CONOSCENZA E EDUCAZIONE

Partecipano: Andrew Davison, Lecturer of Christian Doctrine at the Faculty of Theology of Oxford University and Junior Chaplain at Merton College in Oxford; John Milbank, Professor in Religion, Politics and Ethics at the University of Nottingham; Adrian Pabst, Lecturer in Politics and Religion at the University of Kent in Canterbury. Introduce Stefano Alberto, Docente di Introduzione alla Teologia all’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano.

 

STEFANO ALBERTO:
Buon pomeriggio, benvenuti a tutti. Diamo il via a un esperimento: come avete potuto vedere sul programma, questa è il primo di una serie di incontri dal titolo Focus. Proviamo a presentare al Meeting momenti in cui grandi personalità, grandi maestri parlano a un pubblico più selezionato, per andare più nello specifico, più a fondo di un certo argomento. Molti di voi sono qui perché sono stati personalmente invitati, è una sorta di seminario. Alla fine degli interventi dei nostri ospiti, ci sarà la possibilità per qualche domanda. Il tema, come vedete, è impegnativo: “Conoscenza e educazione”. Riecheggiando il tema principale, “La conoscenza è un avvenimento”, che verrà sviluppato soprattutto nella lezione di Martino, domani, e poi in quella di Carrόn, martedì, oltre che in moltissimi altri interventi, vogliamo prendere di petto il problema. Di fronte a un uso ridotto della ragione, siamo abituati ormai anche noi a vivere divisi tra sapere e credere, tra fede e ragione. Il mondo della conoscenza è ormai limitato al mondo della scienza, mentre tutto quello che riguarda la conoscenza per fede, la conoscenza morale, è qualche cosa di oggettivo. Di fronte a un uso ridotto della ragione, di fronte a un uso ridotto della conoscenza – la conoscenza ridotta a istintività e impressione meccanica della circostanza, oppure a ideologia, a uno schema, a una teoria che si proietta sulla realtà -, la grande sfida è riscoprire invece che la conoscenza è qualche cosa che accade, è un incontro tra la realtà fuori di noi e la nostra energia conoscitiva, il nostro cuore, le nostre esigenze, tra cui quella di verità, di conoscere veramente le cose come sono e come si impongono a noi. Ma tutto questo è un lungo cammino. Non si impara meccanicamente ad usare la ragione secondo tutte le sue potenzialità. Una conoscenza di questo genere accade come l’avventura di un incontro, avviene dentro un incontro. Quasi nessuno più oggi parla di educazione, quasi nessuno più oggi è disposto a correre quel rischio, così che lo chiamava Giussani, per cui la mia vita introduce la tua alla totalità dei significati. Ricordate la frase famosa di don Giussani? “Fateci andare in giro nudi, toglieteci tutto, ma lasciateci la libertà di educare”. Cioè, lasciate che una vita possa introdurre al significato della vita. Allora, per illuminare, per aiutarci a cogliere i nessi tra conoscenza e educazione – conoscenza e educazione sono ambedue un avvenimento, non c’è l’una senza l’altra -, abbiamo chiesto, in nome dell’amicizia e del fatto che ormai non li sentiamo ospiti ma protagonisti del Meeting, innanzitutto al prof. Milbank, che ormai è di casa, e ai suoi due amici, Andrew Davison e Adrian Pabst, di aiutarci ad entrare in questo nesso: conoscenza e educazione. Darei la parola innanzitutto a Father Andrew Davison che, mi diceva prima, fa due mestieri, two jobs: è professore e sacerdote anglicano all’università di Oxford. Prima ha svolto i suoi studi presso la facoltà di Chimica, conseguendo il dottorato in Biochimica al Merton College; ha studiato teologia a Cambridge, si è perfezionato a Roma, dove ha anche collaborato alla guida spirituale degli studenti anglicani. Dopo la sua ordinazione nel 2003, un’esperienza in parrocchia ed ha iniziato una brillante carriera accademica. Alcuni suoi testi sono ormai oggetto di discussione in tutta l’Inghilterra, proprio perché è riuscito a mettere in luce il cuore dell’esperienza anglicana, che non può essere se stessa senza recuperare i legami con la tradizione, con la totalità della tradizione cristiana. A lui la parola.

