono i ghiacci del comunismo, ci rendiamo conto di tutte le diversità, di tutti i conflitti non risolti ma sopiti, che il comunismo aveva congelato. E naturalmente, venendo meno questo collante, emergono tutta una serie di rivendicazioni identitarie che possiamo definire come riappropriazione di una storia interrotta e sepolta. Ne sanno qualcosa, per esempio, i cristiani, ne sanno qualcosa le Chiese, che sono state costrette a dovere fare i conti con quei regimi. Come è possibile che tutto sia emerso dal nulla con vitalità sorprendente? Come se si fosse trattato di una parentesi, anziché di un ciclo storico che, a livello geopolitico, ha cambiato il destino del mondo. Ecco, io credo che la riflessione sul Mediterraneo debba partire da questo dato. Tutto sommato, il duopolio Est-Ovest aveva anche pacificato il Mediterraneo. Tutti i Paesi della sponda sud, che dal nostro punto di vista europeo occidentale hanno posto problemi molto seri alla sicurezza dell’Occidente negli ultimi 20 anni, sono stati governati da partiti unici esplicitamente filosovietici o da partiti o regimi terzomondisti, e quindi dal non allineamento: se dovevano scegliere, però, fra l’Est e l’Ovest, non avevano dubbi, sceglievano l’Est. Cosa è accaduto da allora? È accaduto che il Mediterraneo ha guadagnato una sorta di centralità nel bene e nel male, positiva e negativa, e ha guadagnato una centralità positiva nel senso che una dislocazione generale degli assetti di potere a livello geopolitico ha reso meno strategico l’asse Nord Atlantico. Abbiamo avuto una crisi degli Stati Uniti che non coincide soltanto con le vicende degli ultimi tempi ma che risale al momento in cui, finito il comunismo, si pone una sorta di candidatura indiscussa all’egemonia, al dominio di un pensiero unico a livello mondiale, e gli Stati Uniti si candidano ad essere i gendarmi militari di quel pensiero unico.
Di fronte a questa candidatura, vi sono una serie di dissociazioni che riguardano anche l’Europa, anche alcuni Paesi alleati. E in quel preciso momento, emergono due fenomeni: una rivendicazione in termini di potenza militare e politica da parte di alcuni Paesi che, venuto meno il duopolio, vogliono controllare la propria sfera di competenze (questo riguarda soprattutto la realtà del Golfo), ma anche una situazione di ingovernabilità, con riferimento a conflitti antichi che diventano incomponibili. Non mi riferisco alla vicenda del conflitto arabo-israeliano, ma ad altre vicende mediorientali che fanno di quell’area un’area assolutamente ingovernabile. Di fronte a questo conflitto, si tentano diverse strade. La prima è quella della creazione di un nuovo ordine internazionale: ricordiamo il famoso incontro di Maastricht fra Gorbaciov e Reagan, in cui si definiscono le linee del nuovo ordine internazionale. E perché questo nuovo ordine internazionale è nuovo? Perché si propone una concezione cooperativa della sicurezza per cui tutti i soggetti. Tutti gli attori coinvolti diventano al tempo stesso consumatori e produttori di sicurezza: questa è una grande rivoluzione, tenendo conto che anche gli eredi dell’ex impero sovietico l’accettano. E la accetta l’Egitto, che vede bene il nuovo ordine internazionale. La prima guerra irachena, quella di Bush padre, è una guerra che anche gli egiziani benedicono, ma dura poco. Quell’equilibrio si rompe e la situazione precipita sino al punto che poi la situazione diverrà irreversibile, come vedremo nell’attacco alle Due Torri.
Lì inizia un’altra storia, dove la discriminante è l’identità e il Mediterraneo diventa una cortina d’acqua che prende il posto della cortina di Ferro, non soltanto nella rappresentazione degli addetti ai lavori ma anche sul piano dell’analisi politica. Coloro che avevano parlato di conflitto di civiltà, di fine della storia, cercavano di costruire in termini geopolitici un assetto che fosse conveniente per tutta una serie di interessi e di gruppi di potere, che oramai non trovavano più il duopolio storico e dovevano creare un nuovo duopolio che era quello Nord-Sud. Poi, naturalmente, con l’attacco alle due Torri la situazione del Mediterraneo diventa la situazione che è a tutti nota. E lì hanno giocato però due interessi, convergenti e opposti: c’è stato l’interesse di una parte dell’Occidente, in particolare dell’Europa, ma soprattutto di un settore, di un segmento politico dei Paesi europei, che dovevano rappresentare la minaccia islamica come una minaccia dietro l’angolo, con il rischio che l’Europa venisse invasa, l’identità europea minacciata. Questo è l’argomento forte di una nuova destra che si organizzava su posizioni razziste: non più il vecchio nazionalismo, ma nuove posizioni razziste. Ma questo ha fatto il gioco degli estremisti della parte opposta, i jhiadisti, i quali dovevano dimostrare che in un certo senso c’era un attacco all’identità che avveniva nella cosiddetta forma della ingerenza umanitaria e poi democratica, e che il rischio era che gli infedeli occupassero un nuovo territorio e imponessero un regime che cancellava le loro identità. Paradossalmente, questi due estremismi hanno giocato la stessa partita. Tra coloro i quali provocavano quelli della sponda Sud con le vignette su Maometto, e gli altri che predicavano contro l’Occidente perché rubava il futuro ai Paesi della sponda Sud, c’è una convergenza obbiettiva.
