Chi siamo
CINQUE ANNI DI PONTIFICATO. ALLA SCOPERTA DEL PENSIERO DI BERGOGLIO
Partecipano: Massimo Borghesi, Professore Ordinario di Filosofia Morale all’Università degli Studi di Perugia; Rocco Buttiglione, Direttore della Cattedra Giovanni Paolo II alla Pontificia Università del Laterano; Guzmán Carriquiry, Vice Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina; Austen Ivereigh, Giornalista e Scrittore, Autore de “The Great Reformer: Francis and the making of a radical pope”. Introduce Alejandro Bonet, Professore di Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica nei Seminari arcidiocesani di Santa Fe e Rosario, Argentina.
Cinque anni di pontificato. Alla scoperta del pensiero di Bergoglio
Papa Francesco: 5 anni di pontificato
Ore: 11.30 Salone Intesa Sanpaolo A3
CINQUE ANNI DI PONTIFICATO. ALLA SCOPERTA DEL PENSIERO DI BERGOGLIO
Partecipano: Massimo Borghesi, Professore Ordinario di Filosofia Morale all’Università degli Studi di Perugia; Rocco Buttiglione, Direttore della Cattedra Giovanni Paolo II alla Pontificia Università del Laterano; Guzmán Carriquiry, Vice Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina; Austen Ivereigh, Giornalista e Scrittore, Autore de “The Great Reformer: Francis and the making of a radical pope”. Introduce Alejandro Bonet, Professore di Dottrina Sociale della chiesa Cattolica nei Seminari arcidiocesani di Santa Fe e Rosario, Argentina.
ALEJANDRO BONET
Quello che è successo è andato oltre le aspettative, era un fatto che andava oltre ogni immaginazione, era una presenza che entrava nel mondo. Cosa significa questo avvenimento storico che si chiama Francesco per la chiesa e per il mondo? Così come i contemporanei di Cristo anche noi oggi, uomini del XXI secolo ci facciamo la stessa domanda: da dove viene tutta questa saggezza, da dove proviene questa novità che ci mette tutti in discussione, perché parla in quel modo, perché compie quei gesti e pronuncia quelle parole che ci lasciano tutti sconcertati e pieni di stupore? Per rispondere a questi interrogativi ci troviamo qui con un rioplatense dell’America latina, Guzmán Carriquiry, poi un britannico che ha passione per l’Argentina e ha scoperto in essa moltissime cose, Austen Ivereigh. Abbiamo infine due partecipanti italiani, affascinati dagli ultimi pontefici, Giovanni Paolo II nel caso di Rocco Buttiglione e papa Francesco nel caso di Massimo Borghesi.
Cercheremo di decifrare questa poliedrica personalità del Papa, da Jorge Mario Begoglio fino ad arrivare a Francesco e i suoi cinque anni di pontificato.
Vogliamo cominciare dando la parola a Guzmán Carriquiry che ha avuto il privilegio di avere la prefazione Jorge Mario Begoglio a due suoi libri, uno dedicato all’America Latina, concepito dalla sua autoconsapevolezza storica, Una scommessa per l’America latina. Memoria e destino storico di un continente, e l’altro intitolato, Memoria, coraggio e speranza con prefazione, nella nuova edizione, dello stesso Papa Francesco.
GUZMÁN CARRIQUIRY
Saluti a voi cari amici del Meeting dove mi sento a casa, in famiglia e di più ancora avendo di fronte a me la presenza del mio carissimo, bravissimo nipotino Francesco Saverio.
Guardate, se estendiamo lo sguardo per abbracciare questi cinquant’anni dopo il Concilio Vaticano II, e anche molto prima di quel grande evento ecclesiale, non possiamo non meravigliarci per la successione di pontefici dalle biografie molto diverse, provenienti da contesti culturali assai differenti, ciascuno con temperamento, formazione, traiettoria, sensibilità e stile propri; cosicché ognuno di essi sembra disegnato e definito come la persona idonea per rispondere alle esigenze e alle necessità della missione della chiesa nelle varie congiunture storiche. È proprio attraverso personalità così diverse che lo Spirito di Dio va tessendo la solida, incrollabile continuità della grande tradizione cattolica, del patrimonio di fede derivante dalla testimonianza degli apostoli, per mezzo dei Successori di Pietro, e, allo stesso tempo, ci sorprende con la sua novità nel solco di tale continuità. Una successione di santi successori di Pietro: San Giovanni XXIII, presto San Paolo VI, la causa già avanzata di Giovanni Paolo I, San Giovanni Paolo II e ora, più vicini a noi, il papa emerito Benedetto XVI e l’attuale papa Francesco. Possiamo dunque, a ragione, esprimere la gioia e la gratitudine presenti nel titolo della recente Esortazione apostolica del papa Francesco sulla santità: Gaudete et exsultate.
Tuttavia, il demonio, che è principe della divisione e della menzogna, manipola quei poveri diavoli che vogliono opporre e persino contrapporre i successivi pontefici tra loro. Non tollera che regni lo Spirito, il quale arricchisce sempre l’unità dalla diversità.
Ricordo bene la sorpresa suscitata dalla novità del primo papa non italiano dopo secoli. C’erano poveri diavoli che definivano con disprezzo Karol Wojtyla “il papa polacco”, mentre invece chi si affidava veramente all’azione dello Spirito si interessò per conoscerlo meglio: la sua biografia, la formazione, la chiesa e la nazione da dove proveniva, i suoi interventi nel Concilio Vaticano II e il suo operato come arcivescovo di Cracovia. Conoscerlo meglio per avere una maggiore comunione affettiva ed effettiva con il nuovo pontefice. Con molti di voi, ricordo quanto dobbiamo a chi ci ha introdotti nella storia della Polonia, dei suoi grandi prelati, poeti, teologi e custodi della dignità umana: al Centro Studi Europa Orientale, a padre Francesco Ricci e anche a Rocco Buttiglione e al suo libro sul pensiero di Karol Wojtyla.
Novità molto più grande è stata l’elezione di Jorge Mario Bergoglio. Per la prima volta, si usciva dal circolo culturale europeo. Figlio della tradizione cattolica inculturata nella storia e nella vita dei popoli latinoamericani – lì dove risiede quasi il 50 per cento dei cattolici di tutto il mondo -, di una chiesa di popolo che visse in maniera feconda e tumultuosa il rinnovamento provocato dal Concilio Vaticano II per il servizio della sua gente e fu capace di un’ardua opera di discernimento e di sedimentazione, sino alla sua maturità espressa nella V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano in Aparecida, cammino attraverso il quale la Provvidenza portò Jorge Mario Bergoglio alla sede di Pietro. Tutti sappiamo pertanto sui fili conduttori e vasi comunicanti tra il documento di Aparecida e l’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, che è il documento programmatico di questi cinque anni di pontificato. Un cattolico porteño – e tanto porteño! -, un cattolico argentino -e tanto argentino! -, un cattolico latinoamericano – e tanto latinoamericano! -, un cattolico gesuita – e tanto gesuita! – chiamato ad essere Pastore universale. Si raggiunge l’universalità soltanto a partire dalla propria particolarità.
Se consideriamo che i paesi con il maggior numero di cattolici battezzati sono il Brasile e il Messico, seguiti da Filippine e Stati Uniti, e che tra pochi anni Congo, Colombia, Argentina e Nigeria supereranno alcuni paesi europei, dove resiste solo l’Italia, possiamo affermare che le periferie ecclesiastiche stanno irrompendo nella cattolicità. La sua unità si manifesta e si arricchisce attraverso le più diverse forme di inculturazione della fede nella vita dei popoli. E ciò è sconcertante per chi si ostina nel considerare la fede cattolica soltanto secondo modelli eurocentrici.