ANDREW DAVISON:
Grazie mille. Come appena detto, la conoscenza è qualche cosa che avviene sempre nell’ambito di incontri. Vorrei concentrarmi sull’importanza delle persone, sull’importanza dell’educazione e dell’apprendimento. Il titolo scelto per questo Meeting è davvero eccellente: la conoscenza è senz’altro sempre un avvenimento, la conoscenza è qualche cosa di specifico, di storico, legato a un luogo e persone particolari, nonché a esperienze ed oggetti specifici. Questo pomeriggio vorrei illustrarvi un tema particolare, vorrei parlarvi del debito che abbiamo nei confronti dei nostri insegnanti, benefattori ai quali dobbiamo immensa gratitudine. Voglio collegarmi a questo tema più generale della conoscenza come avvenimento e, in particolare, concentrarmi sul rapporto tra conoscenza ed educazione. Voglio dire che l’educazione è sempre un avvenimento, senz’altro. Ciascuno di voi potrà ricordare un insegnante che ha fatto la differenza. Mia sorella, per esempio, ha avuto dei problemi quando è passata alla scuola secondaria, non le è mai piaciuto molto studiare e, in quel momento di passaggio, si è sentita persa. Tuttavia ci fu un insegnante, il suo tutore in quella classe, che l’ha aiutata moltissimo, con grande gentilezza e sensibilità, in quei primi anni così difficili. Io stesso sono stato molto fortunato: potrei elencarvi un grande numero di insegnanti eccellenti, persone di grande intelletto, generose, gentili, talentuose, entusiaste ed appassionate. Ho avuto insegnanti di questo tipo, prima nelle materie scientifiche, poi in teologia e in filosofia. Queste storie sottolineano il fatto che l’educazione coinvolge sempre persone particolari. E’ un aspetto, questo dell’educazione, sicuramente molto importante per voi, nell’ambito di Comunione e Liberazione: don Giussani vi ha lasciato una grandissima eredità, in termini di educazione. Soprattutto, lui stesso è stato un esempio vivente di come l’educazione derivi dall’incontro tra le persone. A mio vedere, questa è stata la caratteristica precipua della sua vita: lui davvero ci teneva ad incontrare le persone profondamente, e faceva in modo che quell’incontro diventasse un’occasione per la ricerca della verità. Durante quest’anno, in cui è stata annunciata la beatificazione di Henry Newman, mi sono ricordato del suo motto: “Cor ad cor loquitur”, un cuore che parla al cuore. Credo che questo fosse anche il motto di don Giussani. E Newman, naturalmente, è uno dei maggiori doni che la mia Chiesa abbia fatto alla vostra. Il dono dell’educazione è un dono che riceviamo dai nostri insegnanti, un dono che dovrebbe riempirci di gratitudine. E la gratitudine è un altro tema che io associo a don Giussani, innanzi tutto perché so che voi nutrite verso di lui un profondo senso di gratitudine: attraverso la sua vita, il suo lavoro, le sue opere, lui è diventato il vostro benefattore. In secondo luogo, perché ho frequentato una scuola di comunità ad Oxford, e in quell’occasione ho letto un testo scritto da don Giussani, in cui lui diceva che oggi le persone si comportano come qualcuno che, tornando a casa, trova uno splendido mazzo di fiori sul letto, e si interroga su quale tipo di fiori si tratti, e ignora invece la domanda più ovvia, che riguarda la provenienza di questi fiori. Quindi, si ignora una domanda fondamentale: don Giussani ci insegna proprio il fatto che il mondo manca di un senso di meraviglia e di gratitudine verso Dio. La gratitudine, e la gratitudine verso gli insegnanti, sono il tema principale del mio intervento. Infatti, ogni volta che vengo invitato a tenere un intervento, penso immediatamente ai miei insegnanti, verso i quali ho un grandissimo debito di gratitudine, e penso soprattutto a quello che considero il mio maggiore insegnante, Tommaso d’Aquino. Lui esplora a fondo il tema dell’educazione, e dell’educazione come avvenimento: pensiamo alle sue opere, al suo lavoro che è sempre stato realizzato per una situazione particolare, ad esempio per aiutare una persona o una comunità specifica. I suoi testi, la Summa, aiutano gli insegnanti a mettere a punto corsi personalizzati, o anche i pastori a prepararsi per lavori e incarichi specifici. Il suo testo più famoso sull’educazione, non ha un titolo generale, che riguardi l’insegnamento, ma si concentra sulla componente umana. Si intitola: Sull’insegnante (De veritate). Tommaso d’Aquino ha detto cose splendide sul concetto di debito e di gratitudine nella sua discussione sulla giustizia, afferma che noi tutti abbiamo debiti di ringraziamento e gratitudine verso molte persone. In particolare, li divide in categorie. La prima categoria riguarda il debito che abbiamo verso Dio, la fonte di tutto ciò che è bene. Successivamente viene nostro padre, oggi diremmo i nostri genitori, dopo di che vengono le persone che hanno importanti responsabilità, persone dalle quali riceviamo quelli che possiamo definire benefici generali. Poi ci sono i benefattori, dai quali riceviamo benefici particolari, privati. È molto interessante, proprio per il nostro tema di oggi, che in molte occasioni Tommaso d’Aquino abbia sottolineato il fatto che l’educazione è l’esempio di un dono che viene a beneficio di colui che lo riceve. L’educazione è un elemento positivo che genera un debito: secondo lui, questo bene genera una cosiddetta catena di imitazione. Quindi, i nostri genitori imitano Dio, e da Dio vengono tutte le cose buone e tutte le forme di