Oggi, noi siamo a questo punto della storia: i conflitti che sono esplosi nella sponda Sud, quelli della prima area araba, ci stanno consegnando uno scenario completamente diverso. Perché non ci sono, alla base di quelle rivoluzioni o rivolte – chiamiamole come vogliamo – rivendicazioni identitarie. Nessuno ha bruciato le bandiere israeliane, nessuno ha brandito il Corano nelle piazze, nessuno ha manifestato atteggiamenti ostili nei confronti degli Stati Uniti. Però c’è un’altra cosa: quelle rivolte non sono soltanto rivolte per la fame, non sono rivolte per rivendicare un diverso futuro, sono rivolte che hanno una base valoriale vera, della quale secondo me bisogna prendere atto. In un certo senso, ci troviamo di fronte ad un altro tipo di convergenza, estremamente interessante, tra quello che avviene nella sponda Sud e quello che avviene nella sponda Nord, perché abbiamo gli indignati del Nord e gli indignati del Sud che non chiedono sicurezze immediate ma vogliono costruire un futuro diverso mettendo in discussione un modello di sviluppo.
L’intervista di Vittadini sul Corriere è molto bella, in sostanza dice che c’è una parte della società assistita storicamente protetta, che ha conquistato il futuro di quella parte che è storicamente esclusa. Questo è un problema che si pone negli stessi termini nel Nord e nel Sud, solo che, mentre nel Nord normalmente ricostruiamo questa grande disuguaglianza spiegando che ci sono dei poteri forti che tutto sommato vigilano perché questo sistema è irreversibile, nel Sud ci sono i regimi dei rais che con le loro famiglie hanno creato un apparato che confisca libertà e ricchezze.
Ecco, quale dovere abbiamo noi oggi come europei e, in particolare, come italiani? Siamo la porta meridionale dell’Europa, non abbiamo soltanto il dovere di auspicare il dialogo, naturalmente anche questo, ma non può essere il dialogo di cui parlava Braudel. Non si tratta di far emergere le funi sommerse che collegano le civiltà ma di metterci d’accordo su un diverso modello di restituzione della ricchezza, che ci consenta di procedere lungo processi di innovazione che passano anche attraverso la comprensione del fenomeno, del boom demografico che c’è al Sud e delle conseguenze che comporta per il Nord. Il dialogo dovrebbe portare opportunità di sviluppo basate soprattutto su due elementi: primo, lo sviluppo di quei Paesi dipende dal fatto che essi si sviluppano, non sulla base di un modello che dal Nord al Sud ma sulla base di scelte proprie. Se noi consideriamo la situazione delle grandi tigri asiatiche – mi riferisco a India e Cina – guardate che venti anni fa, nella rappresentazione generale, stavano molto peggio di quanto non stia l’Africa adesso, e hanno fatto le cose che hanno fatto perché non c’è stato nessuno che ha spiegato loro come dovevano organizzare il proprio sviluppo. Nessuno ha spiegato loro come dovevano produrre più capitale umano o migliorare la qualità del capitale umano prodotto; nessuno ha spiegato loro quali erano le vocazioni che dovevano privilegiare. E’ emersa in queste realtà una borghesia vitale che sta organizzando il proprio sviluppo: quello che invece non è emerso nei Paesi del Nordafrica, dove noi, noi della sponda Nord, abbiamo realizzato dei sistemi di economie protette o assistite che non hanno risolto nessun problema.