Dobbiamo ringraziare a coloro che mi accompagnano in questo tavolo che, nel diluvio di libri scritti sull’odierno pontificato, ci hanno aiutati a conoscere meglio Jorge Mario Beroglio e papa Francesco per essere più intelligentemente fedeli all’odierno successore di Pietro.
Siamo lieti e fieri come latinoamericani con il primo papa che viene dal Nuovo Mondo in due mila anni di storia, ma oltre certe euforie adolescenziali, sempre ricordo ciò che ripeteva il mio maestro e amico, Alberto Methol Ferré, quando avvertiva che «mentre ancora ardono le braci di ciò che fu il grande fuoco della tradizione cattolica europea, noi latinoamericani appena stiamo accendendo dei fiammiferi». Sono le nostre Chiese all’altezza del compito in cui le ha poste la Provvidenza di Dio? Per il momento direi che ne dubito.
Il papa Francesco è un vero latinoamericano, ma allo stesso tempo si potrebbe dire che è un europeo, perché figlio di migranti piemontesi, perché trova le sue radici nell’espansione della cristianità europea, perché è cittadino di quell’ “estremo occidente” che è l’America Latina, perché è soprattutto formato dagli autori e dalle scuole di pensiero cattolico europeo che furono tanto importanti per i contenuti degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, e perché è stato arcivescovo di una grande metropoli, la più europeizzata di tutta l’America Latina. Potremmo perciò affermare che è precisamente in tempi di certa sterilità europea – sterilità demografica, culturale e politica – che quella grande eredità comunicata dalla cristianità europea all’America Latina si ripresenta oggi con un nuovo volto e interpella la tradizione, la cultura, la vita degli europei e specialmente delle Chiese in Europa. Credo che in questa relazione europeo-latinoamericana passa attualmente la sfida e l’asse portante della cattolicità, mentre la chiesa degli Stati Uniti appare di grande vitalità ma ancora troppo provinciale e sono ancora molto giovani, sebbene in crescita intensa, le Chiese dell’Africa e di alcuni Paesi asiatici.
Permettetemi, per concludere, di sottolineare molto sinteticamente, alcuni tratti distintivi del pontificato di papa Francesco, che sono dono dello Spirito per la chiesa e per il mondo contemporaneo. Dico, in primo luogo, che questo pontificato ci ha immersi pedagogicamente nel mistero della Misericordia. È ovvio che questo attributo inaudito di Dio, che è al centro del disegno di salvezza, sia stato sempre considerato dai pontefici precedenti, ma mai come oggi appare così chiaro che la misericordia è la modalità adeguata di vivere e di trasmettere l’avvenimento cristiano. Di viverla, perché consapevoli delle miserie che portiamo noi, cristiani, insieme alla grazia battesimale, consapevoli, come diceva l’apostolo Paolo, che siamo stati trattati con misericordia. Di viverla tra noi, perché per essere degni testimoni della misericordia, questo pontificato ci richiama con forza, a volte con certa rudezza, ad una conversione, da un rinnovato incontro con Cristo, lasciando penetrare la nostra vita con il suo Vangelo, più tagliente di ogni spada a doppio taglio, per lasciare indietro il nostro imborghesimento mondano, diventando veri discepoli-missionari del Signore. E di trasmettere la misericordia, con compassione e tenerezza, a una umanità ferita, abbracciandola incluso nelle sue miserie; trasmetterla come modalità sostanziale di andare incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo, così frequentemente lontani dalla chiesa, senza escludere nessuno – perché l’amore di Dio non esclude nessuno – e senza porre precondizioni morali per questo incontro. Papa Francesco è fermamente convinto che soltanto la vicinanza concreta di questo amore misericordioso è in grado di spezzare pregiudizi e resistenze, porta con sé attrattiva, apre i cuori, dà spazio ad un dialogo reale, permette autentici scambi di umanità, suscita interrogativi e speranze, prepara per l’annuncio e l’accoglienza del Vangelo. Inoltre, se misericordia si traduce etimologicamente come el cuore che abbracia i poveri, tutti rimaniamo richiamati dalla coerente testimonianza quotidiana del Pastore universale che si inchina servizievole sui bisogni umani, che va in cerca dei pecatori, che riconosce negli abbandonati e nei sofferenti la seconda eucaristia del Signore, che custodisce la dignità delle moltitudini di vulnerabili, esclusi e scartati che si trovano in società sempre più distratte e indifferenti.
Un altro dono dell’odierno pontificato è il suo forte richiamo a una “conversione pastorale”, intesa come riforma in capite e in membris perché la chiesa sia e si presenti sempre più fedele al Suo Signore. Da ciò, occorre mettere in risalto che conversione pastorale implica in primo luogo conversione dei pastori. Non è forse il papa Francesco che chiede e vive la “conversione del papato” e mostra ciò che si aspetta dai pastori come uomini di preghiera e prossimità misericordiosa, solidale e missionaria con il popolo che è stato loro affidato? Le più che sofferte situazioni vissute nella chiesa che hanno coinvolto sacerdoti, anche in crimini aberranti, hanno radici lontane che potrebbero trovarsi nella prima fase del dopo-concilio e che hanno raggiunto il pontificato del papa Ratzinger e quello di Bergoglio, ferendo profondamente la credibilità della chiesa. Forse la Provvidenza di Dio vuole che si passi per questo duro periodo di prova per suscitare una grande purificazione della Sua chiesa. Ma, allo stesso tempo, i grandi poteri, che sono sempre discreti ma che agiscono con potenti mezzi, si servono di farisei e inquisitori, di coloro che odiano la chiesa, per soffiare sul fuoco. Sono convinto che non si tollera che, nonostante tutte le nostre miserie, la chiesa cattolica sia l’alternativa autentica di salvezza dell’umano, che rimane dentro un mondo controllato da poteri sempre più disumani. Lì è la chiesa, e prima di tutto il Papa, per soccorrere i feriti nel corpo e nell’anima, per salvaguardare la dignità trascendente della persona umana, per destare e promuovere i desideri di amore e di verità, di giustizia e di felicità nella vita degli uomini e dei popoli, per rendere testimonianza e annunciare l’unico Salvatore, per combattere le idolatria del potere, del denaro, del piacire effimero e la vita meschina. Teniamolo ben presente, il potere mondano affonderà i suoi artigli nelle nostre miserie e, quando incontrerà dei veri cristiani, moltiplicherà i martiri. Per questo il Papa Francesco ci sta mettendo in guardia in «questa lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male», dandoci la certezza della vittoria del Risorto, Signore della storia.
Grazie
ALEJANDRO BONET
E ora continuiamo con Rocco Buttiglione che ci aiuterà a capire il rapporto tra la grande eredità di Giovanni Paolo II con l’attuale pontificato passando per la figura di Benedetto XVI.