insegnamento… I nostri genitori, che ci trasmettono a noi come essere – appunto, l’educazione – condividono in questo modo il lavoro di Dio. Tommaso d’Aquino procede dicendo che ci sono altri che, a loro volta, condividono il lavoro dei nostri genitori. Ad esempio, i nostri insegnanti, che partecipano al loro lavoro. Spero possiate vedere che c’è un legame molto stretto, nel pensiero di Tommaso d’Aquino, tra i nostri benefattori primari, quindi Dio e i nostri genitori, e i nostri insegnanti. L’educazione è un dono estremamente prezioso, un dono specifico: le cose buone che riceviamo, quindi, creano un debito nei confronti di chi ce le ha donate. Abbiamo debiti verso Dio e verso i nostri genitori, verso le persone importanti e verso i nostri benefattori: i cristiani si confrontano con molti debiti, come dice anche il Padre Nostro, ma c’è invece un tipo di debito di cui ci rallegriamo, il debito di gratitudine che san Paolo chiama il debito d’amore. Verso Dio e verso i genitori abbiamo un debito che è molto più grande di noi e ci oltrepassa, che non saremo mai in grado di ripagare, ma ci sono comunque altri da cui abbiamo ricevuto benefici, e gli insegnati chiaramente rientrano in questa categoria. Perché questo argomento è così importante? Innanzitutto, è un ottimo argomento: san Tommaso d’Aquino, l’universale maestro della chiesa, è d’accordo con il motto del Meeting, “la conoscenza è sempre un avvenimento”. In secondo luogo, voglio che ricordiamo i moltissimi doni meravigliosi che abbiamo ricevuto dai nostri insegnanti. Ricordarci del bene che altri ci hanno fatto è qualche cosa che ci rallegra sempre, che ci incoraggia, che dovrebbe fungere da stimolo affinché diventiamo buoni educatori di noi stessi, e soprattutto buoni educatori verso altri, in qualsiasi modo sia possibile, perché in questa maniera potremo cominciare a ripagare il debito che abbiamo verso i nostri insegnanti. Possiamo ringraziare a parole, ma possiamo anche ringraziare attraverso le nostre azioni, ripagare il debito cercando di essere noi stessi buoni insegnanti, buoni educatori, oppure sostenendo il lavoro degli insegnanti con il nostro tempo, le nostre risorse. Infine, ho altre due ragioni per ricordare i nostri insegnanti come benefattori. La prima ragione: ricordarci degli insegnanti come benefattori rafforza il legame che ci unisce all’interno della Chiesa e delle nostre comunità. In Inghilterra, la vita delle comunità, purtroppo, è estremamente deteriorata. Ovunque vediamo egoismo e apatia, i legami che uniscono le persone si stanno sgretolando: quindi, quale migliore rimedio che ricordarci che l’educazione è sempre un avvenimento, un avvenimento che crea un debito tra noi e i nostri insegnanti, un debito che ci stimola ad agire in modo generoso verso gli altri? Questo ci permette di consolidare nuovamente il legame che abbiamo con gli altri. Voglio ritornare al punto di partenza, in particolare al passaggio di don Giussani, all’aneddoto della persona che trova i fiori sul letto. In questo caso, vediamo che nessuno si chiede da chi arrivino questi fiori, quindi, a chi deve gratitudine. La fede cristiana si trova oggetto di un enorme attacco, almeno nei paesi del mondo anglofono, ma non c’è dubbio sul fatto che questo vale anche per altri parti del mondo: parte di questa situazione è dovuta alla profonda apatia che c’è verso Dio e le cose religiose.
Rinnovare la gratitudine, a mio parere è fondamentale proprio per affrontare le sfide che ci aspettano. C’è moltissimo lavoro che rimane da fare nell’evangelizzazione e nell’apologetica, nel mio paese e nel vostro, dalla mia chiesa e dalla vostra. E se dovessi sottolineare un punto specifico a cui ispirarci, vorrei proprio citare il concetto di gratitudine. Il nostro compito è risvegliare la gratitudine, gratitudine per la vita, per l’esistenza, per l’amore e per la felicità, per la famiglia e per gli amici, per l’educazione e la conoscenza, e per moltissime altre cose. Don Giussani ha sempre voluto suscitare la meraviglia: voleva che le persone vedessero e percepissero il mondo in tutta la sua gloria, pensava che questo avrebbe ricondotto le persone a Dio, e aveva ragione. Per vedere il mondo così com’è, bisogna proprio risvegliare questo senso di meraviglia che deve essere la gratitudine. Molte persone lo avvertono nel profondo. Sale alla superficie in momenti particolari, durante un matrimonio o al momento di una nascita, oppure quando viene a mancare qualcuno e ci si ricorda la vita della persona appena persa. In questi momenti, così come in altri, noi possiamo incoraggiare la gratitudine delle persone che ci circondano, possiamo incoraggiarle a porsi la questione fondamentale: a chi siamo grati per le cose buone che abbiamo nella nostra vita, nei confronti di chi nutriamo gratitudine per la vita, la bellezza, l’amore? Noi siamo grati a chi ci dona tutto questo, Dio stesso. Il mondo, come lo conosciamo è sempre stato basato sulla speranza, anche sul debito, forse. Ma ci siamo dimenticati il debito più grande. Questo è il percorso che dobbiamo intraprendere, e soprattutto fare intraprendere a coloro che non hanno ancora conosciuto e onorato Dio. E mi sembra qui, oggi, che la conoscenza e l’educazione siano un ottimo punto da cui cominciare. Forse le persone potrebbero iniziare a vedere l’educazione come un avvenimento, e da qui partire per passare poi alla gratitudine, e dalla gratitudine passare a Dio. Grazie.