E se dobbiamo spostare il discorso dall’economia ai sistemi politici, è davvero illusorio pensare che noi, secondo quello che teorizzava Bush figlio, con le guerre preventive raggiungeremo la sicurezza esportando la democrazia. La democrazia ha bisogno dei democratici e i democratici si formano sulla base di processi che necessariamente vanno gestiti dal basso: è quello che stanno organizzando i ragazzi delle rivolte, una vita democratica gestita dai basso, non parlando di cose astratte ma parlando di libertà concreta, di opportunità di sviluppo concrete, non soltanto di cambiare la forma dello Stato o del Governo. In quei Paesi si è sempre votato, in quei Paesi i partiti ci sono sempre stati: però sono stati una finzione perché ci sono stati sistemi di partito unico, con una opposizione legale che era null’altro che il partito unico decentrato. Ora, qual è il ruolo che dobbiamo sviluppare, svolgere, come Paese della sponda Nord? La politica euroelitaria è finita per sempre, non ne parla più nessuno, non ci crede nessuno. Occorre un nuovo progetto, un progetto diverso, che sia cooperativo su basi diverse.
Oggi parlavo con Missineo, ci siamo interrogati come siciliani. Come osiamo diventare attori? Certo, non siamo il Sistema Paese, siamo una Regione importante però sentiamo questa necessità: insomma, arrivano a casa nostra, Lampedusa è casa nostra. Come possiamo fare per superare una politica delle relazioni esterne con tutti questi Paesi, senza affidarci soltanto alle politiche dell’ordine pubblico e senza impedire gli sbarchi? La prima risposta è cercare di farli stare bene a casa loro. Di che cosa hanno bisogno? Hanno bisogno di trasferimenti tecnologici e soprattutto di una concezione diversa della globalizzazione, per cui i processi tecnologici siano di nuovo territorializzati: una valorizzazione di risorse che l’economia finanziaria non può consentire ma l’economia reale, sì. Come uomini del Mediterraneo, abbiamo cose che possiamo fare insieme: pensiamo alla filiera dell’alimentare, pensiamo a cosa significhi, per esempio, la valorizzazione della dieta mediterranea. E’ un’opportunità per noi e un’opportunità per loro. Pensiamo a cosa significhi un turismo relazionale integrato, in cui si va a fare turismo non per stare nei villaggi turistici ma per incontrare persone, per poter conoscere meglio queste comunità. O una rivoluzione nel settore energetico: noi normalmente paghiamo le risorse e non sappiamo dove vanno questi soldi ma, per esempio, non siamo mai riusciti a tentare la strada di un percorso di democrazia energetica per cui, in sostanza, si scambiano tecnologie contro materie prime.
E poi, c’è questa questione dei beni culturali che, come ha detto l’assessore Missineo, sono patrimonio dell’umanità. Allora, io penso di imputare una quota degli aiuti per lo sviluppo ai servizi culturali, alla produzione e alla circolazione delle conoscenze. Non pensiamo di aiutare questi Paese semplicemente dimostrando generosità, facendo venire gli studenti a studiare da noi: per ogni cento studenti che verranno qui, soltanto trenta torneranno a casa loro, non facciamo altro che privare questi Paesi del loro capitale umano. Loro sanno di noi e delle nostre istituzioni molto più di quello che noi sappiamo di loro. Se andiamo a vedere i titoli che si pubblicano in questi Paesi sui sistemi politici europei, e poi li confrontiamo con quello che produciamo noi, vediamo che avremmo tutto l’interesse a promuovere un dialogo serio. Invece continuiamo a parlare di una politica mediterranea del dialogo, senza creare strutture che servano in questo senso. In una Regione come la nostra, assessore Missineo, ma quanti sono i centri di cultura araba, i corsi di arabo? Eppure c’è una grande retorica della politica mediterranea, dei rapporti da stabilire. Credo che prima di riconoscere la dignità di una identità, occorra conoscerla: un riconoscimento senza coscienza è solo un atto di cortesia. E io credo che questi Paesi non vogliano più atti di cortesia ma stabilire rapporti di cooperazione culturale di tipo paritario. Ecco, se cominciamo a dire queste cose e a crederci, a mio giudizio potremmo portare avanti una politica mediterranea seria. In una sola parola, se mi si chiede quale sia la nostra speranza, rispondo che, come uomini del Sud, riusciamo a fare del Mediterraneo quello che il Triveneto ha fatto negli anni Ottanta nella Mitteleuropa, con le proprie forze, creando un modello di sviluppo che è servito al Triveneto e alla Mitteleuropa. Possiamo rappresentare il Sistema Paese nel Mediterraneo, mettendo a disposizione dei Paesi della sponda Sud, come uomini del Mezzogiorno, risorse, speranze e propensioni che sono molto forti, perché si tratta di un’area, in particolare la Sicilia, che è sempre stata abituata ad un incontro con le culture.