ROCCO BUTTIGLIONE
Grazie Alejandro, grazie a tutti voi. C’è gente oggi, lo ricordava poco fa Guzmán, che punta alla divisione della chiesa e cerca di opporre la memoria di San Giovanni Paolo II al pontificato di Papa Francesco; io penso invece che fra i due esista una grande continuità. Quando Giovanni Paolo II è stato eletto, la prima cosa che ha fatto è stata andare in America Latina, prima ancora di andare in Polonia. Il primo pellegrinaggio di Giovanni Paolo II è a Puebla in America Latina. A Puebla egli incontra il grande tema della teologia della liberazione e dà una risposta, una risposta che non è stata compresa subito e da tutti, è stata capita però, e fatta propria appassionatamente, da un gruppo di intellettuali, di teologi latino-americani, c’era anche qualche italiano, ricordo Juan Carlos Scannone, Lucio Gera, Jorge Mario Bergoglio che era allora il Rettore del Seminario di san Miguel, e Alberto Methol Ferré e Guzmán Carriquiry, due uruguagi, e c’erano anche un paio di italiani, don Francesco Ricci ed io. Nacque allora la rivista “Nexo” che ha avuto un certo ruolo nel sostenere il pontificato di Giovanni Paolo II in America latina. Qual era il tema? Cosa dice Giovanni Paolo II? Dice che l’idea di una teologia della liberazione è un’idea buona, l’idea di una teologia che parte dall’ esperienza di fede del popolo latino-americano e del povero latino-americano è un’idea giusta, perché l’avvenimento cristiano è un avvenimento che è avvenuto una volta sola, 2000 anni fa circa, in Palestina, i biblisti direbbero che è un hapax legomenon cioè una cosa successa una volta e mai più, e però succede sempre di nuovo nella storia della santità della chiesa e nella storia del popolo dove nascono le chiese nazionali, pensate ai grandi insegnamenti del Concilio ecumenico Vaticano II, la chiesa, che è una sola e universale, è anche concreta nella vita di ciascuna nazione, di ciascuna città, di ciascuna diocesi, di ciascun movimento, di ciascun gruppo ecclesiale, di ciascuna famiglia. Pensare la fede a partire dall’esperienza del popolo latino- americano è giusto, questa è la grande novità positiva della teologia della liberazione. Cosa c’era di sbagliato? L’idea che la fede non basti a dare un giudizio, ma che sia necessario poi assumere come strumento analitico il marxismo. Questo è sempre sbagliato. La fede non assume strumenti analitici, o meglio, li assume tutti riformandoli dall’interno, facendone quella che i tedeschi chiamerebbero una “metacritica”. Non li prende come se fossero oro colato. E poi per di più Karol Wojtyla era polacco e sapeva che il marxismo era già fallito, in Occidente non lo sapevamo ancora, ma lui lo sapeva perché lo aveva già visto. Questi gruppi, che volevano continuare il messaggio di Giovanni Paolo II a Puebla, si coalizzarono, formarono una rete di amicizie con l’idea di una teologia della liberazione, cito Giovanni Paolo II, un poco al modo di Comunione e Liberazione. In quel momento, per noi di Comunione e Liberazione questo fu un fatto grandioso. Ricordo il Meeting che abbiamo fatto qui, vi ricordate? I vecchi se lo ricordano: “America, Americhe”. Fu un momento importante in questo processo di incontro; e io ricordo che quando venivo a Buenos Aires, ci trovavamo e gli argentini ascoltavano con grande passione le notizie che Ricci ed io portavamo dalla Polonia, perché c’era l’idea che, come Solidarność stava scuotendo un impero che poi crollò, l’impero sovietico, allo stesso modo, alla periferia dell’impero occidentale dovesse nascere un grande movimento di liberazione, per la liberazione della persona umana, un movimento che avesse la medesima capacità – analoga, perché chiaramente erano due situazioni totalmente diverse, per certi aspetti non paragonabili, tuttavia paragonabili in una cosa: che la fede animata dalla carità è capace di risvegliare la coscienza dei popoli. Giovanni Paolo II parlò alla coscienza addormentata delle nazioni dell’Europa orientale e centrale e quella coscienza si svegliò e la storia cambiò. Io credo che da allora Jorge Mario Bergoglio abbia avuto un grande desiderio: parlare alla coscienza dei popoli latino-americani per attivare un movimento di risorgimento della coscienza cristiana di questo popolo, di queste nazioni, con una idea di popolo che era inedita: cos’è il popolo? Si è parlato di teologia del popolo, della teologia di papa Francesco come teologia del popolo. La teologia del popolo è la comprensione del fatto che Dio entra nella storia, entra concretamente nella storia. Ognuno di noi è credente, è fedele, perché inserito nella storia di una chiesa concreta, la chiesa di Rimini che ha avuto un suo fondatore, ha avuto i suoi martiri, ha avuto santi padri e madri di famiglia, più madri che padri, santi sacerdoti che hanno alimentato la memoria di un’esperienza di liberazione. L’esperienza vissuta dai discepoli con Gesù si ripete e periodicamente la coscienza del popolo si addormenta e periodicamente ha bisogno di essere risvegliata. Un grande amico di Jorge Mario Bergoglio, ma anche di Guzmán Carriquiry e mio, Alberto Methol Ferré, parlava del risorgimento cattolico latino-americano, della rinascita della memoria di quella verità dell’uomo che è entrata nella storia latino-americana, è diventata presente e concreta nella storia latino-americana, quando la Vergine di Guadalupe è apparsa a Juan Diego. È a partire da lì che è iniziata la conversione del continente, da quella memoria che è vissuta nei grandi santi latino-americani, tutti grandi lottatori per i diritti dell’uomo e per la giustizia, i difensori degli Indios, i Bartolomeo de Las Casas, il santo Turibio di Mogrovejo, Santa Rosa da Lima. È quello il criterio, è a partire da lì che nasce un giudizio sulla storia che mobilita un popolo, che risveglia la coscienza del popolo che si addormenta. Il popolo è un ambiente. L’ambiente, diceva una volta don Giussani, per essere mobilitato, ha bisogno che si crei al suo interno un ambiente più piccolo, che è la comunità cristiana, che richiama tutto l’ambiente alla verità dell’uomo, ad affrontare il mistero della verità dell’uomo; e così la nazione, il popolo, è animato da quella comunità eucaristica che è la chiesa che vive dentro la vita del popolo e richiama il popolo alla sua vera vocazione perché il popolo periodicamente si addormenta. Avete presente la storia del popolo di Israele? Il popolo segue falsi idoli, si addormenta nella cura delle cose quotidiane, dimentica l’avvenimento originario della liberazione e la chiesa ha il compito di renderlo presente di nuovo con l’Eucaristia e con la comunità cristiana, che è il divenire concreto, vivibile dell’esperienza dell’Eucaristia. Per questo Giovanni Paolo II diceva «un poco al modo di Comunione e Liberazione», era l’idea che la comunione ontologica diventa comunità concreta e genera forme nuove e più umane di vita per l’uomo. Se capiamo questo, capiamo il primo dato: la continuità.
Quando andavamo in Argentina il punto di partenza dei nostri giri era sempre il Seminario di S. Miguel il cui Rettore era Bergoglio.
Della lotta per continuare Puebla, per evitare che la novità di Puebla fosse riassorbita in un semplice rifiuto del marxismo ed in un ritorno al passato, il protagonista indiscusso è stato Jorge Mario Bergoglio.
Per le posizioni nette assunte negli anni difficili della guerra strisciante ( né con i colonnelli né con la guerriglia) e per la sua fedeltà ad una chiesa dei poveri non compromessa con il marxismo Bergoglio era rimasto un poco isolato. Quando mons. Guarracino, che era stato il segretario del Celam al tempo di Puebla, fu nominato arcivescovo di Buenos Aires lo volle accanto a se come vescovo ausiliare.
Più tardi, come arcivescovo di Buenos Aires e come presidente del Celam, Bergoglio ha guidato il cammino della chiesa Latino-americana fino alla V Conferenza dell’Episcopato latinoamericano a Aparecida do Norte.