STEFANO ALBERTO:
Grazie ad Andrew Davison per questo affondo che interpella l’esperienza di ciascuno di noi. Comunque sia la nostra vita, nessuno di noi, penso, può negare questa gratitudine verso qualcuno che non ci ha detto cosa dovevamo fare, non ci ha riempito di leggi e di precetti, ma ha saputo, con la sua umanità, con la testimonianza dell’impegno, con il dramma della sua vita, ridestare la nostra umanità, veramente “un cuore che parla ad un altro cuore”. Voglio riprendere gli accenni di grande realismo in una realtà sociale in dissoluzione. Questa dinamica, a partire dall’incontro, dalla comunione e dall’interscambio di due vite, può sembrare qualche cosa di assolutamente romantico o impossibile. Ma se siamo realisti, è l’unica strada. Le alternative sono l’indottrinamento, ancora una volta l’ideologia o la rinuncia a priori a comunicare qualche cosa di veramente significativo per la vita. Vorrei che adesso il professor Pabst approfondisse queste tematiche. Per chi non lo conosce, dopo la laurea in economia a Cambridge, e il perfezionamento in studi europei, ha studiato e lavorato a Parigi, prima all’istituto di studi politici, conseguendo una laurea in Scienze politiche, poi un diploma in Teologia e Filosofia all’Instituto Católico. Dopo aver approfondito gli studi di politica e cultura francese, nel 2002 è rientrato alla Peterhouse, nel 2003 si è laureato in Teologia e ha completato gli studi con il Ph. D. in Filosofia delle religioni. Adesso è Lecturer, primo gradino come professore di accademia, e ricercatore presso l’università del Kent. Oltre ad una carriera accademica che si sta rivelando molto promettente, è autore ed editorialista di molti quotidiani e periodici. Prego.