Parliamo per esempio del problema della multi eticità: l’abbiamo sperimentato a Trapani, da settanta, ottanta anni, abbiamo una società multietnica perfetta: ciascuno deve guardare l’altro ponendosi dal proprio punto di vista, e farlo in modo rispettoso. Io credo che esistano le condizioni culturali perché sia possibile fare questo in tutto il Mezzogiorno, soprattutto in Sicilia. Occorre naturalmente percorrere questa strada avvalendosi delle strutture e delle risorse necessarie a mantenere poi la parola data, perché non c’è cosa peggiore che fare una politica della cooperazione promettendo ciò che non si può mantenere.
ANDREA SIMONCINI:
Ringrazio anche il professor Andò per questo ultimo intervento che ha inscenato lo scenario globale in cui il nostro workshop si colloca, ha detto un affresco della situazione politica in cui il Mezzogiorno vive, di straordinario interesse. E poi ha chiuso come succede qui al Meeting, che non è solo un luogo di discussione accademica o in cui si discetta della politica mondiale. Il Meeting è fatto di persone di buona volontà, che si domandano cosa fare con la propria responsabilità, come contribuire: e lui ha chiuso con questo accenno a come debbano essere formulate le politiche che si occupano di quel settore e in che maniera questo possa poi dialogare. Sono contento anche di questo dialogo in diretta con l’assessore, su una proposta che può avere un seguito nelle politiche della Regione siciliana, sull’idea di creare un punto di sviluppo della produzione e della circolazione della conoscenza che proprio lì, proprio in Sicilia, possa diventare motore di sviluppo per tutta l’area. Faccio soltanto due osservazioni conclusive: a me sembra che l’appello che è emerso come filo conduttore tra i tre interventi sia questa idea di una nuova cultura dello sviluppo. Non possiamo pensare di risolvere una situazione che si è creata in questi anni applicando un certo modello, rimanendo dentro lo stesso modello. È il modello di sviluppo che ha prodotto questa differenza, non possiamo pensare di uscirne rimanendo dentro lo stesso schema mentale. Penso che l’intervento di Vincenzo prima, quello che è stato poi detto dall’assessore, e infine dal professore Andò, sia di grande aiuto. Questo nuovo modello è un modo nuovo di pensare allo sviluppo, ha una sua centratura antropologica molto particolare, è un modo di concepire l’uomo, la persona, le relazioni: è questo il grande fattore, il segreto dello sviluppo, questo ingrediente nascosto che poi ha prodotto la civiltà in cui noi viviamo. Il professor Andò chiudeva dicendo cosa possa costituire un fattore di speranza.
Ho l’impressione che alcuni esempi di questa cultura diversa, di questa cultura nuova, ancorché antica, che consenta allo sviluppo di avvenire senza necessariamente pensarsi in maniera dipendente o tributaria rispetto ad altri, e che valorizzi la responsabilità e la persona, già esistano. Il primo, il più macroscopico è il Meeting di Rimini, grande esempio di dialogo in cui le culture diverse, le storie e le tradizioni diverse, anche opposte, possono trovare uno spazio. Mi è particolarmente caro citare il fatto che proprio domani si terrà, qui al Meeting, un incontro con tutti i protagonisti del Meeting del Cairo. Sapete che l’anno scorso per la prima volta il Meeting è uscito dai confini italiani per andare in Egitto e proporre lì un incontro. L’esempio è quello: un altro più piccolo, ma culturalmente sulla stessa linea, è proprio la rivista Non profit che ha organizzato questo incontro. Un contributo più limitato ma che ha lo stesso intento: provare a pensare una cultura dell’intrapresa, dell’impresa, della relazione, fino alle sue conseguenze istituzionali e giuridiche, fino a creare delle forme come le fondazioni, le associazioni, le società. Non profit nasce esattamente per sostenere e strutturare da un punto di vista scientifico quella cultura, una cultura che c’è nel nostro Paese, che tiene in piedi una parte cospicua dell’economia reale, che molto spesso, però, viene ritenuta – utilizzando l’altro modello culturale – come una sorta di settore un po’ così, di serie b rispetto ai settori principali. E invece, se andiamo a vedere i dati, spesso è quella che sostiene.
Concludo ricordando, come faceva anche Vincenzo, la rivista che trovate sulle sedie, il numero sulle disabilità che ha curato Vincenzo, che è molto bello ed è un esempio di quello che ci siamo detti. Qui al Meeting c’è uno stand, alla Hall Sud, dell’editore Maggioli che pubblica la rivista, dove potete trovare le altre. Oppure c’è anche l’edizione online, Nonprofitonline, che è il portale nel quale potete trovare questa realtà. Ringrazio tutti i partecipanti e tutti voi che siete stati con noi.
(Trascrizione non rivista dai relatori)