Con questa idea: che la chiesa anima la vita del popolo, la chiesa è l’anima della vita del popolo e la chiesa vive nel dialogo continuo con la vita del popolo e della nazione e questo abbraccia tutti, anche quelli che pensano di non essere cristiani, anche quelli che non vanno a messa la domenica, perché richiama una memoria che è costitutiva della loro identità. Per fare questo però la chiesa ha bisogno di una prossimità: chiesa dei poveri, che vuol dire chiesa dei poveri? È un poco la stessa cosa che San Carlo Borromeo diceva quando faceva le parrocchie: parrocchia significa parà oikìa vicino alla casa, questa parola di salvezza non è una parola che sta lontano dal cuore dell’uomo, è una parola che è vicina a ciascuno, che comincia accanto a te, e come puoi dire questa parola al povero, se non sei accanto a lui? Se non condividi la sua esperienza di vita? E questo genera la comunità cristiana a partire dalla cura per gli ultimi, perché se è vero che l’Eucaristia fa di tutti un popolo nuovo, fa di tutti gente intima l’una all’altra, più che fratelli e sorelle nella carne, allora com’è possibile che la prima preoccupazione non sia per chi fra di noi non ha di che vivere, non può mangiare, non può avere un’abitazione, è incerto per il futuro dei propri figli, e così via? Assumere insieme la cura della comunità, che non è appena un gruppetto, tendenzialmente è l’umanità, nella dimensione più immediata è quel popolo concreto, storico, dentro il quale noi siamo inseriti, attraverso il quale, attraverso la storia del quale, partecipiamo al costituirsi della grande famiglia umana. Vedete come tutto questo della teologia del popolo è nuovissimo eppure non c’è parola che non possa essere ricostruita riandando ai grandi testi del Concilio ecumenico Vaticano II, è la grande visione del Concilio Vaticano II: la fede che diventa cultura e diventa vita, che diventa cultura per diventare vita. Cultura, autocoscienza, qual è la forza che muove il mondo? Alcuni pensano la grande politica, la forza militare. Karl Marx ne sapeva una di più: diceva che sotto la storia politica, sotto la potenza militare sta la storia dell’economia, il modo come la gente si guadagna da vivere e costruisce la propria esistenza materiale; ma il Concilio ecumenico Vaticano II, San Giovanni Paolo II, papa Francesco ne sanno ancora una più profonda: la forza che muove il mondo è la coscienza che l’uomo ha di se stesso, perché l’energia che mobilitiamo nel lavoro, nasce dal cuore, nasce dall’idea che abbiamo di noi stessi; è una certa idea che abbiamo di noi stessi che genera l’energia per alzarsi la mattina, per andare a lavorare, per andare a lavorare non per se stessi, per una moglie e per dei figli, oppure per un marito e per dei figli, genera l’energia per affrontare tutte le circostanze della vita, la sofferenza, il dolore, la morte. Ho usato la parola idea? Forse però è una parola che non dice tutto, perché non è solo un’idea, è una energia di vita che entra nel cuore di alcuni, e attraverso di essi si comunica ad altri e la vita della chiesa è la condivisione di questa energia di vita che, nel linguaggio teologico, si chiama grazia. La grazia è concreta, è il fatto che io ho incontrato certe persone che mi hanno impressionato e hanno mobilitato il mio cuore, proprio come quando ho incontrato la ragazza che poi è diventata mia moglie, l’incontro con lei ha mobilitato dentro di me una energia di vita, per cui sono diventato capace di fare cose che prima non ero capace di fare. Ecco, questa è l’idea di una teologia del popolo che vede la dimensione eucaristica alla base della vita del popolo, questa energia di vita che si comunica ad alcuni, poi ad altri e poi lievita a tutta la massa di un popolo. È questo che genera l’unità, una unità che non nega le contraddizioni, ma una unità che è più forte delle contraddizioni. È uno dei grandi principi di papa Francesco: l’unità è più forte della divisione. Io ricordo che una volta, nel giro degli amici, si citava molto un autore che non è popolare in Europa, il generale Perón, che una volta ha detto: «Non c’è cosa migliore per un argentino, che un altro argentino». Guardate, lo diceva in un tempo in cui gli argentini si odiavano fra di loro, si sparavano fra di loro, c’era la guerra civile. Ebbene, ogni volta che io sento il Papa che dice che l’unità è più forte della divisione, mi ricordo di quelle parole, che dicono esattamente che l’altro, il mio avversario è mio fratello. Anche il metodo della lotta politica, anche il metodo della contraddizione, non può mai dimenticare che l’altro è mio fratello. Quando quelli si sparavano fra di loro, i Montoneros e i colonnelli, Bergoglio voleva l’unità del popolo. I Montoneros e i colonnelli volevano dividere il popolo argentino in due fazioni che si annientassero a vicenda, e negavano agli altri il titolo di veri fratelli, e invece quelli che stavano con Bergoglio, non solo con Bergoglio, era una parte grande della chiesa argentina che pensava così, erano quelli che volevano salvaguardare l’unità del popolo, perché questa è l’espressione della capacità eucaristica di unire il popolo. Ecco, io non ho letto il mio testo e non mi ricordo più a che punto sono con i tempi, posso andare avanti? Quanto? Qualche minuto? Vado? Vorrei chiudere ricordando soltanto uno che ha versato il sangue: mons. Enrique Angelelli, grande amico di Jorge Mario Bergoglio, assassinato dai colonnelli, che hanno poi coperto l’assassinio inscenando un incidente stradale. A me ha colpito molto che questo era quello che volevano fare anche i colonnelli polacchi quando hanno assassinato Popieluszko, tanto il potere è simile a se stesso, in tutti i tempi e in tutte le latitudini e tanto manca di fantasia. Credo che una delle prime cose che ha fatto Jorge Mario Bergoglio diventato papa, è stato iniziare la causa di beatificazione di mons. Angelelli. Ricordiamo lui, ma tanti, tanti hanno lottato in quel modo e per questo erano così interessati a Solidarność quando andavamo a parlarne, una lotta intransigente, non per distruggere il nemico, ma per affermare la sua dignità, richiamandolo alla sua coscienza, richiamando anche lui al fatto che anche lui è un fratello, ha una dignità umana, perché l’oppressore, il tiranno, l’assassino, prima di tutto distrugge la verità della propria anima, ed è un disgraziato ed un infelice che va richiamato a quella unità del popolo che è sorgente di bene per tutti. Vorrei chiudere ricordando due profeti di Bergoglio, perché vedete, quando io ero giovane, all’idea di un papa latino americano non ci credeva nessuno, non ci credevo neanche io, e c’erano solo due persone che io ho conosciuto che erano convinte che dopo il papa polacco, sarebbe venuto il tempo del papa latino americano: uno era Alberto Methol Ferré, alcuni di voi lo ricordano perché è venuto a quel Meeting “America, Americhe” di cui parlavo prima, e l’altro era don Francesco Ricci, che è stato un grande testimone di quell’idea di Comunione e Liberazione che aveva affascinato anche Giovanni Paolo II e che vorrebbe essere, io credo, un elemento che confluisce dentro questa idea di una teologia del popolo, che intellettualmente è in gran parte da costruire, ma di cui papa Francesco ci dà una straordinaria testimonianza, in piena continuità con il suo grande predecessore San Giovanni Paolo II.
ALEJANDRO BONET
Moltissime grazie! Abbiamo avuto questa introduzione da Guzmán e da Rocco, e adesso passiamo la parola ad Austen Ivereigh che viene dalla Gran Bretagna e che ha parlato di noi argentini e latino-americani come nessun altro poteva fare, perché la sua analisi è nata da un cuore e da una mente empirica, che ci ha analizzati in un modo completamente obiettivo e nel contesto culturale che stiamo vivendo in Argentina ed in America Latina. In particolare ci aiuterà a capire quello che ha fatto Jorge Mario Bergoglio e come è diventato papa Francesco.