ADRIAN PABST:
Grazie mille per le gentili parole di introduzione. Ho il piacere di partecipare a questo bellissimo evento, il Meeting di Rimini, e vorrei concentrarmi in particolare su come si possa fare del bene, come la conoscenza e l’educazione della volontà siano fondamentali per l’economia e la politica più di quanto non lo siano altri principi, ad esempio il mercato. Nella sua enciclica più recente – Caritas in Veritate -, Benedetto XVI utilizza una metafisica pre-secolare per sviluppare una economia post-secolare. Si dice che in questo documento si basa su una idea cattolica, che si basa su una idea sociale, che si basa sulla carità. Come sappiamo che è possibile? Come dice Cartesio, non si può, basandosi sulle idee innate della mente; e nemmeno, come dice David Hume, è possibile avere una conoscenza della bontà soprannaturale in Dio perché essa si fa conoscere attraverso una autodiffusione creativa. Il Papa dice nell’enciclica che l’amore rivelato è donato da Cristo e versato nei nostri cuori tramite lo Spirito Santo. Poiché la conoscenza della verità richiede questo dono dell’amore divino, non può essere dato dall’uomo. L’avvento di Cristo, infatti, rivela a noi il Dio presente nelle scritture, quello dell’agape e del logos, quindi la conoscenza della bontà superiore è sempre un evento, l’evento dell’incarnazione, della morte e della risurrezione di Gesù Cristo. Per menti coltivate come le nostre, questa relazione non può essere colta immediatamente in maniera perfetta o assoluta: anzi, negli esseri che sono stati creati ci sono gradi di conoscenza e discernimento, così come nella creazione ci sono gradi di essere e di bontà. La creazione partecipa sempre a quella che può essere chiamata economia divina. Ogni creatura partecipa all’apertura, al fatto che il figlio fa conoscere il padre: quello che si può cogliere nell’eterno dono della parola è la creazione stessa. Nicolò da Cusa, teologo mistico del XV secolo, diceva che la parola logos avvolge la creazione, la creazione poi si infonde nella parola incarnata, e quindi la realtà può essere compresa come un evento che permette di ottenere la rivelazione. Qui si tratta di ragionare sulla rivelazione: come dirò oggi, la conoscenza e l’educazione alla bontà sono fondamentali, addirittura più fondamentali della politica e dell’economia. Di fronte ad un mondo dominato dal mercato e dalla concorrenza, il contributo unico della Chiesa è sostenere la verità dell’amore promuovendo un’educazione che trasmetta standard, norme di verità, e incoraggi prassi virtuose quali prudenza e giustizia. Dalla Repubblica di Platone, sappiamo che la bontà non è un ideale astratto e separato dal mondo, anzi, è autrice di tutto. Questo è un paradosso che viene sviluppato dal neoplatonismo cristiano come quello di Agostino, Boezio o Tommaso d’Aquino che hanno avviato questa visione, affermando che la bontà divina colloca tutte le cose in rapporto con le altre, e quindi ogni cosa è correlata all’altra. Questa unione ipostatica delle divinità in Gesù rivela e perfezione l’ordine divino della creazione, ed è per questo che ci permette di cogliere la verità e la giustizia nella bontà comune a cui possiamo partecipare. Nella lunga tradizione cattolica del personalismo, Benedetto dice che lo sviluppo genuino per ogni persona e per tutta l’umanità comporta un trasferimento del rapporto della Trinità nel mondo personale, sociale, economico, politico. Se educazione significa ragionare sulla relazione, allora essa deve occuparsi anche della trasmissione e dello studio della verità, poiché Dio è uno e trino, e questo si riflette anche sul nostro mondo, sull’individuo e sulle sue relazioni. Poi c’è il rapporto di reciproco dono nell’amore. Qui si tratta di uno scambio tra individui all’interno della comunità, nella comunione con Dio che permette all’uomo di sviluppare relazioni sane e felici. Una questione che va al di là delle idee della sinistra o della destra, soprattutto le più radicali. Benedetto dice anche che un’antropologia che sia veramente cristiana, e una politica che sia veramente cristiana, vanno al di là dell’estremismo secolare e del fondamentalismo religioso, perché vincono la difesa della santità assoluta della vita alla ricerca della pace e della giustizia. Passiamo adesso alla questione dell’economia politica. Come questo concetto può tradursi in un sistema sociale, politico, economico, diverso? Il Papa è favorevole ad una economia che vada al di là della tradizionale dicotomia destra/sinistra. Infatti, questa enciclica insiste che la conoscenza e l’educazione sono elementi più fondamentali di quanto non lo siano lo statalismo o il libero mercato. Cioè, ci può essere una vera democrazia o una vera economia di mercato, se c’è una cultura che è già imbevuta di conoscenza e di educazione alla bontà. Si crede che la sinistra protegga lo stato e la destra difenda il mercato, ma sono idee sbagliate. La sinistra vede il mercato come una possibilità maggiore per distribuire reddito alle persone, la destra ha un atteggiamento opposto. C’è questa ambivalenza tra destra e sinistra. Lo stato, che è sempre difeso dalla sinistra, sostiene un mercato controllato dallo stato, quindi lo stato e il mercato riducono – per la sinistra – la natura e il lavoro, ma la natura ha beni di scambio il cui prezzo è stabilito dalla legge della domanda e dell’offerta. L’enciclica va contro la subordinazione di tutto alle leggi della economia, difende la santità della vita ed è per questo che il Papa rifiuta sia lo statalismo della sinistra che la feticizzazione del mercato della destra, perché questo modello binario finisce per corrodere la società, mentre una economia che è basata sulla solidarietà costruisce la società. Benedetto non parla di una società civile come quella di oggi, le cui istituzioni sono soggette all’ordine simbolico dello stato e del mercato, anzi chiede un nuovo tipo di insediamento nel quale il mercato e lo stato diventino una entità che invece risponda ai fabbisogni genuini delle persone. A questo scopo il mercato e lo stato devono essere ricollocati all’interno di una più ampia rete di rapporti sociali governati dalle virtù e dai principi universali di giustizia, solidarietà, fraternità e responsabilità. Ancora una volta, possiamo vedere qual è il vero valore dell’educazione e della conoscenza. Senza questi principi, né la democrazia né l’economia di mercato possono funzionare bene, servire ai fabbisogni delle persone: altrimenti, portano ad una centralizzazione delle risorse e delle ricchezze, proprio quello che sta succedendo. La Chiesa ci insegna che la bontà va al di là della libera concorrenza o dello statalismo, e gli insegnamenti della Chiesa possono essere applicati all’economia. Il Papa incoraggia la creazione di imprese che siano basate sulla mutualità, quali cooperative o aziende di proprietà dei dipendenti stessi: questo permette di arricchire la comunità e non semplicemente gli alti funzionari o gli azionisti. Ci sono altri esempi, in Italia, in particolare, ma anche in Spagna, come la cooperativa Montrecoppie che dà lavoro a più di 100.000 persone e ha un fatturato di oltre 30 miliardi di dollari. Non si tratta dunque di esempi insignificanti: Benedetto ha detto anche che associazioni professionali possono stabilire prezzi giusti e stipendi adeguati. In realtà, il Papa va al di là di una semplice ridistribuzione dei redditi da parte dello stato, se si tratta di ridistribuire il reddito, considerando i dipendenti azionisti. Il capitale viene prodotto da lavoratori e organizzazioni che fanno parte della comunità, non si tratta di crediti elargiti da banche che vogliono guadagnare profitti per i loro azionisti. Tutte insieme queste idee che sono sviluppate nella enciclica, vanno al di là di una riforma graduale e costituiscono una profonda trasformazione della logica secolare che sta alla base dello stato e del mercato, oltre a contratti privati e commissioni pubbliche, il Papa cerca di introdurre la logica di elargizione e di scambio di doni nel processo economico.
Argomentazione chiave è che lo scambio di beni e servizi non può funzionare bene se non c’è il dono gratuito della fiducia reciproca, corrosa dalla stretta creditizia mondiale. E’ per questo che nel passo 57 dice quanto segue: “il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale
attività economica”. Quindi la gratuità è qualcosa che non deve avvenire soltanto laddove ci fa comodo, ma in tutta l’economia – dice il Papa-; non si tratta di una visione reazionaria e nostalgica, anzi Benedetto amplia la visone che era già stata proposta 40anni fa da Papa Paolo VI: uno sviluppo socioeconomico può essere sano soltanto se basato sul dono della fiducia, questo non vale solo nelle relazioni con amici, membri della famiglia, piccoli gruppi, ma anche nell’intera società. Si tratta quindi dell’esperienza concreta dell’evento dell’amore che ci apre la strada all’amore e alla vita, che sono un dono divino. L’evento dell’amore ci permette di capire che la vita stessa è un dono divino. Qui Benedetto fa riferimento alla sua prima enciclica Deus est Caritas, in cui scrive che tutto trova la propria origine nell’amore divino, tutto viene forgiato da esso e tutto avviene attraverso esso. L’amore è il più grande dono divino all’umanità, è la sua promessa e la nostra speranza. Passiamo alle conclusioni. Collocando la verità e la dignità alla base dell’economia morale ed ecologica, il Papa sostiene che il cristianesimo evita il dualismo moderno che domina la cultura politica ed economica contemporanea. Si tratta di una unione ipostatica dell’umano e del divino, che avviene in Gesù Cristo e che ci rivela quella che è l’intenzione e la promessa divina di ripristinare l’ordine creato tramite una relazione sempre più stretta con Dio. La conoscenza della provvidenza divina non è limitata alla fede cristiana, attraverso la rivelazione delle Scritture, né ad una dipendenza dalla razionalità naturale. A differenza della moderna separazione tra ragione e fede, il cristianesimo cattolico ortodosso ha sempre visto la ragione come un dono divino che viene elevato dalla rivelazione. Benedetto ha suggerito che la fede aiuta la ragione a vedere gli effetti di Dio in tutte le cose: alla stessa maniera, il ragionamento aiuta la fede a cercare la propria azione, correlando il desiderio naturale della bontà soprannaturale divina all’intero creato, il quale riflette il Creatore in una maniera che la mente, che è limitata, non può mai cogliere del tutto. Quindi non si tratta di andare ad investigare mediante la conoscenza scientifica, ma si tratta di andare più a fondo. La conoscenza e l’educazione infatti sono legate non soltanto alla vita famigliare, scolastica, agli studi, sono concetti pratici che fanno parte della politica e dell’economia. Il nostro sistema politico economico deve promuovere la conoscenza della bontà tramite la rivelazione che avviene in Gesù Cristo: è questo il messaggio che ci ha lanciato il Papa Benedetto XVI in questa enciclica. Allora quando c’è una conoscenza a livello più alto si tratta della conoscenza di Dio, ma c’è anche una conoscenza inferiore, cioè la conoscenza che ci permette di scambiarci reciprocamente doni gli uni agli altri. Grazie.

STEFANO ALBERTO:
Innanzi tutto vi siete accorti di come venga presa sul serio l’ultimissima enciclica del Papa. Mi raccontavano che il giorno dopo che è stata pubblicata, a Nottingham tutti l’avevano già letta, e il professor Milbank ha scritto un saggio bellissimo che sarà disponibile presto anche in italiano. Questa attenzione non è casuale, perché la posta in gioco – ce ne siamo resi conto in questo breve ma efficacissimo intervento del professor Pabst – riguarda realmente gli elementi essenziali di una società. Continuino a farci credere che bastano le analisi di destra o di sinistra, ma dalla crisi – che non è appena crisi economica, ma crisi di fiducia e dell’umano – non si esce con gli slogan, moltiplicando leggi e norme spesso fra loro in contraddizione, ma avendo il coraggio di guardare in faccia, di nuovo, quella appassionante, enigmatica cellula di ogni società che è l’uomo. E chi oggi è in grado di riverberare nella scuola, nelle università, anche riservando risorse nei bilanci dello stato, chi è in grado di riservare una attenzione totalmente gratuita alla ragione e alla libertà dell’uomo? In questo senso, la passione educativa, l’attenzione – uso una bruttissima espressione, per capirci in italiano – al capitale umano, è il crocevia da cui passa il destino di ogni società. Se c’è qualcuno oggi, in Europa ma anche oltre Atlantico, che insiste particolarmente sulla urgenza di superare il dualismo che ci contraddistingue, è proprio il professor Milbank cui chiediamo l’intervento conclusivo. Ormai è uno dei collaboratori più importanti del Meeting, sapete tutti che è professore di religione, politica, etica all’Università di Nottingham, che ha insegnato all’università di Lancaster e Cambridge e Virginia e che è il principale esponente del movimento di pensiero ed azione conosciuto come Radical Catholics, proprio sul fondamento dell’evidenza che non c’è una realtà sacra e una profana. Occorre, questa è la tesi, superare la ferita della società moderna, questo crepaccio in cui cade l’uomo, la separazione fra la ragione e la fede, questo irriducibile dualismo. Ma questo non è appena il superamento della separazione teorica, accade nella vita: va quindi riscoperto un movimento che investa tutti gli interessi, gli affetti e gli aspetti della vita, non solo a livello teorico ma più profondamente, a livello culturale in senso ampio, educativo in senso proprio.