AUSTEN IVEREIGH
Una grande gioia essere oggi con voi in questo tavolo di amici così illustri, il mio italiano non è troppo cattivo ma credo sia più misericordioso per voi e per me se parlo nel mio spagnolo argentino con accento papale. Vorrei parlare di quello che un commentatore italiano ha chiamato l’“enciclica cilena”, facendo riferimento al discorso che papa Francesco ha fatto a Santiago del Cile nel gennaio di quest’anno ed alle successive lettere inviate ai vescovi ed al popolo di Dio sulla crisi che si viveva in quel contesto. A mio avviso è una lezione importantissima, molto rilevante per capire il momento che stiamo vivendo in questo momento negli Stati Uniti in seguito alla crisi emersa per via degli abusi sessuali. Una volta Bergoglio disse ai suoi catechisti che il più grande discernimento della Conferenza generale della chiesa latinoamericana d’Aparecida è stato quello di capire che il pericolo peggiore per la chiesa non veniva da fuori, ma da dentro, «nell’eterna e sottile tentazione dell’arroccamento e della chiusura per sentirsi protetti e sicuri». Questo termine, arroccamento, è lo stesso che ha utilizzato nella lettera ai vescovi cileni circa tre mesi fa, quando li ha invitati a Roma in seguito alla relazione di monsignor Scicluna sui casi di insabbiamento. Vi ricorderete sicuramente di questa lettera, perché in essa il Papa ha chiesto perdono nel modo più umile possibile dei suoi errori e per l’interpretazione della situazione della chiesa in Cile sulla base della informazione deficitaria che gli era pervenuta. In quella lettera scrive che in tempi di desolazione, quando siamo «impauriti e arroccati nei nostri comodi palazzi d’inverno, l’amore di Dio ci viene incontro e purifica le nostre intenzioni per amare come uomini liberi, maturi e critici». Questa espressione «arroccati nei nostri comodi palazzi d’inverno» è una descrizione molto potente di una chiesa sulle difensive e timorosa, che non è in grado di evangelizzare. Lo stesso termine, “arroccamento”, è presente in un importantissimo scritto di Bergoglio quando era ancora rettore gesuita nel 1984, uno scritto su Doroteo di Gaza che si chiama L’accusa di se stesso. Bergoglio non lo cita direttamente, però è evidente che gli strumenti di discernimento che lui utilizza per la crisi cilena sono gli stessi che vengono lì annunciati. E c’è un altro scritto simile dello stesso periodo che cita nel suo famoso discorso a Santiago del Cile di gennaio ed è una prefazione che aveva scritto in un libro che poi aveva pubblicato nel 1987, intitolato Lettere della tribolazione. È una raccolta di lettere scritte da coloro che governavano la Compagnia di Gesù durante l’epoca della sua soppressione, verso la fine del XVIII secolo. Questi due scritti hanno in comune una percezione sottile delle tentazioni dei corpi religiosi di fronte alla tribolazione. Una tribolazione che potrebbe portare alla perdita della cultura del cristianesimo, alla secolarizzazione, o che potrebbe essere il risultato del fallimento istituzionale della chiesa, come abbiamo visto nel caso degli abusi sessuali o, quello che è più normale nella nostra storia contemporanea occidentale, una combinazione di questi due elementi. Le tentazioni si possono riassumere in una tendenza duplice: invece di discernere e di riformare, che è il cammino della conversione, la chiesa si arrocca. Comincia a vedere coloro che l’attaccano come dei nemici e divide il mondo tra cattivi, loro, e buoni, noi. Poi, in secondo luogo, la chiesa può commettere l’errore fatale di rispondere a livello intellettuale a quello che è alla fin fine un attacco spirituale. In questo modo è sedotta dal cattivo spirito di presentare la fede non come un incontro, una Persona, una relazione, ma come un’idea, una proposta etica. La tentazione è quella di presentare la verità senza la carità o la carità senza la verità. Ed è quello che Massimo Borghesi identifica nel suo splendido libro, l’ultimo che ha scritto, come una deviazione etica, che ha caratterizzato il cattolicesimo nell’epoca della globalizzazione, cioè perlomeno a partire dagli anni Ottanta. In questa deviazione, l’incontro kerigmatico con il Dio della misericordia, che Bergoglio descrive come l’incontro fondativo della nostra fede, viene perso di vista a favore di un moralismo difensivo che, alla fine, dice Borghesi, è una strategia per la resistenza, ma non per la rinascita. Non è in grado di evangelizzare perché non comunica la verità del cristianesimo che, come ha detto Benedetto XVI in Deus caritas est, non è un’idea, ma una persona che ti cambia l’orizzonte. E questa citazione viene ripetuta ad Aparecida e Francesco torna a ripeterla in Evangelii gaudium dove dice che non si stancherà mai di ripeterla perché ci porta al cuore del Vangelo.
E di nuovo appare il Placuit Deo, l’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede, nel febbraio quest’anno, contro il pelagianesimo e lo gnosticismo. E torna anche nel messaggio al Meeting di papa Francesco, quindi è la chiave. Si potrebbe riassumere il pontificato di Francesco come un grande sforzo di purificare la chiesa del suo gnosticismo e del suo pelagianesimo, perché possa tornare a evangelizzare, cioè perché possa tornare a offrire la relazione di Gesù con suo Padre come la salvezza dell’essere umano. Bergoglio ha cercato di farlo in tutti i modi, però quello che si coglie nell’enciclica cilena è una specie di road map, soprattutto per la chiesa nei paesi ricchi e tecnocratici, come il Cile e anche i nostri Paesi. E in molti di questi casi, l’attaccamento al potere, al denaro e al successo, quello che negli Esercizi spirituali viene chiamato l’onore, si è combinato con un fallimento istituzionale incredibile, soprattutto per quello che riguarda la crisi degli abusi sessuali clericali. Quello che offre Francesco è un discernimento sull’invito dello Spirito Santo alla chiesa, in questi momenti, ad abbracciare questa via di tribolazione, questa umiliazione, è come un invito alla conversione pastorale. È un invito che possiamo accettare o a cui possiamo opporre resistenza. E così come succede nelle nostre vite, questi momenti di sconfitta sono le opportunità di conversione e di crescita. E questa è il passaggio a cui Francesco ha invitato la chiesa cilena e tutti noi con questa serie di interventi profondi che nell’insieme possiamo chiamare ‘l’enciclica cilena’. Essa è costituita dal discorso tenuto nella cattedrale di Santiago il 16 gennaio e da tre lettere, la prima ai vescovi del Cile, in aprile, dopo aver ricevuto la relazione di monsignor Scicluna; la seconda è datata 15 maggio, ed è consegnata ai vescovi del Cile quando arrivano a Roma; e la terza lettera è di fine maggio e rivolta al popolo di Dio in Cile. Nell’insieme questi interventi costituiscono una traversata, un passaggio, da una donna paralitica piegata su se stessa a madre feconda che vive dell’allegria di evangelizzare. La stessa traversata che nel suo discorso, poco prima della sua elezione del marzo 2013, il cardinale Bergoglio aveva tracciato per i cardinali. Il filo rosso che unisce i vari documenti dell’“enciclica cilena” è l’esempio che Francesco ripete in tutti questi documenti: la trasfigurazione di Pietro da discepolo in apostolo. Gesù perdona Pietro per averlo abbandonato e tradito nella passione, però Pietro, aprendosi alla misericordia che gli offre Gesù, passa dall’essere un uomo abbattuto e desolato, il Pietro della fine del vangelo di Giovanni, al gran predicatore e curatore d’anime, pieno di “parresia” del principio degli Atti degli apostoli. C’è una trasformazione incredibile: all’inizio è concentrato sul suo insuccesso, rimuginando sulla sua desolazione, tutto concentrato sui suoi persecutori, poi passa, invece, a concentrarsi su Gesù e poi sull’esterno. Questo è un cambiamento di prospettiva verso la missione e verso l’evangelizzazione, cioè un riconcentrarsi su Cristo che porta poi a una decentralizzazione rispetto agli altri. Questo è l’incontro fondativo della nostra fede. Dice Francesco: «Una chiesa con le piaghe non si mette al centro, non si crede perfetta, ma l’unico che può sanare le ferite ha un nome, è Gesù Cristo. Conoscere Pietro abbattuto per conoscere Pietro trasfigurato, questo è l’invito a passare da una chiesa di abbattuti e desolati a una chiesa che è servitrice di tanti abbattuti che vivono al nostro fianco». Questa è la conversione che Francesco ci ha tracciato. Questi strumenti sofisticati di discernimento li troviamo in questi scritti degli anni Ottanta sulla desolazione, sulla tribolazione che vengono sofferte all’epoca dai gesuiti in Argentina. E vorrei evidenziare tre punti
1. Francesco nota che di fronte alla tribolazione dovuta alla secolarizzazione, la perdita di prestigio sociale, invece di discernere e di riformare, i vescovi avevano risposto con le lamentele e con la condanna. E, in questo modo, avevano permesso il dominio del cattivo spirito che si vede proprio nell’approccio difensivo eccessivo dove si dà la colpa agli altri, ai massoni che ci attaccano. E quando questo non funziona, perché alcuni mali ovviamente stanno nella chiesa stessa, ecco che i vescovi si incolpano reciprocamente, «è stato lui, non sono stato io». Il mondo si divide tra buoni, noi, e loro, i cattivi, e tutti diventano vittime.