JOHN MILBANK:
Si è trattato in modo esteso dell’insegnamento sociale cattolico, che viene sempre rappresentato come una terza via tra destra e sinistra, una terza via più radicale rispetto ai diritti, alla destra secolare e alla sinistra secolare. Cercherò questo pomeriggio di suggerire il fatto che ci potrebbe essere una terza via di pensiero cattolico che cerchi di superare le visioni pedagogiste ed educative: in altre parole, una terza via che si colloca tra l’individualismo secolare da un lato e il romanticismo dall’altro. Una terza via che potremmo definire di romanticismo cristiano: credo che don Giussani abbia dato un contributo fondamentale a questo, poiché lui stesso, per primo, ha sottolineato l’importanza del ruolo fondamentale dell’educazione nel gettare le basi della società. E lo ha fatto con le sue opere: già negli anni ’60 abbiamo avuto esempi che hanno messo in evidenza come la scuola secolare avesse avviato un processo totalizzante di formazione. E i cristiani non hanno dato per scontato che fosse un processo neutrale. Credo che don Giussani abbia adottato un approccio diverso e sia giunto a conclusioni diverse, ma un punto mi ha molto colpito. Osservo quello che avviene oggi: da un lato ci sono paesi che hanno un atteggiamento molto secolare, dall’altro scuole cristiane, religiose, anche islamiche, che stanno facendo molto bene. E molte persone, che hanno una posizione secolare, vorrebbero mandare i loro figli a queste scuole religiose. Una sorta di paradosso, dove la fiducia nell’approccio secolare sta venendo meno, dove c’è uno sgretolamento delle credenze che portano le persone ad essere orientate verso la secolarizzazione. Questo getta una luce sulle prospettive per la nuova società di domani. Torniamo al concetto di terza via, in relazione a tre problemi specifici che riguardano la teoria dell’educazione. Il primo problema riguarda l’educazione di massa: è una cosa buona o no? Spesso si risponde che sì, è una cosa buona. Ma è ovvio che uno dei difetti di Jean Jacques Rousseau forse è stato quello di sostenere che l’educazione di massa non è una cosa buona. Questo pensiero ha poi generato una divisione fra illuminismo e romanticismo, all’interno della cultura secolare. Si tratta di un argomento molto più cruciale di quanto si creda. Perché J. J. Rousseau ha sostenuto che l’educazione di massa non era una buona idea? Forse perché pensava che ci fosse una propensione naturale degli esseri umani verso la riflessione creativa, e che l’educazione fosse un modo per stimolare lo sviluppo di questa creatività, che permettesse quindi all’individuo di svilupparsi a fondo. E’ ovvio che ogni sistema educativo si basa poi su una struttura, e questo fa sì che le persone rientrino in un sistema di competizione e di concorrenza che può generare rivalità anche negative, una sorta di mimesi negativa. Sappiamo che più si è colti, più si cerca di accumulare denaro, di raggiungere obiettivi sempre più ambiziosi, più elevato è il livello di decadenza che si raggiunge. Rousseau inoltre sosteneva che l’educazione di massa portasse al dilagare di idee mediocri, buone ma non così buone, per cui, se ritorniamo al passato, vediamo che nel Medioevo si sono sviluppati pensieri molto più sottili ed acuti rispetto ai nostri tempi moderni: nel Medioevo c’erano meno pensatori, meno persone colte, che però avevano sviluppato idee molto interessanti. Oggi, purtroppo, il risultato è inversamente proporzionale, nel senso che ci sono molte più persone che studiano, che pensano, ma si generano pensieri che in media sono poco acuti, poco interessanti: una conseguenza, appunto, di questo approccio di massa. Rousseau sosteneva ancora che bisognava ripensare il pensiero di Platone e rivedere i processi di governo della società. Io, per certi versi, sto dalla parte di Rousseau, credo sia necessario revisionare questo platonismo ma, tornando ai tempi bui moderni, c’è un collegamento fra l’acume di pochi e lo scarso acume di molti. Vediamo che Platone e gli altri pensatori sono riusciti a mettere insieme messaggi e concetti molto acuti, nel senso che avevano combinato un insieme di conoscenze e tradizioni che risalivano anche ai tempi precedenti. Quindi, c’era davvero un acume unico, mentre oggi c’è il dominio della borghesia. Sappiamo che è vero per l’Inghilterra, sappiamo che c’è una certa teorizzazione del pensiero ateo, quasi una sorta di ammirazione. In fondo, si pensa anche che ci sia un atteggiamento di pregiudizio verso alcuni concetti: ad esempio, si pensi al tema della morte. In Inghilterra, molti pensano che ciascuno ha il diritto di scegliere come morire, ma in realtà nessuno lo sceglie, poiché noi tutti dobbiamo morire, si tratta di qualcosa di inevitabile e nessuno può veramente scegliere come morire. Si tratta di pensieri molto difficili da comunicare nei media popolari. Concetti importanti, ma difficilmente comunicabili: ecco perché bisogna essere molto cauti quando si parla di democratizzazione dell’educazione. Io non la sto negando, però voglio sollevare riflessioni e dubbi, voglio sottolineare un problema che esiste e che non è stato affrontato. Anche il secondo punto che riguarda l’educazione é stato affrontato da Rousseau: riguarda il problema della natura rispetto all’informazione. Oggi abbiamo un contrasto tra l’educazione incentrata sul bambino e la comunicazione dell’informazione, un ragionamento logico, quindi un approccio, molto centrato sui fatti. Torniamo al passato, all’atteggiamento romantico, torniamo all’illuminismo, che aveva un approccio diverso da quello di oggi. Oggi abbiamo forme di educazione tecnocratica, volte soltanto a perseguire obiettivi di stato. Mi colpisce che, con l’educazione di massa, la classe popolare inglese abbia livelli di apprendimento che sono i peggiori mai raggiunti. C’è stato un deterioramento nell’apprendimento medio: non si leggono più testi fondamentali come Shakespeare o altri grandi autori, mentre in passato anche la classe media, la classe popolare, leggeva testi di Milton e Shakespeare. In Inghilterra, tutti dicono che il livello medio di apprendimento sta migliorando. Non è vero, l’ignoranza dilaga: e questo è un fatto. Dobbiamo chiederci se il modello andrebbe cambiato e in che modo: dovremmo cercare di favorire questo modello centrato sul bambino, o no? Qual è il modello migliore? L’educazione consisterebbe nell’insegnamento di fatti, quindi di informazioni tecniche, oppure no? E c’è un altro problema che riguarda il fatto che l’educazione non è qualcosa che emerge naturalmente nel bambino. Noi siamo animali linguistici, e non si tiene conto della propensione endemica che, più o meno, alcuni soggetti possono avere verso l’apprendimento. Rousseau stesso ha sottolineato il problema delle propensioni personali che possono diventare un problema nella società. Abbiamo il poeta britannico William Blake, che ha parlato appunto del gigante di Albione, il gigante che aveva per così dire grandi amici, un tema che fu ripreso anche da Rousseau. Il terzo problema dell’educazione riguarda l’obiettivo dell’istruzione. Rousseau cerca di sostituire gli ideali alle idee: si preoccupava soprattutto della brutalità della natura, ad esempio nel sesso, nella sfera sessuale, che era secondo lui dominata dalla brutalità. E voleva che il sesso fosse guidato non dalla religione ma dall’eros e dal sentimento. La nozione dell’idea presente nella mente divina, l’idea divina è vista come astratta, avulsa dalla realtà: l’idea, il senso dell’idea eterna è sostituita perciò dagli ideali. L’ideale diventa di per sé vago, va messo alla prova dei fatti: questo ha portato al terrore della rivoluzione francese e ad altre forme di terrore che si sono verificate in seguito, perché non sappiamo quale possa essere la materializzazione degli ideali. Quindi, il fatto che le idee siano state sostituite da ideali non può superare la prova dello scientismo, in quanto gli ideali sono semplicemente proiezioni ed illusioni. Ci sono tre problemi nell’istruzione: l’educazione di massa sembra non funzionare bene, bisogna trovare la mediazione tra natura e formazione, infine c’è l’inadeguatezza di una educazione o istruzione che siano semplicemente secolari. Ci vuole quindi un’istruzione che possa risolvere questi tre problemi. Allora, innanzitutto c’è una terza via che tiene conto dell’idea platonica dell’accordo, oppure dell’innocenza. Bisogna ricordare al bambino che ha un’origine divina e quindi un rapporto di partecipazione con il Dio. Ci sono poeti inglesi che parlano della perdita dell’innocenza, nei cui versi entrano in gioco la perdita dell’innocenza e la mediazione della tradizione di Platone. Platone infatti tiene conto di questi aspetti culturali e del ruolo giocato dalle diverse persone, bisogna trovare un equilibrio nell’istruzione tra la trasmissione della tradizione, da un canto e l’apprendimento da coloro che ci insegnano. Una vera educazione funziona in questo modo, ogni volta che si insegna ad una nuova classe succede qualcosa di nuovo, come sanno tutti gli insegnanti, si tratta di un avvenimento in senso vero e proprio ed è per questo che l’istruzione deve essere personalizzata, deve tenere conto del carattere del discente. L’insegnante è sicuro di sé, già conosce il proprio mestiere, quindi può guidare le persone che sono ancora nell’insicurezza e nell’incertezza, se riesce a sostituirsi all’alunno nel portare il carico che questi deve portare. Entriamo in una visione gerarchica, però sappiamo anche che l’insegnante deve anche apprendere dall’alunno, perché non si tratta semplicemente di un semplice trasferimento di informazioni, si tratta di una introduzione alla tradizione a cui insegnante e discenti contribuiscono in maniera unica. Credo che questo sia fondamentale per la soluzione dei problemi relativi all’educazione di massa, cioè ci vogliono elementi di élite e ci vogliono anche elementi di popolarità, che tengano conto dell’unicità di ogni persona e delle tradizioni locali, mentre l’elemento elitario corrisponde alla tradizione della sottigliezza sofisticata, che tende a scomparire a causa dell’istruzione di massa. Se l’istruzione, la cultura viene trasmessa dai media, allora questo non va bene, bisogna trovare un compromesso, compromesso appunto tra elemento di popolarità e elemento elitario, questo ci permette di ottenere una visione della partecipazione metafisica, altrimenti si rischia di basarsi semplicemente sulla informazione naturalistica o estremamente tecnica. L’istruzione deve permettere alle persone di cogliere veramente quella che dovrebbe essere l’istruzione dell’uomo, deve essere una metafisica partecipativa. Quello che aggiunge il cristianesimo a tutto ciò, è che in un mondo come il nostro possiamo ricreare questa partecipazione attraverso l’insegnamento di Cristo. L’intero mistero della partecipazione del perché c’è Dio ed anche qualcosa d’altro, cioè il creato, può essere risolto misticamente tramite la rivelazione dell’esistenza dell’uomo divino. L’insegnamento umano quindi diventa non soltanto la trasmissione di informazioni ma anche la trasmissione dell’insegnamento divino. Grazie.