2. Nel discorso di Santiago cita le Lettere sulla tribolazione quando dice: «Si discute delle idee, non si dà la dovuta attenzione alle questioni, ci si concentra troppo sui persecutori e la peggiore di tutte le tentazioni è quella di rimanere a rimuginare sulla desolazione». Quando parla della discussione delle idee, si riferisce alla tentazione di cadere nella trappola di discutere invece di discernere: è l’origine di questa deviazione etica. «Stava Dio a difendere la verità a costo della carità e la carità a costo della verità? Bisogna discernere. Difendere la verità a costo della carità è la tentazione conservatrice degli ultimi tempi. Difendere la carità a costo della verità è la tentazione progressista. Nei due casi la tentazione è radicata nel discutere invece che nel discernere e riformare».
3. Soprattutto nella lettera che consegnò ai vescovi cileni, che poi fu resa pubblica, e nella lettera che scrisse per il popolo di Dio del Cile, Francesco mostra come l’astrarsi ecclesiastico è collegato allo scollamento nei confronti del popolo di Dio. E dice ai vescovi che quando loro e la chiesa in Cile mettevano Cristo al centro, allora sì evangelizzavano, e la loro era una chiesa evangelica, coraggiosa, che si impegnava con i poveri. Però poi si è sradicata dal popolo di Dio e ha adottato una mentalità elitaria e clericale e questo ha portato alla desolazione, all’incapacità di evangelizzare e ad altri errori, quali gli abusi e l’insabbiamento. Non era tanto il popolo che aveva abbandonato la chiesa, al contrario, la chiesa si era scollegata dal popolo dove c’è Cristo. Se la chiesa non evangelizza non è colpa della cultura ma della chiesa. In una omelia pronunciata in Aparecida, nel maggio del 2007, dove ha usato per la prima volta quell’immagine della donna piegata su di sè, descrive la chiesa autoreferenziale come una chiesa che non fa altro che guardare a se stessa mentre il popolo di Dio sta dall’altra parte. Questo è un punto chiave. La conversione pastorale per Francesco comincia dall’affrontare la verità, anche con la confessione del peccato. L’accusare se stessi, dice Bergoglio in quel testo, è un richiamo per il demonio, che abbocca e poi muore. Accusare se stessi vuol dire assumere il ruolo del colpevole così come l’ha assunto il Signore, ed è un atto di umiliazione che lascia spazio alla misericordia di Dio e ci cambia, pone fine al potere mimetico del cattivo spirito. Ed quello che lo stesso Francesco ha fatto nella lettera dell’8 di aprile, quando ha detto che si era sbagliato e ha chiesto perdono. In questo modo si offre come un modello di umiltà, di accusa di sé che scatena un processo di autoaccusa invece che di autogiustificazione. I frutti li stiamo vedendo. In questi giorni, in Cile, i vescovi hanno presentato le loro rinunce, con un atto di umiltà. Hanno riconosciuto i loro errori e si sono impegnati ad aprire i loro archivi, hanno cercato di ricollegarsi con il popolo di Dio, con una volontà di ascolto, di cambiamento, di preferenza delle periferie. L’umiliazione che adesso si sente, sta producendo una nuova umiltà, che è una conversione pastorale che, a lungo termine, sicuramente darà molti frutti. Nella sua lettera al popolo di Dio, Francesco parla di un “mai più” alla cultura dell’abuso e dell’insabbiamento, «per generare una cultura dell’attenzione che possa impregnare i nostri modi di relazionarci, di pregare, di pensare, di vivere l’autorità, le nostre abitudini, i nostri linguaggi, le nostre relazioni con il potere e con il denaro». Oggi sappiamo che la miglior parola che possiamo dire di fronte al dolore provocato è l’impegno per la conversione personale, comunitaria e sociale. In questo modo la chiesa torna a essere capace di evangelizzare e di generare una nuova cultura. Dice papa Francesco nella cattedrale di Santiago: «Il problema non sta nel dar da mangiare all’affamato o nel vestire l’ignudo o nell’assistere gli infermi ma nel considerare che il povero, l’ignudo, l’infermo, lo sfollato, il prigioniero hanno tutti la dignità di prendere parte alla nostra tavola e di sentirsi a casa tra di noi. Questo è il segno del fatto che il regno dei cieli è tra di noi, è il segno di una chiesa che è stata ferita per i suoi peccati ma che ha ricevuto la misericordia del Signore e si è convertita in un soggetto profetico per vocazione». Vorrei concludere dicendo che il Cile è un caso specifico ma è anche un caso emblematico di tutta la chiesa occidentale: invece di discernere e di riformare, ci siamo lamentati e abbiamo condannato. Però la buona notizia c’è, ed è che attraverso l’accusa di se stessi, l’opportunità dell’umiliazione istituzionale, abbiamo l’opportunità di incontrare il Dio della misericordia, che è proprio l’esperienza primordiale della chiesa primitiva che evangelizza. E a partire da qui, possiamo creare una nuova cultura, una cultura che possa riflettere meglio il regno di Dio. Questo è l’invito fatto da papa Francesco, la traversata a cui ci sta invitando in un mondo che è sconvolto da un vero cambiamento d’epoca. Molte grazie e chiedo scusa per avere parlato molto velocemente.
ALEJANDRO BONET
Bene, per ultimo ascoltiamo adesso Massimo Borghesi, che ci aiuterà a capire il processo di maturazione intellettuale di Jorge Mario Bergoglio e anche la sua apertura verso tutti gli orizzonti che ci offre la tradizione europea. A tema è l’integrazione tra questa tradizione europea e quella latino americana che apre un orizzonte nuovo per la chiesa universale.
MASSIMO BORGHESI
Grazie, sono molto lieto di essere qui al meeting e qui con voi e con gli amici che sono qui con me, Carriquiry, Buttiglione, Ivereigh, Alejandro Bonet a presentare il pensiero e la figura di papa Francesco. Sono contento anche perché a questo tavolo sono seduti taluni tra i protagonisti che in campo intellettuale si sono più spesi per far comprendere la figura e l’opera del Papa. E questo in un contesto che fino a poco tempo fa, ancora oggi, ma in particolare fino a poco tempo fa, è stato carico di pregiudizi fortemente ostili verso il Papa. Io voglio pensare che proprio l’impegno di sostegno e di chiarimento della posizione papale ad opera anche delle persone che sono qui, abbia contribuito in parte ad arginare questo clima. L’accusa che oggi viene fatta al Papa è quella di un riformatore mancato, è l’accusa che viene da una certa parte della sinistra, delusa da quello che pensava fosse la figura del Papa. Ma fino a poco tempo fa l’accusa era quella di destra ed era duplice, un Papa progressista, populista, peronista e un Papa pragmatico, pastorale, latino-americano, senza un pensiero proprio e quindi inadeguato ad essere Papa. Il punto più alto della critica è stato nella primavera del 2016 con la pubblicazione di Amoris Laetitia, il documento sulla famiglia. Si è arrivati sino ai dubia, i cardinali addirittura, il Papa eterodosso, qualcuno sognava un impeachment del Papa. Una vera follia, eppure questa follia ha attraversato i blog, è stata dilatata, ventilata, amplificata da persone che non capivano nulla di nulla ed erano diventati improvvisamente teologi. Non sapevano niente della tradizione della chiesa, del diritto canonico, delle possibilità che ci sono. Nulla di nulla ma tutti teologi come nella Bisanzio del IV secolo. È in questo contesto che è nata come una ispirazione improvvisa, l’idea di scrivere un libro sul pensiero di Bergoglio. Sul pensiero cattolico, insisto sul pensiero cattolico di Bergoglio, e questo non per una apologetica ma per un’autentica persuasione, il che poteva risultare singolare dato che fino ad allora, cioè fino al 2016, non solo i critici ma anche i sostenitori del Papa non avevano la minima idea del suo percorso intellettuale. Dopo che è uscito il mio volume sul pensiero di Bergoglio, ho trovato tanti bergogliani che dubitavano che Bergoglio avesse una vera formazione intellettuale, rigorosa. In fondo anche loro pensavano che era un Papa solo pastorale, un buon pastore ma nulla più. Al contrario due letture mi avevano persuaso diversamente. La prima, la lettura degli scritti degli anni Settanta, quando Bergoglio era il più giovane provinciale dei gesuiti argentini, tradotti nel volume Dottrina Sociale della Jaca Book. Leggendo quei documenti, quelle conferenze del giovane trentaseienne Bergoglio, sulle cui spalle di trentaseienne si trovava la Compagnia di Gesù nel tempo drammatico della lotta armata in Argentina, ebbene in quei documenti veniva fuori un pensiero originalissimo che si fondava su una tensione degli opposti, sulla tensione dei poli. Bergoglio voleva sottrarre la chiesa all’alternativa tra destra e sinistra, tra i militari e i rivoluzionari e voleva indicare un punto più in là, ma non un punto di equilibrio, così, statico, ma dinamico, e dietro c’era un pensiero, una concezione della realtà come polarità vivente. A me che avevo studiato a lungo Romano Guardini, venivano suscitate straordinarie analogie, ma Bergoglio non citava allora Romano Guardini. Quindi avevo avuto chiaro che Bergoglio aveva già, a trentasei anni, una statura intellettuale di prim’ordine, aveva un suo pensiero originale, cattolico. E l’altra lettura che mi ha fatto persuadere di questo è proprio la bellissima biografia dell’amico Austen Ivereigh, dal titolo The Great Reformer: Francis and the Making of a Radical Pope, pubblicata a New York nel 2014 e che in italiano hanno tradotto un po’ diversamente, ammorbidendo il titolo Tempo di misericordia, vita di Jorge Mario Bergoglio, edito da Mondadori. Biografia che io raccomando a tutti e non perché Austen sta qui, ma perché lo credo veramente, perché è la migliore biografia, ce ne sono di buone, naturalmente, ma questa è la migliore perché ricostruisce tutto Bergoglio, non soltanto il Bergoglio dei gesti, come dire, di umanità cristiana, ma il Bergoglio nella sua complessa formazione, nei suoi travagli, nelle sue esitazioni e soprattutto la formazione intellettuale di Bergoglio è già delineata lì, nel senso che i personaggi che lo hanno influenzato, le figure che sono state dominanti, la cultura argentina, tutto questo è già presente in questo libro. Austen ha fatto un lavoro sul campo, è andato in Argentina, ha intervistato le persone direttamente: veramente preziosissima questa biografia. Chi vuole sollevarsi dai luoghi comuni sul Papa deve leggere questa biografia, non si può criticare Bergoglio e non sapere chi è stato, come si è formato e quindi questo libro, senza il quale non avrei potuto scrivere il mio volume perché non avrei avuto proprio gli elementi basilari, è veramente importante per tutti. Ebbene da queste due letture è nata l’idea che Bergoglio aveva un pensiero profondamente cattolico, da qui l’idea improvvisa, davvero improvvisa di scriverci un volume, di interrompere altri miei impegni e di dedicarmi a questo, perché di fronte a quell’attacco così velenoso, massiccio, diffuso contro il Papa, come si aveva nella primavera e nell’estate del 2016, non si poteva restare inerti. Ma dove erano teologi? Ma dove erano i teologi cattolici in Italia? Ma che stanno a fare i teologi? Se i teologi non sostengono il Papa, ma cosa fanno? Di cosa si occupano? Che un laico sia stato indotto a scrivere un libro sul pensiero di Bergoglio dopo quattro anni del pontificato ha dell’incredibile, ma nessuno si era accorto che Bergoglio aveva una statura intellettuale di primo piano, altro che la contrapposizione con Ratzinger, di primo piano e soprattutto un pensiero profondamente inserito nella tradizione cattolica latino-americana ed europea (questo era il punto della questione). Le accuse a Bergoglio di essere un latino-americano come formazione intellettuale rivela una profonda ignoranza; Bergoglio è latino-americano ed europeo, questa è stata una delle scoperte. È un gesuita Bergoglio, i gesuiti sono internazionali nella loro formazione e lui si è formato moltissimo sui gesuiti europei, francesi in particolare, la scuola di Lione, Henri de Lubac in primis. Ebbene, di questa idea improvvisa ne abbiamo parlato qui al Meeting in un pranzo del 2016 con un altro amico, che è qui, con Guzmán Carriquiry, era presente sua moglie e mia moglie e Guzmán fu entusiasta da subito della cosa, e lo dico qui perché poi è stato come il mio sponsor, diciamo così, è stato il primo lettore, è stato il mio collegamento con il Papa, quindi la sua funzione è stata davvero preziosa, del che lo ringrazio vivamente. Ebbene, nell’ottobre – gennaio il volume è andato avanti, in tempi rapidissimi in verità, dopo che avevo raccolto il materiale ed è stato pieno di scoperte anche per me. Molte cose le sapevo, altre no, soprattutto su queste radici latino-americane ed europee di un pensiero ricco e originale che non ho la pretesa di analizzare perché sarebbe chiedervi troppo davvero. Ricordo solo alcuni dei nomi che l’hanno influenzato: la grande filosofa, la più grande pensatrice argentina degli anni Settanta, Amelia Podetti, da lei viene la categoria delle periferie, da lei viene questa valorizzazione del ruolo dell’America Latina nella geografia, nella geopolitica mondiale, da lei viene una visione dialettica della società, della storia; e poi Alberto Methol Ferré (ne abbiamo parlato a lungo) che è il più grande intellettuale cattolico della seconda metà del Novecento in America Latina, non esito a dirlo. Ho avuto la fortuna di conoscerlo e ho avuto la fortuna di tenere i rapporti con lui grazie all’amico Alver Metalli, che spero sia qui presente, Alver Metalli che attualmente condivide l’esperienza di padre Pepe di Paola in una delle Villas a Buenos Aires. Ebbene Alver Metalli ha fatto una lunga intervista (un anno è durata quella intervista) ad Alberto Methol Ferré, titolata in Italia Il papa e il filosofo, che è preziosissima: chi vuol capire il pensiero di Alberto Methol Ferré, il suo contributo al pensiero della chiesa oggi, deve leggere questa intervista