STEFANO ALBERTO:
In questi ultimi venti minuti del professore Milbank, sono fiammeggiate diverse provocazioni. Ci concedono giusto un quarto d’ora, no, un minuto, no, dieci minuti. C’è posto al massimo per due domande: se ci sono, dovrebbe essere a disposizione un microfono, e se non c’è, facciamo anche senza. Prego! Massimo due, tutte le altre fuori. Prego, dite a chi fate la domanda.

DOMANDA:
Sono Michelle e sono americana, sono una ricercatrice all’università del South California. Allora, vedo una separazione, ad esempio in campo educativo, tra ragione ed affetto. Una divisione molto profonda, per cui la ragione viene studiata come cosa completamente staccata dall’affetto. Sembra che nella sua proposta si parli di un’assenza di consapevolezza, di una nostra incapacità a riconoscere il bene. Ma se non c’è questo, non si può andare avanti: come dobbiamo affrontare questo problema? Grazie.

JOHN MILBANK:
Credo che il punto che lei ha sottolineato sia molto importante, sia complementare a quello che ho detto e lo approfondisca, nel senso che oggi si tende a dire: questa è la mia scelta, questo è quello che sento. L’alternativa, nella prospettiva secolare, è quella di fare appello ad una ragione emotiva neutrale. Se l’affetto deve svolgere un lavoro intellettuale, Platone dice che l’amore di per sé può essere scoperto, capito dal punto di vista cognitivo. Questo è cruciale. Ma non ho ricordato una cosa, quello che è stato l’approfondimento di Giussani, cioè che l’istruzione moderna è negativa dal punto di vista psicologico, perché non fa altro che vomitare fatti non correlati fra di loro e punti di vista che non sono completi, mentre i bambini hanno bisogno di una visione unificata del mondo, che possono poi accettare o rifiutare. Volevo rifarmi ad una delle cose che ha sottolineato lei nel suo intervento così interessante sul tema della relazione. Nelle scienze umane ma anche in quelle naturali si pensa che la struttura dell’atomo spieghi il mondo, ma questo sappiamo che è stato superato, sappiamo che ci sono altre entità che sono collegate fra di loro e quindi l’atomismo non è più in grado di spiegare il mondo. Allora se l’atomismo non è vero, cosa c’è alla base? Questo è un punto che deve essere dibattuto, perché non c’è un solo tipo di relazione, dobbiamo dibattere il senso della relazione nella metafisica o nell’economia antropologica, se non risolviamo questo problema rimaniamo fissi e legati a vecchi paradigmi, che troviamo ancora nell’istruzione e nell’educazione. Nella ricerca non c’è una risposta univoca, si tratta allora di capire dove è la bontà, discernere la bontà. E’ la bontà stessa un punto che deve essere definito, ma non può essere comunque ridotta alla soggettività, perché al di la della soggettività c’è l’assolutismo ed il relativismo che anche nel nome dell’illuminismo vanno respinti. Quindi c’è una contraddizione interna, quindi bisogna dibattere innanzitutto sull’obbiettività, prima di parlare di istruzione e ricerca.
Prego.

ANDREW DAVISON:
Qui parliamo del rapporto tra volontà ed intelletto, si tratta di una della maggiore verità metafisica che ci viene fornita dal cristianesimo ed è rifiutata dagli intellettuali di oggi: che ci sia una possibilità di rapporto tra volontà ed intelletto, mentre noi vogliamo mantenerli distinti. Si tratta di un rapporto che è scomparso a partire dal volontarismo francescano: se c’è la verità della bontà, è questa che la rende desiderabile e non ha niente a che fare con l’intelletto. La volontà cerca la vera bontà, ma non si tratta di una volontà che si vuole soddisfare, l’intelletto è coinvolto esso stesso. Nel funzionamento della conoscenza è questo il motore dell’intelletto. Questo c’è già in S. Tommaso d’Aquino, e quindi i due vanno di pari passo, cosa che ormai è scomparsa …

STEFANO ALBERTO:
Tenendo presente che i dieci minuti stanno scoccando e adesso mi guardano molto male, la domanda a chi e la risposta deve essere telegrafica.

DOMANDA:
Al professore Milbank. Anch’io sono un ricercatore universitario in scienze della formazione all’università di Torino. Sono molto schematico proprio per rispettare l’invito di don Pino. La conoscenza è sempre un avvenimento, l’educazione è sempre un avvenimento, come anche adesso Michelle aggiungeva. E sottolineava come nella pedagogia contemporanea ci sia molto l’idea che l’educazione è un procedimento e la conoscenza una metodologia… Volevo chiederle dove si comincia a vedere che la conoscenza è sempre un avvenimento, che l’educazione è sempre un avvenimento, cioè qualcosa di più che una semplice metodologia.

JOHN MILBANK:
Spero che quello che ho detto sia stato abbastanza chiaro. In una prospettiva secolare, c’è l’idea di una sistema di conoscenza fisso, spaziale, quindi c’è una permanenza immanente che sostituisce la trascendenza. Oppure c’è l’idea di ciò che è assolutamente nuovo, ma in questo caso l’evento viene visto come qualcosa di casuale e contingente. Tutti i tentativi fatti per cercare di difendere il nesso degli eventi dal punto di vista secolare, beh! deriva dal senso che tutto è importante per noi, che la politica, l’amore, la creatività sono collegate all’evento. Però si può cogliere la significatività dell’evento se conosciamo la partecipazione e la rivelazione. Lo stesso avviene nell’arte. L’arte deve essere originale, ma se non rivela una verità trascendente, allora rivela solo se stessa, finendo per banalizzarsi. E’ impossibile riuscire a trarre un senso dagli eventi se andiamo al di là di un orizzonte teologico, in quanto non c’è nessuna profondità ontologica.

STEFANO ALBERTO:
Direi che come format questo focus è riuscito, anche se forse, per gli anni prossimi, dovremo pensare alla possibilità di approfondire le questioni emerse. Dico una possibilità spazio-temporale un po’ più ampia. Ringraziando i nostri relatori, ringraziando anche tutti gli amici che ci hanno seguito nella sala accanto, in differita, con un certo sacrificio, vorrei riprendere la provocazione finale del professor Milbank. Sono riusciti a farci credere che gli ideali per cui un uomo può dare la vita sono astratti, sono vaghi, più vaghi dell’istinto o di ciò che si può misurare con gli strumenti della scienza e riutilizzare con le invenzioni della tecnica. Ma così tutto viene rapidamente inaridito, tutto si impoverisce. Il lavoro che abbiamo fatto oggi, con diverse suggestioni e da diverse angolazioni, ha illuminato invece quella realtà che esiste, non perché ha deciso lei di esistere, perché nessuno, neanche Jean Jacques Rousseau, può dire: io mi sono fatto da me. Ha avuto anche lui una mamma ed un papà, non ha deciso lui di venire al mondo. Questa che il professor Milbank ha chiamato suggestivamente “partecipazione metafisica”, è la riscoperta di quella che John Henry Newman diceva “la prima evidenza dell’uomo”: io non mi faccio da me. Che ci sia una educazione che ci aiuti a recuperare questo realismo, questa gratitudine, e quindi questa passione nell’avventura della vita in tutti i suoi aspetti, penso sia, dopo oggi, ancora più cosciente e ancora più necessario per ciascuno di noi. Ringrazio ancora Father Davison, il professor Pabst e il professor Milbank. Grazie a voi tutti.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

23 Agosto 2009

Ora

15:00

Edizione

2009

Luogo

Sala Tiglio A6
Categoria
Focus