a cura di Alver Metalli. E poi, Alberto Methol Ferré è stato il maestro di Carriquiry, e anche Rocco Buttiglione l’ha conosciuto molto bene. Come vedete è una storia anche di famiglia che qui è stata riportata alla luce dopo che era stata sepolta anche nella memoria di taluni qui presenti che sono più anziani; una storia sepolta che è ritornata attuale, ma sarebbe da chiedersi: perché quella storia è stata sepolta? Perché è stata dimenticata? Dimenticare quella storia ha voluto dire poi non capire il Papa. Se avessimo tenuto presente quella storia, forse avremmo capito da subito chi era Bergoglio; ma da un certo momento in avanti, gli anni della globalizzazione, ce la siamo dimenticata quella storia. E poi, oltre la Podetti e Methol Ferrè, i gesuiti, De Lubac, de Certeau, il de Certeau studioso della mistica, non il de Certeau del post Sessantotto. De Certeau è l’autore di una magnifica biografia di Pierre Favre e Pier Favre è il compagno di Ignazio, è colui che gira l’Europa straziata dalle guerre di religione e che scrive nel suo Memoriale: «Ma perché invece di ammazzarsi tra di loro i cristiani non tornano all’unità dei primi secoli»? Il problema, diceva lui, non è intellettuale ma è innanzitutto una riforma delle anime, il problema è spirituale. Pierre Favre che era dolce, Pierre Favre che frequentava i potenti, aveva studiato alla Sorbona e al tempo stesso si occupava dei poveri. Non è difficile vedere come Bergoglio, che ha canonizzato Pierre Favre, si riconosca appieno nella figura dell’amico di Sant’Ignazio. I gesuiti, dicevamo, De Lubac, de Certeau, von Balthasar. Questa è stata una scoperta! Bergoglio, a partire dal 2008, 2009, ma già prima, utilizzava Balthasar per l’idea della verità sinfonica, per la sinfonia della verità cioè per il fatto che la chiesa, come si accennava prima, è universale e particolare, è universale ed è particolare, quindi è dentro la cultura dei popoli e però non è nazionalista, è ecumenica. Balthasar inoltre è importante per lui, dal 2008 in avanti, per l’idea della bellezza della Verità, per il concetto di attrattiva: Cristo è un’attrattiva, la verità cristiana può essere comunicata innanzitutto a partire da una bellezza, perché il bene può essere seguito solo se è bello, e la verità ugualmente, altrimenti c’è il moralismo, altrimenti c’è il formalismo e il formalismo non inchioda nessuno. E poi per potere indicare la categoria della testimonianza bisogna che il vero abbia l’attrattiva del bello. Tra i suoi autori c’è poi Giussani. Anche Giussani è stato importante per Bergoglio, nel libro si possono trovare tante pagine in proposito. D’altra parte lo ha detto lui stesso in due, tre occasioni. Se uno legge ciò che Bergoglio ha detto e scritto su Giussani, si vede una straordinaria sintonia soprattutto nella categoria dell’incontro. Ieri il Nunzio mons. Pierre ci ricordava come nell’Evangelii Gaudium si riprenda la frase di Benedetto XVI «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una grande idea né una decisione etica ma c’è un incontro». Questa frase di Benedetto è assolutamente giussaniana e questo è straordinario perché rende possibile tessere un filo rosso che collega gli ultimi pontefici all’esperienza di Giussani. Ebbene da tutti questi contributi nasce un pensiero cattolico, abbracciante. Cosa vuol dire “cattolico”? È il poliedro! Il poliedro non è solo una figura geometrica, è la chiesa! Nella chiesa ognuno trova il suo posto, ognuno è valorizzato, nella chiesa nessuno viene escluso, nessuno deve essere escluso a meno che non si ponga lui fuori, lui stesso. La chiesa è particolare e universale, la sfera livella le diversità, la chiesa non deve livellare la diversità, la deve valorizzare, i movimenti non devono livellare le diversità, le devono valorizzare dentro l’unità comune. Tutto questo significa polarità. Il pensiero di Bergoglio è un pensiero polare che unisce la pienezza e il limite, l’idea e la realtà, la globalizzazione e la localizzazione, il tempo e lo spazio. Sono le sue coppie polari, le riporta anche in Evangelii gaudium ma risalgono agli anni Settanta. Bergoglio ha una tavola delle categorie polari che applica alla società, alla chiesa, al mondo, ha un pensiero che fa capire perché poi nell’’86 si interessi di Romano Guardini, quando va in Germania per una tesi di dottorato che non porterà mai a termine. Però quella tesi era su Guardini, filosofo della polarità. L’unica opera filosofica di Guardini guarda caso interessa Bergoglio, ma perché? Perché lui aveva già un pensiero della polarità del cattolicesimo come unità degli opposti e trova in Guardini una conferma impressionante di questa sua tendenza. Da allora Guardini diventa il suo maestro, e lo diventa veramente, lo cita, lo riprende, lo elabora, il modello guardiniano viene applicato alla società, alla chiesa, all’interpretazione dei fenomeni politici. Ebbene, quando nel gennaio del 2017 avevo pressoché terminato il lavoro e mi era chiaro quasi tutto, mi rimaneva un interrogativo: da dove Bergoglio aveva tratto questa idea della polarità, che sembrava emergere all’improvviso a metà degli anni Settanta? L’unico sistema, le fonti tacevano, era interrogare direttamente il Papa e allora, ancora una volta l’amico Carriquiry è stato prezioso come tramite. Il Papa ha risposto a una serie di domande, che io gli ho fatto avere per iscritto, attraverso quattro file audio, ricchissimi di annotazioni, di scoperte altrimenti difficilmente documentabili e la scoperta più importante è stata che l’autore che lo ha più formato nella sua gioventù, nei suoi studi di gioventù, è stato un gesuita francese che si chiama Gaston Fessard, e soprattutto un’opera di Fessard, La dialettica degli esercizi spirituali in Sant’Ignazio di Loyola, un’opera degli anni Cinquanta. Perché quest’opera lo interessa tanto? Perché lì lui capisce per la prima volta chi è il cristiano, qual è la vita del cristiano, e la vita del cristiano non è una vita passiva, quieta ma è una vita dinamica, perché la vita del cristiano è segnata da una tensione polare tra la Grazia di Dio e la libertà dell’uomo. E la Grazia interpella continuamente la libertà, la pone continuamente in crisi, in movimento, in azione ed è una tensione polare tra Dio e l’uomo, è una lotta, una sorta di lotta con l’angelo continua. Questo era Ignazio secondo Fessard, questa era la concezione di Sant’Ignazio: la testimonianza cristiana è dramma, tensione tra gli opposti, oltre il binomio conservatori e progressisti, tensione tra tradizione e rinnovamento, profezia e istituzione, un pensiero drammatico, polare e un pensiero mistico, aperto, perché la soluzione è di Dio, l’uomo inizia i processi e Dio li compie, per questo il tempo è più grande dello spazio. Ebbene tutto questo è un pensiero “tensionante” contro ogni clericalismo: il nemico secondo Bergoglio della chiesa di oggi è il clericalismo, e il clericalismo, dice lui nell’intervista a Tornielli, nasce dalla degradazione dello stupore, cioè dal venir meno della Grazia, mentre un pensiero “tensionante” si nutre del rapporto tra Grazie e libertà, e questo contro il pensiero “lineare”. Leggo solo mezzo secondo una frase che Bergoglio ha scritto al giornalista Lucio Brunelli, che vi fa capire in sintesi cosa è la concezione del cristiano e del pensiero di Bergoglio. Scrive Bergoglio: «In questo pensiero lineare bloccato, statico, non c’è posta per la delectatio e la dilectio, non c’è posto per lo stupore; ed è così perché il pensiero “lineare” procede nella direzione contraria alla Grazia. La Grazia si riceve, è puro dono, il pensiero “lineare” si vede in obbligo di dare, di possedere, non può aprirsi al dono, si muove unicamente a livello di possesso. La delectatio e la dilectio e lo stupore non si possono possedere, si ricevono, semplicemente. L’essenza manichea del fariseo non lascia nessuna fessura perché vi possa entrare la Grazia, basta a se stesso, è autosufficiente, ha un pensiero “lineare”; il pubblicano, al contrario, ha un pensiero “tensionante” che si apre al dono della Grazia, possiede una coscienza che non è sufficiente ma profondamente mendicante, il cristiano è un mendicante». Questa è la concezione di Bergoglio.
ALEJANDRO BONET
Grazie per essere stati insieme a noi per cercare di capire meglio i fatti che stanno davanti ai nostri occhi. Vi ringrazio molto.
(trascrizione non rivista dai relatori)